6. «Quit India!» (1939-1945)

Vista dall’India, la guerra non ha affatto lo stesso aspetto che mostra vista dall’Europa: non sono le stesse poste in gioco, né le stesse priorità, né gli stessi nemici, né gli stessi alleati. Per gli inglesi, la guerra è una questione di vita o di morte. Per l’India, un’occasione di libertà. Per gli inglesi, l’India è innanzitutto una riserva di prodotti agricoli e di soldati, di cui ha più che mai bisogno. Per la Germania, essa è un obiettivo lontano, la culla della cosiddetta “razza ariana” di cui i nuovi padroni si proclamano ultimi eredi. Ben pochi sono gli indiani interessati a schierarsi con o contro il nazismo, a loro estraneo; e neppure a favore o contro la Germania, che quasi non conoscono. Più numerosi invece sono i leader indipendentisti che prendono posizione in rapporto all’Unione Sovietica. Questa costituisce, per molti di loro, un modello di sviluppo originale, un modo radicale per sbarazzarsi allo stesso tempo del capitalismo e del colonialismo. Qualcuno vorrebbe appoggiare la Gran Bretagna per ottenere da questa l’indipendenza e proteggersi da eventuali invasori; altri preferiscono dichiararsi neutrali; altri, infine, vorrebbero allearsi con la Germania e il Giappone per ricevere il loro appoggio contro gli inglesi. Ognuna di queste opzioni sarà proposta da almeno un leader nazionalista, e non sempre dal più prevedibile: come in Europa, la guerra spinge ad alleanze spesso impreviste.

L’indipendenza o la neutralità

Il 3 settembre 1939, il giornale ufficiale dell’amministrazione britannica pubblica il seguente comunicato: «Io, Victor Alexandre John, marchese di Linlithgow, in quanto governatore generale dell’India ed ex ammiraglio, proclamo con la presente che viene dichiarata guerra tra Sua Maestà e la Germania». Giuridicamente, ciò significa che l’India è in guerra, che le forze armate indiane sono a disposizione di Sua Maestà britannica su tutti i teatri delle operazioni, e soprattutto che gli inglesi adesso possono mobilitare milioni di indiani per inviarli in battaglia in Europa o altrove. Il viceré può prendere una simile decisione su richiesta di Londra senza consultare né i governi provinciali né i leader dei partiti rappresentati nell’Assemblea Legislativa centrale, perché è il Parlamento inglese a detenere l’intera responsabilità del governo dell’India. Del resto, venticinque anni prima (il 6 agosto 1914) un altro viceré, Hardinge, già aveva fatto la stessa cosa senza che nessuno in India avesse niente da ridire. Ma rinnovare il gesto nel 1939 costituisce un errore politico monumentale: nonostante le simpatie del Congresso vadano ancora per la maggior parte alla Gran Bretagna, tutti i suoi leader insorgono contro questo atto unilaterale. Perfino Jawaharlal Nehru, che ha dato mille prove della sua solidarietà con gli inglesi e della sua determinazione a lottare contro il fascismo e l’antisemitismo, si infuria; scriverà un po’ più tardi: «Un solo uomo, per giunta straniero, ha gettato quattrocento milioni di esseri umani nella guerra senza fare minimamente riferimento a loro»120.

Il 14 settembre, il comitato esecutivo del Congresso condanna l’aggressione nazista ma esige che la partecipazione dell’India alla guerra sia subordinata all’impegno da parte degli inglesi a concederle l’indipendenza. Il Congresso chiede una cooperazione «tra uguali, per mutuo consenso, per una causa che le due parti ritengono degna». Naturalmente, si tratta di un pio desiderio di cui il viceré non tiene conto: la mobilitazione comincia nelle province e migliaia di uomini partono per l’Europa e il Medio Oriente.

Il 9 settembre, Gandhi ha riaffermato la sua scelta, la nonviolenza, pur concedendo che Hitler non sia un interlocutore razionale: «Sembra che Hitler conosca solo la forza e non ascolti nient’altro»169 («Harijan»). Quando i panzer schiacciano la cavalleria polacca, lui scrive al grande pianista ed ex presidente del Consiglio polacco, Ignacy Jan Paderewski, all’epoca in esilio in Svizzera: «Il mio cuore è con i polacchi in questa battaglia impari. La loro causa è giusta e la loro vittoria certa, perché Dio difende sempre la giustizia»54.

Il 15 settembre, rendendosi conto del suo errore, il viceré chiede a Gandhi di raggiungerlo a Simla. Mohandas lascia Sevagram, attraversa mezza India del Nord e arriva il 25 alla residenza estiva del viceré, che gli spiega che il momento è grave e che la Gran Bretagna avrà bisogno di tutte le forze del suo Impero per difendersi. Altrimenti, dice, il Parlamento e l’abbazia di Westminster rischiano di essere distrutti. Gandhi rimane colpito: «Io guardo a questa guerra con un cuore inglese... Sono inconsolabile; nel profondo del mio cuore, litigo continuamente con Dio che permette che accadano cose del genere; la nonviolenza mi sembra allora un’arma quasi impotente. Ma, alla fine di questa discussione con me stesso, concludo che non sono Dio o la nonviolenza a essere impotenti, ma l’uomo...»109.

In altre parole, come sempre, bisogna cambiare ogni singolo individuo perché la nonviolenza possa divenire la regola generale. Perciò Gandhi non può mancare al suo ideale – spiega al viceré, impietrito –; il massimo che può offrire alla Gran Bretagna è un «sostegno morale» e un consiglio: seguire il suo esempio, non rispondere alla violenza con la violenza, lasciare che i tedeschi si impossessino delle loro colonie e anche di Londra senza rispondere, per evitare qualsiasi distruzione.

Non si tratta di un voltafaccia. Lui sa meglio di chiunque altro che non può aspettarsi niente da Londra, nemmeno in tempo di guerra: lo ha visto in prima persona per tre volte, e ogni volta è stata una delusione. Gandhi ripete la sua proposta tre giorni dopo su «Harijan», immaginando di essere primo ministro dell’India: «Se io dirigessi il comitato esecutivo, o (se posso usare questa espressione senza urtare nessuno) se io fossi il governo, la mia linea di condotta sarebbe di impegnarmi deliberatamente sulla via della nonviolenza, fosse anche impercettibile il passo compiuto in quella direzione»169. Poi, con una straordinaria premonizione, quando ancora nessuno pensa che il territorio dell’India possa essere un giorno minacciato, scrive: «Se il popolo indiano dice risolutamente di no alla violenza, gli eserciti stranieri non avranno il cuore di invadere il suo suolo; quanto all’economia indiana, essa deve essere rimodellata in modo da scoraggiare le tentazioni dell’aggressore» («Harijan», 28 settembre 1939). Ci vorranno ancora quattro anni (e molte tribolazioni) prima che gli indiani misurino la portata di queste poche frasi...

Nessuno nel Congresso, naturalmente, sottoscrive le sue idee; tutti pensano che l’India non sia minacciata e che, se per disgrazia un giorno lo fosse, essa dovrebbe difendersi e per tale scopo disporre di un proprio esercito, dunque ottenere l’indipendenza. Dopo tutto, le colonie ottomane passate nel 1919 nelle mani britanniche l’hanno ottenuta, tranne la Palestina che, secondo le promesse inglesi, la riceverà presto.

Gandhi è consapevole del proprio isolamento: «Io sono solo a sostenere questa posizione. Devo trovare dei compagni che mi accompagnino in questo cammino solitario... L’India deve lasciare da parte la violenza, anche se dovesse difendere le sue frontiere»169 («Harijan», 14 ottobre 1939). Non ignora di non avere più alcuna influenza sul Congresso. Mentre si avvicina la sessione di Tripuri, in cui sarà scelto un nuovo presidente per l’anno a venire, Gandhi è consapevole che non riuscirà a impedire la rielezione di Bose.

La rottura con Jinnah

Jinnah, dal canto suo, intende approfittare della guerra per farla finita con l’idea stessa di identità dell’India. Si sente profondamente umiliato per il modo in cui il Congresso, nelle sei province in cui governa, “martirizza” la Lega. Rimprovera inoltre ai governatori inglesi e al viceré di non aver salvaguardato gli interessi dei musulmani in queste province. Riprende dunque l’idea di uno “Stato musulmano”, senza precisarne i confini. In India sono molti i musulmani che la pensano come lui. I più radicali della Lega sognano addirittura uno Stato islamico; gli altri, che in genere appartengono alla classe media, vedono nella sua creazione delle possibilità di accesso a carriere amministrative e politiche loro precluse in India.

Gandhi avverte il pericolo e pensa di trovare la risposta: un movimento nazionale indiano musulmano ostile al Congresso sarebbe meglio di una divisione. Dunque esorta Jinnah a far diventare la Lega un partito nazionale; a tal fine, lo adula e comincia a chiamarlo «mio vecchio compagno» oppure «capo del popolo» (Quaid-e-Azam), come fanno molti musulmani. Gli scrive con un servilismo che non è da lui: «Se il Quaid-e-Azam riesce a realizzare questa coalizione, io e tutta l’India con me grideremo in coro: “Viva Quaid-e-Azam Jinnah!”». Però Jinnah non si fa mettere nel sacco: «L’India non è una nazione, ma un subcontinente composto da diverse nazionalità»54.

Il 12 ottobre il viceré annuncia al Congresso e a Gandhi che Londra è pronta a pensare a una riforma dello status dell’India dopo la guerra e, nell’immediato, a instaurare un Consiglio consultivo che durante il conflitto riunisca l’«opinione pubblica indiana» e le «minoranze», cioè i musulmani, i sovrani dei principati e gli europei. Gandhi protesta: «Voi volete sfruttare, come sempre, le differenze tra comunità per ostacolare le aspirazioni degli indiani. E adesso pare che vogliate ricominciare il vostro spregevole gioco della “Lega contro il Congresso”! Avevo sperato che l’incredibile crisi che la vostra Europa sta attraversando desse agli uomini di Stato inglesi una migliore comprensione dell’India!».

Il 28 ottobre, Gandhi si amareggia nel constatare che la Lega considera «il Congresso come il nemico dei musulmani». Questo, dice, è un «fatto terribile!». Prendendo spunto da una lettera (senza dubbio immaginaria) che gli avrebbe inviato un insegnante del Punjab (definito un «amico musulmano»169) per chiedergli di riconoscere che «i musulmani formano una nazione separata»169, riunisce in un articolo fondamentale, pubblicato quel giorno su «Harijan», tutti gli argomenti a favore dell’unità dell’India. Ancora una volta, un testo estremamente premonitore. Gandhi conosce l’India meglio di chiunque altro, dato che la percorre in lungo e in largo da oltre un quarto di secolo, e presagisce ciò che sta per accadere:

Perché dunque l’India non dovrebbe restare un’unica nazione? Non lo era forse nel periodo della dominazione mogol? L’India è composta da due nazioni? Se così fosse, perché solo due? I cristiani non ne formano forse una terza? I parsi, una quarta, e così via? I musulmani cinesi formano una nazione separata dal resto dei cinesi? I musulmani inglesi sono una nazione diversa dagli altri inglesi? In che cosa i musulmani del Punjab sono diversi dagli hindu e dai sikh? Non sono sempre degli abitanti del Punjab che bevono la stessa acqua, respirano la stessa aria, traggono il loro sostentamento dalla stessa terra? Cosa impedisce loro di praticare i propri riti religiosi? I musulmani del mondo intero formano una nazione, o sono solamente i musulmani dell’India a formare una nazione distinta dagli altri musulmani? Il destino dell’India è subire una vivisezione in due parti, una musulmana e l’altra non musulmana? E che ne sarà dei musulmani che vivono nei villaggi dove la popolazione è a maggioranza hindu? E, ugualmente, degli hindu, là dove sono solo un pugno, ovvero nelle province della Frontiera del Nord-Ovest o del Sind?169

La barbarie del decennio a venire è qui annunciata con precisione, quando nessun altro la vede ancora profilarsi.

Gandhi fa poi la conoscenza di un giornalista americano, Louis Fischer, corrispondente del giornale newyorchese «The Nation», che ha passato quindici anni come corrispondente a Mosca. Fischer descrive un uomo in sorprendente forma fisica per i suoi settant’anni: «La sua stretta di mano è salda. Il suo corpo non è quello di un uomo anziano. La sua pelle è morbida ed elastica, abbronzata»48. Anche un altro giornalista, l’inglese Francis Watson, dice che Gandhi dà l’idea di un «abbronzato benessere»167.

Mentre il mondo sta entrando nella tragedia, un giornalista hindu trova il tempo di scrivere che il voto di castità di Gandhi è solo un «manto» per nascondere la sua «sensualità» e fa cenno ai «massaggi» che gli pratica la dottoressa Sushila Nayar. Il «Bombay Chronicle» riporta queste affermazioni. Gandhi se ne difende energicamente il 4 novembre, su «Harijan»:

La povera dottoressa Sushila Nayar è stata pubblicamente trascinata nel fango, per aver commesso il crimine di farmi dei massaggi e somministrarmi dei bagni terapeutici, due cose per cui lei è la più qualificata nel mio entourage. Ai curiosi vorrei spiegare che queste operazioni non si svolgono in privato e che durano più di un’ora e mezza, tempo che sfrutto per sonnecchiare o per sbrigare delle pratiche con Mahadev, Pyarelal o altri. Queste calunnie, che io sappia, sono iniziate durante la mia campagna a favore degli intoccabili. Il brahmacarya mi si è imposto e mi fa vedere la donna come la madre dell’uomo; essa è troppo sacra per l’amore fisico. Ogni donna è per me una sorella o una figlia [...]. Ricordiamoci che, nell’asram di Sevagram, non esistono luoghi privati. Se fossi attratto sessualmente dalle donne, avrei un grande coraggio, anche a quest’età, a diventare poligamo... Ma io non credo all’amore libero, che sia esso segreto o alla luce del giorno.169

L’errore del Congresso

Alla fine di novembre, per protestare contro la dichiarazione di guerra alla Germania, i ministri del Congresso si dimettono dai governi provinciali, su istigazione di Nehru e Bose. Jinnah capisce che si tratta di un errore fondamentale: pazzo di gioia, proclama che intende celebrare tale giorno come quello «della liberazione dalla tirannide, dall’oppressione e dall’ingiustizia» subite dai musulmani nei due anni e mezzo in cui il Congresso ha governato. «La cultura musulmana è stata distrutta, la vita religiosa e sociale dei musulmani attaccata, l’opinione dei musulmani messa in ridicolo, i diritti economici e politici dei musulmani calpestati»169. Queste dimissioni si riveleranno in effetti un autogol colossale, poiché il Congresso perde tutti i suoi mezzi d’azione lasciandoli ad altri, tra cui la Lega, che ci guadagnerà un’influenza considerevole presso le masse musulmane.

A dicembre, alla sessione del Congresso riunita a Tripuri, Gandhi è sempre isolato e Subhas Chandra Bose ottiene un secondo mandato. Appena rieletto, Bose ripete che bisogna attaccare gli inglesi: «Se qualcuno vi dà uno schiaffo, dovete ridargliene due». Dopo aver invano proposto a Gandhi di mettersi alla testa delle manifestazioni violente154, ne organizza lui stesso una a Calcutta, lanciando in particolare come parola d’ordine la demolizione di un simbolo importante agli occhi degli inglesi, lo Holwell Monument, all’angolo di Dalhousie Square, che ricorda la storia, a volte messa in dubbio, della morte di oltre 150 persone, indiane e inglesi, in un “buco nero” (black hole) in cui sarebbero state buttate su ordine del navab del Bengala, il 21 giugno 1756; ne erano sopravvissute solo 20. Questa manifestazione si spinge troppo oltre per i dirigenti del Congresso che, su istigazione di Gandhi, rifiutano di lavorare con lui e alla fine Bose non può che dimettersi.

Gandhi recupera dunque la sua influenza e ottiene che un musulmano, suo vecchio amico dell’”azione per il Califfato”, “Maulana” Abiul Kalam Azad, che aveva già rivestito la presidenza del Congresso nel 1923, la riassuma; poi cerca di riavvicinarsi al primo ministro musulmano del Punjab, Sir Sikandar Hyat Khan.

Bose viene arrestato dagli inglesi e, in seguito a uno sciopero della fame di una settimana, messo ai domiciliari; quindi cerca appoggio dai tedeschi. Gandhi, dal canto suo, non ne vuole sentir parlare: «Sappiamo cosa significa il giogo britannico per noi e per le razze non europee del mondo. Ma non vorremo mai mettere fine alla dominazione britannica con l’aiuto tedesco»169.

Insiste nel ripetere che la nonviolenza deve essere la regola, che bisogna controllarsi, non agitarsi, restare calmi, riflettere, prendersi tempo prima di reagire. Che a tale scopo l’arcolaio è per lui più necessario che mai. Il 30 dicembre, scrive un testo magnifico che mostra, anche in quei tempi estremi, l’importanza dell’autocontrollo:

Da vent’anni sostengo che esiste un legame vitale tra satyagraha [protesta] e carkha [arcolaio], e più questa convinzione è criticata più mi sembra essenziale. Altrimenti non sarei così stupido da continuare a far girare l’arcolaio, ogni giorno, a casa e in treno, a dispetto dei consigli dei medici. Io voglio che anche voi facciate girare il carkha con la stessa fede. Se non lo fate, se non indossate abitualmente la khadi, mi deluderete e deluderete il resto del mondo.169

La guerra non fa ancora sentire tutti i suoi effetti sull’India; intanto il 10 gennaio 1940 il viceré vieta molti giornali e altri, tra cui lo «Harijan», sono posti sotto il controllo di una censura più stretta. Gandhi rende visita, a Calcutta, a Charles Friar Andrews, l’amico di sempre, il discepolo di Gokhale, così rappresentativo di quegli inglesi per cui niente al mondo conta più dell’India; nel 1913 lo aveva raggiunto in Sudafrica e da allora lo aveva seguito; ora Andrews è in punto di morte. Parlano di Kallenbach che, sebbene ebreo, è stato appena arrestato in Sudafrica in quanto cittadino tedesco. Andrews mormora con un triste sorriso: «Mohan, l’indipendenza si avvicina e io non la vedrò...».

A marzo, in una conferenza a Lahore, Jinnah afferma che non accetterà nient’altro che l’indipendenza delle regioni a maggioranza musulmana del Nord-Ovest e dell’Est del subcontinente, e aderisce al nome “Pakistan”, che significa ‘terra dei puri’ e le cui lettere sono le prime o le ultime dei nomi di queste regioni: Punjab, Kashmir, Sind, Beluchistan. Questo progetto, che i delegati musulmani alla tavola rotonda di Londra nel settembre del 1931 hanno denigrato come un «progetto da scolaro», diventa un obiettivo realistico. Gandhi lascia trapelare la sua collera contro Jinnah ed esclama109: «Il suo nome potrebbe essere quello di un hindu. Quando l’ho conosciuto, addirittura ignoravo che fosse musulmano»169. Quel giorno, infatti (il 12 gennaio 1915), gli aveva rimproverato di rivolgersi a lui in inglese. Gandhi fa tuttavia una concessione: «I musulmani devono avere gli stessi diritti all’autodeterminazione degli altri indiani. Per il momento, noi siamo una famiglia unita che ciascuno dei suoi membri deve poter lasciare»169.

L’ostinazione pacifista

Nel marzo del 1940, quando l’invasione delle isole britanniche da parte dei tedeschi sembra imminente, Gandhi espone le sue idee pacifiste e spiega agli inglesi in uno sbalorditivo articolo sullo «Harijan»:

Io vorrei che deponeste le armi, inutili per salvarvi, voi o l’umanità. Inviterete Herr Hitler e il signor Mussolini a prendere quelli che vogliono tra i paesi che chiamate le vostre “colonie” [...]. Se questi gentiluomini scegliessero di occupare anche casa vostra, voi gliela lascerete. Se non vi permettessero di andarvene, voi vi lascerete massacrare, uomini, donne e bambini, ma rifiuterete di servirli.169

Davanti alle proteste, precisa:

Sono stato a torto accusato dai miei detrattori di aver vilmente suggerito agli inglesi di capitolare davanti al nazismo, mentre ho solo consigliato loro di deporre tutte le armi e lasciare che i nazisti invadano la Gran Bretagna, se osano, ma ho anche suggerito loro di rinforzare la fermezza interiore per non vendersi ai nazisti. Per riuscirci, una condizione necessaria è la rinuncia totale a ciò che non è essenziale.169

La censura si interessa sempre più al suo giornale.

Il 5 aprile arriva la triste notizia, attesa, della morte di Charles Andrews. È tutto il Sudafrica che torna alla memoria di Gandhi. Scrive sullo «Harijan» del 13 un bell’articolo sul solo uomo che lo chiamasse ancora Mohan:

Nessuno probabilmente ha conosciuto Charlie Andrews bene quanto me [...]. Quando ci siamo conosciuti in Sudafrica, nel 1913, siamo diventati fratelli e lo siamo rimasti fino alla fine [...]. Non era un’amicizia tra un inglese e un indiano, ma un legame indistruttibile tra due servitori e ricercatori della verità. Se abbiamo davvero caro il ricordo di Andrews, in noi non ci sarà odio verso gli inglesi, di cui lui era uno dei migliori e più nobili.169

Un po’ dopo, davanti alla durezza della censura, Gandhi decide di chiudere lo «Harijan». L’8 maggio firma l’ultimissimo editoriale:

Le mie conversazioni settimanali con voi mi mancheranno, e spero che mancheranno anche a voi [...]. Un corrispondente mi supplica di non sospendere lo «Harijan», perché, dice, la sua personale nonviolenza si nutre di ciò che trova in esso. Se davvero è stato così, questa restrizione accettata dovrebbe avergli insegnato ancora di più dell’insipida prosecuzione della lettura settimanale dello «Harijan».169

A Londra, il 10 maggio, Winston Churchill, che detesta Gandhi ed è convinto che l’Impero resterà lì ancora per mille anni, succede a Neville Chamberlain, malato e contestato dopo il fallimento della spedizione franco-britannica in Norvegia. Da sempre Churchill pensa che l’India sia solo un’«entità geograficamente astratta» e che qualsiasi movimento verso l’indipendenza di questo «non insieme» sboccherebbe in una spaventosa guerra civile. Gandhi spiega dunque a tutti, al Congresso, che non ci si può aspettare più niente dagli inglesi.

La “strana guerra” continua con la sconfitta del Belgio, poi quella della Francia. Il 18 giugno (all’indomani del cessate il fuoco ordinato dal maresciallo Pétain, presidente del Consiglio, e il giorno stesso in cui il generale De Gaulle esorta al contrario alla resistenza) Gandhi parla della nonviolenza e di Gesù introducendo delle sottili distinzioni:

Gesù ha espresso in modo immediato e vivo la grande dottrina della non-cooperazione nonviolenta. La non-cooperazione con l’avversario è “violenta” quando si rende colpo per colpo e, in tal caso, essa è in fin dei conti inefficace. La non-cooperazione è “nonviolenta” quando si cede tutto all’avversario invece di dargli solo ciò di cui ha bisogno. Lo si può disarmare una volta per tutte solo con una “non-cooperazione nonviolenta” che in realtà è la sola vera non-cooperazione completa.169

Gandhi reclama per l’India la libera scelta. Dichiara a un giornalista britannico, Henry Noel Brailsford, che segue le vicende indiane da oltre vent’anni:

Voialtri inglesi sperate, in caso di vittoria, di dare la libertà agli austriaci; ma non vi verrebbe mai in mente di redigere la loro Costituzione a Westminster o a Parigi, vero? [...] Invece, nel caso dell’India, nel cervello dei vostri governanti vi è il pensiero radicato che è il Dio degli inglesi a dover disegnare la pianta della casa nella quale vivranno gli indiani. I vostri funzionari ne elaboreranno il progetto, il vostro Parlamento dibatterà un emendamento l’anno, gli uomini bianchi che rappresentano Cardiff o Clapham voteranno per decidere se l’India deve avere una o due Camere, un suffragio universale o censuario...109

Rammentando quel giorno lontano di giugno del 1924 in cui ha impedito a Mahadev Desai di andare a vedere le cascate di Jog, lo manda a portare un messaggio al divan di Mysore, Sir Mirza Ismail: «Quando sarai a Mysore, sarai vicinissimo alle cascate di Jog. Valle a vedere: ho scritto a Sir Mirza di organizzarti un’escursione. La tua missione a Mysore richiederà diversi giorni, il tuo ritorno non è urgente»169.

L’“offerta d’agosto”

La disfatta francese suscita una forte reazione di inquietudine in India: se la Gran Bretagna non riesce a contenere l’ondata tedesca, niente potrà impedire a Hitler di puntare verso il Mediterraneo e magari anche di marciare sull’India. A luglio, il direttivo del Congresso scopre la vulnerabilità del subcontinente, rimpiangendo di avere lasciato i governi locali, si annoia nell’inattività e fa una concessione: non reclama più l’indipendenza immediata ma annuncia che, se il governo inglese si impegna senza ambiguità a dare l’indipendenza all’India alla fine della guerra (questo ormai è fuori discussione), esso è pronto a partecipare immediatamente a un governo di difesa nazionale, dunque a partecipare alla guerra. Gandhi, che insiste a ribadire il suo imperativo di nonviolenza, è esplicitamente messo da parte. Il comitato aggiunge con un bel po’ di ipocrisia: «Pur tenendo a precisare che il Congresso continua ad aderire rigidamente al principio di nonviolenza nella sua lotta per l’indipendenza, il comitato esecutivo [...] è giunto alla conclusione che gli è impossibile raggiungere lo scopo con Gandhi, pur riconoscendogli la libertà di seguire il suo grande ideale»169.

Gli inglesi non sanno che farsene e continuano ad arruolare centinaia di migliaia di indiani nelle loro truppe. Il viceré resta fermo: con un dispaccio segreto, il 2 agosto, conformemente all’ordinanza di Lord Willingdon del gennaio del 1932, autorizza i governatori a considerare «un atto ostile volto ad aiutare i nemici del re» qualsiasi rifiuto d’obbedienza all’autorità inglese, in particolare qualsiasi atto di indisciplina nell’esercito o verso di esso. Sei giorni dopo Londra concede, con un comunicato del viceré, che dopo la guerra una “Costituzione” sarà elaborata dal popolo indiano, ma respinge l’idea di instaurare un governo nell’immediato109; lui accorda solo l’apertura dell’attuale Consiglio consultivo del viceré a qualche «indiano rappresentativo» e la creazione di un vago «Consiglio di guerra consultivo» che include rappresentanti delle province, dei principati e di altri interessi che rappresentino «la globalità della vita nazionale indiana»; facoltativi, i pareri di questo consiglio saranno subordinati alle esigenze inerenti alle «responsabilità speciali» degli inglesi verso i principi, le minoranze e la difesa. In altre parole: niente.

Enorme delusione del Congresso: la promessa di emancipazione dopo la guerra è davvero troppo vaga; le parole “Assemblea Costituente” non sono pronunciate. Peggio ancora, forse: questa dichiarazione dell’agosto del 1940 racchiude anche, quasi en passant, una prima tacita ammissione che il governo di Londra è pronto a prendere in considerazione la divisione dell’India. Infatti vi si trova, proprio alla fine del comunicato del viceré: «Inutile dire che il governo britannico non potrà pensare al trasferimento delle sue attuali responsabilità in materia di pace e salute pubblica in India a un sistema governativo la cui autorità sarebbe categoricamente smentita da ampi e potenti settori della vita nazionale indiana»109.

Questa “offerta d’agosto” (come sarà chiamata d’ora in poi) non si avvicina minimamente a quanto il Congresso sarebbe disposto ad accettare per cooperare con gli inglesi. Esso perciò si riavvicina a Gandhi. A fine agosto, Nehru esprime la sua delusione in un articolo pieno di humour intitolato “Al crocevia”:

Dopo la guerra, noi avremo (o almeno questo ci propongono, ma il destino può decidere diversamente) una nobile assemblea di maharajah tempestati di perle, di personalità ricoperte di decorazioni, uomini d’affari europei e alti funzionari dell’amministrazione imperiale, più qualche semplice mortale, tutti seduti assieme, senza dubbio sotto la presidenza del viceré, intenti a redigere la Costituzione indiana. È così che l’India eserciterà il proprio diritto all’autodeterminazione.20

Infatti, neppure lo stesso governo britannico attribuisce la minima importanza alla propria proposta, convinto che Gandhi scatenerà comunque un movimento di protesta popolare contro le velleità belliciste del Congresso e che la nonviolenza avrà la meglio. È proprio ciò che accadrà, con gran soddisfazione del viceré...

Ilsatyagraha rappresentativo”

Il 27 agosto, Gandhi è ricevuto a Simla e si mostra molto scontento della minaccia di divisione che contiene l’offerta di agosto: «Dovrete farmi a pezzi prima di dividere l’India!». Aggiunge anche che i musulmani dopo tutto non sono che degli hindu convertiti! All’inizio di settembre, il comitato esecutivo del Congresso si riunisce a Bombay, in presenza di Gandhi, per studiare l’offerta britannica. Naturalmente, viene respinta su tutti i fronti. I delegati chiedono allora a Gandhi di riprendere la guida del partito e di condurre una campagna di protesta. Lui accetta.

Resistendo alla pressione dell’ala sinistra del Congresso che vorrebbe scatenare un movimento violento, Gandhi intende porre la campagna sul terreno del pacifismo e ottenere dagli inglesi il diritto di esprimersi contro la mobilitazione dell’India. Avendo imparato la lezione dal satyagraha di Rajkot che è stato un disastro perché vi sono state coinvolte troppe persone senza discernimento, Gandhi propone di limitare la campagna ad arringhe pacifiste da parte di militanti selezionati, poi da manifestanti sempre più numerosi, il tutto organizzato secondo un ordine preciso. Pensa a come mettere in ginocchio l’amministrazione britannica: affollare le prigioni, bloccare i circuiti amministrativi, sempre nella massima calma e senza violenze. Chiede addirittura ai futuri manifestanti, che sceglie lui stesso tra i leader del Congresso, di avvisare in anticipo i funzionari residenti britannici del distretto in merito al luogo e all’ora dei loro discorsi pubblici. Fissa lui stesso il tema di questi discorsi: «È sbagliato fornire aiuto con uomini o denaro allo sforzo bellico inglese. Il solo sforzo nobile è opporsi alla guerra con la resistenza nonviolenta».

Tutti sanno che saranno arrestati e che il Partito del Congresso sarà dichiarato fuorilegge. Gandhi d’altra parte spiega che per questa battaglia vuole solo persone preparate al peggio:

Io guiderò questo movimento finché sarò in libertà. Se sarò arrestato, il movimento continuerà da solo nella misura in cui le persone avranno assimilato la nonviolenza. I membri del Congresso devono restare calmi e sereni. Ciascuno o ciascuna agirà di propria iniziativa. Se lui o lei si sente in grado di fare della disobbedienza civile, la via è semplice. Altrimenti, che seguano l’ordine del giorno del programma “costruttivo”.169

È la stessa strategia del 1930: “paralizzare” gli inglesi, sopraffarli. Gandhi descrive di nuovo la sua utopia, quel «programma costruttivo»: unione tra hindu e musulmani, proibizione dell’alcol e dei tessuti stranieri, filatura e tessitura, istruzione primaria, artigianato, istruzione degli adulti, promozione delle donne, sanità e igiene, sviluppo dell’hindustani e riduzione delle disuguaglianze economiche. Continua a dire che il movimento non ha senso in sé senza un ritorno alla civiltà indiana. Che anche l’indipendenza è niente, se non si ripensa il futuro:

Condurre un movimento di disobbedienza civile senza il programma costruttivo, è come voler afferrare un cucchiaio con una mano paralizzata. Chi pensa che le principali riforme si produrranno una volta ottenuta l’indipendenza [swaraj], non capisce niente dello swaraj nonviolento. Esso non pioverà dal cielo un bel giorno. Bisogna costruirlo un pezzetto alla volta, grazie allo sforzo personale di tutti.109

Queste restrizioni autoimposte sono una piacevole sorpresa per il viceré.

La guerra raggiunge l’Asia e si avvicina all’India: approfittando della disfatta francese contro la Germania, i giapponesi intimano al governatore dell’Indocina, Catroux, di chiudere la frontiera tra il Tonchino e la Cina (20 giugno) e prendono il controllo della ferrovia. Il 25 settembre occupano delle basi, poi una parte del territorio, lasciando al suo posto l’amministrazione coloniale attualmente diretta da Decoux che collabora con loro a Dalat, proprio come, in Francia, avviene a Vichy con i tedeschi17.

Il 17 ottobre, il primo leader scelto da Gandhi per manifestare, Vinoba Bhave, pronuncia un discorso a Paunar, vicino a Wardha. È arrestato quattro giorni dopo e condannato a tre anni di prigione. Il 1° novembre è il turno di Nehru, arrestato sulla strada di Allahabad e condannato a quattro anni di prigione.

«Lei non è il mostro...»

Mentre questa offensiva pacifista prende piede, Gandhi intende conferirle una dimensione internazionale e mostrare che la sua causa non è ostile alla Gran Bretagna. Il 24 dicembre, scrive a Hitler un’altra lettera di una franchezza che può sembrare naïf, in cui dice, ed è una novità, che non auspica la vittoria della Germania: «Caro amico, se vi chiamo “amico” non è per formalità. Noi non dubitiamo del vostro coraggio, del vostro amore per la vostra patria, e non crediamo nemmeno che siate il mostro dipinto dai vostri avversari»169. Poi rettifica:

Ma i vostri scritti e le vostre dichiarazioni, come quelle dei vostri amici e ammiratori, non permettono di dubitare che una gran parte delle vostre azioni non siano mostruose e lesive della dignità umana, soprattutto agli occhi di chi, come me, crede nell’amicizia universale. Mi riferisco all’umiliazione che avete inflitto alla Cecoslovacchia, alla violazione della Polonia e all’annessione della Danimarca. Io sono cosciente che, nella vostra concezione della vita, queste spoliazioni sono atti degni di lode. Ma noi abbiamo appreso sin dall’infanzia a considerarli atti umilianti per l’umanità. Dunque non possiamo augurarci il successo delle vostre truppe.

Poi mette il colonialismo sullo stesso piano del nazismo:

Ma la nostra posizione è unica; noi resistiamo all’imperialismo britannico come al nazismo. Io vi chiedo dunque, in nome dell’umanità, di cessare la guerra [...]. Avevo intenzione di rivolgere un appello congiunto a voi e al Signor Mussolini che ho avuto l’onore di incontrare all’epoca del mio viaggio in Inghilterra come delegato alla conferenza della tavola rotonda. Spero che vogliate considerare questa mia come indirizzata anche a lui, con le necessarie distinzioni.

Conclude con queste frasi premonitrici:

Se non saranno gli inglesi, qualche altra potenza potrà affinare i vostri metodi e battervi con le vostre stesse armi. Voi non lasciate al vostro popolo un’eredità di cui potrà andare fiero. Esso non potrà inorgoglirsi alla narrazione di atti di crudeltà, per di più accuratamente organizzati.169

Nessuno ricorderà che lui ha affermato di non auspicare la vittoria dei nazisti. In compenso nessuno dimenticherà la terribile frase introduttiva di questa lettera: «Non dubitiamo del vostro coraggio, del vostro amore per la vostra patria, e non crediamo nemmeno che siate il mostro dipinto dai vostri avversari»169.

Spinge uno dopo l’altro i suoi amici per le strade a pronunciare discorsi pacifisti e il 3 dicembre in prigione ci sono circa 400 leader del Congresso, di cui 29 ex ministri provinciali. L’“armatura d’acciaio” regge. Gandhi non considera questo risultato come una sconfitta. Lui pensa che il tempo giochi a favore dell’India e che nel giro di qualche anno, quando decine di migliaia, o anche milioni di persone avranno agito allo stesso modo, l’Inghilterra si stancherà e il Congresso erediterà il potere pacificamente; gli basterà preservarsi, quale che sia l’esito delle battaglie.

«Sepolto a Sevagram»

Il 30 dicembre 1940, ovvero dopo tre mesi di presidenza del Congresso, Gandhi, di propria iniziativa, lascia la leadership dell’organizzazione, ma mantiene quella della campagna di disobbedienza passiva. La estende a migliaia di persone in base a liste stilate dai comitati locali, che lui esamina e convalida una per una di persona54. Queste migliaia di cittadini manifestano ogni giorno civilmente e sono arrestate senza violenza. Il viceré non se ne preoccupa: l’”armatura d’acciaio” ha retto a situazioni ben peggiori! In una circolare segreta che invia il 29 gennaio 1941 ai governatori provinciali, spiega anche che la moderazione di Gandhi rende inutile il ricorso ai poteri speciali e chiede ai suoi sottoposti che le pene comminate ai satyagrahi siano leggere, per evitare provocazioni. Infatti, i processi non fanno molto rumore...

Durante l’inverno del 1941, ad eccezione di un viaggio a Bombay e un altro ad Allahabad nel febbraio del 1941, Gandhi resta, secondo le sue testuali parole, «sepolto a Sevagram»: «A Sevagram riesco a pensare meglio e più chiaramente che in qualsiasi altro luogo, per il semplice motivo che qui ho creato un’atmosfera propizia al mio sviluppo. Con lo scorrere del tempo, il mio corpo si deteriora, ma non la mia saggezza, o almeno lo spero. Invecchiando mi sembra di vedere le cose con maggiore lucidità»169.

A Londra, il ministro dell’India, Sir Leopold Amery, dichiara che il movimento di protesta, «tanto spiacevole quanto irrazionale, segue il suo corso svogliatamente, senza suscitare molto interesse». Quando il giornale «Hindu Times» aggiunge che il movimento non ha alcun tipo di influenza sullo sforzo bellico, Gandhi ribatte che non è questo il suo scopo. Esso è fatto, dice, per preparare gli indiani a cambiare la loro anima e a volere l’indipendenza. Da questo punto di vista, ha ragione: dalla prova usciranno dei militanti agguerriti.

A fine marzo, Gandhi estende il movimento ai militanti di base del Congresso. Gli inglesi reggono ancora il colpo. Circa 25.000 persone sono già in carcere per «disobbedienza civile individuale». Ma questo non è un problema: le prigioni indiane sono grandi...

Bose diventa Netaji

Inizia allora una singolare avventura personale: uno dei leader del Congresso prenderà il comando di un esercito indiano alleato alle forze dell’Asse per combattere l’Inghilterra. E non un leader qualsiasi: il capo principale dell’ala sinistra del partito, quello di cui Gandhi diffida da tempo, l’ex presidente del Congresso, Subhas Chandra Bose, attraversa il Rubicone! Mentre si trova agli arresti domiciliari a Calcutta, a gennaio evade, attraversa l’India e passa in Afghanistan con l’aiuto dell’Abwehr, i servizi segreti tedeschi56! Il suo obiettivo: costituire un esercito e scagliarsi contro gli inglesi. Il suo progetto è ricalcato su quello di venticinque anni prima di Jatin Mukherjee: entrare in India dal confine birmano alla testa di truppe equipaggiate dal Reich. Dopo peripezie epiche (grazie a un passaporto italiano, sotto il nome di “Orlando Mazzotta”, inseguito dagli agenti dei servizi segreti inglesi e poi intercettato dai loro colleghi dell’NKVD) giunge a Mosca nel marzo del 1941. Bose conta sul tradizionale appoggio della Russia contro la presenza britannica in India56. I sovietici non se ne vogliono immischiare. Meditano di spedirlo in un gulag, poi lo affidano all’ambasciatore tedesco a Mosca, il conte Von der Shulenburg, che, il 9 aprile, lo manda a Berlino su un aereo speciale, solo poche settimane prima dell’invasione a sorpresa dell’URSS da parte dei tedeschi, il 22 giugno 1941, e il proprio richiamo in patria56.

Bose non è né nazista né antisemita; la questione ebraica non lo riguarda più della questione europea. Come tutti gli altri leader del Congresso, è anti-inglese e ostile alla presenza ebraica in Palestina perché ha bisogno dell’appoggio dei musulmani in India. A Berlino, dopo aver atteso a lungo, è ricevuto dal ministro degli Esteri, Joachim von Ribbentrop, nel suo ufficio nella Wilhelmstrasse. Gli chiede di pronunciarsi a favore dell’indipendenza dell’India e di quella dei paesi arabi, tra cui la Palestina. Soprattutto, chiede dei finanziamenti per creare una stazione radio, avviare delle attività clandestine in Afghanistan e creare un governo in esilio. Il governo tedesco non si mostra affatto ansioso di rispondergli.

Qualche giorno dopo, il 28 maggio, il generale Smuts, divenuto di nuovo primo ministro dell’Unione Sudafricana, è promosso maresciallo dell’esercito britannico; secondo il segretario personale di Churchill, John Colville, Giorgio VI l’avrebbe addirittura designato segretamente per subentrare a Churchill nella carica di primo ministro se questi fosse venuto a mancare nel corso della guerra.

L’8 giugno, un’armata composta da truppe inglesi e soldati francesi arruolati nella Francia Libera penetra in Siria. Il 22 giugno, le truppe di Hitler penetrano nel territorio sovietico. Per Bose, significa la speranza di poter tornare in India passando per l’Afghanistan. L’Indocina francese passa sotto il controllo militare del Giappone, il 21 luglio, con il trattato di Vichy. Ho Chi Minh crea il Vietminh, che organizza la resistenza armata contro i francesi nel nord della penisola.

Il 7 agosto muore Rabindranath Tagore; Gandhi, all’epoca a Sevagram, scrive qualche banalità sul grande uomo che l’ha tanto aiutato: «la morte di Rabindranath Tagore ci priva del più grande poeta dei nostri tempi e di un ardente nazionalista che fu anche un eminente umanista...»169. Nel suo diario scritto in prigione, Nehru quel giorno elabora un’idea assai più interessante: «Forse è meglio per Tagore essere morto adesso e non vedere tutti gli orrori che si stanno per accumulare sul mondo e sull’India. Ne aveva visti abbastanza, ed era irreparabilmente triste e malinconico»120. Poi lo paragona a Gandhi: «Due caratteri molto diversi, entrambi tipici dell’India, nella stirpe dei difensori dei diritti dell’uomo. Non grazie a una qualità particolare, ma grazie al “tous ensemble” [in francese nel testo]».

Il 14 agosto, Churchill e Roosevelt firmano il Patto Atlantico che prevede il «diritto di ognuno di scegliere la forma di governo sotto la quale deve vivere»: esso servirà come base per la carta delle Nazioni Unite, ma naturalmente, nella mente di Churchill, i magnifici principi che contiene non si applicano agli indiani.

Mentre Bose vegeta a Berlino, bussando a tutte le porte, altri leader indiani scelgono il campo della Gran Bretagna. Il 19 settembre, Sri Aurobindo manda dunque al governatore di Madras il suo contributo finanziario a una colletta del viceré a beneficio della difesa24. Contemporaneamente, invia con un vaglia postale alcune centinaia di sterline al generale De Gaulle, a Londra: «È per la difesa della civiltà e dei suoi valori sociali, culturali e spirituali più alti, e di tutto il futuro dell’umanità [...]. Attendiamo con impazienza la vittoria della Gran Bretagna e, come risultato ultimo, un’era di pace e di unità tra le nazioni e un ordine mondiale migliore e più sicuro»24.

Il 2 novembre, a Berlino, Bose riceve finalmente il consenso e i mezzi tanto attesi per creare una radio e reclutare delle truppe, ma non ancora l’autorizzazione a costituire un governo in esilio57. Quindi scimmiotta tutti i simboli nazisti, adotta come saluto «Jay Hind!» (‘Vittoria all’India!’, o ‘Viva l’India’), il canto di Tagore, Jana Gala Mana, come inno nazionale, e dalle sue poche reclute si fa chiamare «Netaji», (netaji significa ‘timoniere’, in hindi)13. D’ora in poi, chiameremo Bose esclusivamente con questo nuovo nome. A dicembre, con i 15 primi volontari reclutati tra i prigionieri fatti da Rommel nell’esercito inglese, costituisce una Legione Indiana in miniatura, distaccamento che presenta come l’epigono della «Grande Rivoluzione del 1857, chiamata impropriamente “rivolta dei Sepoy” dagli storici inglesi, ma che è considerata dal popolo indiano come la sua prima lotta per l’indipendenza»13.

Tra la Germania e il Giappone

Il 4 dicembre, il viceré fa rilasciare i 25.000 prigionieri della campagna del satyagraha perché, dice, è «sicuro che quelli che contano in India ora sono determinati a sostenere lo sforzo bellico fino alla vittoria finale»... Nehru e gli altri riacquistano la libertà. In altre parole, la campagna dei discorsi pacifisti non è servita a niente, se non ad accelerare la mobilitazione dei giovani che si ritrovano ben presto in prima linea...

Tre giorni più tardi, il 7 dicembre, l’attacco giapponese a Pearl Harbor, provocato soprattutto dall’embargo americano sul petrolio, sconvolge la fisionomia della guerra, per l’India come per il resto del mondo: determina l’entrata in guerra degli Stati Uniti e della Gran Bretagna contro il Giappone. Questo ormai ha tutti i motivi per prendersela con l’India. Ma il Giappone, per l’India, è tutta un’altra cosa dalla Germania. Se gli indiani possono disinteressarsi di un assai improbabile attacco tedesco, non possono non temerne uno giapponese. E le truppe nipponiche stazionano già in Cina e in Indocina... Il 10 dicembre, due navi britanniche sono affondate dai giapponesi; l’11 la Germania e l’Italia dichiarano guerra agli Stati Uniti.

Il 15, Churchill si reca negli Stati Uniti per la conferenza Arcadia che riunisce tutti i capi di Stato Maggiore alleati per ripensare la loro strategia. Si parla soprattutto del teatro delle operazioni in Europa, ma anche un po’ del Pacifico; e dato che parlare del Giappone significa parlare anche del resto dell’Asia, Roosevelt chiede a Churchill se la concessione dell’indipendenza all’India non potrebbe contribuire alla mobilitazione di quel paese contro Tokyo per stabilizzare le proprie forze. Churchill racconterà nelle sue Memorie: «Io reagii immediatamente e con tale forza che lui non sollevò mai più la questione!»25.

La minaccia si ingrandisce: il 21 dicembre la Thailandia firma un patto con il Giappone e un mese dopo dichiara guerra a Stati Uniti e Gran Bretagna, dunque all’India. Contemporaneamente, il Giappone occupa gran parte dei possedimenti inglesi, olandesi e americani nel Sudest asiatico. Il 22, a Ottawa, Churchill e Roosevelt decidono di unire le loro forze contro la Germania nazista e il Giappone. L’Inghilterra entra subito in guerra contro Tokyo; il viceré fa automaticamente altrettanto, a nome dell’India, come aveva fatto contro la Germania due anni prima. Furioso come all’epoca, il Congresso si riunisce per trovare una risposta.

Il 23 dicembre, il comitato esecutivo del partito, convocato a Bardoli, sotto la presidenza di Maulana Azad, continua a sostenere in linea di principio il programma di resistenza civile del settembre del 1940 per il quale tutti sono finiti in prigione, ma ora propone anche, nonostante il parere contrario di Gandhi, di cercare un accordo con il governo britannico per agire congiuntamente contro i giapponesi. Gandhi si indigna e ripete che lui non vede differenza tra colonialismo e fascismo: «Tutto, in India, scaturisce dall’ostilità e dalla diffidenza verso il governo britannico; le grandi promesse non potranno cambiare niente e nessun indiano potrà offrire volontariamente il suo aiuto a un imperialismo arrogante che non differisce dall’autoritarismo fascista»169. Alla fine della riunione, dichiara ad Azad di sapere che «La maggior parte dei membri [del comitato esecutivo] hanno un’interpretazione diversa dalla [sua]: essi affermano che l’opposizione alla guerra non ha bisogno di essere posta sul terreno della nonviolenza». Il viceré autorizza Gandhi a far uscire di nuovo «Harijan», mentre Nehru esorta a «una guerriglia di resistenza» contro il viceré stesso.

Qualcuno non si ferma lì. Un militante estremista, già incontrato molto tempo fa, Vinayak Savarkar, decide di metter su un’organizzazione clandestina, lo Hindu Rashtra Dal, per compiere ciò «che un partito politico non può permettersi»86. Il figlio di uno dei suoi secondini, di cui si è già parlato, Nathuram Godse, si unisce a lui ed è incaricato, insieme a un tale chiamato Narayan Apte, di allestire dei campi di addestramento86. In base a dei rapporti dei servizi segreti britannici in India, il CID (Criminal Intelligence Department), che vi invia degli infiltrati, questi campi servono alla pratica degli sport indiani, all’addestramento con esercizi fisici, al tiro con la carabina e allo studio dell’ideologia del partito. Il Dal non conterà mai più di 150 militanti13, ma tra questi figura il futuro assassino di Gandhi.

L’Inghilterra vacilla

Il 24 dicembre 1941, ecco un fulmine a ciel sereno: i giapponesi conquistano Hong Kong, fondamentale punto strategico dell’Impero britannico. Mentre Nguyen Ai Quoc, che assume lo pseudonimo di Ho Chi Minh, torna dopo trent’anni di assenza nella penisola indocinese e vi crea il Vietminh, gli Stati Uniti, meno di tre settimane dopo Pearl Harbor, annunciano il “programma della vittoria” che riorganizza la loro economia di guerra.

Se la stragrande maggioranza dell’intellighenzia indiana è antinazista, antifascista e antinipponica, e se Gandhi denuncia lo slogan giapponese «L’Asia agli asiatici» e incoraggia il boicottaggio delle importazioni giapponesi, i primi successi delle truppe del mikado attirano numerosi indiani che sperano di trovarvi degli alleati in grado di liberarli dagli inglesi.

A Berlino, Netaji ha avuto una figlia; vive in una villa lussuosa, con auto a disposizione e razioni speciali; la sua Radio India Libera trasmette programmi in diverse lingue, inoltre lui pubblica sotto lo stesso titolo un giornale bilingue, mentre il suo Centro India Libera ottiene uno status ufficiale. La Legione conta adesso 3500 uomini ben addestrati e ben equipaggiati, reclutati tra i soldati indiani incorporati nell’esercito inglese e fatti prigionieri in Africa13. Il generale Tojo, capo del governo di Tokyo, dichiara alla Dieta di essere pronto ad accoglierlo e ad aiutarlo a ottenere l’indipendenza dell’India. A questo punto Netaji vorrebbe partire, ma non ne ha i mezzi13. Tanto più che in Giappone sta prendendo forma un rivale omonimo: il 15 febbraio 1942, quando Singapore cade nelle mani dell’esercito giapponese, le truppe indiane che vengono fatte prigioniere si ritrovano poste sotto il comando di un certo capitano Mohan Singh, anche lui agli ordini di un certo Rasbehari Bose, omonimo di Netaji. Collaboratore di Jatin Mukherjee nel 1915, naturalizzato giapponese, per molto tempo a contatto con Tagore, Rasbehari Bose nomina Mohan Singh “comandante in capo” e si autoproclama “presidente del Comitato d’azione”. Il suo scopo è aiutare le forze nipponiche a insediarsi nell’Orissa, situata sulla costa del Bengala, abbastanza facile da raggiungere via mare dalla Birmania. Proprio lo stesso progetto di Netaji...

Ecco dunque che la Malesia a febbraio, seguita dalla Birmania a marzo cadono nelle mani dei giapponesi. La baia del Bengala si trova così completamente esposta alle incursioni della Marina nipponica. Su ordine degli inglesi, l’esercito indiano ne organizza la difesa affondando tutto ciò che potrebbe servire agli invasori, in particolare i pescherecci. Contro il parere di Gandhi, il Congresso chiede ai suoi militanti di partecipare a questa resistenza antigiapponese. Altri, come Mirabehn, preparano gli abitanti dell’Orissa a resistere in maniera nonviolenta a un’eventuale aggressione.

Il 25 febbraio 1942, Jamnalal Bajaj, detto il “quinto figlio” di Gandhi, tesoriere del Congresso da un quarto di secolo, muore. Gandhi scrive:

Ogni volta che parlavo di uomini ricchi che usavano la loro fortuna per il bene pubblico, avevo in mente quel principe mercante [...]. Il suo candore era tutto ciò che possedeva. Ogni casa che costruiva per lui diventava un Dharmasala [sic: Dharamsala, magnifica località indiana nella valle di Kangra, dove oggi vive il Dalai Lama]. Il suo contributo come satyagrahi era di primissimo ordine...169

La missione Cripps

L’Inghilterra ha più che mai bisogno della fedeltà dell’India per non dover impiegare troppe forze nel mantenimento dell’ordine, per reclutarne in vista dello sbarco in Europa che comincia a prepararsi e per resistere all’avanzata giapponese. Ma Churchill deve risolvere un’equazione apparentemente impossibile: come assicurarsi la sua fedeltà, senza aprire la strada all’indipendenza, di cui non vuole sentir parlare?

Il 25 febbraio 1942, al ministero della Difesa, il primo ministro riunisce attorno a tale questione Clement Attlee, Sir John Simon (divenuto Lord Cancelliere), James Grigg e John Anderson (alti funzionari che sono stati di stanza in India), Stafford Cripps e Leo Amery. Cripps è un personaggio assai curioso: avvocato, marxista, non è affiliato ad alcun partito e torna da una missione di due anni come ambasciatore a Mosca; molto popolare a Londra (Churchill lo considera un potenziale rivale), Amery, segretario di Stato dell’India, conservatore come Churchill, figura anche lui come potenziale rivale del primo ministro; nato in India da madre ebrea ungherese, Amery ama dire che «Churchill conosce i problemi dell’India quanto Giorgio III conosce quelli delle colonie americane»... Questa riunione sfocia in un vero e proprio colpo di fulmine. Poiché tutti fanno capire a Churchill che rimanere nello stato attuale è fuori questione, il primo ministro si rassegna a pensare a una nuova soluzione che va molto più lontano di quanto vorrebbe: subito dopo la guerra si terranno in India delle elezioni per un’assemblea costituente (finalmente spunta questa definizione) che elaborerà la Costituzione di un’Unione Indiana che diventerà un dominion «con lo stesso statuto di pieno diritto di tutti gli altri». I principati saranno invitati a designare dei rappresentanti a questa assemblea. L’Unione Indiana avrà anche il diritto di uscire dal Commonwealth.

Ma se l’indipendenza sarà l’esito di questo progetto, lo sarà anche la scissione del paese. Il governo di Londra si impegna infatti

affinché qualunque provincia dell’India britannica che non sia pronta ad accettare la nuova Costituzione conservi il suo statuto costituzionale attuale, con la garanzia di poter aderire in seguito, se lo decide. Per le province che rifiutassero l’Unione Indiana, il governo di Sua Maestà è pronto, se esse lo desiderano, a concedere loro lo stesso statuto di pieno diritto dell’Unione Indiana ottenuto con la stessa procedura sopra descritta.

I principati, «che vogliano o meno aderire alla nuova Costituzione, dovranno negoziare una revisione delle disposizioni dei trattati esistenti». Decisamente favorevole fin dagli anni Trenta all’indipendenza indiana, Attlee, ex funzionario dell’ICS, racconta nelle sue Memorie che il «progetto di dichiarazione» era «un piano complicato che ben riflette la posizione dei membri del governo che non erano convinti dell’autodeterminazione dell’India – specialmente il primo ministro»7... La proposta evidentemente va molto più lontano dell’offerta dell’agosto del 1940 per quanto concerne l’indipendenza, ma anche e soprattutto riguardo alla divisione.

Il giorno dopo a Savagram, Gandhi manda Mahadev Desai, stanco, a riposarsi a Nasik. Ma mentre si appresta a partire, arrivando alla stazione di Wardha, vicino Sevagram, quest’ultimo viene aggredito, leggermente ferito e ricoverato in ospedale. A Sevagram è stato appena installato il telefono. Nella notte tra la domenica e il lunedì 27, Gandhi fa avanti e indietro nervosamente tra il suo letto e la capanna dove c’è il telefono. Il suo giorno settimanale di silenzio è cominciato, perciò scrive le sue domande su pezzetti di carta che porge al telefonista. Il 27, Desai è di ritorno e Gandhi gli rivolge alcune parole di benvenuto: «È la prima volta dalla morte del nipote Maganlal che rompeva il suo silenzio settimanale35», nota Narayan, figlio di Mahadev Desai.

Il 1° marzo, Netaji dichiara guerra all’Inghilterra (perciò anche all’India) a nome del suo governo in esilio. Ha esitato a lungo: dovrà accettare di far sparare i suoi uomini su soldati indiani che indossano l’uniforme inglese. Joseph Goebbels scrive trionfalmente, quel giorno, sul suo Diario: «siamo riusciti a convincere il leader nazionalista indiano Bose a pubblicare una solenne dichiarazione di guerra all’Inghilterra. Essa sarà diffusa e commentata sulla stampa tedesca con la massima enfasi. In tal modo, da oggi avvieremo la nostra battaglia ufficiale a nome dell’India, anche se ancora evitiamo di riconoscerlo ufficialmente»81.

Intanto, il Giappone continua ad avanzare, facendo moltissimi prigionieri inglesi. Contro di loro, gli inglesi piazzano in fretta e furia un esercito indiano dotato di un inquadramento e di materiale bellico angloamericani, e mettono su un’organizzazione difensiva. Nei distretti costieri dell’Orissa, i più vicini alla Birmania, Mirabehn nota che gli abitanti sono più ostili verso gli inglesi che verso i giapponesi. I rifugiati indiani venuti dalla Birmania e dalla Malesia descrivono i soprusi degli inglesi; i pescatori del Bengala sono scandalizzati nel vedere l’esercito inglese distruggere migliaia di piccoli pescherecci per timore che cadano nelle mani dei giapponesi.

Il 6 marzo, Gandhi deve recarsi a Calcutta per incontrare il capo del governo cinese ripiegato a Chongqing, Chiang Kai-shek, venuto a sollecitare un’intesa tra indiani e cinesi contro Tokyo. Kasturba è malata e Gandhi non vorrebbe lasciarla54. Poi parte. Dal treno le scrive: «Non mi è piaciuto affatto lasciarti». È una delle rare testimonianze di affetto rivolte dal Mahatma alla moglie.

L’11 marzo Churchill annuncia alla Camera dei Comuni che manderà Stafford Cripps in India a esporre il “progetto di dichiarazione” ancora tenuto segreto. L’idea di mandare lontano in missione il suo rivale per vederlo fallire non dispiace affatto a Winston Churchill.

Cripps sbarca all’aeroporto di Nuova Delhi il 22 marzo. Fa venire Gandhi dal suo asram e gli mostra le proposte di cui è latore. Gandhi gli consiglia di tornare senza indugio a Londra: anche se, per la prima volta, il diritto dell’India a una costituzione e all’autodeterminazione è riconosciuto senza ambiguità, con un calendario e una procedura relativi all’esercizio di tale diritto, quello “di non adesione” concesso alle province e ai principati minaccia di far frammentare il paese in mille entità. È, dice Gandhi, come «staccare un assegno a vuoto a una banca in fallimento!», espressione che smentisce quando gli viene attribuita: «Ovviamente non ho detto niente del genere [...], ma la critica contenuta nell’espressione “assegno a vuoto” è assolutamente corretta».

Cripps a quel punto considera Gandhi come un nemico. Ma il Mahatma non è l’unico a respingere quel testo: Jawaharlal Nehru, alla lettura delle stesse proposte, ha la medesima reazione e confessa il «suo profondo sconforto». Consultato, Sri Aurobindo invece trova il progetto soddisfacente e lo scrive a Cripps. La piccola minoranza di uomini d’affari indiani che beneficiano dei contratti aperti dalla guerra approva anch’essa il piano. Il 30 marzo, Cripps dichiara alla radio di Delhi: «Il governo di Londra afferma senza equivoci che noi, inglesi, desideriamo che il popolo indiano acceda alla piena indipendenza». Prova a trattare. I leader del Congresso vogliono fare del “governo temporaneo” proposto loro la base di un governo nazionale («per la difesa e la salvezza dell’India») mentre gli inglesi non vogliono trasferirvi alcun potere, temendo di non poterselo riprendere dopo la guerra.

Nel frattempo, i giapponesi accumulano vittoria su vittoria in Birmania. Le città di Toungoo e Prome sono evacuate il 1° e il 3 aprile, giorno in cui Cripps dichiara al capo di Stato Maggiore delle truppe britanniche in India, il generale Wavell, che pensa di giungere a un accordo con il Congresso su tutti i punti, compreso quello sulla gestione del periodo di transizione: «Ritengo che senza dubbio arriverò a qualcosa di utile da qui alla settimana prossima: gli intoppi svaniscono e potremo, con reciproca buona volontà, risolvere tutte le difficoltà»154.

Il giorno dopo, Cripps presenta Nehru e Azad al generale Wavell, e li lascia discutere con un inviato di Roosevelt, il colonnello Louis Johnson, sulle competenze di un eventuale ministero indiano della Difesa154. Nehru e Azad accettano che il comando britannico controlli gli aspetti operativi della guerra, ma esigendo che il futuro governo provvisorio sia in un modo o nell’altro legittimo agli occhi degli indiani. Azad scrive a Cripps54: «È evidente che la concezione del governo britannico e la nostra divergono completamente per quanto riguarda la difesa. Per noi, si tratta di conferirle un carattere nazionale, coinvolgendo tutti gli uomini e le donne dell’India... Il viceré non si rende conto del fatto che l’India saprebbe combattere solo su una base popolare».

È la paralisi. Cripps è convinto che Gandhi spinga gli altri leader a rifiutare l’accordo, ma è falso: questi non hanno affatto bisogno di essere spinti per opporvisi. Se Gandhi rifiuta in nome dell’unità dell’India, gli altri rifiutano in nome della loro aspirazione all’indipendenza.

All’inizio di aprile, in questa complessa partita a scacchi un cambiamento impercettibile è destinato ad avere conseguenze considerevoli. L’ex primo ministro di Madras, Chakravarti Rajagopalachari, propone alla Lega Musulmana un compromesso che si chiamerà d’ora in poi “formula Rajaji”: se la Lega appoggia il progetto d’indipendenza e la costituzione immediata di un governo unico di tutta l’India, il Congresso accetterà che abbia luogo un referendum nel “Pakistan” (nei distretti contigui a maggioranza musulmana) per decidere se vogliono restare nell’Unione Indiana oppure preferiscono separarsene. Se, in ultima istanza, fosse decisa la secessione, i due Stati così formati discuterebbero di accordi in materia di difesa e comunicazioni.

È la prima volta che l’idea di un “Pakistan” è ammessa da un membro eminente del Congresso (Rajaji) che per di più è consuocero di Gandhi. Jinnah tuttavia rifiuta questa risoluzione: entrare in un governo provvisorio comune al Congresso e alla Lega è fuori questione; così come dare la minima possibilità a che nasca, anche se per un breve istante, un’India unita.

Roosevelt esorta Churchill a spingersi più lontano e accettare la formazione di un governo indiano «simile, nella sua essenza, al vostro stesso governo». Non capisce perché, «se il governo inglese vuole permettere la formazione di un’Unione Indiana dopo la guerra, esso nega agli indiani la possibilità di sperimentare un tale governo durante la guerra». Churchill continua a non trovare motivi per trattare l’India diversamente da come si faceva sotto la regina Vittoria.

Dal punto di vista militare, la situazione degli inglesi in Asia volge in catastrofe. Colombo subisce un raid aereo giapponese il 5 aprile. Vizagapatam e Cocanada, sulla costa, sono bombardate il giorno dopo. Il Giappone accerchia sempre più strettamente l’India. Di fronte a questa minaccia, i leader del Congresso chiedono che il potere militare sull’esercito indiano sia trasferito a un ministero della Difesa diretto da un indiano che affianchi il viceré.

Il 12 aprile Cripps riparte con un niente di fatto ed è convinto che la colpa sia di Gandhi59. Alla proposta di Roosevelt di creare un governo indiano, Churchill risponde con una di quelle formule lapidarie di cui è maestro: «Ringrazio gli eventi di aver reso possibile un tale atto di follia...»25. Senza dubbio è anche contento del fallimento di Cripps, che allontana in un colpo solo un rivale e l’indipendenza dell’India.

Gandhi, dal canto suo, ha voltato pagina. Ne ha abbastanza di discutere con gli inglesi e di vederli bloccare sempre tutto. Ne ha anche abbastanza delle mezze misure. Le manifestazioni pacifiste dell’anno precedente, che hanno condotto migliaia di persone in prigione, non sono servite a niente. Gli viene un’altra idea, molto più drastica. In seguito, confiderà al giornalista Louis Fischer: «È stato il fiasco di Cripps a ispirarmi questa idea. Essa si è impadronita di me subito dopo la sua partenza»48.

«Quit India!»

Bajaj non c’è più, Mahadev Desai è allo stremo delle forze, Vallabhbhai Patel è malato di cancro, Kasturba è in gravi condizioni di salute. Il paese è minacciato di invasione e non potrà essere difeso, pensa Gandhi, finché ci saranno gli inglesi. Lunedì 13 aprile 1942, silenzioso come tutti i lunedì, sente, dirà più tardi, la sua “voce interiore”154 (nome che sempre più spesso dà a Dio o all’esito delle meditazioni che ha appreso da Rajchandra) mormorargli: «Quit India!». Dunque esorta alla «ribellione aperta, alla rivoluzione nonviolenta totale», esigendo dagli inglesi la libertà subito, «questa notte, prima dell’alba se possibile!». E se non se ne vanno, lui inciterà alla disobbedienza civile, alla diserzione, al sabotaggio per bloccare il funzionamento della macchina bellica britannica.

«So che la novità di questa idea scandalizzerà molti. Correrò il rischio di essere trattato da pazzo, ma devo a me stesso di dire la verità se voglio essere sincero con me stesso. È il mio contributo alla guerra, e per sottrarre l’India a questo pericolo». Quando si esprime in questo modo, i riflettori puntano di nuovo su di lui; e sono molti a essere in disaccordo. Rajagopalachari spiega che «la ritirata dell’amministrazione britannica senza la contemporanea sostituzione con un’altra produrrebbe la sparizione dello stesso Stato e della società». Jinnah sostiene che è solo un trucco per permettere al Congresso di arrogarsi tutti i poteri, «un modo per costringere l’amministrazione britannica a sottomettersi al potere del Congresso»: però lui preferisce la dominazione del re a quella di Gandhi.

A chi gli obietta che non è il momento, che dalla vittoria della Gran Bretagna dipende il mantenimento dell’unità dell’India e della democrazia nel mondo, e che lui non ha preso una posizione simile né nella guerra dei Boeri, né durante la prima guerra mondiale, quando la posta in gioco non rivestiva la stessa dimensione morale, replica che la Gran Bretagna ne ha viste tante, che ogni volta sembra che perda e invece vince sempre. Aggiunge inoltre che non ha alcuna voglia di subire un’occupazione tedesca o giapponese:

Non intendo barattare il regime britannico con nessun altro. Preferisco il nemico che conosco a quello che non conosco. Io non do il minimo valore alle promesse delle potenze dell’Asse, che non verranno a salvarci ma a spartirsi il bottino. [...] Questo è il momento psicologico per il riconoscimento [dell’indipendenza indiana]. Perché allora, e solo allora, ci sarà un’opposizione irresistibile all’aggressione giapponese.169

In varie interviste rilasciate a giornalisti stranieri, chiede agli inglesi di lasciare l’India al suo destino: «A Dio o, per parlare moderno, all’anarchia». La ritirata britannica, invece di indebolire la difesa antigiapponese, non farà altro che rinforzarla, secondo lui, perché susciterà una simpatia senza precedenti nei confronti degli inglesi, che «varrà più di tutti i cacciatorpedinieri e bombardieri». Tutto sommato, spiega che il riconoscimento da parte della Gran Bretagna dell’indipendenza immediata dell’India sarebbe «un’azione militare di eccezionale grandezza».

Nel Congresso tutti sono riluttanti: non così in fretta, non così! Solo Netaji, l’ex Subhas Chandra Bose, l’approva da Berlino, lo chiama «padre della nazione»14 e fa sfilare le sue truppe per le strade della capitale del Reich davanti al ritratto del Mahatma!

Naturalmente gli inglesi sono furiosi: è questo il ringraziamento per aver fatto liberare senza contropartita 25.000 prigionieri politici? Che ingratitudine! Il «Quit India!» mette in pericolo lo sforzo bellico. Churchill medita di spedire Gandhi ad Aden. Il consiglio nazionale del Partito Laburista dichiara che questa azione di Gandhi «metterà in pericolo il destino di tutti i popoli che amano la libertà e, allo stesso tempo, distruggerà ogni speranza di indipendenza per l’India».

Il 24 aprile, Gandhi chiede a Mira di scrivere una bozza di risoluzione per il direttivo del Congresso che deve riunirsi tre giorni più tardi ad Allahabad54. Mira scrive:

L’India sarà in grado di difendersi in caso di aggressione da parte dei giapponesi o di altre nazioni. Il comitato esecutivo è dunque dell’avviso che gli inglesi debbano ritirarsi [...]. Il comitato desidera assicurare al governo e al popolo giapponese che l’India non nutre alcuna ostilità né verso il Giappone, né verso qualche altra nazione. Ma se il Giappone attacca l’India, e se gli inglesi non rispondono al presente appello, il comitato spera che tutti coloro che considerano il Congresso come una guida offriranno una totale non-cooperazione nonviolenta alle forze giapponesi, e non daranno loro alcun aiuto [...].
Noi non dobbiamo inginocchiarci all’aggressore né obbedire a uno solo dei suoi ordini.
Non dobbiamo cercare i suoi favori, né lasciarci corrompere. Ma non dobbiamo nemmeno mostrarci malvagi con lui né desiderare la sua morte.
Se l’aggressore vuole impossessarsi delle nostre terre, dobbiamo rifiutarci di lasciarglielo fare, anche a costo della nostra morte.74

In altre parole, non solo dice che bisogna chiedere agli inglesi di andarsene, non solo bisogna bloccare la loro macchina bellica, ma non bisogna nemmeno difendersi da un’invasione giapponese...

Alla riunione del direttivo, il 27 aprile, ci sono tutti, tranne Gandhi, rimasto a Sevagram. Nehru, Rajagopalachari e Azad sono contrari al testo che Prasad e Patel presentano a nome suo; ritengono che, a ogni modo, gli inglesi evacueranno presto l’India come hanno appena lasciato Singapore e la Birmania, e che bisogna costituire immediatamente un esercito nazionale senza contare su di loro, per accedere tanto più presto all’indipendenza54. Nehru dichiara che il progetto dà l’impressione che il suo autore desideri la vittoria dei giapponesi. Patel esclama: «Non è affatto vero, e tutte le risoluzioni del Congresso da Bardoli in poi mostrano chiaramente che le nostre simpatie vanno agli Alleati!». Poi accetta di emendare ampiamente il testo per dissipare questa impressione di simpatie filofasciste74.

Nehru propone dunque un altro testo che prende spunto anch’esso dalla bozza di Gandhi, ma dai toni meno antibritannici. Messo ai voti, il progetto Gandhi-Prasad ne ottiene 11; quello di Nehru 6. Azad, il presidente, si è astenuto e Chakravarti Rajagopalachari ha votato scheda bianca110. Azad, che avrebbe preferito non scoprirsi, chiede allora a Prasad di ritirare il suo testo e sollecita un appoggio unanime al testo di Nehru – «Altrimenti do le dimissioni». Prasad cede74. Viene approvato il testo di Nehru.

Messo al corrente, Gandhi accusa Patel e Prasad di non essersi battuti con maggior accanimento: «Azad sa benissimo, proprio come Nehru, che l’opinione pubblica è favorevole alla mia risoluzione»154. Quando Kripalani gli riferisce che Azad ha messo sul piatto della bilancia le sue dimissioni, Gandhi borbotta: «Avreste dovuto dargli il permesso di andarsene!», e costringe i suoi due fedelissimi, Patel e Prasad, a dimettersi dal direttivo.

Rajagopalachari, che non crede «che gli inglesi lasceranno il paese in risposta a una semplice mozione del Congresso», chiede l’autorizzazione ad armarsi a Madras per prepararsi ad affrontare con la forza un attacco giapponese a sud. Gandhi giudica quest’idea «del tutto irrealistica» e gli dice che farebbe meglio a mettere tutto il suo zelo e tutta la sua abilità nella campagna «Quit India!». Rajagopalachari si dimette dal Congresso e dal suo incarico di primo ministro del Tamil Nadu.

Gandhi invita allora a cominciare, senza violenza, a disorganizzare gli inglesi. Autorizza il sabotaggio dei convogli militari. I militanti fanno saltare i binari, incendiano uffici postali nei villaggi e attaccano migliaia di manifesti per far credere a un’azione di massa.

Il 5 maggio, Netaji è a Roma per incontrare Mussolini; lì ritrova un amico indiano rifugiato da molto tempo presso il Duce, Iqbal Shadai: anche lui ha costituito un’unità indiana con diverse centinaia di prigionieri indiani. Al suo ritorno a Berlino, il 7, Netaji ne riparla con i tedeschi13. Goebbels osserva nel suo diario alla data dell’11 maggio: «Noi non amiamo molto quest’idea, perché non pensiamo sia giunto il tempo per una simile dimostrazione politica. Tuttavia sembrerebbe che i giapponesi siano assai impazienti di vedere una tale manifestazione. Comunque, i governi in esilio non devono vivere troppo a lungo nel vuoto. Se non hanno qualche realtà sulla quale appoggiarsi, essi restano teorici»81.

Mentre la mobilitazione indiana aumenta e quasi 2 milioni di indiani sono già stanziati nei diversi fronti, il 24 maggio Gandhi ripete ancora che solo la nonviolenza permetterà di avere la meglio sulle potenze dell’Asse:

Se l’India praticherà unanimemente la nonviolenza, io dimostrerò che, senza versare una sola goccia di sangue, l’esercito giapponese [...] o qualunque altra coalizione di eserciti [...] possono essere neutralizzati. Ciò implica che l’India sia decisa a non cedere di un passo e a correre il rischio di perdere molti milioni di vite. Ma il premio sarà a mio avviso ben più alto, e la vittoria conquistata, gloriosa.169

Poi, bruscamente, quasi dall’oggi al domani, tra il 24 e il 28 maggio, davanti all’imminenza dell’invasione nipponica, cambia idea.

Non voglio che il Giappone vinca la guerra

Il 28 maggio, a Sevagram davanti a un centinaio di membri di un’associazione nazionale della gioventù, Gandhi spiega di aver cambiato idea: «Avevo sempre pensato di aspettare che il paese fosse pronto per la lotta nonviolenta. Ma il mio pensiero si è evoluto; sento che, se continuo ad aspettare, dovrò attendere fino al giorno del giudizio... e, nel frattempo, rischio davvero di essere sommerso dalle fiamme della violenza che si diffondono ovunque...»169.

In una lettera datata 31 maggio, spiega a Mirabehn, nell’Orissa, come dovrebbero comportarsi le popolazioni più esposte quando sbarcheranno i giapponesi. Già qui si vede quanto è cambiato:

Ricorda che la nostra posizione è la non-cooperazione totale con l’esercito giapponese. Non dobbiamo aiutarli in alcun modo, ne avere rapporti con loro... Se, comunque, le persone non hanno il coraggio di resistere loro fino alla morte, e né il coraggio né la forza di evacuare la zona invasa, che facciano del loro meglio. Una cosa che non devono mai fare: cedere alla sottomissione volontaria ai giapponesi. Ciò sarebbe un atto di debolezza inconcepibile da parte di un popolo amante della libertà. Essi non devono fuggire da un pericolo per cadere in un altro ancora peggiore.169

Nel frattempo, i tedeschi avanzano nell’URSS. Volendo chiudere inglesi e russi in una morsa, chiedono a Netaji di partire per il Giappone, punto di partenza dell’asse d’attacco più diretto sull’India. Questi non aspettava altro, ma che fare dei suoi uomini? Difficile trasportarli in Giappone attraversando un mondo in guerra. Degli ufficiali tedeschi propongono di mandarli a fare i sobillatori con gli elementi indiani dell’esercito inglese stanziato a El-Alamein13. Ma Rommel non vuole.

Intanto, Ambedkar diventa ministro del Lavoro del viceré e si oppone al «Quit India!». Come Jinnah, rifiuta di manifestare col Congresso e preferisce rivestire incarichi governativi per riconquistare la fiducia degli elettori musulmani, in previsione delle elezioni che si terranno senza dubbio, qualunque cosa accada, dopo la guerra.

Il 31 maggio, Rangoon, capitale della Birmania, cade in mano ai giapponesi. Gandhi scrive: «Il primo atto di un’India libera sarà di firmare un trattato con le Nazioni Unite per delle operazioni difensive contro le potenze aggressive. L’India non avrà niente a che fare con le potenze fasciste e sarà moralmente tenuta ad aiutare le Nazioni Unite»169.

Una settimana dopo, quel “sostegno morale” agli Alleati diventa esplicitamente un sostegno materiale e il 5 giugno, mentre si svolge la battaglia di Midway in cui la Marina americana sconfigge la flotta giapponese, Gandhi dichiara al giornalista americano Louis Fischer, a lui molto legato, che pur esigendo che gli inglesi lascino agli indiani il governo dell’India, accetta che «inglesi e americani lascino i loro eserciti in India e utilizzino il territorio indiano come base per le loro operazioni militari. Penso anche che il futuro sarà migliore se vincono le democrazie»47.

Il 7 giugno, scrive sullo «Harijan» che gli inglesi possono vincere, perché il loro esercito, «grazie all’aiuto americano, dispone di mezzi materiali e scientifici inesauribili». Il 14 scrive a Chiang Kai-shek, tornato in Cina, per confermargli: «Noi vogliamo impedire l’aggressione giapponese con tutti i mezzi»169. Il 28, in un’intervista a «Hindu Times», ribadisce che una «ritirata improvvisa delle truppe alleate potrebbe determinare l’occupazione dell’India da parte del Giappone e la caduta della Cina»169.

Il 1° luglio, scrive a Roosevelt e affida la sua lettera a Fischer che riparte per l’America. Gandhi cita Thoreau, Emerson, e aggiunge: «La dichiarazione degli Alleati, secondo la quale essi si battono per la sicurezza del mondo, la libertà degli individui e la democrazia, suonerà vuota finché l’India e così anche l’Africa saranno sfruttate dalla Gran Bretagna, e finché l’America non avrà risolto in patria il problema delle minoranze nere»47.

Il 10 luglio, il consiglio direttivo del Congresso si riunisce di nuovo, per nove giorni di fila, a Sevagram per pronunciarsi su questa strategia di disobbedienza civile di massa. Gandhi ribadisce che vuole che gli inglesi se ne vadano, ma che è favorevole a che l’India libera accolga truppe alleate per «impedire l’occupazione giapponese». Però ripete: «Il regime britannico in India deve aver fine immediatamente». Se non otterrà risposta a questo appello, propone, il consiglio direttivo del Congresso deve lanciare un movimento di disobbedienza civile «che sarà inevitabilmente diretto dal Mahatma Gandhi». Qualcuno obietta che questo non ha senso, che si può trovare una soluzione, che circa 30.000 militanti sono appena stati liberati dal carcere, che all’India conviene difendersi con gli inglesi piuttosto che senza di loro, che non ci si può augurare la vittoria britannica e al tempo stesso sabotare il loro sforzo bellico. Il comitato non riesce a mettersi d’accordo e rinvia la decisione a un’altra riunione prevista per il 7 agosto a Bombay.

Secondo Desai, «A muovere Gandhi, in questo momento, è la passione [...]. Questa passione è la sublimazione di tutte quelle proprie della carne [...], la sessualità, la collera, l’ambizione personale [...]. Gandhi ha il completo controllo di se stesso e questo genera in lui un’energia e uno slancio formidabili»36.

Il 3, Gandhi usa ancora l’espressione Quit India! in una Lettera aperta agli amici americani pubblicata sullo «Harijan»: «Vi invito a leggere la mia proposta di ritirata o, come è stata comunemente soprannominata, “Quit India!”». Dunque precisa che il movimento di disobbedienza civile, se deve essere lanciato, non si fermerà neanche se fossero commessi degli atti di violenza individuali. Esorta tutti gli indiani, a cominciare dai membri del Congresso, a diffondere questo semplice slogan in hindi: «Karo ya maro» (‘Agire o morire’).

L’8 agosto, a Bombay, il consiglio direttivo, durante una riunione interminabile, approva il «Quit India!» e si lancia in una riflessione utopica sul dopoguerra:

La pace futura esige una federazione di nazioni libere [...] che garantisca la libertà degli Stati membri, la prevenzione dell’aggressione e dello sfruttamento di una nazione da parte di un’altra, la protezione delle minoranze nazionali, il progresso delle regioni povere e la messa in comune delle risorse del mondo. [...] Tutte le nazioni si disarmeranno [...]. Una difesa federale mondiale manterrà la pace e impedirà qualsiasi aggressione. Un’India indipendente si unirà con piacere a una tale federazione mondiale...170

Quella sera, Patel parla davanti a 100.000 persone riunite dal Congresso al Gowalia Tank di Bombay, ed elenca queste parole d’ordine: rifiuto di pagare le tasse e interruzione del lavoro nei servizi pubblici per mettere in ginocchio l’Impero con la disobbedienza passiva. Subito dopo, passata la mezzanotte, anche Gandhi si rivolge alla folla:

La vera lotta non comincia in questo preciso istante. Voi avete solamente posto certi poteri nelle mie mani. Il mio primo compito consisterà nel presentarmi da Sua Eccellenza il viceré per pregarlo di accettare la rivendicazione del Congresso. Ciò potrà richiedere due o tre settimane. Che potrete fare voi nel frattempo? C’è l’arcolaio, come vi mostrerò... Ma c’è qualcosa di più che dovreste fare... Ognuno di voi, a partire da adesso, deve considerarsi un uomo libero, un uomo o una donna liberi, e comportarsi come tali. Voi non siete più sotto il tallone dell’imperialismo...109

1920, 1930, 1942: è la terza volta che Gandhi fa la stessa promessa agli indiani.

Il palazzo-prigione

Andando a dormire alle ore piccole, il 9 agosto 1942, Gandhi dice a Pyarelal: «Dopo il mio discorso di stanotte, non potranno arrestarmi»114.

In realtà, gli inglesi non possono accettare un simile discorso e, stando agli appunti del segretario del Gabinetto di guerra, Norman Brook, Churchill medita di deportarlo ad Aden. Poi decide di farlo arrestare e lasciarlo morire in prigione. Così quella mattina del 9 agosto, in trasferta al Cairo, il primo ministro incarica il suo vice Clement Attlee di spiccare un ordine di arresto per Gandhi, Nehru, Azad, Desai, Naidu e molti altri, tra cui Mirabehn e Kasturba, e di farli condurre al palazzo dell’Agha Khan, a Pune, sontuoso edificio fatto costruire da un principe nel 1892 e requisito come prigione, dove le condizioni di internamento saranno, si precisa, “dure”.

Il paese protesta violentemente contro questi arresti. Nel Bihar, nelle Province Unite, nel Bengala e a Bombay si svolgono 1060 manifestazioni; 208 stazioni di polizia, 332 stazioni ferroviarie e 945 uffici postali sono incendiati. Si contano un migliaio di attentati dinamitardi. L’esercito britannico disperde i manifestanti a colpi di mitra. L’insurrezione è così potente che la capitale della provincia dell’Orissa è bombardata dalla RAF. Sono arrestate circa 100.000 persone. La propaganda inglese imputa questa esplosione di violenza a un complotto ordito dai dirigenti del Congresso. Churchill dichiara alla Camera dei Comuni che «il Partito del Congresso ha abbandonato la politica di nonviolenza che il signor Gandhi aveva inculcato in teoria, ed è ormai entrato in una fase rivoluzionaria». Questa volta, il primo ministro è risoluto a lasciar morire Gandhi dietro le sbarre.

Dalla prigione, questi invia una lettera al viceré che non dà nemmeno segno di averla ricevuta.

La propaganda inglese, che lo presenta come un sabotatore e un agente tedesco, da questo momento vieta la riproduzione di sue immagini e addirittura la menzione del suo nome sulla stampa. A Londra, il generale Smuts, ricordandosi dell’uomo che ha combattuto in Sudafrica usando le stesse armi trent’anni prima, protesta: «È una pura assurdità dire che il Mahatma appartiene alla quinta colonna. È un grand’uomo, uno dei più grandi uomini dell’umanità!»114.

Il 10 agosto, nel cortile della prigione, Mirabehn confida a Gandhi che, quando sarà libera, partirà per Haridwar, città sacra ai piedi dell’Himalaya, nell’Uttar Pradesh, per creare lì un suo asram personale. Il 16, Sarojini Naidu, soprannominata “ammajan” (‘madre’) dalle altre detenute, prende in giro Mahadev Desai che si taglia i baffi: «Aspetti qualche visita?». La mattina del 16 Gandhi scrive di nuovo al viceré per lamentarsi del «massacro della verità» perpetrato contro di lui dalla propaganda inglese. È furioso del fatto che il viceré, che lui trattava come un amico, abbia osato mettere in dubbio che fosse ancora un sostenitore della nonviolenza.

Un po’ più tardi, quello stesso giorno, il modesto e sempre sorridente Mahadev Desai, il giovane avvocato suo inseparabile segretario da venticinque anni, muore in seguito a una crisi cardiaca. Quello che Gandhi definisce «mio figlio, il mio segretario e mio amico in una sola persona» viene cremato sul posto. Ancora una volta, Gandhi ama come un figlio qualcuno che non è figlio suo...

Netaji in Giappone

Nel palazzo dell’Agha Khan, Gandhi cerca di colmare alcune lacune nell’istruzione di Kasturba. La moglie ora sa leggere e ama le spiegazioni che le dispensa il marito sui fiumi, l’equatore, la longitudine e la latitudine. Lui si serve di un’arancia per spiegarle la rotondità della Terra. A settantaquattro anni, la donna cammina su e giù per la stanza imparando i rudimenti della geografia: «Lahore è la capitale di Calcutta»54, dice. Sarojini si intenerisce nel vedere «la luna di miele della vecchia coppia»54. Kasturba sgrida Mohandas: «Non ti avevo detto di non attaccare briga col governo?»; oppure: «Perché chiedi agli inglesi di lasciare questo paese? Il nostro paese è grande, possiamo starci tutti, loro e noi»109. Si innervosisce quando Gandhi le chiede se vuole che lui presenti delle scuse. È convinta che non rivedrà mai più il mondo esterno, né i suoi figli o i nipoti: «Adesso non resta altro da fare che sopportare le conseguenze delle tue azioni. Noi soffriremo con te. Mahadev è partito; la prossima a partire sarò io»54.

L’8 ottobre, la figlia di Jawaharlal Nehru, Indira, sposa Feroze Gandhi, un avvocato parsi (senza alcun legame di parentela con il Mahatma) conosciuto quando studiava in Europa.

A Berlino, Netaji si appresta a partire per il Giappone19; raduna i 3500 legionari del suo Esercito Nazionale Indiano in una grande sala della capitale del Reich per una cerimonia di fedeltà al Fuhrer: i soldati toccano la spada dei loro ufficiali pronunciando in tedesco: «Io faccio il sacro giuramento, davanti a Dio, di obbedire al capo dello Stato e del popolo tedesco, Adolf Hitler, comandante delle forze armate tedesche, nella lotta per la libertà dell’India il cui capo è Subhas Chandra Bose, e che da prode soldato darò la mia vita per tener fede a questo giuramento»13. Poi Bose presenta alla Legione una bandiera tricolore (verde, bianca e giallo zafferano a strisce orizzontali, come l’orifiamma del Congresso Nazionale Indiano, ma con una tigre che spicca un balzo invece dell’arcolaio). «I nostri nomi», afferma Netaji, «saranno scritti in lettere d’oro nella storia dell’India libera; ogni martire di questa guerra santa avrà qui il suo monumento [...]. Io condurrò l’esercito, e marceremo insieme verso l’India»13. Bose parla di lanciare dei commando di paracadutisti come avanguardia in Uzbekistan e Afghanistan, e si rivolge via radio ai soldati indiani che prestano servizio nell’esercito britannico, avvertendoli che, se non si uniranno al suo, dovranno rispondere del loro «appoggio criminale agli inglesi davanti al governo dell’India libera»13.

Le altre truppe indiane, alleate a italiani e giapponesi, si disgregano: il 9 novembre, a Roma, mentre gli americani sbarcano in Nordafrica, questi elementi presenti nell’esercito italiano sono spediti in Libia, contrariamente alle promesse fatte dal loro comando. Alcuni di loro rifiutano di partire e si ammutinano: vengono fucilati. Il loro capo, Shadai, rifiuta di intervenire in loro favore; il suo Centro Militare Indiano è smantellato. In Estremo Oriente, anche il capitano Mohan Singh si ribella ai giapponesi, viene arrestato e il suo Esercito Indiano sciolto13.

Il 10 novembre, Winston Churchill ribadisce la sua convinzione: «Io non sono diventato primo ministro di Sua Maestà per assistere alla liquidazione dell’Impero britannico»25. L’11 le truppe tedesche occupano la Francia di Vichy. Il 22, l’Africa occidentale francese si allea alla Francia Libera, e la Wehrmacht è bloccata a Stalingrado.

Il 26 gennaio 1943, a Berlino, proprio nel momento del ricongiungimento in Tripolitania tra il generale Leclerc e il generale Montgomery, viene celebrato con un grande ricevimento il “giorno dell’indipendenza dell’India”57. Quarantott’ore più tardi, Netaji si rivolge ancora ai soldati della sua Legione Indiana, divenuta il 950° reggimento della Wehrmacht, senza confessare loro che, meno di una settimana dopo, li abbandonerà in Germania e partirà per il Giappone. Il 2 febbraio la capitolazione delle truppe tedesche accerchiate a Stalingrado segna la fine della speranza di Netaji di tornare in India da est. Dovrà ricostruire tutto da Tokyo.

Traditore della patria

L’8 febbraio 1943, giorno in cui gli americani prendono il controllo di Guadalcanal, costringendo per la prima volta i giapponesi a recedere da un territorio conquistato, Netaji raggiunge Kiel, dove lo attende un sottomarino tedesco per un lungo e rischioso viaggio verso il Giappone. Subito dopo la sua partenza, Hitler va a ispezionare i soldati dell’INA (Indian National Army), un po’ persi senza il loro capo:

Voi avete la fortuna di essere nati in un paese dalle gloriose tradizioni culturali e di una potenza umana colossale. Sono impressionato dall’ardente passione con cui voi e il vostro capo cercate di liberare il vostro paese dalla dominazione straniera. La statura del vostro capo è ancora maggiore della mia. Mentre io sono il capo di ottanta milioni di tedeschi, lui è capo di quattrocento milioni di indiani. Sotto tutti i punti di vista, lui è un leader più grande e un generale più grande di me. Io lo saluto, e la Germania lo saluta. È dovere di tutti gli indiani accettarlo come loro guida e obbedirgli senza esitare. Non dubito che, se voi lo fate, la sua azione condurrà ben presto l’India alla libertà13.

Il 9 febbraio, il viceré, Lord Linlithgow, conclude un mandato particolarmente repressivo e gli subentra Archibald Wavell, che dichiara: «L’India non è mai stata così calma dal punto di vista politico. Gandhi, quel traditore del paese, non è più in condizioni di nuocere».

Traditore del paese? Per l’interessato è un’accusa intollerabile. Nella sua prigione di Pune, il 10 febbraio, intraprende un digiuno di ventuno giorni per protestare contro questa accusa del nuovo viceré. Churchill è contentissimo: non aspetta altro che la morte di Gandhi. «Io lo tengo in prigione: faccia quello che vuole». Il digiuno si svolge senza che il viceré si scusi o almeno si faccia sentire.

Due dei figli di Gandhi, Devdas e Ramdas, vanno a chiedergli di smettere. A partire dal decimo giorno, il suo stato diventa critico. Kasturba si preoccupa. Le prognosi dei medici si aggravano. Il viceré denuncia questo sciopero della fame come un ricatto politico e rifiuta di porgere le sue scuse. Due volte durante il digiuno Churchill fa domandare: «Quel tipo è morto, una buona volta?». La stampa indiana non parla d’altro. I leader dei vari partiti invocano la liberazione del prigioniero. Tre membri del consiglio esecutivo del viceré si dimettono.

Il 3 marzo, alla fine del digiuno che ha rispettato fino all’ultimo secondo, Gandhi è molto debole, ma Kasturba ancora di più: ha problemi al cuore, ai polmoni e ai reni. Gandhi spera che il Raj proporrà di rimetterla in libertà, ma non ne fa richiesta e rimane scioccato del fatto che il segretario generale del ministero indiano degli Affari Esteri, agli ordini del viceré, Sir Girija Shankar Bajpai (che conserverà le sue funzioni nell’India indipendente) racconti alla radio che a più riprese «il governo britannico ha proposto la liberazione di Kasturba per motivi di salute, ma lei desiderava restare accanto al marito e il suo desiderio è stato rispettato»54. Alla metà di aprile, Gandhi replica: «È vero che né io né lei abbiamo chiesto niente (non sarebbe stato corretto da parte di prigionieri satyagrahi); ma non sarebbe stato naturale che il governo proponesse a lei, o a me o ai suoi figli, la liberazione? La semplice proposta di una liberazione avrebbe avuto su di lei un effetto psicologico benefico»54.

Il 5 aprile, Churchill inveisce: «Ma non è ancora morto?».

Il “governo provvisorio dell’India libera”

Nel maggio del 1943, la Legione Indiana dell’esercito tedesco, che ha perso il suo leader, è mandata in Olanda; i comandanti delle due compagnie del secondo battaglione, che rifiutano di partire per il fronte europeo, sono fucilati a metà giugno13. Nel frattempo, il 16, Netaji, dopo un lungo, troppo lungo viaggio (che peserà, lo vedremo, sulle sorti della guerra), è accolto a Tokyo dal primo ministro, il generale Hideki Tojo. In seguito assiste a una seduta della Dieta nel corso della quale Tojo dichiara:

Siamo indignati per la spietata repressione perpetrata dalla Gran Bretagna ai danni dell’India e condividiamo pienamente la sua lotta disperata per l’indipendenza. Siamo determinati a fornire tutta l’assistenza possibile alla causa dell’indipendenza dell’India. Noi crediamo che non sia lontano il giorno in cui l’India godrà della libertà e della prosperità, dopo aver conquistato l’indipendenza.

All’uscita di questa assemblea, Netaji dichiara alla stampa giapponese: «La disobbedienza civile deve trasformarsi in lotta armata. Solo quando il popolo indiano avrà ricevuto il battesimo del fuoco su larga scala, meriterà di ottenere la sua libertà»13. Il 4 luglio, Netaji si stabilisce a Singapore occupata dai giapponesi e dichiara ai rappresentanti delle comunità indiane dell’Asia orientale: «Tutte le organizzazioni, sia in India che all’estero, devono ormai trasformarsi in organizzazioni combattenti disciplinate sotto un comandante unico. L’obiettivo di questa formazione deve essere prendere le armi contro l’imperialismo britannico quando l’ora sarà giunta e verrà dato il segnale»13. Il vecchio indiano Rasbehari Bose, divenuto cittadino giapponese, trasferisce a Netaji la direzione dell’Esercito Nazionale Indiano, ribattezzato Azad Hind Fauz (Esercito dell’India Libera). Netaji mira a farne un esercito di 3 milioni di uomini, ma tanto per cominciare, con un po’ più di realismo, di almeno 50.000. Un giorno della fine di luglio, Tojo passa in rassegna queste prime truppe insieme a Netaji, che dice ai suoi soldati: «Quanti di noi sopravvivranno individualmente a questa guerra di liberazione, io non lo so. Ma so che alla fine vinceremo e la nostra missione non sarà compiuta finché i nostri eroi superstiti non sfileranno vittoriosi davanti al Forte Rosso dell’antica Delhi». Netaji termina il suo discorso con: «Delhi calo!» (‘Verso Delhi!’) e «Jay Hind!» (‘Gloria all’India!’)13.

Intanto gli americani sbarcano in Sicilia (luglio), delle unità francesi liberano la Corsica (13-17 settembre) e i giapponesi si avvicinano all’India. Il 17 ottobre 1943 viene completata, a opera di prigionieri di guerra alleati e di operai tailandesi, la costruzione di un ponte su fiume Kwae Yai (o Kwai), di alta importanza strategica per i giapponesi. Il movimento di resistenza tailandese informa gli inglesi della situazione precisa di questo ponte, che poi viene bombardato varie volte, causando la morte di migliaia di prigionieri di guerra inglesi e indiani e decine di migliaia di operai tailandesi.

Il 21 ottobre, da Singapore, Netaji annuncia infine la creazione di un governo provvisorio dell’Azad Hind (India Libera). Lui si proclama «capo di Stato, primo ministro, ministro della Guerra e comandante supremo dell’esercito nazionale indiano»! Il Giappone, la Germania, l’Italia, la Birmania, la Croazia, le Filippine, la Cina di Nanchino, Manchukuo e il Siam riconoscono il suo governo13 – ma non la Francia di Vichy. Il giorno seguente Netaji dichiara guerra alla Gran Bretagna e agli Stati Uniti. Il Giappone pone le isole indiane Andamane e Nicobare (nel Golfo del Bengala) che ha appena occupato, sotto la giurisdizione di questo governo provvisorio dell’India Libera. Netaji le ribattezza Shahid (sahid, ‘martire’) e Swaraj (‘indipendenza’)13.

Il nuovo viceré, il maresciallo Wavell, che è stato comandante in capo delle truppe in India prima di perdere Singapore e Giava, decreta la legge marziale.

«Una coppia fuori del comune»

Il 29 dicembre, Kasturba è vittima di tre attacchi cardiaci. Viene curata da due medici, i dottori Gilder e B.C. Roy, e da Sushila Nayar. Gandhi scrive ad Agatha Harrison, un’inglese che lo sostiene da anni, che sua moglie «è in bilico tra la vita e la morte»169. Rifiuta di sollecitare la sua liberazione, ma richiede medici e infermieri che l’amministrazione britannica nega oppure concede in ritardo. Vanno a trovarli il nipote Kanu (figlio di Maganlal) e Prabhavati Jayaprakash, una cara amica di Kasturba a Sabarmati e Sevagram. Anche Harilal va a trovare la madre insieme a Ramdas, che adesso lavora per il gruppo Tata a Nagpur, e Devdas, giornalista a Delhi; tre dei suoi quattro figli dunque sono al suo capezzale (Manilal è ancora in Sudafrica). Sushila racconta: «Bapu venne lì a contemplare i tre fratelli che mangiavano insieme»119 per la prima volta dopo decine di anni. Devdas porta un nuovo rimedio che è riuscito a procurarsi, la penicillina, ma Gandhi proibisce di utilizzarlo54; quel farmaco non è stato testato, dice, e Kasturba non sopporta le iniezioni; le sue sofferenze non devono essere aumentate... Il figlio cede.

Harilal fa un’altra apparizione, questa volta completamente ubriaco. Secondo una leggenda (non verificata) sarebbe andato lì a portare una mela che aveva elemosinato per strada e avrebbe rifiutato di farla assaggiare al padre...

All’inizio di gennaio del 1944, mentre avviene il secondo sbarco alleato in Italia, ad Anzio, l’impeto delle truppe giapponesi si stringe attorno all’India. Netaji, che avanza insieme a loro, trasferisce la sede del suo “governo provvisorio” da Singapore a Rangoon13. Il 7 gennaio, propone di attaccare Imphal, capitale del piccolo Stato indiano di frontiera di Manipur, il “gioiello dell’India”, e ottiene la messa a disposizione di tre divisioni giapponesi dislocate in Birmania e anche di una divisione dell’INA13. Considera questa battaglia l’offensiva finale della guerra in Asia orientale.

A metà gennaio, le condizioni di Kasturba si aggravano. È costretta a rimanere seduta nel suo letto, perché non riesce a smettere di tossire. Gandhi le resta accanto giorno e notte, aiutandola e calmandola. Dopo che ha richiesto più volte la loro venuta, uno specialista ayurvedico, Pandit Shiv Sharma, e un dietologo, Dinshaw Mehta, sono autorizzati a visitarla54. Il 22 febbraio, in una notte di luna piena, Kasturba muore tra le braccia del marito. Le donne lavano il suo corpo avvolto in un sari di cotone che Gandhi ha tessuto. Poi le legano attorno ai polsi un bracciale di cotone che lui ha appena filato. Poi lui la pettina e le mette il tika sulla fronte, infine resta seduto accanto a lei per ore.

All’alba, in fondo al giardino, Devdas accende la pira funebre. Gandhi non si spreca in complimenti sulla moglie. «Se dovessi scegliere una compagna per le mie vite future, sceglierei solo Ba. [...] Noi formavamo davvero una coppia fuori dal comune», scrive in risposta alle condoglianze del viceré, Wavell. Alla lettera di un ammiratore americano, John Haynes Homes, risponde: «Ricordo solo le sue grandi qualità. I suoi difetti sono stati ridotti in cenere con il suo corpo»54.

Gandhi crea una fondazione a suo nome per aiutare «le donne e i bambini delle campagne e concentrare la sua azione sulla maternità, l’igiene, la cura delle infezioni e l’istruzione di base». Savarkar, che esorta gli hindu a non contribuire a questa fondazione, all’epoca è in stretti rapporti con Nathuram Godse, che assassinerà Gandhi.

Churchill continua a domandare perché Gandhi non sia ancora morto; adesso spera che il dolore avrà la meglio su di lui. Invece succede tutto il contrario: la scomparsa di Kasturba libera in Mohandas delle forze vitali senza precedenti...

Ritorno a Imphal

Il 22 marzo dodici membri della Legione di Bose sono promossi ufficiali e Nambiar, che dopo la sua partenza ha assunto il comando, cerca un’occasione per affrontare gli inglesi. Una delle loro compagnie è inviata dai tedeschi nel Nord Italia contro gli americani13. Netaji decreta che questa Legione fa parte dell’INA e nomina Nambiar ministro del suo governo provvisorio...

Nel frattempo, più di 120.000 soldati giapponesi, dotati di armi moderne, e 5.000 uomini di Netaji, equipaggiati quasi tutti con archi e frecce, sono dispiegati lungo il fiume Chindwin, in Birmania, per circa 200 chilometri13. Si tratta, dichiara Netaji, dell’«evento del secolo». Chiama uno dei battaglioni “Patel”; un altro, “Nehru”. Questi varcano la frontiera indo-birmana, riescono a non essere localizzati dalle spie inglesi e si dividono in due colonne, che si dirigono una a nord e l’altra a ovest, per circondare la città di Imphal, in India, a poche decine di chilometri dal confine. Ma il segreto della loro presenza finisce comunque per essere svelato e il generale Mataguchi dichiara alla stampa giapponese: «Sono fermamente convinto che le mie tre divisioni conquisteranno Imphal in un mese. Per marciare più rapidamente, esse portano l’equipaggiamento più leggero possibile e viveri per tre settimane. Troveranno tutto il necessario nelle riserve e nei depositi inglesi. Signori! Andate a Imphal il 29 aprile, per la celebrazione del compleanno dell’imperatore!»13. Il 6 aprile, le truppe nipponiche si impadroniscono di Kohima dopo una feroce resistenza inglese. Tojo accetta di affidare questi territori a Netaji, che nomina suo ministro del Tesoro, e il generale maggiore A.C. Chatterjee governatore della zona. Ecco che una minuscola parte dell’India è già sotto il controllo di Bose e dei suoi alleati giapponesi.

Ma, in un’Imphal affamata, le forze indiane e inglesi resistono molto meglio del previsto e la battaglia vede da una parte e dall’altra eccezionali atti di eroismo. Il 20 aprile, l’aviazione britannica ritorna e bombarda le colonne giapponesi; Imphal è rifornita via aria, e poi con dei treni. Le forze inglesi riprendono Kohima in seguito a una sanguinosissima battaglia, senza che il Giappone possa dispiegare forze adeguate. Le unità dell’aviazione inglese prendono i giapponesi alle spalle e distruggono le loro vie di ritirata verso la Birmania. Il giorno del compleanno dell’imperatore, che i giapponesi contavano di festeggiare a Imphal, quasi la meta dei soldati nipponici e di quelli dell’INA sono morti. Senza contare il monsone che arriva. Tornato d’urgenza a Rangoon, Netaji cerca denaro e truppe per proseguire la sua campagna.

All’inizio di maggio, sempre in prigione nel suo lugubre palazzo, Gandhi non è informato di questi avvenimenti. È in pessime condizioni: i medici inglesi gli diagnosticano dissenteria e malaria. Il digiuno l’ha spossato più dei precedenti. I dottori ritengono che non gli resti molto da vivere. Churchill, che scalpita aspettando la morte del Mahatma da ormai due anni, pensa che sia meglio che muoia fuori dalla prigione e ne ordina la liberazione.

«Ma quel tizio è morto o no?»

Gandhi viene liberato la mattina del 6 maggio 1944, tuttavia rifiuta di lasciare il luogo dove è morta sua moglie; lo mandano via a forza.

La sera, prima di lasciare il palazzo dell’Agha Khan, scrive al ministro degli Interni del governo di Bombay:

Signore, l’ispettore generale delle prigioni mi ha avvertito che il nostro gruppo di prigionieri, detenuto in questo campo, sarà rilasciato domani alle otto. Io vorrei portare alla sua attenzione che in seguito alla cremazione delle spoglie di Shri Mahadev Desai e di mia moglie in un luogo circondato da una palizzata, questo luogo è divenuto terra consacrata. Mi rimetto al governo perché abbia cura di concedere un diritto di passaggio attraverso il terreno di Sua Altezza l’Agha Khan affinché parenti e amici che lo desiderino possano visitare il luogo della cremazione quando vorranno. Con il permesso del governo, vorrei incaricarmi del mantenimento di questo appezzamento consacrato e delle preghiere quotidiane che vi si terranno.54

Questo gli sarà concesso.

Viene portato dai Morarji, a Juhu, stazione balneare nei dintorni di Bombay, sotto un tetto dove ha già soggiornato due volte. Aveva vissuto in quel quartiere nel 1893, quando cercava di diventare avvocato a Bombay... I medici emettono di nuovo una diagnosi infausta: malaria, vermi intestinali, infezioni amebiche, anemia acuta. La sua avversione per i farmaci non fa di lui un paziente facile. I servizi segreti inglesi lo danno sempre per moribondo.

Dopo lo sbarco delle forze alleate in Normandia, il 6 giugno, il Grande Stato Maggiore tedesco rispedisce in Germania ciò che resta della Legione Indiana, dopo dieci mesi di stanziamento a Lacanau, presso il bacino di Arcachon. Presa di mira dalla resistenza francese, viene in gran parte massacrata lungo il viaggio di ritorno.

Il 17 giugno, Gandhi torna a Pune nella clinica di un naturopata, il dottor Dinshaw Mehta, divenuto suo amico. Mirabehn, liberata a sua volta, intende andare a fondare il suo asram ai piedi dell’Himalaya. Chiede a Gandhi di restituirle i fondi che lei ha versato a Sabarmati. Gli annuncia inoltre la sua decisione di sposare un uomo che conosce fin dagli anni Trenta, Prithwim Singh: lui è un comunista, non un nonviolento. Gandhi fa in modo di restituirle il denaro, mettendola però in guardia, in una lettera dell’11 luglio, contro il loro utilizzo da parte del Partito Comunista. La chiama «Miss Slade» e si firma «M.K. Gandhi». Aggiunge inoltre che potrebbe dover prendere pubblicamente le distanze da lei. Mira, che continua a firmarsi «Vostra figlia sempre devota», gli risponde:

Con una mano mi avete dato la libertà, e poi con l’altra ve la siete ripresa. Ridarmi i miei soldi e la libertà, e allo stesso tempo dire che, non appena comincerò a farne uso, voi mi disapproverete pubblicamente, significa sabotare tutto ciò che cercherò di intraprendere [...]. È la mia fede in Dio a guidarmi. I miei ideali non sono cambiati nel giro di pochi giorni. Io sono sempre quella che ero quando scherzavamo allegramente insieme.54

Quando Singh alla fine cambia idea e rifiuta di sposare Mira, Gandhi, su insistenza di Devdas, ricomincia a chiamarla Mira, a firmarsi «Bapu» e dà la sua benedizione al progetto dell’asram. La prega di perdonarlo: «Imparo continuamente. Non devo far soffrire quelli che amo quando posso evitarlo... So che tu mi hai già perdonato, ma è bello chiedere perdono»54.

Con sorpresa generale, recupera tutte le energie e chiede a Lord Wavell di ricevere il consiglio direttivo del Congresso. Il viceré, uomo scaltro, che vuole prima di tutto preservare l’integrità dell’India, respinge la richiesta, non vedendo l’utilità di un incontro destinato a «esaminare i loro punti di vista radicalmente divergenti». Il 6 luglio, due mesi dopo la liberazione di Gandhi, Churchill, sebbene occupatissimo dall’avanzata delle forze alleate verso Parigi, domanda ancora: «Perché quel tizio non è morto?».

Faccia a faccia con l’assassino

L’8 luglio, l’operazione su Imphal è una completa disfatta e Tojo ordina la ritirata. Netaji si rifiuta di prenderla in considerazione: «Noi continueremo! Non rinunceremo! Le perdite massicce, l’interruzione dei rifornimenti e la fame non sono motivi validi per fermare la nostra marcia. Anche se il nostro esercito restasse composto solo da spettri, non cesseremo di avanzare verso la patria. Questo è lo spirito del nostro esercito rivoluzionario»13.

Il suo discorso non regge davanti ai fatti. I resti delle truppe giapponesi e dell’INA intraprendono una terribile ritirata attraverso la giungla e le montagne. Attaccati dagli inglesi, i giapponesi sono massacrati nella valle di Kawab, tra le colline di Chin a ovest e il fiume Chindwin a est. Su 220.000 soldati giapponesi impegnati nella campagna di Imphal, ne torneranno solo 130.000 e anche i soldati indiani sono ridotti alla metà.

Lord Wavell si ricollega dunque alla politica del suo predecessore: non fare niente con il Congresso finché questi non abbandonerà il «Quit India!». Ma i leader del Congresso non hanno intenzione di tornare sulle loro decisioni. Inoltre, secondo gli inglesi, non si può procedere ad alcuna riforma finché la Lega e il Congresso non si metteranno d’accordo. Il più grande partito politico indiano si trova dunque fuorilegge; i governi provinciali sono in mano ai suoi avversari della Lega; l’Assemblea Legislativa non si riunisce più e il consiglio esecutivo si riduce ai membri nominati dal viceré. In un’intervista a Stuart Gelder, del «News Chronicle» (il giornale londinese di sinistra per cui scrivono all’epoca Arthur Koestler e Herbert George Wells, e prima di loro Conan Doyle), Gandhi reclama la formazione di un governo indiano scelto tra i membri eletti dell’Assemblea Legislativa; il viceré risponde che è «totalmente inaccettabile per il governo di Sua Maestà».

Il 17 luglio, Gandhi cerca di riallacciare i contatti con gli inglesi senza però fare marcia indietro; scrive a Churchill per chiedergli di «fare affidamento [su di lui] e servirsi di [lui] per assicurare la salvezza del popolo indiano e del popolo inglese, e, attraverso questi, quella del popolo del mondo intero»170. Il primo ministro nemmeno gli risponde.

Gandhi è sempre più preoccupato per il fossato che si scava mese dopo mese, soprattutto dopo la sua detenzione, tra la Lega, che governa, e il Congresso, privato di ogni responsabilità; scrive al «caro fratello Jinnah» una lettera che rende pubblica: «Non mi considerate un nemico dell’islam o degli indiani musulmani. [...] Sono sempre stato servo vostro e dell’umanità. Non mi deludete»169. Jinnah, che non ha dimenticato l’umiliazione che i membri del Congresso hanno fatto subire ai suoi nelle province che hanno amministrato fino al 1939, tuttavia accetta di fargli visita e annuncia che andrà da lui ai primi di settembre.

Gandhi è anche preoccupato dell’atteggiamento degli ortodossi hindu, che lo accusano di non opporsi con sufficiente forza al progetto di creazione e di secessione del Pakistan, e che adesso gli rimproverano questa lettera a Jinnah, troppo amichevole ai loro occhi, e dell’incontro annunciato con il capo dei secessionisti.

Il 21 luglio, per sfuggire alla calura, Gandhi va a riposarsi sui colli di Panchgani, a 70 chilometri da Pune. Un gruppo di giovani estremisti, membri del partito di Savarkar, guidato da uno dei militanti più attivi, Narayan Apte, va a sventolare sotto il suo naso delle bandiere nere, e ad accusarlo di aver accettato la divisione e di mostrarsi troppo conciliante con i musulmani, «il che non fa altro», dicono, «che renderli più arroganti». Sul «Times of India» del 23 luglio, un articolo in prima pagina, intitolato “Gandhi clamorosamente contestato”, riporta infatti come un «giovane giornalista di Pune», Narayan Apte, ha organizzato una manifestazione di protesta contro Gandhi «che ha dato la sua benedizione al progetto di secessione». L’articolo precisa che quattro poliziotti in borghese (e armati) che scortavano Gandhi hanno arrestato Apte e il suo gruppo. Il reportage è accompagnato da una foto in cui lo si vede di fronte a Gandhi esclamare: «Io ti accuso pubblicamente di aver accettato la secessione!». In realtà non è affatto così, anche se Rajagopalachari, suo caro amico, glielo aveva chiesto nell’aprile del 1942, all’epoca della mancata negoziazione con Cripps...

In poco più di tre anni, lo stesso Apte figurerà tra gli estremisti incaricati di assassinare Gandhi.

La doppia integrità

Nella prima settimana dell’agosto del 1944, mentre in Europa gli Alleati preparano lo sbarco in Provenza e Parigi si appresta a sollevarsi, Gandhi torna a Sevagram. Lì lo attendono circa tremila lettere. Sa che la fine della guerra si avvicina e teme il peggio. Ora la sua preoccupazione maggiore non è più l’indipendenza, ma l’integrità dell’India, sia quella territoriale che quella identitaria, secondo lui contaminata dall’Occidente. La difesa di questa doppia integrità diverrà il fulcro della sua lotta. Si concentra sulla sua utopia, il «programma costruttivo»: tessitura, artigianato locale, istruzione primaria, creazione di una lingua comune a tutti gli indiani.

Mentre in Francia le truppe alleate provenienti da Normandia e Provenza stabiliscono il collegamento a Digione, Jinnah si reca a Sevagram il 9 settembre. Vi resterà diciotto ore. I giornalisti invadono l’asram, spiano i due uomini. Le posizioni sono inconciliabili: Jinnah vuole che Gandhi riconosca la Lega come unico rappresentante dei musulmani del subcontinente e che il principio della creazione del Pakistan sia riconosciuto ancora prima che ne siano definiti i confini geografici109; rifiuta l’idea che i non musulmani possano partecipare al referendum che deciderà il futuro delle province a maggioranza musulmana; inoltre chiede che la secessione abbia luogo prima dell’indipendenza dell’India; respinge inoltre qualsiasi trattato che coordini la politica di difesa, di comunicazioni o diplomazia tra i due Stati. Per Gandhi, al contrario, la prospettiva della creazione di due Stati sulla base di affiliazioni religiose, «che hanno in comune soltanto l’ostilità reciproca, sarebbe un disastro», e questa divisione (se essa dovesse risultare ineluttabile) potrebbe soltanto seguire (non precedere) il trasferimento del potere britannico all’India unita; ma spera che le diverse comunità, dopo il ritiro degli inglesi, si faranno concessioni reciproche109.

Alla fine del loro primo colloquio, i giornalisti chiedono a Gandhi se è riuscito a ottenere qualcosa da Jinnah. Lui risponde con il suo classico sorriso mesto: «Solo fiori». Dopo diciotto ore di trattative, l’intransigenza di Jinnah finisce per pagare: la “formula Rajaji”, espressa due anni prima da Rajagopalachari, ricompare nella discussione e Gandhi, accettando di parlarne, riconosce che la divisione del paese è una possibilità, dal momento che le popolazioni la desiderano. Ottenendo che il Mahatma discuta dei meccanismi dell’esercizio di un diritto all’autodeterminazione, Jinnah riporta un successo considerevole che la stampa amplifica e che rende tanto più furiosi gli ortodossi hindu109.

Il 2 ottobre, in occasione del suo settantacinquesimo compleanno, Gandhi lancia una colletta per l’edificazione di un memoriale in onore di Kasturba; vengono raccolte più di 825.000 sterline. Senza Mahadev e la moglie, senza Mira, trasferitasi nell’Himalaya, senza Sushila, che deve aiutare un cugino a Quetta, Gandhi si sente molto solo nonostante la presenza di Pyarelal che continua a fargli da segretario insieme ad Amrit Kaur, Kanu Gandhi e sua moglie Abha. Comunque presto arriverà una nuova pupilla, sua nipote Manu, la sorella di Kanu.

Disfatta di Netaji

Con la riconquista di Rangoon nel novembre del 1944, una parte delle truppe dell’INA si reca dal tenente colonnello Loganathan, ufficiale del servizio sanitario britannico; gli altri sono già scappati in Malesia con Netaji il quale, il 22 ottobre, ha dichiarato di avere ancora «la ferrea convinzione che la vittoria finale, in questa guerra, apparterrà al Giappone e alla Germania, che una nuova fase della lotta si avvicina, in cui l’iniziativa tornerà in mano ai giapponesi»13. Come a dargli ragione, il 16 dicembre, i tedeschi scatenano una controffensiva nelle Ardenne e i giapponesi contrattaccano nelle Filippine. Ma il rapporto di forze si è rovesciato: il 13, l’operazione condotta da MacArthur nelle Filippine permette agli americani di introdursi nel perimetro di sicurezza giapponese. Il 27, le truppe americane accerchiate a Bastogne rifiutano di arrendersi e intraprendono la loro controffensiva.

Il 4 febbraio 1945, mentre si apre la conferenza di Jalta tra Churchill, Roosevelt e Stalin, gli uomini di Netaji resistono ancora nella regione di Mandalay, in Birmania. In Indocina, il 9 marzo, i giapponesi attaccano violentemente le guarnigioni francesi, uccidono 2650 soldati, tra cui il generale Lemonnier, e fanno 3.000 prigionieri. Per salvare il suo trono, l’imperatore di Annam, Bao Dai, nominato dai francesi, si allea al progetto giapponese della Grande Asia e denuncia il trattato di protettorato con la Francia (11 marzo).

Il 12 aprile, Roosevelt muore e gli succede il vicepresidente Harry Truman. Il 13, l’Armata Rossa conquista Vienna. Il 17, mentre inizia l’offensiva sovietica contro Berlino, Gandhi reagisce così all’annuncio della prossima conferenza di San Francisco che deve creare l’Organizzazione delle Nazioni Unite sulla base della Carta Atlantica:

Gli Alleati non saranno in pace finché crederanno nell’efficacia della guerra [...]. Un preludio alla pace è l’indipendenza totale dell’India, grande paese, antico e colto, che si batte dal 1920 avendo deliberatamente deciso di utilizzare come sole armi la verità e la nonviolenza. [...] La pace deve essere giusta. Dunque non deve essere né punitiva né vendicativa. La Germania e il Giappone non devono essere umiliati. I forti non sono mai vendicativi [...]. A San Francisco o l’India è rappresentata dai propri rappresentanti eletti o non deve essere rappresentata affatto.169

Il maresciallo Smuts, che fa parte dei delegati britannici, sarà l’unico firmatario di quel trattato ad aver anche apposto il proprio nome in fondo al trattato che creava la Società delle Nazioni nel 1920.

La pace, e poi?

Il 25 aprile, le truppe americane e sovietiche stabiliscono un collegamento sull’Elba. I soldati della Legione Indiana, perduti per le strade della Germania, sono fatti prigionieri sulle rive del lago di Costanza da alcune unità americane e francesi13. In Birmania, ciò che resta delle truppe dell’INA si arrende alle forze britanniche che decidono di allestire il processo di tre soldati presi a caso, al Forte Rosso di Delhi, lì dove Bose aveva promesso di farli sfilare vittoriosi.

Il 30 aprile, Hitler si suicida. L’8 maggio 1945, mentre la firma della capitolazione della Germania nazista segna la fine della seconda guerra mondiale in Europa, in Algeria, a nord di Costantina, delle manifestazioni nazionaliste degenerano in sommossa; la repressione fa migliaia di morti nelle regioni di Sétif e Guelma. La decolonizzazione comincia così nei territori francesi.

A Delhi, tutti capiscono che l’indipendenza è vicina. A giugno, il capo del Partito del Congresso all’Assemblea Legislativa centrale, Bhulabhai Desai, propone al vice di Jinnah, il Nawabzada Liaquat Ali Khan, di mettersi d’accordo per esigere dagli inglesi la creazione di un governo nazionale paritario della Lega e del Congresso. Il musulmano rifiuta perché vuole la parità tra i musulmani da una parte e tutte le altre comunità da un’altra; esige inoltre che la Lega Musulmana rappresenti tutti i musulmani, cosa che il Congresso non può concedere senza rinunciare a essere un partito nazionale. Gli inglesi, da parte loro, non sono affatto sulla stessa lunghezza d’onda: Lord Wavell, che non va d’accordo con Churchill e ha chiesto tre volte di essere richiamato, propone solo la creazione di un consiglio esecutivo del viceré, in cui vi sia parità tra “hindu di casta” e musulmani.

Il 5 luglio, a Londra, vede la vittoria dei laburisti alle elezioni legislative e quindi l’esclusione di Churchill, il vincitore della guerra. Il 16, esplode la prima bomba atomica americana a Los Alamos. Il 28, Clement Attlee diventa primo ministro e intende sbarazzarsi del problema indiano: doversi trovare ad affrontare una guerra civile è fuori questione. Il nuovo ministro dell’India, Lord Pethick-Lawrence, che Gandhi ha già conosciuto, parla ormai di «partnership» con la Gran Bretagna. Il viceré annuncia che si terranno «non appena possibile» delle elezioni legislative per le assemblee provinciali e centrali create nel 1934 e nel 1937.

Il 3 agosto viene sganciata su Hiroshima una prima bomba atomica americana. Il 6, una seconda cade su Nagasaki. Gandhi vi vede, come tutto il mondo, il parossismo della violenza. Il 9 agosto, il Giappone capitola senza condizioni.

In tutto, questo secondo conflitto mondiale ha fatto 60 milioni di morti, di cui 27 in Asia; di questi solo l’1 per cento sono americani e il 12 per cento giapponesi; il resto sono vittime civili delle truppe giapponesi a causa dei lavori forzati, i maltrattamenti nei campi di concentramento, la guerra chimica e i bombardamenti.

Il 18 agosto, secondo informazioni dei servizi segreti britannici, Subhas Chandra Bose, alias Netaji, diretto a Tokyo, muore in un incidente aereo sopra Taiwan. Varie commissioni d’inchiesta stabiliranno in seguito che non vi è stato alcun incidente aereo in quella data in quel luogo. Alcuni oggi sostengono che Netaji, catturato dai sovietici, morì in prigione; altri affermano invece che Nehru declinò l’offerta di Stalin di liberarlo. Gandhi, per il quale l’unica questione che conta adesso è quella dell’unità indiana, quando viene a sapere di questa scomparsa osserva: «La più grande lezione che si può trarre dalla vita di Netaji è il modo in cui lui ha instillato lo spirito unitario nei suoi uomini, qualunque fosse la loro religione, la loro origine geografica o di casta. Insieme hanno versato il loro sangue per la stessa causa. Questo risultato eccezionale gli farà meritare sicuramente di essere immortalato nei libri di storia»169.

Il 19 agosto, il Vietminh, fondato da Ho Chi Minh nel 1941 per riunire tutti i nazionalisti, anche non comunisti, prende il potere a Hanoi, poi, nei giorni successivi, a Hué e Saigon; il 2 settembre, Bao Dai abdica e Ho proclama unilateralmente l’indipendenza del “Vietnam democratico” (l’ex imperatore diventa “consigliere supremo” del nuovo regime).

Alla fine del mese, Hermann Kallenbach, arrestato di nuovo in Sudafrica in quanto cittadino tedesco, muore a casa sua, a Durban, di malaria. Conformemente alle sue ultime volontà, viene cremato e la sua urna funeraria trasportata nel kibbutz Degania fondato nel 1910 nella valle del Giordano, in quello che presto diverrà lo Stato d’Israele.