«E a che serve? Per esempio il digiunare: a che serve?». 

«È un'ottima cosa, signore. Quando un uomo non ha niente da mangiare, digiunare è la più bella cosa che possa fare. Se, per esempio, Siddharta non avesse imparato a digiunare, oggi stesso dovrebbe assumere qualche impiego, da te o in qualunque altro posto, perché la fame ve lo costringerebbe. Ma invece Siddharta può aspettare tranquillo, non conosce impazienza, non conosce miseria, può lasciarsi a lungo assediare dalla fame e ridersene. A questo, signore, serve il digiuno». 

«Hai ragione, Samana. Ora attendi un momento». 

Kamaswami uscì e ritornò con un rotolo, che porse al suo ospite, chiedendo: «Sai leggere questo?». 

Siddharta esaminò il rotolo, in cui era redatto un contratto commerciale, e cominciò a leggerne il contenuto. 

«Benissimo» disse Kamaswami. «E vuoi scrivermi qualcosa su questo foglio?». 

Ciò dicendo gli porgeva un foglio e uno stilo: e Siddharta scrisse e restituì il foglio. 

Kamaswami lesse: «Scrivere è bene, pensare è meglio. L'intelligenza è bene, la pazienza è meglio». 

«Scrivi magnificamente» lodò il mercante. «Di molte cose avremo ancora da discorrere insieme, noi due. Per oggi, ti prego, sii mio ospite e prendi dimora in questa casa». 

Siddharta ringraziò e accettò, ed ecco, ora abitava nella casa del mercante. Gli furono portati abiti e scarpe, e tutti i giorni un servo gli preparava il bagno. Due volte al giorno si serviva un ricco pasto, ma Siddharta prendeva cibo soltanto una volta al giorno, e non mangiava carne né beveva vino. Kamaswami gli narrò del proprio commercio, gli mostrò merci e magazzini, gli espose i propri conti di cassa. Molte cose nuove apprese Siddharta, ascoltò molto e parlò poco. E, memore delle parole di Kamala, non si assoggettò mai al mercante, bensì lo costrinse a trattarlo come un suo pari, anzi, meglio che come un suo pari. Kamaswami conduceva i propri affari con accuratezza e spesso con passione, ma Siddharta considerava tutto ciò come un gioco, le cui regole egli si sforzava d'apprendere esattamente, ma al cui contenuto restava indifferente il suo cuore. 

Non era passato molto tempo da che era entrato in casa di Kamaswami, e già egli diventava compartecipe al commercio del suo padron di casa. Ma ogni giorno, all'ora ch'ella gli aveva stabilito, ben vestito, elegantemente calzato, visitava la bella Kamala, e ben presto prese anche a portarle regali. Molto gli apprese la sua bocca rossa, sapiente. Molto gli apprese la sua tenera, morbida mano. A lui, che in amore era ancora un ragazzo, e perciò incline a precipitarsi ciecamente e insaziabilmente nel piacere come in un abisso, ella insegnò a fondo la dottrina che non si ottiene piacere senza dare piacere, e che ogni gesto, ogni carezza, ogni contatto, ogni sguardo, ogni minima posizione del corpo ha il suo segreto, la cui scoperta avvia alla consapevole felicità. Gli apprese che, dopo una festa d'amore, gli amanti non debbono separarsi se non compresi di reciproca ammirazione, se non vinti e vincitori a un tempo, cosicché in nessuno dei due insorgano sazietà e squallore e il sentimento cattivo d'avere abusato o d'aver subito un abuso. Ore meravigliose egli trascorse presso la bella ed esperta artista, e divenne suo scolaro, suo amante, suo amico. Qui, presso Kamala, era il senso e il pregio della vita ch'egli ora conduceva, non nel commercio di Kamaswami. 

Il mercante lo incaricò della redazione di lettere e contratti importanti, e prese l'abitudine di consigliarsi con lui in tutte le occasioni gravi. Ben presto s'accorse che in fatto di riso e di lana, di navigazione e commercio Siddharta ci capiva poco, ma aveva la mano felice, e inoltre lo superava in quanto a calma e a ponderatezza, e anche nell'arte di stare ad ascoltare e d'insinuarsi in mezzo a gente estranea. «Questo Brahmino» disse un giorno a un amico «non è un vero commerciante e non lo diventerà mai; mai la sua anima conoscerà la passione degli affari. Ma possiede il segreto di quegli uomini ai quali il successo corre dietro, o che si tratti di magia, o di qualcosa ch'egli abbia imparato dai Samana. Con gli affari, ha sempre l'aria di giocarci; mai essi lo assorbono, mai s'impossessano di lui. Non l'ho mai visto aver paura d'un insuccesso, né inquietarsi per una perdita». L'amico consigliò al mercante: «Sugli affari che fa per te, dagli un terzo del guadagno, ma imponigli anche la stessa partecipazione alle perdite, quando ce ne sono. Così s'impegnerà con maggior zelo». 

Kamaswami seguì il consiglio. Ma Siddharta non mostrò di farci caso. Guadagnava? intascava il guadagno con indifferenza. Perdeva? ci faceva su una risata e diceva: «Oh guarda, anche questa è andata male!». 

In realtà, sembrava che gli affari gli fossero indifferenti. Una volta fece un viaggio a un villaggio per comprarvi una grossa partita di riso. Ma quando giunse, il riso era già stato venduto a un altro mercante. Tuttavia Siddharta rimase diversi giorni in quel villaggio, offrì banchetti ai contadini, regalò monetine di rame ai loro marmocchi, prese parte a una festa di nozze e finalmente ritornò soddisfattissimo dal I suo viaggio. Kamaswami lo rimproverò: perché non era tornato subito? perché aveva sciupato tempo e denaro? Siddharta rispose: «Non mi sgridare, caro amico! Non è ancora mai successo che sgridando si concludesse qualcosa. Se c'è stata perdita, addossala pure a me. Io sono molto contento di questo viaggio. Ho conosciuto ogni sorta d'uomini, un Brahmino è diventato mio amico, ho fatto ballare bambini sulle ginocchia, i contadini mi hanno mostrato i loro campi, nessuno mi ha trattato come un mercante». 

«Tutto questo è molto bello,» esclamò Kamaswami indispettito «ma il fatto è che tu sei precisamente un mercante, se non mi sbaglio! Oppure hai voluto fare soltanto un viaggetto di piacere?». 

Siddharta rise: «Certo, certo, ho viaggiato per mio piacere. Per che altro mai? Ho conosciuto uomini e paesi, ho goduto cortesie e confidenze, ho trovato amicizie. Vedi, amico, se io fossi stato Kamaswami, sarei subito ripartito in fretta e pieno di dispetto, appena visto sfumato l'affare, e allora tempo e denaro sarebbero stati realmente perduti. Ma così ho trascorso delle belle giornate, ho imparato, ho goduto la compagnia di amici, non ho danneggiato né me né il prossimo col dispetto e la fretta. E se mai capiterà ch'io debba ritornare un'altra volta laggiù, forse per comprare il prossimo raccolto, oppure per qualunque altro scopo, quegli uomini, che già mi sono amici, mi accoglieranno lietamente, e io avrò soltanto da lodarmi di non aver mostrato questa volta né fretta né irritazione. Dunque lascia perdere, amico, e non farti torto con l'ira! Quando venga il giorno, in cui tu ti debba accorgere: questo Siddharta mi fa del danno, allora di' una parola, e Siddharta se n'andrà per la sua strada. Ma fino allora restiamo soddisfatti l'un dell'altro». 

Vani furono anche i tentativi del mercante per convincere Siddharta che egli mangiava il suo pane, suo di lui, Kamaswami. Siddharta mangiava il proprio pane, o meglio — diceva — entrambi mangiavano il pane degli altri, il pane di tutti. Mai una volta che Siddharta porgesse orecchio ai fastidi di Kamaswami, e non è a dire quanti fastidi avesse Kamaswami. Se un affare in corso minacciava di fallire, se una spedizione di merce pareva perduta, se un debitore aveva l'aria di non poter pagare, mai poté Kamaswami persuadere il suo collaboratore che servisse a qualche cosa sciupare parole d'affanno o d'ira, farsi venir le rughe sulla fronte, perderci il sonno. Una volta che Kamaswami gli rinfacciò che tutto quello ch'egli sapeva lo aveva appreso da lui, Siddharta sbottò in questa risposta: «Non avrai la pretesa di abbindolarmi con queste storie! Da te ho imparato quanto costa una cesta di pesci, e quale interesse si deve esigere per il denaro dato a prestito. Questa è la tua scienza. 

Ma a pensare non ho imparato da te, caro Kamaswami, cerca piuttosto tu di imparare da me». Ma in realtà la sua anima non era in quel commercio. Buona cosa gli affari, perché gli procuravano denaro per Kamala; e gliene procuravano ormai più del necessario. Del resto tutto l'interesse e la curiosità di Siddharta erano per gli uomini, i cui affari, mestieri, affanni, piaceri e pazzie gli erano stati un tempo lontani ed estranei come la luna. Tanto gli riusciva facile chiacchierare con tutti, vivere con tutti, imparare da tutti, altrettanto rimaneva consapevole, tuttavia, che qualcosa lo separava da loro; e questo qualcosa era la sua qualità di Samana. Vedeva gli uomini vivere alla maniera di bimbi o di bestie, sì che a un tempo era costretto ad amarli e a disprezzarli. Li vedeva affannarsi, soffrire e farsi i capelli grigi, per cose che a lui parevano di nessun conto: denaro, piccoli piaceri, piccoli onori, e li vedeva litigarsi e accapigliarsi, li vedeva lamentarsi di dolori sui quali il Samana sorride, e soffrire per privazioni di cui il Samana nemmeno s'accorge. 

Egli restava sempre aperto a tutto ciò che questi uomini avessero da offrirgli. Benvenuto era per lui il mercante che gli offriva l'acquisto d'una partita di tela, benvenuto lo spiantato che gli chiedeva un prestito, benvenuto il mendicante che stava per un'ora a raccontargli la storia della sua miseria e che non era neanche la metà così povero come un qualunque Samana. Con il grande mercante di oltremare non trattava diversamente che con il servo che gli faceva la barba o col venditore ambulante, dal quale si lasciava truffare di qualche monetina nell'acquisto di un grappolo di banane. Quando Kamaswami veniva da lui per lamentarsi a proposito dei suoi fastidi o per fargli rimproveri a proposito di qualche affare, egli lo ascoltava attento e sereno, si meravigliava di lui, cercava di comprenderlo, lasciava che si sfogasse un po', quel tanto che gli pareva indispensabile, e poi lo piantava in asso e si rivolgeva ad altri, al primo che cercasse di lui. E venivano in molti da lui, molti per fare affari con lui, molti per ingannarlo, molti per ascoltarlo, molti per invocare la sua compassione, molti per averne consiglio. Ed egli dava consigli, dimostrava compassione, donava, si lasciava un poco ingannare, e tutto questo gioco, e la passione con cui gli uomini lo giocavano, occupavano ora i suoi pensieri tanto quanto li occupavano un tempo Brahma e gli altri dèi. 

A volte percepiva, nella profondità dell'anima, una voce lieve, spirante, che piano lo ammoniva, piano si lamentava, così piano ch'egli appena se ne accorgeva. Allora si rendeva conto per un momento che viveva una strana vita, che faceva cose ch'erano un mero gioco, che certamente era lieto e talvolta provava gioia, ma che tuttavia la vita vera e propria gli scorreva accanto senza toccarlo. Come un giocoliere coi suoi arnesi, così egli giocava coi propri affari e con gli uomini che lo circondavano, li osservava, si pigliava spasso di loro: ma col cuore, con la fonte dell'essere suo egli non era presente a queste cose. E qualche volta egli rabbrividì a simili pensieri, e si augurò che anche a lui fosse dato di partecipare con la passione di tutto il suo cuore a questo puerile travaglio quotidiano, di vivere realmente, di agire realmente e di godere ed esistere realmente, e non solo star lì a parte come uno spettatore. 

Ma sempre ritornava dalla bella Kamala, apprendeva l'arte d'amore, praticava il culto del piacere, nel quale più che in ogni altra azione dare e avere si fanno una cosa sola; discorreva con lei, imparava da lei, le dava consigli, ascoltava consigli. Ella lo comprendeva ancor meglio di quanto l'avesse un tempo compreso Govinda; era più simile a lui. Una volta egli le disse: «Tu sei come me, sei diversa dalla maggior parte delle altre persone. Tu sei Kamala, e nient'altro, e in te c'è un silenzio, un riparo nel quale puoi rifugiarti in ogni momento e rimanervi a tuo agio; anche a me succede così. Ma poche persone posseggono questa dote, sebbene tutti potrebbero averla». 

«Non tutti gli uomini sono intelligenti» disse Kamala. 

«No,» disse Siddharta «non si tratta di questo. Kamaswami è tanto intelligente quanto lo son io, eppure non ha alcun rifugio in se stesso. Altri lo posseggono, eppure in quanto a ragione sono bambini. La maggior parte degli uomini, Kamala, sono come una foglia secca, che si libra e si rigira nell'aria e scende ondeggiando al suolo. Ma altri, pochi, sono come stelle fisse, che vanno per un loro corso preciso, e non c'è vento che li tocchi, hanno in se stessi la loro legge e il loro cammino. Fra i tanti sapienti e i Samana che ho conosciuto ce n'era uno di questa specie, u uomo perfettissimo, che non potrò mai dimenticare. È quel Gotama, il Sublime, il predicatore della nuova scienza. Migliaia di giovani ascoltano ogni giorno la sua dottrina, seguono a tutte le ore le sue prescrizioni, eppure sono tutti foglie secche, non hanno in se stessi la dottrina e la legge». 

Kamala lo contemplava sorridendo. «Di nuovo parli di lui,» disse «di nuovo i tuoi pensieri da Samana». 

Siddharta tacque, ed essi giocarono il gioco dell'amore, uno dei trenta o quaranta giochi diversi che Kamala sapeva. Il suo corpo era flessibile come quello d'un giaguaro e come l'arco d'un cacciatore; chi avesse appreso l'amore da lei, diveniva esperto di molti piaceri, di molti segreti. A lungo ella giocò con Siddharta, lo attirò, lo respinse, lo costrinse, lo lasciò, godette della sua forza, finch'egli fu vinto, e giacque esausto al suo fianco. 

L'etera si chinò su di lui e lo contemplò a lungo nel volto, lo fissò negli occhi cerchiati di stanchezza. 

«Sei il miglior amante ch'io abbia mai visto» disse pensierosa. «Sei più forte degli altri, più flessibile, più tenace. Hai bene appreso l'arte mia, Siddharta. Un giorno o l'altro, quando sarò più vecchia, voglio avere un figlio da te. Ma con tutto questo, amore, tu sei rimasto un Samana, con tutto questo tu non mi ami, non ami nessuna creatura umana. Non è così?». 

«Può ben darsi che sia così» disse Siddharta con stanchezza. «Io sono come te. Anche tu non ami, altrimenti come potresti far dell'amore un'arte? Forse le persone come noi non possono amare. Lo possono gli uomini-bambini: questo è il loro segreto». 

 

Samsara 

 

Già da lungo tempo ormai Siddharta viveva la vita del mondo e dei piaceri, pur senza lasciarsene dominare. I suoi sensi, ch'egli aveva ucciso negli aridi anni della vita di Samana, s'erano ridestati, egli aveva assaporato la ricchezza, aveva assaporato la voluttà, assaporato la potenza: tuttavia per molto tempo era ancora rimasto in cuore un Samana, e di questo l'accorta Kamala s'era benissimo resa conto. Era ancor sempre l'arte del pensare, dell'attendere, del digiunare, quello che indirizzava la sua vita, e ancor sempre gli rimanevano estranei gli uomini del mondo, gli uomini-bambini, com'egli rimaneva estraneo a loro. 

Gli anni passavano, e Siddharta, circondato dal benessere, quasi non s'accorgeva del loro corso. Era diventato ricco e già da tempo possedeva una casa propria con servitù e un giardino fuori della città lungo il fiume. Gli uomini lo stimavano, venivano da lui quando avevano bisogno di denaro o di consigli, ma nessuno gli era realmente vicino, a eccezione di Kamala. 

Quello stato di nobile e luminosa chiaroveggenza che un tempo egli aveva esperimentato, nel fiore della sua giovinezza, nei giorni seguenti alla conoscenza della dottrina di Gotama, dopo la separazione da Govinda, quell'attesa piena di tensione, quell'orgogliosa solitudine senza dottrine e senza maestri, quella duttile prontezza ad ascoltare la voce divina nel proprio cuore, erano a poco a poco passati allo stato di ricordo, s'erano dimostrati transitori; piano e lontano sussurrava la sacra fonte che un tempo gli era stata vicina, era fluita in lui stesso. Molto, certo, di ciò ch'egli aveva appreso dai Samana, da Gotama, da suo padre il Brahmino, era ancora vissuto a lungo in lui: la vita sobria, il gusto di pensare, le ore di concentrazione, la segreta scienza di se stesso, dell'eterno Io, che non è né corpo né spirito. Molto di ciò era rimasto in lui, ma una cosa dopo l'altra a poco a poco era scaduta e s'era coperta di polvere. Come la rotella del vasaio, una volta messa in moto, gira ancora a lungo, e solo lentamente il suo moto s'affievolisce e si spegne, così nell'anima di Siddharta la ruota dell'ascetismo, la ruota del pensiero, la ruota dell'isolamento aveva ancora a lungo continuato a vibrare, vibrava ancora, ma lentamente indugiava ed era ormai prossima allo stato di quiete. Lentamente, come l'umidità penetra nel tronco dell'albero che muore, lo riempie a poco a poco e lo fa marcire, il mondo e la pigrizia erano penetrati nell'animo di Siddharta, lentamente riempivano l'animo suo, lo rendevano pesante e stanco, lo addormentavano. Invece s'erano ravvivati i suoi sensi, molto avevano imparato, molto sperimentato. 

Siddharta aveva imparato a condurre il commercio, a esercitare un potere sugli uomini, a compiacersi delle donne; aveva imparato a portare abiti eleganti, a comandare i servi, a prendere il bagno in acque profumate. Aveva imparato a mangiare cibi delicati e accuratamente cucinati, anche il pesce, anche la carne e gli uccelli, spezie e dolciumi, e aveva imparato a bere vino, che rende pigri e obliosi. Aveva imparato a giocare ai dadi e agli scacchi, ad ammirare danzatrici, a farsi portare in molli portantine, a dormire su un letto morbido. 

Ma sempre s'era ancora sentito separato dagli altri e superiore, sempre li aveva considerati con un po' di scherno, con un po' di disprezzo canzonatorio, quel disprezzo, appunto, quale un Samana prova per la gente del mondo. Quando Kamaswami era indisposto, quando era di cattivo umore, quando si sentiva indispettito, quand'era travagliato dai suoi fastidi commerciali, sempre Siddharta l'aveva considerato con un po' di scherno. Solo lentamente e inavvertitamente, man mano che s'avvicendavano le stagioni della mietitura e le stagioni della pioggia, la sua ironia s'era fatta stanca, il suo senso di superiorità s'era affievolito. Solo lentamente, tra le sue crescenti ricchezze, Siddharta aveva preso qualcosa delle maniere degli uomini-bambini, qualcosa della loro puerilità e della loro timidezza. Eppure li invidiava, li invidiava tanto più quanto più diventava simile a loro. Li invidiava per l'unica cosa che a lui mancava e che essi possedevano, per l'importanza ch'essi riuscivano ad attribuire alla loro vita, per la passionalità delle loro gioie e delle loro paure, per l'angosciosa ma dolce felicità del loro stato d'innamorati eterni. Di sé, di donne, dei loro bambini, di onori e di ricchezze, di progetti o speranze, sempre questi uomini erano innamorati. Ma appunto questo egli non riusciva a imparare da loro, questa gioia infantile e questa infantile follia; imparava da loro proprio ciò ch'essi avevano di spiacevole, ciò ch'egli stesso disprezzava. Accadeva sempre più spesso che al mattino, dopo una serata passata in compagnia, egli rimanesse lungamente a letto e si sentisse stanco e ottuso. Avveniva che fosse dispettoso e impaziente quando Kamaswami lo annoiava con i suoi crucci. Avveniva che egli ridesse troppo forte quando perdeva ai dadi. Il suo volto era ancor sempre più intelligente e più spirituale che quello degli altri, ma rideva raramente, e uno dopo l'altro assumeva quei tratti che si riscontrano così spesso nel volto della gente ricca, quei tratti dell'insoddisfazione, d'indisposizione, di cattivo umore, di pigrizia, di scortesia. Lentamente s'appiccava a lui la malattia morale dei ricchi. 

Come un velo, come una nebbietta sottile la stanchezza si calava su Siddharta, lentamente, ogni giorno un po' più fitta, ogni mese un po' più fosca, ogni anno un po' più pesante. Come un abito nuovo col tempo si fa vecchio, perde il suo bel colore, si copre di macchie, prende pieghe, diventa consunto ai margini e qui e là comincia a mostrarsi frusto e sciupato, così la nuova vita di Siddharta, ch'egli aveva cominciato dopo la separazione da Govinda, invecchiava e perdeva col passar degli anni la tinta e lo splendore, la coprivano macchie e pieghe, e nascosti giù in fondo, qua e là facendo odiosamente capolino, aspettavano la delusione e il disgusto. Siddharta non se n'accorgeva. S'accorgeva soltanto che quella voce limpida e sicura dell'animo suo, che un tempo era desta in lui e nei suoi tempi d'oro l'aveva sempre guidato, era ammutolita. 

Il mondo l'aveva assorbito, il piacere, l'avidità, la pigrizia, e infine anche quel peccato ch'egli aveva sempre disprezzato e deriso come il più stolto di tutti: l'avarizia. Anche la proprietà, il possesso e la ricchezza s'erano infine impossessati di lui, non erano più per lui inezia e gioco, ma erano diventati peso e catena. Per una strana e subdola via era Siddharta caduto in questa ultima e più vile servitù, attraverso il gioco dei dadi. Precisamente dal tempo in cui aveva cessato in cuore d'essere un Samana, Siddharta cominciò a praticate con crescente accanimento e passione il gioco in denaro e in gioielli, cui prima s'era accostato con un sorriso d'indulgenza come a un costume degli uomini-bambini. Era un giocatore temuto; pochi s'arrischiavano con lui, tanto alte e temerarie erano le sue puntate. Giocava per una necessità del cuore, lo sciupio e il gioco del miserabile oro gli procuravano una gioia feroce, in nessun altro modo egli poteva dimostrare più apertamente e più altezzosamente il suo disprezzo della ricchezza, idolo dei mercanti. Così puntava alto e senza riguardo, odiando se stesso, disprezzando se stesso, incassava migliaia, perdeva migliaia, si giocava il denaro, si giocava i gioielli, si giocava una casa di campagna, guadagnava di nuovo, perdeva di nuovo. Quell'ansia, quell'ansia terribile e opprimente ch'egli provava durante il lancio dei dadi, durante la sospensione d'attesa per le alte puntate, quell'ansia era ciò che egli amava e cercava sempre di rinnovare, sempre di intensificare, di stimolare sempre più acutamente, poiché solo in questo sentimento egli sentiva ancora qualcosa di simile alla felicità, qualcosa di simile all'ebbrezza, qualcosa che somigliasse a intensità di vita in mezzo alla sua esistenza sazia, tiepida, grigia. E dopo ogni perdita ingente egli anelava a nuove ricchezze, si rituffava energicamente nel commercio, costringeva più severamente i suoi debitori al pagamento, perché voleva continuare a giocare, voleva continuare a dissipare, voleva continuare a dimostrare il suo disprezzo per la ricchezza. Siddharta perdeva l'indifferenza verso le perdite, perdeva la pazienza verso i pagatori morosi, perdeva il gusto di donare e prestare il denaro ai supplicanti. Egli, che buttava le decine di migliaia sopra un colpo di dadi, diventava nel commercio sempre più rigido e meschino, e alle volte gli capitava, di notte, di sognare denaro. E ogni volta che si ridestava da questo odioso sortilegio, ogni volta che vedeva nello specchio della camera da letto il proprio volto invecchiato e fatto più antipatico, ogni volta che la vergogna e il disgusto lo coglievano, egli fuggiva lontano, fuggiva di nuovo nel gioco, fuggiva negli stordimenti della voluttà e del vino, poi di là, di nuovo, nella frenesia di guadagnare e di accumulare. Correndo in questo cerchio insensato egli si stancava, invecchiava, s'ammalava. 

A questo punto lo ammonì una volta un sogno. Aveva trascorso le ore della sera da Kamala, nel suo bel giardino di delizie. Erano stati seduti sotto gli alberi, in conversazione, e Kamala aveva detto parole pensierose, parole dietro le quali si celavano tristezza e stanchezza. L'aveva pregato di raccontarle di Gotama, e non poteva mai saziarsi d'ascoltare di lui, come fosse puro il suo occhio, bella e tranquilla la sua bocca, benigno il suo sorriso, tutto pace il suo passo. A lungo egli aveva dovuto raccontarle del Buddha sublime, e Kamala aveva sospirato, e aveva detto: «Una volta o l'altra, forse presto, seguirò anch'io questo Buddha. Gli farò dono del mio giardino di delizie e mi convertirò alla sua legge». Ma poi ella l'aveva stuzzicato e con doloroso ardore l'aveva incatenato a sé nel gioco amoroso, tra morsi e lacrime, come se volesse ancora una volta spremere da questo vano, passeggero piacere le estreme dolcissime gocce. Mai era ancora stato così singolarmente chiaro a Siddharta quanto sia vicina la voluttà alla morte. Poi era giaciuto al suo fianco e il volto di Kamala gli era stato vicino, e sotto gli occhi di lei e accanto agli angoli della bocca aveva letto, così chiaramente come non mai, un pauroso messaggio, un messaggio di linee sottili, di solchi lievi, un messaggio che parlava d'autunno e di vecchiaia, così come del resto anche Siddharta stesso, allora entrato nella quarantina, aveva già scoperto qua e là qualche filo grigio tra i suoi capelli neri. La stanchezza stava scritta sul bel viso di Kamala, stanchezza d'un lungo cammino, senz'alcuna meta piacevole, stanchezza e minaccia di appassimento incipiente, e una paura segreta, non ancora espressa, forse non ancor consapevole: paura dell'età, paura dell'autunno, paura del dover morire. Sospirando egli aveva preso congedo da lei, l'anima piena di tristezza e di segreto affanno. 

Allora Siddharta aveva passato la notte in casa sua, tra vino e danzatrici, aveva affettato verso i suoi pari una superiorità di cui non era più ben sicuro, aveva bevuto molto vino e a tarda notte aveva cercato il letto, col cuore pieno d'una tal miseria che pensava di non poterla più sopportare, pieno d'un disgusto di cui si sentiva compenetrato come del tiepido, nauseante sapore del vino, della musica dolciastra e brulla, del riso troppo tenero delle danzatrici, del profumo troppo dolce dei loro capelli e dei loro seni. Ma più che di tutto il resto aveva schifo di se stesso, dei propri capelli profumati, del puzzo di vino della propria bocca, della stanchezza flaccida e inamena della propria pelle. Come uno che ha troppo mangiato o bevuto vomita fra i tormenti e pure è lieto di alleggerirsi, così l'insonne Siddharta si augurava, in un empito sconfinato di disgusto, di potersi sbarazzare di questi godimenti, di queste abitudini, di tutta questa vita insensata e, in una parola, di se stesso. Solo ai primi albori del mattino e al risveglio delle prime attività sulla strada davanti a casa sua, egli si assopì e trovò per pochi istanti un mezzo stordimento, un barlume di sonno. In quegli istanti ebbe un sogno. 

Kamala teneva in una gabbia d'oro un piccolo e raro uccello canterino. Fu questo uccello l'oggetto del suo sogno: cantava sempre nelle ore del mattino, e ora invece ecco che era diventato muto. Essendosi accorto di ciò, egli, Siddharta, s'era accostato alla gabbia e ci aveva guardato dentro; l'uccello era morto e giaceva irrigidito sul fondo. 

Egli lo trasse fuori, lo pesò un istante sulla mano e poi lo gettò via, sulla strada, e nello stesso istante provò un improvviso terrore e il cuore gli dolse, come se con questo uccello morto avesse gettato via da sé ogni valore e ogni bene della vita. 

Destandosi da questo sogno si sentì in preda a profonda tristezza. Nessun valore, ora gli pareva, nessun valore e nessun senso aveva la vita da lui condotta fino allora; nulla di vitale, nulla che fosse in qualche modo prezioso o degno d'esser conservato gli era rimasto nelle mani. Solo, si trovava, e povero, come un naufrago sulla spiaggia. 

Cupo si recò Siddharta a un suo giardino di delizie, ne serrò la porta dietro di sé, si mise giù sotto un albero di mango e sentì la morte nel cuore e l'orrore nel petto; e sedendo s'accorse come qualcosa stesse morendo in lui, qualcosa appassisse e andasse alla fine. A poco a poco egli raccolse i propri pensieri e ripercorse in ispirito l'intera via della propria vita, dai primi giorni in cui si poteva ricordare. Quando mai la fortuna aveva sorriso alla sua vita, quando mai egli aveva goduto una vera voluttà? Oh sì, tante volte aveva vissuto qualcosa di simile. L'aveva assaporato negli anni della fanciullezza, quando aveva ottenuto la lode dei Brahmini, quando aveva sopravanzato di gran lunga i suoi coetanei nella recitazione dei sacri versi, nella discussione coi dotti, nel servizio durante i sacrifici. Allora aveva sentito nel proprio cuore: «Una via è aperta davanti a te, a cui tu sei chiamato, sulla quale ti attendono gli dèi». E di nuovo nella sua giovinezza, quando la meta sempre più alta del suo pensiero l'aveva strappato e sollevato dalla schiera di coloro che gli erano compagni nella nobile aspirazione, quando egli lottava tra gli spasimi per scoprire il significato di Brahma, quando ogni conoscenza conquistata non faceva che rinnovare in lui la sete di conoscere, in mezzo a questa sete, in mezzo a questi spasimi, egli aveva provato questo stesso sentimento: «Avanti! Avanti! Tu sei chiamato!». Questa voce egli aveva sentito, quando aveva abbandonato la sua casa e scelto la vita del Samana, e poi quando aveva lasciato i Samana per quel Perfetto e anche da lui s'era staccato per gettarsi alla ventura. Ma da quanto tempo ora non sentiva più questa voce, da quanto tempo non aveva più raggiunto le altezze, come piana e brulla era stata la sua via, quanti lunghi anni senza un'alta meta, senza sete, senza elevazione, contento di meschini piaceri e pur mai soddisfatto! Tutti questi anni egli s'era affannato, senza neppur saperlo, e s'era dato un gran da fare, per diventare un uomo come gli altri, come quei bambini, e con tutto questo la sua vita era diventata molto più povera e più miserabile che la loro, poiché i suoi scopi non erano i loro, né egli ne condivideva i pensieri: tutto quel mondo degli uomini-Kamaswami era stato per lui solo un gioco, un ballo a cui si assiste, una commedia. Soltanto Kamala gli era stata veramente cara, preziosa; ma lo era ancora? Aveva ancora veramente bisogno di lei? o Kamala di lui? Non giocavano un gioco senza fine? Era una cosa, questa, per cui fosse necessario vivere? No, non era necessario! Samsara aveva nome questo gioco, un gioco di bambini, gioco forse piacevole a giocare una volta, due volte, dieci volte. Ma sempre, sempre da capo? 

E così seppe Siddharta che il gioco era finito, che non l'avrebbe potuto più giocare. Un brivido gli corse per il corpo e nell'anima: sentiva che qualcosa era morto. 

Per tutto quel giorno egli sedette sotto l'albero di mango, assorto nel ricordo di suo padre, nel ricordo di Govinda, nel ricordo di Gotama. Per diventare un Kamaswami qualunque aveva abbandonato tutti costoro? Sedeva ancora quando si fece notte. Con un brivido scorse le stelle, e pensò: «Eccomi qui seduto, sotto il mio albero di mango nel mio giardino di delizie». Sorrise un poco: era dunque necessario, era giusto, non era un pazzo gioco ch'egli possedesse un albero di mango, un giardino? 

Anche per queste cose era finita, anche questo mori in lui. Si alzò, prese congedo dall'albero di mango, prese congedo dal giardino. Non aveva preso cibo in tutto il giorno e sentendo fame pensò alla sua casa in città, al suo letto, alla tavola apparecchiata. Sorrise stanco, si scosse e prese congedo da tutte queste cose. 

In quella stessa notte Siddharta abbandonò il suo giardino, abbandonò la città e non vi ritornò mai più. Kamaswami credette che fosse caduto in mano di ladroni, e lo fece cercare a lungo. Kamala non lo fece cercare. Quando apprese che Siddharta era sparito, non si meravigliò. Non se l'era sempre aspettato? non era egli un Samana, un randagio, un pellegrino? E questo ella aveva soprattutto sentito nel loro ultimo convegno, e pur nel dolore d'averlo perduto, gioiva d'averlo saputo attrarre ancora quest'ultima volta così intimamente al proprio cuore, d'essersi ancora una volta impadronita così pienamente di lui, e d'essersene sentita così interamente posseduta. 

Quando ricevette la prima notizia della scomparsa di Siddharta, s'appressò alla finestra, dove teneva in una gabbia d'oro un raro uccello canterino. Aprì la porticina, lo trasse fuori e lo lasciò volar via. A lungo seguì con lo sguardo l'uccello in volo. Da quel giorno in poi non ricevette più visite, e tenne chiusa la propria casa. Ma dopo qualche tempo s'accorse che, dal suo ultimo convegno con Siddharta, era rimasta incinta. 

 

Presso il fiume 

 

Siddharta errò nel bosco, già lontano dalla città, senza saper nulla se non questo, che una vita come quella ch'egli aveva per tanti anni condotto era passata, finita, assaporata fino alla feccia e fino al disgusto. Morto era l'uccello canterino di cui aveva sognato. Profondamente egli s'era immerso nella samsara, d'ogni parte aveva assorbito in sé disgusto e morte, come una spugna succhia l'acqua finché è piena. E pieno egli era adesso di sazietà, di miseria, di morte, non c'era più nulla nel mondo che lo potesse attirare, rallegrare, consolare. 

Ardentemente bramava non saper più nulla di sé, aver pace, essere morto! Oh! sol che venisse un fulmine ad atterrarlo! Venisse una tigre a divorarlo! Sol che ci fosse un vino, un veleno, capace di portargli lo stordimento, l'oblio e il sonno, anche se non avesse dovuto più esserci risveglio! Ma c'era ancora un fango di cui egli non si fosse macchiato, un peccato e una pazzia ch'egli non avesse commessi, una miseria dell'anima ch'egli non si fosse tirata addosso? Era ancor possibile vivere? Era ancor possibile continuare l'eterna fatica di inspirare ed emettere il respiro, aver fame e sfamarsi, ricominciare a mangiare, a dormire, a giacer con donne? Non era chiuso ed esaurito per lui questo circolo della vita? 

Siddharta giunse al gran fiume nel bosco, quello stesso fiume sul quale l'aveva traghettato un giorno un barcaiolo, quando egli era ancora giovane e veniva dalla città di Gotama. Presso questo fiume si fermò e rimase indeciso sulla riva. Stanchezza e fame l'avevano indebolito, e poi perché andare oltre? dove andare, a quale meta? No, non c'erano più mete, non c'era più altro che il profondo, doloroso desiderio di scrollare da sé quest'arido sogno, di sputare questo insipido vino, di por fine a questa vita penosa e umiliante. 

Sulla riva del fiume pendeva un albero inclinato, un albero di cocco; al suo tronco s'appoggiò Siddharta con la spalla, posò il braccio sulla corteccia e guardò in giù nell'acqua verde, che scorreva senza posa ai suoi piedi, guardò giù e si sentì interamente pervaso dal desiderio di lasciarsi andare e sparire entro quell'acqua. Lo specchio dell'acqua gli rifletteva incontro un vuoto raccapricciante che faceva riscontro al terribile vuoto dell'anima sua. Sì, egli era giunto alla fine. Altro non gli rimaneva che spegnersi, spezzare la mal riuscita figura della sua vita, gettarla via, ai piedi degli dèi sprezzanti. Questa la grande liberazione cui agognava: la morte, spezzare una forma ch'egli odiava! Se lo mangiassero i pesci, quel cane di Siddharta, quello stolto, quel corpo putrefatto e infracidito, quell'anima sonnacchiosa e sciupata! Se lo mangiassero i pesci e i coccodrilli, lo sbriciolassero i demoni! 

Mentre fissava gli sguardi sbarrati nell'acqua ci vide rispecchiato il proprio viso stravolto e ci sputò sopra. Con profonda stanchezza staccò il braccio dal tronco dell'albero e si volse un poco per lasciarsi cadere a fondo, per essere sommerso definitivamente. Affondava, a occhi chiusi, incontro alla morte. 

Ed ecco, da riposti ricettacoli della sua anima, dalle remote lontananze della sua vita affaticata, palpitò un suono. Era una parola, una sillaba, ch'egli pronunciava senza rendersene conto, con voce cantilenante, l'antica parola con cui hanno inizio e fine tutte le preghiere dei Brahmini, il sacro Om, che equivale a «perfezione», o «il Perfetto». E nell'istante in cui il suono Om sfiorò l'orecchio di Siddharta, immediatamente si risvegliò il suo spirito assopito, e riconobbe la stoltezza del suo atto. 

Siddharta inorridì profondamente. A questo punto, dunque, era giunto, così perduto egli era, così smarrito e deserto d'ogni conoscenza, che aveva potuto cercare la morte, che questo desiderio infantile aveva potuto crescere in lui: trovar la pace nella distruzione del proprio corpo! Ciò che non avevan potuto fare tutte le pene di questi ultimi tempi, tutti i disinganni, tutta la disperazione, lo ottenne quel momento in cui l'Om penetrò nella sua coscienza: egli si riconobbe, nella propria miseria e nel proprio errore. 

«Om!» diceva tra sé e sé: «Om!». E seppe di Brahma, seppe dell'indistruttibilità della vita, seppe del Divino, seppe di nuovo tutto ciò che aveva dimenticato. 

Ma fu solo un momento, un lampo, poi Siddharta ricadde ai piedi dell'albero di cocco, abbattuto dalla fatica: continuando a mormorare Om, posò la testa sulle radici del tronco e cadde in un sonno profondissimo. 

Profondo fu il suo sonno, e libero da sogni: da lungo tempo non aveva più conosciuto un sonno tale. Quando si risvegliò dopo parecchie ore, fu come se dieci anni fossero trascorsi: udì il lieve sussurrare dell'acqua, e non sapeva dove fosse, né chi l'avesse portato qui; schiuse gli occhi, guardò con meraviglia gli alberi e il cielo sulla propria testa, e si ricordò dove fosse, e come fosse venuto qui. Ma gli occorse per questo un certo tempo, e il passato gli apparve come avvolto in un velo, infinitamente lontano, infinitamente superato, infinitamente indifferente. Sapeva solo di aver abbandonato la propria vita di un tempo (nel primo riacquisto della memoria questa vita d'un tempo gli parve come una vecchia e remota incarnazione del suo Io attuale, anzi uno stadio d'esistenza prenatale), sapeva solo che, pieno di disgusto e di miseria, aveva perfino voluto far getto della vita, ma che lungo un fiume, sotto un albero di cocco, era ritornato in sé, con la sacra parola Om sulle labbra, poi s'era assopito e ora, risvegliato, guardava il mondo come un uomo nuovo. A bassa voce ripeteva fra sé la parola Om, sulla quale s'era addormentato, e gli parve che tutto il suo lungo sonno non fosse stato altro che un'incessante, assorta recitazione dell'Orn, una meditazione sull'Om, un immergersi e pienamente compenetrarsi dell'Om, il senza nome, il Perfetto. 

Ma qual sonno meraviglioso questo era stato! Mai sonno l'aveva così ristorato, così rinnovato, così ringiovanito! Era forse veramente morto, andato a fondo e rinato in nuova forma? Ma no, egli si conosceva, conosceva la propria mano e i propri piedi, conosceva il luogo in cui giaceva, conosceva quest'Io contenuto nel suo petto, questo Siddharta, ostinato, strano, ma questo Siddharta, poi, era ancora mutato, rinnovato, mirabilmente riscosso dal suo torpore, mirabilmente ridesto, lieto e bramoso. 

Siddharta si drizzò, poiché vide seduto di fronte a sé un uomo, uno straniero, un monaco in tonaca gialla e col capo rasato, in atto di persona immersa nella meditazione. Egli osservò l'uomo, che non aveva né capelli né barba, e non tardò a riconoscere in questo monaco Govinda, l'amico della sua giovinezza, Govinda, che si era convertito alla legge del sublime Buddha. Govinda era invecchiato anche lui, ma il suo volto mostrava ancor sempre gli antichi tratti, esprimeva zelo, fedeltà, ansia di ricerca, premura. Ma quand'ora Govinda, sentendo il suo sguardo, aprì gli occhi e lo guardò, Siddharta s'accorse che Govinda non lo riconosceva. Govinda mostrò piacere ch'egli si fosse svegliato, evidentemente era stato a lungo lì seduto in attesa del suo risveglio, sebbene non lo conoscesse. 

«Ho dormito» disse Siddharta. «E tu come sei giunto qui?». 

«Hai dormito» confermò Govinda. «Non è bene addormentarsi in questi luoghi, dove spesso si trovano serpenti e dove passano le belve della foresta. Io, signore, sono un discepolo del sublime Gotama, il Buddha, il Sakyamuni, e venivo in pellegrinaggio lungo questa strada con un certo numero dei nostri, quando ti vidi giacere addormentato in un posto dov'è pericoloso dormire. Perciò mi proposi di vigilare su di te, o signore, e quando vidi che il tuo sonno era molto profondo, mi staccai dai miei compagni e sedetti accanto a te. Ma poi, a quanto pare, mi sono io stesso addormentato, io che volevo proteggere il tuo sonno. Male ho eseguito il dovere mio, la stanchezza m'ha vinto. Ma ora che tu sei sveglio, lasciami andare, perché possa raggiungere i miei fratelli». 

«Ti ringrazio, Samana, d'aver vegliato sul mio sonno» disse Siddharta. «Siete premurosi, voi, discepoli del Sublime. Ora puoi andare». 

«Vado, signore. Possa tu sempre star bene». 

«Ti ringrazio, Samana». 

Govinda fece un segno di saluto, e disse: «Addio». 

«Addio, Govinda» disse Siddharta. Il monaco s'arrestò. «Scusa, signore, come sai il mio nome?». Allora Siddharta sorrise. 

«Io ti conosco, o Govinda, da quando vivevi in casa di tuo padre, e dal tempo in cui andavi a scuola dai Brahmini, e dal tempo dei sacrifici, e dal tempo in cui ci recammo presso i Samana, e da quell'ora in cui tu, nel boschetto di Jetavana, passasti fra le schiere del Sublime». 

«Tu sei Siddharta!» gridò forte Govinda. «Ora ti riconosco, e non riesco più a capire come non t'abbia subito riconosciuto. Benvenuto, Siddharta, grande è la mia gioia di rivederti». 

«Anch'io son lieto di rivederti. Tu hai vegliato sul mio sonno, e ancora te ne ringrazio, sebbene non avessi bisogno di alcun guardiano. Dove vai, amico?». 

«In nessun posto, vado. Sempre siamo in cammino, noi monaci, solo che non piova, sempre in moto da un luogo all'altro, viviamo secondo la nostra Regola, predichiamo la dottrina, raccogliamo elemosine, e passiamo oltre. Sempre così. Ma tu, Siddharta, dove vai?». 

Disse Siddharta: «Anch'io mi trovo in una condizione come la tua, amico. Non vado in nessun posto. Sono soltanto in cammino. Vado errando». 

Govinda rispose: «Tu dici: vado errando, e io ti credo. Ma perdona, o Siddharta, non hai l'aria d'un pellegrino. Porti un abito da signore, porti scarpe da uomo raffinato, e i tuoi capelli, cosparsi d'acqua odorosa, non sono i capelli d'un pellegrino, la chioma d'un Samana». 

«Ebbene, caro, la tua osservazione è esatta, nulla sfugge all'acume del tuo occhio. Ma io non ho detto d'essere un Samana. Ho detto: vado errando. E così è: vado errando». 

«Vai errando» disse Govinda. «Ma pochi vanno in pellegrinaggio con simili abiti, con simili scarpe, con capelli acconciati a quel modo. Mai ho incontrato un pellegrino simile, io che vado errando già da tanti anni». 

«Lo credo, mio Govinda. Ma ora, oggi, tu hai incontrato un pellegrino simile, con queste scarpe, con questi abiti. Ricordati, caro: effimero è il mondo delle apparenze, effimeri, quanto mai effimeri, sono i nostri abiti, e la foggia dei nostri capelli, e i nostri capelli e i nostri stessi corpi. Io porto abiti da persona ricca, hai visto bene. Li porto perché sono stato ricco, e porto i capelli come li porta la gente mondana e i gaudenti, perché anch'io sono stato uno di quelli». 

«E ora, Siddharta, che sei, ora?». 

«Non lo so, ne so meno di te. Sono in cammino. Fui ricco, e non lo son più; ciò che sarò domani, non lo so». 

«Hai perduto le tue ricchezze?». 

«Sì, le ho perdute, o forse esse hanno perduto me. Mi sono sfuggite. Rapida si volge la ruota delle apparenze, Govinda. Dov'è il Brahmino Siddharta? Dov'è il ricco Siddharta? Rapida è la vicenda delle cose mortali, tu lo sai, Govinda». 

Govinda guardò a lungo l'amico della sua giovinezza; il dubbio era nei suoi occhi. Poi lo salutò, come si salutano le persone di riguardo, e se ne andò per la sua strada. 

Siddharta lo seguì con lo sguardo, sorridendo: amava ancor sempre quell'uomo timido e fedele. E come avrebbe potuto, in quel momento, in quella ora eccezionale dopo il sonno meraviglioso, compenetrato dell'Om, non amare qualcuno o qualcosa! Proprio in ciò consisteva l'incantesimo che nel sonno e attraverso l'Om s'era prodotto in lui, che ora egli amava ogni cosa, era pieno di lieto amore per tutto ciò che vedeva. E proprio questa — così ora gli pareva — era stata finora la sua grave malattia, di non saper amare nulla e nessuno. 

Sorridendo Siddharta seguì con lo sguardo il monaco che s'allontanava. Il sonno l'aveva rimesso in forze, ma lo torturava la fame, poiché da due giorni non mangiava, ed era ormai lontano il tempo in cui sapeva resistere ai morsi della fame. Indispettito, ma anche divertito, si ricordò di quel tempo. Allora, così si ricordava, di tre cose s'era vantato con Kamala, tre nobili e insuperabili arti: digiunare, aspettare, pensare. Questo era stato la sua proprietà, la sua potenza e la sua forza, il suo fermo sostegno; queste tre arti aveva appreso negli anni diligenti e laboriosi della sua giovinezza, e nulla più. E ora esse lo avevano abbandonato, nessuna era più sua, né il digiunare, né l'attendere, né il pensare. Per la cosa più meschina le aveva cedute, la più effimera, per il piacere dei sensi, gli agi della vita, la ricchezza! Strana e rara era stata in sostanza la sua sorte. E ora, a quanto pareva, ora era diventato realmente un uomo-bambino, anche lui. 

Siddharta meditava sulla sua condizione. Gli riusciva duro pensare, non ci provava più alcun piacere, ma pure vi si costrinse. 

Ora, pensò, poiché tutte queste cose effimere mi sono di nuovo sfuggite, ora eccomi di nuovo alla bella stella, tale e quale come quand'ero bambino: nulla posseggo, nulla so, nulla posso, nulla ho imparato. Meraviglioso! Ora, che non son più giovane, che i miei capelli sono già mezzo grigi, che le forze mi abbandonano, ora ricomincio da capo, dall'infanzia! Di nuovo dovette sorridere! Strano destino, davvero! S'era messo a marciare a ritroso, e ora si trovava di nuovo vuoto, nudo e sciocco nel mondo. Ma non poteva sentire amarezza per questo, no, anzi, perfino una gran voglia di ridere, ridere di se stesso, di questo strano, pazzo mondo. «A ritroso cammini!» egli si disse, e ci rise su. E nel dire ciò pose l'occhio sul fiume, e vide anche il fiume scorrere a ritroso, sempre in su, sempre in su, e intanto cantare allegramente. In verità ciò gli piacque, ed egli sorrise amichevolmente al fiume. Non era questo il fiume in cui si era voluto annegare, una volta, cent'anni fa? o se l'era sognato? 

Meravigliosa fu in verità la mia vita — pensava — meravigliose vie ha seguito. Ragazzo, non ho avuto a che fare se non con dèi e sacrifici. Giovane, non ho avuto a che fare se non con ascesi, meditazione e concentrazione, sempre in cerca di Brahma, sempre intento a venerare l'eterno nell'Atman. Ma quando fui un giovanotto mi riunii ai penitenti, vissi nella foresta, soffersi il caldo e il gelo, appresi a sopportare la fame, appresi a far morire il mio corpo. Meravigliosa mi giunse allora la rivelazione attraverso la dottrina del grande Buddha, e sentii la conoscenza dell'unità del mondo circolare in me come il mio stesso sangue. Ma anche da Buddha e dalla grande conoscenza mi dovetti staccare. Me n'andai, e appresi da Kamala la gioia d'amore, appresi da Kamaswami il commercio, accumulai denaro, dissipai denaro, appresi ad amare il mio stomaco, a lusingare i miei sensi. Molti anni dovetti impiegare per perdere lo spirito, disapprendere il pensiero, dimenticare l'unità. Non è forse come se lentamente e per grandi traviamenti io mi fossi rifatto, d'uomo, bambino, di saggio che ero, un uomo puerile? Eppure è stata buona questa via, e l'usignolo non è ancor morto nel mio petto. Ma che via fu questa! Son dovuto passare attraverso tanta sciocchezza, tanta bruttura, tanto errore, tanto disgusto e delusione e dolore, solo per ridiventare bambino e poter ricominciare da capo. Ma è stato giusto, il mio cuore lo approva, gli occhi miei ne ridono. Ho dovuto provare la disperazione, ho dovuto abbassarmi fino al più stolto di tutti i pensieri, al pensiero del suicidio, per poter rivivere la grazia, per riapprendere l'Om, per poter di nuovo dormire tranquillo e risvegliarmi sereno. Ho dovuto essere un pazzo, per sentire di nuovo in me l'Atman. Ho dovuto peccare per poter rivivere. Dove può ancora condurmi il mio cammino? Stolto è questo cammino, va strisciando obliquamente, forse va in cerchio. Ma vada come vuole, io son contento di seguirlo. 

Sentiva una gioia meravigliosa palpitargli nel petto. 

Ma dove hai preso — chiese al proprio cuore — dove hai preso quest'allegrezza? Viene forse da questo lungo, buon sonno che mi ha fatto tanto bene? O dalla parola Om che ho pronunciato? O dal fatto che me la son squagliata, che la mia fuga è compiuta, che finalmente son di nuovo libero e sto sotto il cielo come un bambino? Oh, quanto bene mi fa quest'essere fuggito, quest'essere ridiventato libero! Che aria bella e pura, qui, come fa bene il respirarla! Là, nei luoghi dai quali son sfuggito, là tutto puzzava di unguenti, di spezie, di vino, di abbondanza, di pigrizia. Come odiavo quel mondo di ricchi, di gaudenti, di giocatori! Come mi sono odiato, d'esser rimasto tanto a lungo in quell'orribile mondo! Oh, mai più m'immaginerò, come un tempo facevo così volentieri, che Siddharta sia saggio! Ma questa l'ho indovinata, questo mi piace, di questo mi devo lodare, d'averla fatta finita con quell'odio contro me stesso, con quella vita squallida e stolta! Bravo, Siddharta, dopo tanti anni di pazzia finalmente hai di nuovo avuto una buona idea, hai fatto qualche cosa, hai sentito cantare l'usignolo nel tuo petto e l'hai seguito! 

Così si lodava, così gioiva di sé, e ascoltava con curiosità il proprio stomaco, che brontolava per la fame. Ora se n'accorgeva, che porzione dura di dolore, che dura porzione di miseria egli avesse sorbito e risputato in questi ultimi tempi, masticandola fino alla disperazione e alla morte. Così andava bene. Ancora a lungo avrebbe potuto restare con Kamaswami, guadagnare denaro, sprecar denaro, ingrassarsi il ventre e inaridirsi l'anima, a lungo avrebbe ancora potuto restare ad abitare in quel dolce inferno così soffice e imbottito, se non fosse giunto semplicemente questo: il momento della perfetta sfiducia e disperazione, quel momento supremo in cui egli s'era proteso sulla corrente del fiume, ed era stato pronto ad annientarsi. Che egli avesse provato questa disperazione, questa profondissima nausea, e non vi fosse soggiaciuto, che l'usignolo, con la sua fresca voce di fonte canterina, ancora vivesse in lui, nonostante tutto, questo formava ora la sua gioia, questo era adesso motivo del suo riso, della luce che gli illuminava il volto sotto i capelli grigi. 

«È bene» pensava «sperimentare personalmente tutto ciò che si ha bisogno di sapere. Che i piaceri mondani e la ricchezza non siano un bene, questo l'avevo già imparato da bambino. Saperlo, lo sapevo già da un pezzo; ma viverlo, l'ho vissuto soltanto ora. E ora lo so; lo so non solo con la mia mente, ma lo so coi miei occhi, col mio cuore, col mio stomaco. Buon per me, che lo so!». 

Rifletté a lungo sulla propria trasformazione e porse ascolto all'usignolo, come cantava di gioia. Non era morto in lui questo uccello? non ne aveva sentito la morte? No, qualcos'altro era morto in lui, che già da tempo agognava la morte. Non era questo ciò ch'egli aveva voluto uccidere negli anni ardenti della sua penitenza? Non era il suo Io, il suo piccolo, pavido e orgoglioso Io col quale aveva combattuto per tanti anni, e che sempre l'aveva vinto, ucciso, ed era risorto ogni volta, a vietargli la gioia, a ispirargli paura? Non era questo ciò che oggi finalmente aveva trovato la morte, qui nella foresta, lungo questo ameno fiume? Non era a causa di questa morte che egli adesso si sentiva di nuovo come un bambino, così pieno di fiducia, di gioi ignaro di paura? 

Ora Siddharta intuì pure perché da Brahmino, da penitente, avesse invano lottato col proprio Io. Troppa scienza l'aveva impacciato, troppi sacri versetti, troppe regole per i sacrifici, troppa mortificazione, troppo affanno di azione! Pieno d'orgoglio era stato, sempre il più intelligente, sempre il più diligente, sempre di un passo davanti agli altri, sempre lui a sapere, sempre lui a vivere nello spirito, sempre lui il sacerdote o il saggio. In questo sacerdozio, in questo orgoglio, in questa spiritualità, s'era annidato il suo Io, là sedeva indisturbato e prosperava, mentr'egli credeva d'ucciderlo con digiuni e penitenza. Ora se n'accorgeva, ora vedeva che la voce segreta aveva avuto ragione, che nessun maestro mai lo avrebbe potuto liberare. Per questo aveva dovuto scendere nel mondo, perdersi nel piacere e nel potere, nelle donne e nell'oro, aveva dovuto diventare un mercante, un giocatore di dadi, un beone e un avaro, finché il sacerdote e il Samana in lui fossero morti. Per questo aveva dovuto continuare a sopportare quegli anni odiosi, sopportare il disgusto, la dottrina, l'insensatezza d'una vita squallida e perduta, fino al fondo, fino all'amarezza della disperazione, finché anche Siddharta il gaudente, anche Siddharta l'avaro, potesse morire. Adesso era morto, un nuovo Siddharta s'era ridesto da quel sonno. Anch'egli sarebbe invecchiato, anch'egli un giorno avrebbe dovuto morire; Siddharta era caduco, caduca ogni forma sensibile. Ma oggi egli era giovane, era un bambino, il nuovo Siddharta, ed era pieno di gioia. 

Questi pensieri meditava, e ascoltava sorridendo il proprio stomaco, ascoltava riconoscente il ronzio d'un'ape. Serenamente contemplava la corrente del fiume; mai un'acqua gli era tanto piaciuta come questa, mai aveva sentito così forti e così belli la voce e il significato dell'acqua che passa. Gli pareva che il fiume avesse qualcosa di speciale da dirgli, qualcosa ch'egli non sapeva ancora, qualcosa che aspettava proprio lui. In quel fiume Siddharta s'era voluto annegare, in quel fiume oggi s'era annegato il vecchio, stanco, disperato Siddharta. Ma il nuovo Siddharta sentiva un amore profondo per quest'acqua fluente, e decise tra sé di non abbandonarla tanto presto. 

 

Il barcaiolo 

 

Presso questo fiume voglio restare, pensava Siddharta; è lo stesso sul quale sono passato una volta mentre mi recavo dagli uomini-bambini. Un cortese barcaiolo allora m'aveva traghettato. Voglio andare da lui, dalla sua capanna una volta il mio cammino m'aveva condotto a una nuova vita, che ora è diventata vecchia e spenta: così possa anche il mio cammino d'oggi, la mia nuova vita d'oggi trovare laggiù il suo approdo! 

Affettuosamente guardò il fluir dell'acqua, in quel suo verde trasparente, nelle linee cristalline del suo disegno pieno di segreti. Perle leggere vedeva salire dal profondo, tranquille bolle d'aria galleggiavano alla superficie, e l'azzurro del cielo vi si rifletteva. E anche il fiume lo guardava a sua volta, coi suoi mille occhi verdi, bianchi, cristallini, azzurri come il cielo. Quest'acqua lo affascinava: quanto l'amava, come le era riconoscente! Udiva in cuore parlare la voce ora ridesta, ed essa gli ripeteva: Ama quest'acqua! Resta con lei! Impara da lei! Oh sì, voleva ascoltarla, da lei voleva imparare! Chi fosse riuscito a comprendere quell'acqua e i suoi segreti — così gli pareva — avrebbe compreso anche molte altre cose, molti segreti, tutti i segreti. 

Ma dei segreti del fiume, per quest'oggi non vedeva che una cosa sola, tale però da afferrare interamente l'anima sua. Ecco quel che vedeva: quest'acqua correva correva, sempre correva, eppure era sempre lì, era sempre e in ogni tempo la stessa, eppure in ogni istante un'altra! Oh, chi potesse afferrar questo mistero, comprenderlo! Egli non lo afferrava né lo comprendeva, sentiva soltanto un presagio muoversi in lui, ricordi lontani, voci divine. 

Siddharta s'alzò: insopportabile diventava il morso della fame. Mosse oltre, sulla riva superiore, incontro alla corrente, ascoltandone il fruscio e ascoltando i brontolii della fame nel suo corpo. 

Quando raggiunse il traghetto, la barca era appunto pronta, e vi stava dentro lo stesso barcaiolo che una volta aveva trasportato il giovane Samana oltre il fiume. Siddharta lo riconobbe, ma era invecchiato anche lui. 

«Vuoi traghettarmi?» chiese. 

Il barcaiolo, stupito di vedere un signore così distinto andarsene solo a piedi, lo fece salire nella barca, e salpò. 

«Una bella vita ti sei scelto» cominciò il viaggiatore. «Bello dev'essere vivere ogni giorno su questa acqua e attraversarla di continuo». 

Il rematore si chinò sorridendo: «È bello, signore, proprio come tu dici. Ma non è bella ogni vita, ogni lavoro?». 

«Difatti, può essere. Però t'invidio per la tua vita». 

«Ahimè, te ne passerebbe presto il gusto. Non è vita per gente così ben vestita». 

Siddharta rise. «Già una volta quest'oggi sono stato giudicato dai miei abiti, giudicato con diffidenza. Non vorresti, barcaiolo, prenderti questi abiti che mi sono venuti a noia? Perché devi sapere che non ho il denaro per pagarti il traghetto». 

«Il signore scherza» rise il barcaiolo. 

«Non scherzo affatto, amico. Vedi, già una volta tu m'hai fatto attraversare quest'acqua nella tua barca, per amor di Dio. Fa' così anche oggi, e prenditi i miei abiti in cambio». 

«E il signore vuol continuare il viaggio senza vestiti?». 

«Ahimè, più di tutto mi piacerebbe non continuarlo affatto, il viaggio. Più di tutto mi piacerebbe che tu, barcaiolo, mi dessi un vecchio grembiule e mi tenessi con te come tuo garzone, o meglio come tuo apprendista, perché prima devo imparare come si fa a guidare la barca». 

Il barcaiolo guardò a lungo il forestiero, con occhio indagatore. 

«Ora ti riconosco» disse alla fine. «Una volta tu hai dormito nella mia capanna, tanto tempo fa, forse più di vent'anni, e poi io ti portai dall'altra parte del fiume e ci separammo come buoni amici. Non eri un Samana? Del tuo nome non mi riesco più a ricordare». 

«Mi chiamo Siddharta, ed ero un Samana quando l'altra volta tu mi vedesti». 

«Allora benvenuto, Siddharta. Io mi chiamo Vasudeva. Anche oggi sarai mio ospite, spero, e dormirai nella mia capanna e mi racconterai di dove vieni e perché i tuoi magnifici abiti ti son venuti tanto a noia». 

Erano arrivati in mezzo al fiume e Vasudeva si appoggiava più forte sul remo per superare la corrente. Lavorava tranquillo, con lo sguardo alla prua della barca, le braccia nerborute. Siddharta, seduto, lo guardava, e si ricordava che già una volta, in quell'ultimo giorno della sua vita di Samana, aveva sentito in cuore una specie d'amore per questo uomo. Con riconoscenza accettò l'invito di Vasudeva. Quando giunsero a riva, egli lo aiutò a ormeggiare la barca al piolo, e il barcaiolo lo invitò a entrare nella capanna, gli offrì pane e acqua e Siddharta mangiò di gusto; mangiò di gusto anche i frutti del mango che Vasudeva gli offrì. 

Poi verso l'ora del tramonto si misero a sedere su un tronco d'albero lungo la riva, e Siddharta raccontò al barcaiolo donde venisse e quale fosse stata la sua vita, così come oggi, in quell'ora di disperazione, l'aveva vista riemergere davanti ai propri occhi. Fino a tarda notte durò il suo racconto. 

Vasudeva ascoltò con grande attenzione. Tutto assimilò ascoltando: nascita e fanciullezza di Siddharta, tutti i suoi studi, tutto il suo gran cercare, tutta la gioia, tutta la pena. Tra le virtù del barcaiolo questa era una delle più grandi: sapeva ascoltare come pochi. Senza ch'egli avesse detto una parola, Siddharta parlando sentiva come Vasudeva accogliesse in sé le sue parole, tranquillo, aperto, tutto in attesa, e non ne perdesse una, non ne aspettasse una con impazienza, non vi annettesse né lode né biasimo: semplicemente, ascoltava. Siddharta sentì quale fortuna sia imbattersi in un simile ascoltatore, affondare la propria vita nel suo cuore, i propri affanni, la propria ansia di sapere. 

Ma verso la fine del racconto di Siddharta, quando egli parlò dell'albero presso il fiume e dell'abisso in cui egli stesso era caduto, del sacro Om e dell'amore per quel fiume che improvvisamente aveva sentito ridestandosi dal proprio sonno, allora il barcaiolo lo ascoltò con raddoppiata attenzione, con piena e totale dedizione, a occhi chiusi. 

Ma quando Siddharta tacque e dopo che ci fu stato un lungo silenzio, allora parlò Vasudeva: «È così come pensavo. Il fiume ti ha parlato. Anche a te è amico, anche a te parla. Questo è bene, molto bene. Resta con me, Siddharta, amico. Una volta avevo una moglie, vicino al mio c'era il suo pagliericcio: ora son tanti anni che morta, tanti anni che vivo solo. Ora vivi tu con me, posto e cibo per due ce n'è». 

«Ti ringrazio,» disse Siddharta «ti ringrazio e accetto. E ti ringrazio anche d'avermi ascoltato così bene! Sono rari gli uomini che sanno ascoltare, e non ne ho mai incontrato uno che fosse così bravo come sei tu. Anche in questo avrò da imparare da te». 

«Imparerai anche questo,» disse Vasudeva «ma non da me. Ad ascoltare mi ha insegnato il fiume, e anche tu imparerai da lui. Lui sa tutto, il fiume, tutto si può imparare da lui. Vedi, anche questo tu l'hai già imparato dall'acqua, che è bene discendere, tendere verso il basso, cercare il profondo. Il ricco e splendido Siddharta diventa un garzone al remo, il dotto Brahmino Siddharta si fa barcaiolo: anche questo te l'ha detto il fiume. E anche il resto lo imparerai da lui». 

Siddharta parlò, dopo una lunga pausa. «Che altro, Vasudeva?». 

Vasudeva si alzò. «Si è fatto tardi,» disse «andiamo a dormire. Non posso dirti che cosa sia "il resto", amico. Lo imparerai, fors'anche lo sai già. Vedi, io non sono un sapiente, non so parlare, non so nemmeno pensare. So soltanto ascoltare ed essere pio, altro non ho imparato mai. Se potessi dirtelo e insegnartelo, forse sarei un sapiente, ma invece non sono che un barcaiolo, e il mio compito è di portare gli uomini al di là di questo fiume. Molti ne ho traghettati, migliaia, e per tutti costoro il mio fiume non è stato altro che un ostacolo sul loro cammino. Viaggiavano per denaro e per affari, per nozze, per pellegrinaggi, e il fiume sbarrava loro il cammino, ed ecco, qua c'era il barcaiolo che presto li portava oltre l'ostacolo. Ma fra quelle migliaia alcuni pochi, quattro o cinque, non più, per i quali il fiume aveva cessato d'essere un ostacolo, ne hanno sentito la voce, l'hanno ascoltato, e il fiume è diventato loro sacro, come per me. E ora andiamo a riposare, Siddharta». 

Siddharta rimase dal barcaiolo e apprese a manovrare la barca, e se non c'era nulla da fare al traghetto, lavorava con Vasudeva nella risaia, andava per legna, faceva il raccolto delle banane. Imparò a fabbricare un remo e a riparare la barca, imparò a intrecciare ceste, ed era contento d'imparar tutte queste cose, e i giorni e i mesi gli passavano velocemente. Ma più di quanto Vasudeva potesse insegnargli, gli insegnava il fiume. Prima di tutto apprese da lui ad ascoltare, a porger l'orecchio con animo tranquillo, con l'anima aperta, in attesa, senza passione, senza desiderio, senza giudicare, senza opinioni. 

Viveva con affetto accanto a Vasudeva, e talvolta scambiavano qualche parola, poche e ben ponderate parole. Vasudeva non era amico delle parole, e raramente riusciva a Siddharta d'indurlo alla conversazione. 

Una volta gli chiese: «Hai appreso anche tu quel segreto del fiume: che il tempo non esiste?». 

Un chiaro sorriso si diffuse sul volto di Vasudeva. «Sì, Siddharta» rispose. «Ma è questo ciò che tu vuoi dire: che il fiume si trova dovunque in ogni istante, alle sorgenti e alla foce, alla cascata, al traghetto, alle rapide, nel mare, in montagna, dovunque in ogni istante, e che per lui non vi è che presente, neanche l'ombra del passato, neanche l'ombra dell'avvenire?». 

«Sì, questo» disse Siddharta. «E quando l'ebbi appreso, allora considerai la mia vita, e vidi che è anch'essa un fiume, vidi che soltanto ombre, ma nulla di reale, separano il ragazzo Siddharta dall'uomo Siddharta e dal vecchi Siddharta. Anche le precedenti incarnazioni di Siddharta non furono un passato, e la sua morte e il suo ritorno a Brahma non sono un avvenire. Nulla fu, nulla sarà: tutto tutto ha realtà e presenza». 

Siddharta parlava con entusiasmo; questa rivelazione l'aveva reso profondamente felice. Oh, non era forse il tempo la sostanza d'ogni pena, non era forse il tempo la sostanza d'ogni tormento e d'ogni paura, e non sarebbe stato superato e soppresso tutto il male, tutto il dolore del mondo, appena si fosse superato il tempo, appena si fosse trovato il modo di annullare il pensiero del tempo? Con entusiasmo aveva parlato, ma Vasudeva gli sorrise col volto illuminato di compiacimento nell'atto di rivolgergli un cenno silenzioso di consenso; posò la mano sulla spalla di Siddharta e poi si rivolse al suo lavoro. 

E un'altra volta, che appunto il fiume s'era gonfiato per le piogge e scrosciava con fragore, disse Siddharta: «Non è vero, amico, che il fiume ha molte voci, moltissime voci? Non ha la voce d'un re, e quella d'un guerriero, e quell d'un toro, e d'un uccello notturno, e d'una partoriente, d'uno che gema e ancora mille altre voci?». 

«Così è,» ammise Vasudeva «tutte le voci delle creature sono nella sua». 

«E sai» continuò Siddharta «che parola dice, quando ti riesce di udire tutte insieme le sue diecimila voci?». 

Felice rise il volto di Vasudeva: egli si chinò verso Siddharta e gli sussurrò all'orecchio il sacro Om. Ed era proprio questo ciò che anche Siddharta aveva udito. 

E di volta in volta il suo sorriso diventava sempre più simile a quello del barcaiolo, quasi altrettanto raggiante, quasi altrettanto pervaso di felicità, altrettanto splendente da mille piccole rughe, altrettanto infantile, altrettanto vecchio. Molti viaggiatori, vedendo insieme i due barcaioli, li credevano fratelli. Spesso sedevano insieme di sera su u tronco presso la riva, e tutti e due ascoltavano l'acqua, eh per loro non era acqua, ma la voce della vita, la voce di ci che è ed eternamente diviene. E accadeva alle volte che entrambi ascoltando il fiume pensassero alle stesse cose, a un discorso fatto due giorni innanzi, a uno dei loro viaggiatori il cui destino li interessava, alla morte, alla loro infanzia, e che entrambi nello stesso momento in cui il fiume aveva detto loro qualche parola buona, si guardassero l'un l'altro, pensando entrambi esattamente la stessa cosa, felici entrambi per questa medesima risposta alla medesima domanda. 

C'era qualcosa in quel traghetto e in quei due barcaioli che non sfuggiva a certuni dei viaggiatori. Accadeva talvolta che uno dei viaggiatori, dopo aver guardato in volto uno dei barcaioli, cominciasse a raccontare la propria vita, rivelasse sofferenze, confessasse torti, chiedesse consolazione e consiglio. Accadeva talvolta che qualcuno chiedesse il permesso di passare la sera con loro per ascoltare il fiume. E accadeva anche che arrivassero curiosi, ai quali era stato raccontato che vivevano a questo traghetto due saggi, o stregoni, o santi. I curiosi facevano un mare di domande, e non ricevevano l'ombra d'una risposta; non trovavano né stregoni né saggi, ma solo due buoni vecchietti, che parevano muti e un po' bislacchi, forse anche un po' scemi. E i curiosi ridevano e conversando tra loro ammiravano con quanta stoltezza e leggerezza il popolo accetti e sparga simili voci senza fondamento. 

Gli anni passavano e nessuno li contava. Una volta giunsero anche monaci in pellegrinaggio, seguaci di Gotama, il Buddha, che pregarono d'essere traghettati; da loro appresero i barcaioli che ritornavano in tutta fretta presso il loro maestro, poiché s'era sparsa la voce che il Sublime fosse in punto di morte e presto avrebbe sperimentato la sua ultima morte umana, per trapassare alla liberazione. Non passò molto, che giunse una nuova schiera di monaci, e poi un'altra, e tanto i monaci quanto la maggior parte degli altri viaggiatori e viandanti non parlarono d'altro che di Gotama e della sua prossima morte. E come per una campagna militare o per l'incoronazione d'un re gli uomini affluiscono da ogni parte e si dispongono in schiere come formiche, così affluivano, come attirati per magia, là dove il grande Buddha aspettava la morte, dove l'evento straordinario avrebbe avuto luogo e quel grande perfetto d'una delle età de mondo avrebbe fatto il suo ingresso nella beatitudine. 

Molto pensò Siddharta in questo tempo al saggio in agonia, al grande maestro la cui voce aveva ammonito i popoli e risvegliato gli uomini a centinaia di migliaia, la cui voce anch'egli un tempo aveva udito, il cui sacro volto anch'egli un tempo aveva contemplato con rispetto. Si ricordò con affetto di lui, vide davanti ai propri occhi la sua via di perfezione e ripensò sorridendo alle parole che un tempo, da giovane, egli aveva rivolto a lui, al Sublime. Da lungo tempo sapeva di non essere più separato da Gotama, sebbene non avesse accolto la sua predicazione. No, l'uomo che cerca veramente, l'uomo che veramente vuol trovare, non può accogliere nessuna dottrina. Ma quell'altro uomo, quello che ha trovato, quello può salutare con gioia ogni dottrina, ogni via, ogni meta: quello, più nulla lo separa dalle migliaia di quegli altri che vissero nell'eterno, che respirarono il divino. In uno di questi giorni, in cui tanti pellegrini muovevano in frotta verso il Buddha morente, si mosse a quella meta anche Kamala, una volta la più bella delle cortigiane. Già da lungo tempo ella aveva abbandonato il proprio giardino a monaci di Gotama, s'era convertita alla sua dottrina, e faceva parte delle amiche e benefattrici dei pellegrini. Insieme col piccolo Siddharta, suo figliolo, s'era messa in cammino alla notizia della prossima morte di Gotama, semplicemente vestita, a piedi. Col suo figlioletto era giunta fino a fiume; ma il bambino s'era presto stancato, voleva mangiare, diventava capriccioso e piagnucoloso, Kamala dovette spesso sostare a riposare con lui; era abituato a imporle la propria volontà, ed ella dovette dargli da mangiare, dovette consolarlo, dovette sgridarlo. Egli non capiva perché mai avesse dovuto intraprendere con sua madre quel triste e faticoso pellegrinaggio verso un luogo sconosciuto, verso un estraneo, che era santo, e in punto di morte. E morisse una buona volta, cosa glien'importava a lui? 

I pellegrini non erano più lontani dal traghetto di Vasudeva, quando il piccolo Siddharta costrinse ancora una volta sua madre a una sosta. Anche lei, del resto, era stanca, e mentre il ragazzo si accoccolava presso un albero di banane, ella si lasciò andare a terra, chiuse un poco gli occhi e riposò. Ma improvvisamente emise un piccolo grido, il ragazzo la guardò spaventato, e le vide il volto sbiancato dal terrore: da sotto i suoi abiti sbucò fuori un serpentello nero, dal quale era stata morsicata. 

Corsero in fretta tutti e due lungo il sentiero, per giungere in luoghi abitati, e giunsero fino in prossimità del traghetto, ma là Kamala si accasciò a terra e non poté più proseguire. Il ragazzo levava grida lamentose e di tanto in tanto abbracciava e baciava sua madre; anche lei uni la propria voce alla sua in forti grida di soccorso, finché queste giunsero all'orecchio di Vasudeva, che si trovava al traghetto. Arrivò di corsa, prese la donna sulle braccia, la depose nella barca, il fanciullo corse con lui, e ben presto giunsero tutti alla capanna, dove Siddharta stava accendendo il fuoco nel focolare. Egli volse lo sguardo e vide prima il volto del bambino, che toccò meravigliosamente la sua memoria, lo ricondusse a qualcosa di dimenticato. Poi vide Kamala, e la riconobbe subito, sebbene giacesse svenuta nelle braccia del barcaiolo, e immediatamente seppe che quello, il cui volto l'aveva tanto toccato, era suo figlio. Il cuore gli batté più forte in petto. 

La ferita di Kamala venne lavata, ma era già nera e il suo corpo si gonfiava; le fecero sorbire una bevanda medicinale. Quando riprese coscienza, giaceva sul giaciglio di Siddharta nella capanna, e Siddharta stava chino su di lei, Siddharta che ella aveva un tempo così teneramente amato. Le parve un sogno; sorridendo contemplò il volto dell'amico, solo lentamente si rese conto della propria condizione, si ricordò del morso, chiamò ansiosamente il bambino. 

«È vicino a te, non temere» disse Siddharta. 

Kamala lo guardò negli occhi. Parlò, ma la sua lingua era spessa, appesantita dal veleno. «Sei diventato vecchio, amore» disse. «Grigio sei diventato. Ma sembri ancora il giovane Samana che un giorno venne a me nel giardino, senz'abiti e coi piedi impolverati. Gli assomigli molto più di quanto non gli somigliassi allora, quando abbandonasti me e Kamaswami. Negli occhi gli assomigli, Siddharta. Ahimè, son diventata vecchia anch'io, vecchia... Mi riconosceresti ancora?». 

Siddharta sorrise: «Subito ti riconobbi, Kamala, amore». 

Kamala indicò il bambino e disse: «Anche lui hai riconosciuto? È tuo figlio». 

I suoi occhi s'intorbidirono e si chiusero. Il bimbo piangeva, Siddharta lo prese sulle ginocchia, lo lasciò piangere, gli carezzò i capelli, e alla vista di quel volto di bambino gli ritornò in mente una preghiera brahminica ch'egli aveva imparato una volta da bambino. Lentamente, con voce cantante, cominciò a pronunciarla: le parole gli venivano incontro dal lontano passato della sua fanciullezza. E al suono di quella cantilena il ragazzo si calmò, singhiozzò ancora una volta o due, e s'addormentò. Siddharta lo posò sul giaciglio di Vasudeva. Questi accudiva al focolare e cuoceva il riso. Siddharta gli gettò un'occhiata, ch'egli ricambiò sorridendo. 

«Morirà» disse piano Siddharta. 

Vasudeva annuì; sul suo viso affettuoso corsero i riflessi del focolare. 

Ancora una volta Kamala ritornò in sé. Lo spasimo le contraeva il volto, l'occhio di Siddharta le leggeva le sofferenze sulla bocca, sulle guance sbiancate. Scorgeva tutto ciò silenziosamente, attento e pronto, concentrato nel dolore di lei. Kamala lo sentì, e con lo sguardo cercò il suo occhio. 

Guardandolo disse: «Ora vedo che anche i tuoi occhi sono cambiati. Affatto diversi si sono fatti. Da che cosa riconosco ancora che sei Siddharta? Lo sei, e non lo sei!». 

Siddharta non parlò: le fissava gli occhi negli occhi in silenzio. 

«Ci sei riuscito?» ella chiese. «Hai trovato la pace?». Egli sorrise, e posò una mano sulle sue. «Lo vedo,» ella disse «lo vedo. Anch'io troverò la pace». 

«Tu l'hai trovata» sussurrò Siddharta. Kamala lo guardava negli occhi senza batter ciglio. Pensava che aveva voluto recarsi pellegrina da Gotama per contemplare il viso d'un uomo perfetto, per respirare la pace, e che ora invece di quello aveva trovato Siddharta, e che ciò era bene, altrettanto bene che se avesse visto quel Perfetto. Voleva dirglielo, ma la lingua non obbediva più alla sua volontà. Lo fissava in silenzio, ed egli guardava spegnersi la vita nei suoi occhi. Quando l'ultimo spasimo le dilatò l'occhio e lo spense, quando l'ultimo brivido le percorse le membra, egli le chiuse le palpebre con un dito. 

Rimase a lungo a guardare il suo volto addormentato. Contemplò a lungo la bocca, la sua vecchia, stanca bocca, con le labbra divenute sottili, e si ricordò che una volta, nella primavera degli anni, l'aveva paragonata a un fico appena spezzato. A lungo rimase a leggere nel pallido volto, nelle rughe stanche, si saziò di quella vista, vide il proprio volto giacere allo stesso modo, così bianco, così spento, e nello stesso tempo vide il proprio e il suo viso di quand'erano giovani, con le labbra rosse, con l'occhio ardente, e il sentimento del presente e della contemporaneità lo permeò completamente, il sentimento dell'eternità. Profondamente sentì in quest'ora, più profondamente che mai, l'indistruttibilità d'ogni vita, l'eternità di ogni istante. 

Quand'egli si alzò, Vasudeva aveva preparato il riso per lui. Ma Siddharta non mangiò. Nella stalla, dove era la loro pecora, i due vecchi si fecero un giaciglio, e Vasudeva si pose a dormire. Ma Siddharta uscì e passò la notte seduto fuor della capanna, ascoltando il fiume, sentendosi inondare dal passato, sentendosi sfiorare e avvolgere a un tempo da tutte le età della sua vita. Ma ogni tanto si alzava, entrava nella capanna, e origliava se il bambino dormisse. 

Di mattino presto, ancor prima che spuntasse il sole, Vasudeva venne fuori dalla stalla e si avvicinò al suo amico. 

«Tu non hai dormito» disse. 

«No, Vasudeva. Rimasi qui seduto, ad ascoltare il fiume. Molte cose mi ha detto, m'ha profondamente penetrato del pensiero di salute, il pensiero dell'unità». 

«Tu hai sofferto, Siddharta, ma vedo che non è entrata tristezza nel tuo cuore». 

«No, amico, perché mai dovrei esser triste? Io, che fui ricco e felice, sono ora diventato ancor più ricco e felice: ho avuto in dono mio figlio». 

«Benvenuto tuo figlio, anche per me. Ma ora, Siddharta, mettiamoci al lavoro; c'è molto da fare. Kamala è morta sullo stesso giaciglio su cui un giorno morì mia moglie. E ora vogliamo rizzare il rogo di Kamala sulla stessa collina su cui rizzai un giorno il rogo di mia moglie?». 

Mentre il ragazzo dormiva ancora, essi rizzarono il rogo. 

 

Il figlio 

 

Impaurito e piangente il ragazzo aveva assistito al funerale della madre, cupo e scontroso aveva ascoltato Siddharta che lo salutava come suo figlio e gli dava il benvenuto al suo fianco nella casa di Vasudeva. Pallido rimase tutto il giorno sulla collina della mamma morta, non volle mangiare, chiuse gli occhi, chiuse il cuore al mondo esterno, si schermì e si ribellò contro il destino. 

Siddharta lo trattò con dolcezza e lo lasciò fare: rispettava il suo dolore. Capiva che suo figlio non lo conosceva e non lo poteva amare come padre. Ma osservando capiva anche che quell'undicenne era un ragazzo viziato, un cocco di mamma, cresciuto nell'abitudine della ricchezza, avvezzo a cibi ricercati, a un letto morbido, a comandare i domestici a bacchetta. Siddharta capiva che, triste e viziato, il ragazzo non poteva di punto in bianco ritrovarsi tutto allegro e volenteroso nella miseria di quell'ambiente estraneo. Perciò non lo costringeva a nulla, faceva ogni lavoro per lui, gli sceglieva sempre i bocconi migliori. Sperava di conquistarlo lentamente, con affettuosa pazienza. 

Ricco e felice s'era detto, quando aveva recuperato il suo bambino. Ma poiché intanto il tempo passava, e il ragazzo continuava a rimanere chiuso e scontroso, mostrava un cuore pieno d'orgoglio e facile all'ira, non voleva saperne di lavorare, non mostrava alcun rispetto per i due vecchi e saccheggiava gli alberi di frutta di Vasudeva, Siddharta cominciò a comprendere che con suo figlio non gli erano piovute pace e felicità, ma dolore e affanno. Tuttavia lo amava e aveva più caro il dolore e l'affanno dell'amore, che pace felicità senza quel bambino. 

Da quando il piccolo Siddharta abitava nella capanna, vecchi s'erano spartito il lavoro. Vasudeva s'era assunto nuovo unicamente il compito di barcaiolo, e Siddharta, per stare con suo figlio, il lavoro di casa e nei campi. 

Lunghi mesi, lungo tempo attese Siddharta che su figlio mostrasse di comprenderlo, accettasse il suo amore possibilmente lo ricambiasse. Lunghi mesi attese Vasudeva osservando attendeva e taceva. Un giorno che il piccolo Siddharta aveva di nuovo molto afflitto suo padre con dispetti e capricci e gli aveva rotto le due scodelle del riso, Vasudeva, verso sera, prese a parte l'amico e gli parlò. 

«Scusami,» disse «ti parlo con cuore d'amico. Vedo eh ti tormenti, ti vedo nella tristezza. Tuo figlio, amico mio, la causa dei tuoi affanni, e anch'io me ne preoccupo. A altra vita, ad altro nido è avvezzo quell'uccellino. Non fuggito via, come te, per disgusto e fastidio dalla ricchezza e dalla città: tutto ciò egli l'ha dovuto abbandonare su malgrado. Io ho interrogato il fiume, o amico, molte volt l'ho interrogato. Ma il fiume ride, si fa beffe di me, di me di te, e se la ride a crepapelle per la nostra follia. Acqua vuole acqua, gioventù vuol gioventù, tuo figlio non è nel luogo adatto alla sua prosperità. Interroga anche tu il fiume, e ascoltalo anche tu!». 

Amareggiato Siddharta fissò il volto affettuoso dell'amico, nelle cui mille piccole rughe abitava una perpetua serenità. 

«Ma posso forse separarmi da lui?» chiese a bassa voce, vergognoso. «Concedimi ancora qualche tempo, amico! Vedi, io lotto per lui, per conquistarmi il suo cuore; con l'amore e con la pazienza più affettuosa voglio impadronirmene. Anche a lui dovrà un giorno parlare il fiume, anche lui è un predestinato». 

Più caldo fiorì il sorriso di Vasudeva. «Oh sì, anche lui predestinato, anche lui appartiene alla vita eterna. Ma sappiamo forse, tu e io, a che è predestinato, a qual cammino, a quali imprese, a quali dolori? Non sarà poco il suo soffrire: orgoglioso e duro è già il suo cuore, e molto devono soffrire gli uomini come lui, molto errare, molte ingiustizie commettere, caricarsi di molti peccati. Dimmi, amico: tu non educhi tuo figlio? non lo costringi? non lo picchi? non lo castighi?». 

«No, Vasudeva, non faccio nulla di tutto questo». 

«Lo sapevo. Tu non lo costringi, non lo picchi, non gli dai ordini, perché sai che c'è più forza nel molle che nel duro, sai che l'acqua è più forte della pietra, che l'amore è più forte della violenza. Molto bene, ti lodo. Ma non ti sbagli forse, credendo di non costringerlo, di non castigarlo? Non lo leghi tu forse in catene con il tuo amore? Non lo svergogni ogni giorno e non gli rendi la vita ancor più dura con la tua bontà e con la tua pazienza? Non lo costringi forse a vivere, lui, un ragazzo orgoglioso e viziato, in una capanna con due vecchi mangia-banane, per i quali il riso è già una leccornia, i cui pensieri non possono essere i suoi, il cui cuore è vecchio e calmo e ha un altro passo che il suo? Tutto questo non è forse costrizione, castigo, per lui?». 

Siddharta guardava a terra, colpito. Chiese a bassa voce: «Che cosa dovrei fare, secondo te?». 

Vasudeva parlò: «Riportalo in città, riportalo nella casa di sua madre: là ci saranno ancora servitori, affidalo a loro. E se non ce ne saranno più portalo a un maestro, non tanto perché studi, ma perché si trovi con altri ragazzi e ragazze, ed entri nel mondo che è suo. Non ci hai mai pensato?». 

«Tu vedi dentro il mio cuore» disse Siddharta con tristezza. «Ci ho pensato spesso. Ma vedi, come posso affidarlo a quel mondo, lui, che è tutt'altro che un cuore mite? Non mi diventerà protervo, non si perderà nei piaceri e nel gusto della potenza, non ripeterà tutti gli errori di suo padre, non correrà forse il rischio di perdersi irrimediabilmente nella samsara?». 

Il sorriso del barcaiolo si fece luminoso; egli toccò con dolcezza il braccio di Siddharta, e disse: «Ma su questo interroga il fiume, amico! Ascolta come ne ride! Dunque, tu credi proprio d'aver commesso le tue follie per risparmiarle a tuo figlio? E puoi forse proteggere tuo figlio dalla samsara? In che modo? Con la dottrina, con la preghiera, con le esortazioni? Caro mio, hai dunque interamente dimenticato quella storia, quella istruttiva storia di Siddharta, il figlie del Brahmino, che tu mi raccontasti proprio qui, in queste stesso posto? Chi ha protetto il Samana Siddharta dalla samsara, dal peccato, dall'avidità, dalla stoltezza? Forse l'hanno potuto proteggere la compunzione di suo padre, le esortazioni dei suoi maestri, la sua stessa dottrina, la si stessa ansia di ricerca? Qual padre, qual maestro ha potuto proteggerlo da questa necessità di vivere egli stesso la sua vita, di caricarsi egli stesso la sua parte di colpe, di bere egli stesso l'amaro calice, di trovare egli stesso la sua via? Credi dunque, amico, che questa via qualcuno se la possa risparmiare? Forse il tuo figlioletto, perché tu gli vuoi bene, per che tu vorresti risparmiargli sofferenze, dolore, delusione Ma anche se tu morissi per lui dieci volte, non potresti sol levarlo della più piccola particella del suo destino». 

Vasudeva non aveva ancor mai pronunciato tante pare le in una volta sola. Siddharta lo ringraziò affettuosamente poi rientrò amareggiato nella capanna, e per lungo tempo non poteprender sonno. Vasudeva non gli aveva detto nulla ch'egli stesso non avesse già pensato e saputo. Ma era un sapere ch'egli non riusciva a mettere in atto; più forte che il sapere era il suo amore per il bambino, la sua tenerezza, la sua paura di perderlo. Gli era dunque mai successo di perdere a tal punto il proprio cuore, aveva mai amato a tal punto una creatura umana, così ciecamente, con tanto dolore, con tanto insuccesso, eppure con tanta felicità? 

Siddharta non poteva non seguire il consiglio dell'amico, non poteva non rinviare il figlio. Da quel ragazzo lasciava comandare, si lasciava disprezzare. Taceva e aspettava, ricominciava ogni giorno la muta lotta dell'affetto, la guerra silenziosa della pazienza. Anche Vasudeva taceva aspettava benigno, consapevole e tollerante. Nella pazienza erano maestri, l'uno e l'altro. 

Un giorno che la vista del ragazzo gli ricordò intensamente Kamala, Siddharta dovette ricordarsi improvvisamente d'una frase che Kamala gli aveva detto un tempo, nei giorni lontani della giovinezza. «Tu non puoi amare» gli aveva detto, ed egli le aveva dato ragione e aveva paragonato se stesso a una stella fissa e gli uomini-bambini a foglie cadenti, e ciò nonostante aveva percepito in quelle parole anche un suono di rimprovero. Infatti egli non aveva mai potuto perdersi e consacrarsi interamente a un'altra creatura, commettere pazzie per l'amore di qualcuno; mai aveva potuto far qualcosa di simile, e questo era stato — così gli era parso allora — la gran differenza tra lui e gli uomini-bambini. Ma ora, dacché suo figlio era con lui, ora anche lui, Siddharta, era diventato un perfetto uomo-bambino, e soffriva a causa d'una creatura umana, amava una creatura, si perdeva per amore, per amore diventava un povero stolto. Anch'egli sentì ora finalmente, per una volta nella vita, questa fortissima e singolarissima tra le passioni, ne sofferse, sofferse lamentosamente, eppure si sentiva come inebbriato, rinnovato e arricchito di qualche cosa. 

Ben s'accorgeva che questo amore, questo amore cieco per suo figlio era una passione, era qualcosa di molto umano, era samsara, una sorgente torbida, un'acqua non pura. Eppure, così sentiva nello stesso tempo, non era senza pregio, era necessario, veniva dalla sua stessa natura. Anche questo piacere chiedeva d'essere espiato, anche questi dolori chiedevano d'essere assaporati, anche queste pazzie chiedevano d'essere commesse. 

Il figlio intanto lasciava che lui facesse le sue pazzie, lasciava ch'egli si affannasse, lasciava ch'egli si scoraggiasse ogni giorno per i suoi capricci. Questo padre non aveva nulla che gli riuscisse simpatico, e nulla che gli incutesse rispetto. Era un buon uomo, questo padre, un buono, benigno, mite uomo, forse un uomo molto pio, forse un santo; ma tutte queste non erano qualità che potessero conquistare il ragazzo. Noioso gli riusciva questo padre, che lo teneva là prigioniero nella sua misera capanna: noioso gli riusciva, e il fatto che ricambiasse ogni scortesia con un sorriso, ogni affanno con affettuosità, ogni cattiveria con bontà, proprio questo era l'astuzia più odiosa di quel vecchio sornione. Il ragazzo avrebbe preferito cento volte d'esserne minacciato, d'esserne maltrattato. 

Venne un giorno in cui i sentimenti del giovane Siddharta proruppero e si manifestarono apertamente contro il padre. Questi gli aveva dato un incarico, gli aveva ordinato di raccogliere fascine. Ma il ragazzo mise il naso fuor della capanna, rimase lì dispettoso e collerico, pestò i piedi a terra, strinse i pugni e gridò in faccia a suo padre, in un violento sfogo, tutto il suo odio e tutto il suo disprezzo. 

«Va' a pigliartele tu stesso le tue fascine,» gridò schiumando di rabbia «io non sono il tuo servo. Sì, lo so che non mi batti, perché non osi; lo so che tu mi vuoi continuamente rimproverare e umiliare con la tua bontà e con le tue premure. Tu vuoi ch'io diventi come te, anch'io così pio, così mite, così saggio! Ma io, ascolta bene, io preferisco, proprio per farti dispetto, diventare un brigante e un assassino da strada e finire all'inferno, piuttosto di diventare come te! Ti odio, tu non sei mio padre, anche se fossi stato mille volte l'amante di mia madre». 

Ira e corruccio lo invasero e traboccarono in cento parole cattive e perverse contro suo padre. Poi corse via e non ritornò che a tarda sera. 

Ma il giorno dopo era sparito. Sparito era pure un cestello intrecciato in corteccia a due colori, nel quale i barcaioli serbavano quelle monetine di rame e d'argento che guadagnavano col loro lavoro. Sparita anche la barca: Siddharta la scorse ferma dall'altra parte del fiume. Il ragazzo era fuggito. 

«Devo inseguirlo» disse Siddharta, che dal giorno prima, dopo le parole oltraggiose del figlio, tremava di dolore. «Un ragazzo non può andarsene solo per il bosco. Perirà. Dobbiamo costruire una zattera, Vasudeva, per attraversare il fiume». 

«Costruiremo una zattera» disse Vasudeva «per ricuperare la nostra barca, che il ragazzo ci ha portato via. Ma quanto a lui, dovresti lasciarlo andare, amico, non è più un bambino e sa cavarsi d'impaccio da sé. Egli cerca la strada che va in città, e ha ragione, non dimenticartene. Fa quel che hai trascurato di fare tu. Prende cura di sé, va per la propria strada. Ahimè, Siddharta, ti vedo soffrire, ma tu soffri dolori dei quali si dovrebbe ridere, dei quali tu stesso ben presto riderai». 

Siddharta non rispose. Aveva già afferrato la scure e cominciò a costruire una zattera di bambù, e Vasudeva lo aiutava a legare le canne con liane. Poi s'imbarcarono, furono spinti al largo, e dovettero poi trascinare la zattera contro corrente lungo l'altra riva. 

«Perché hai portato la scure?» chiese Siddharta. 

Vasudeva disse: «Potrebbe darsi che il remo della nostra barca fosse andato perduto». 

Ma Siddharta sapeva che cosa pensasse il suo amico. Pensava che il ragazzo avesse gettato via il remo o l'avesse spezzato, per vendicarsi o per ostacolare l'inseguimento. E realmente non c'era più remo nella barca. Vasudeva indicò il fondo della barca e guardò l'amico con un sorriso, come se volesse dire: «Non vedi ciò che tuo figlio ti vuol dire? Non vedi che non vuol essere inseguito?». 

Ma non espresse ciò con parole. Si accinse invece a fabbricare un remo nuovo. Siddharta lo salutò, per muovere alla ricerca del fuggitivo. Vasudeva non si oppose. 

Quando già da un pezzo Siddharta era in cammino per la foresta, gli venne in mente che il suo cercare fosse inutile. O il ragazzo era già corso molto innanzi e arrivato in città, o, se era ancora in cammino, si sarebbe nascosto davanti a lui che lo inseguiva. Proseguendo nelle sue riflessioni, si rese conto, inoltre, che egli stesso non era in pena per suo figlio; nel suo intimo sapeva benissimo ch'egli non era morto, né lo minacciava nel bosco alcun pericolo. Tuttavia continuava a correre senza posa, non più per salvarlo, ma solo per nostalgia, per vederlo, se possibile, ancora una volta. E corse fino alle porte della città. 

Quando giunse nei pressi della città, si fermò sullo stradone presso l'ingresso del bel giardino che una volta era stato di Kamala, e dov'egli, un tempo, l'aveva vista per la prima volta nella sua portantina. Il passato gli risorse nell'anima, di nuovo si rivide là, giovane, un Samana nudo e barbuto, coi capelli pieni di polvere. A lungo Siddharta rimase lì fermo a guardare attraverso la porta aperta nel giardino: monaci in cotta gialla andavano su e giù sotto i magnifici alberi. 

A lungo rimase lì in piedi, ripensando, vedendo immagini del passato, riascoltando la storia della sua vita. Rimase lì in piedi a guardare i monaci, ma non vedeva loro, vedeva il giovane Siddharta, vedeva la giovane Kamala passeggiare sotto gli alberi d'alto fusto. Distintamente si vide com'era stato accolto da Kamala, come ne aveva ricevuto il primo bacio, come avesse considerato con orgoglioso disprezzo la sua vecchia condizione di Brahmino, come avesse cominciato con avida baldanza la sua vita mondana. Vide Kamaswami, vide i servi, i festini, i giocatori di dadi, i musici, vide l'uccello canterino di Kamala nella sua gabbia, rivisse ancora una volta tutto ciò, respirò la samsara, sentì ancora una volta il desiderio di liberarsi, godette ancora una volta del sacro Om. 

Dopo aver sostato a lungo presso la porta del giardino, Siddharta intuì ch'era un pazzo desiderio quello che l'aveva sospinto fin qui, ch'egli non poteva aiutare suo figlio, e non doveva vincolarsi a lui. Profondamente sentì in cuore l'amore per il figlio fuggito, come una ferita, e sentì insieme che la ferita non gli era data per rovistarci dentro e dilaniarla, ma perché fiorisse in tanta luce. 

Che adesso la ferita ancora non fiorisse, ancora non irraggiasse luce, questo era ciò che lo affliggeva. In luogo del desiderio che l'aveva tratto fin qui dietro al figlio fuggito, stava ora il vuoto. Triste si pose a sedere, e sentì qualcosa morire nel cuore, sentì il vuoto, non vide più gioia né scopo. Sedeva assorto, in attesa. Questo l'aveva imparato dal fiume, questo solo: attendere, aver pazienza, ascoltare. E sedette e ascoltò, nella polvere della strada, ascoltò il proprio cuore, come battesse triste e stanco, attese una voce. Molte ore rimase accoccolato in ascolto; non vedeva più immagini, sprofondava nel vuoto e si lasciava affondare, senza scorgere una via d'uscita. E quando sentì la ferita bruciare, pronunciò mentalmente l'Om, si riempì dell'Om. 

Dal giardino i monaci lo guardavano, e poiché egli rimase accoccolato molte ore e la polvere si posava sui suoi capelli grigi, uno di loro gli si accostò e gli posò accanto due banane. Il vecchio non lo vide. 

Da questo incantamento lo scosse una mano che si posò sulla sua spalla. Subito egli riconobbe questo contatto, timido e delicato, e ritornò in sé. Si alzò e salutò Vasudeva, che era venuto dietro ai suoi passi. E quando guardò il viso affettuoso di Vasudeva, gli occhi sereni, le piccole rughe, come riempite di sorriso, anch'egli sorrise. Ora scorse le banane ai suoi piedi, le raccolse, una ne diede al barcaiolo e si mangiò l'altra. Quindi ritornò in silenzio con Vasudeva nel bosco, ritornò al traghetto. Nessuno parlò di ciò ch'era avvenuto, nessuno fece il nome del ragazzo, nessuno parlò della sua fuga, nessuno parlò della ferita. Nella capanna Siddharta si mise giù sul suo giaciglio, e quando Vasudeva gli s'accostò per offrirgli una scodella di latte di cocco, lo trovò addormentato. 

 

Om 

 

Ancora a lungo bruciò la ferita. Più d'una volta Siddharta dovette portare dall'altra parte del fiume un viandante che aveva con sé un figlio o una figlia, e non poteva vederli senza invidiarli, senza pensare: «Tanti uomini, migliaia, posseggono questo dolcissimo fra tutti i beni: perché io no? Anche i cattivi, anche i ladri e i briganti hanno bambini, e li amano e ne sono amati, soltanto io non posso averne». Così banale, così irragionevole era ora il suo modo di pensare, così simile agli uomini-bambini egli era diventato. 

Diversamente che un tempo considerava ora gli uomini, con minore orgoglio, con minore intelligenza, e perciò con tanto maggior calore, curiosità e interesse. Quando traghettava i soliti viandanti, uomini-bambini, mercanti, soldati, donnette del popolo, questa gente non gli riusciva più così estranea come un tempo: li comprendeva, comprendeva la loro vita guidata non da pensieri e intuizioni, ma unicamente da impulsi e desideri, e si sentiva simile a loro. Sebbene egli fosse vicino alla propria fine, e sopportasse ormai la sua ultima ferita, pure gli sembrava che questi uomini-bambini fossero suoi fratelli; le loro vanità, le loro cupidigie, le loro piccolezze perdevano il ridicolo, diventavano comprensibili, diventavano degne di compassione, perfino di rispetto. Il cieco amore d'una madre per suo figlio, lo sciocco, cieco orgoglio d'un padre presuntuoso per il suo unico figlioletto, il cieco, istintivo gusto di adornarsi e di farsi guardare con ammirazione da occhi maschili, in una donnina giovane e vana, tutti questi impulsi, tutte queste fanciullaggini, tutti questi stimoli e questi appetiti, semplici e stolti, ma smisuratamente forti, pieni di vita, intensamente efficaci, non erano più per Siddharta fanciullaggini: egli vedeva gli uomini vivere per loro, li vedeva per loro compiere sforzi smisurati, intraprender viaggi, far guerre, sopportare fatiche e sofferenze infinite, e proprio per questo ora poteva amarli, vedeva la vita, il principio vitale, l'indistruttibile, Brahma in ognuna delle loro passioni, in ognuna delle loro azioni. Degni d'amore e d'ammirazione erano questi uomini nella loro cieca fedeltà, nella loro forza e tenacia altrettanto cieche. Che cosa mancava loro, che cosa aveva più di loro il saggio, il filosofo, se non un'unica inezia, un'unica, piccola, meschinissima cosa: la coscienza, il pensiero consapevole dell'unità di tutta la vita? E spesso Siddharta dubitava perfino se di questo sapere, di questo pensiero fosse poi proprio da far sì alto conto, o non fosse poi magari anch'esso una fanciullaggine degli uomini-filosofi, dei filosofi-bambini. In tutto il resto gli uomini del mondo erano pari ai saggi, anzi, spesso erano loro di gran lunga superiori, così come anche le bestie, in molti casi, con la sicurezza infallibile dei loro atti guidati dalla necessità, possono sembrare superiori agli uomini. 

Lentamente fioriva, lentamente maturava in Siddharta il riconoscimento, la consapevolezza di ciò che realmente sia saggezza, qual fosse la meta del suo lungo cercare. Non era nient'altro che una disposizione dell'anima, una capacità, un'arte segreta di pensare in qualunque istante, nel bel mezzo della vita, il pensiero dell'unità, sentire l'unità e per così dire respirarla. Lentamente questo fioriva in lui, gli raggiava incontro dal vecchio volto infantile di Vasudeva : armonia, scienza dell'eterna perfezione del mondo, sorriso, unità. 

Ma la ferita bruciava ancora: con amaro desiderio Siddharta pensava a suo figlio, nutriva in cuore l'amore e la tenerezza per lui, si lasciava consumare dal dolore, commetteva tutte le pazzie dell'amore. Non da sé si sarebbe mai spenta questa fiamma. E un giorno, che la ferita bruciava intensamente, Siddharta attraversò il fiume, sospinto dalla nostalgia, e scese dalla barca deciso ad andare in città e cercare suo figlio. Il fiume scorreva calmo e lieve — era la stagione asciutta — ma la sua voce aveva uno strano suono: rideva! Era chiaro che rideva. Il fiume rideva, rideva apertamente e sonoramente alle spalle del vecchio barcaiolo. Siddharta si fermò, si chinò sull'acqua per ascoltare meglio, e nell'acqua che fluiva tranquilla vide rispecchiato il proprio volto. In questo volto riflesso c'era qualcosa che gli ricordava un che di dimenticato, e ripensandoci trovò: questo volto somigliava a un altro volto, ch'egli aveva un tempo conosciuto e amato, e anche temuto. Somigliava al volto di suo padre, il Brahmino. E si ricordò come tanto tempo innanzi, giovanetto, egli avesse costretto suo padre a lasciarlo andare dagli eremiti, come avesse preso congedo da lui, come se ne fosse andato senza fare mai più ritorno. Non aveva sofferto anche suo padre della stessa pena di cui egli soffriva ora per suo figlio? Non era morto in solitudine suo padre da tanto tempo, senza averlo più rivisto? Non doveva egli stesso attendersi questo destino? Non era una commedia, una strana e sciocca faccenda questo correre in un cerchio fatale? 

Il fiume rideva. Sì, era così, tutto ciò che non era stato sofferto e consumato fino alla fine si ripeteva, e sempre si soffrivano di nuovo gli stessi dolori. Ma Siddharta rimontò nella barca e fece ritorno alla capanna, ripensando a suo padre, ripensando a suo figlio, deriso dal fiume, in disaccordo con se stesso, vicino alla disperazione, e meno vicino a ridere sonoramente di sé e del mondo intero. Ahimè! non ancora fioriva la ferita, ancora si ribellava il suo cuore contro il destino, non ancora germogliavano serenità e vittoria dal suo soffrire. Tuttavia sentiva qualcosa come una speranza, e quando fu rientrato nella capanna sentì un irresistibile desiderio di aprirsi a Vasudeva, di rivelargli tutto, di raccontare tutto a lui, ch'era maestro nell'ascoltare. 

Vasudeva sedeva nella capanna e intrecciava una cesta. Non guidava più la barca, i suoi occhi cominciavano a indebolirsi, e non solo gli occhi, ma anche braccia e mani. 

Soltanto la gioia e la serena benevolenza del suo viso fiorivano immutate. 

Siddharta si pose a sedere accanto al vecchio, cominciò a parlare lentamente. Raccontò quelle cose di cui non avevano mai parlato, della sua andata in città, quella volta, della ferita ardente, della sua invidia alla vista dei padri felici, della sua vana lotta contro questi desideri di cui conosceva benissimo la stoltezza. Riferiva ogni cosa, anche le più penose, tutto poteva dire, tutto si sforzava di dire, tutto poteva raccontare e rivelare. Scopriva la propria ferita, raccontando anche della sua ultima fuga, quel giorno stesso, come si fosse imbarcato, fanciullino, col proposito di recarsi in città, e come il fiume ne aveva riso. 

Mentre parlava — e parlò a lungo — mentre Vasudeva ascoltava tranquillo in volto, Siddharta sentiva quest'attrazione di Vasudeva più forte di quanto l'avesse mai sentita, sentiva i suoi dolori, i suoi affanni svanire, sentiva la sua segreta speranza prendere il volo e di laggiù venirgli di nuovo incontro. Mostrare la propria ferita a questo ascoltatore era lo stesso che lavarla nel fiume, finché diventasse fredda e una cosa sola col fiume. Mentre ancora continuava a parlare e a confessarsi, Siddharta sentiva sempre più che questo non era più Vasudeva, non era più un uomo che l'ascoltava, che questo immobile ascoltatore assorbiva in sé la sua confessione come un albero la pioggia, che questo uomo immobile era il fiume stesso, era Iddio stesso, era l'Eterno. E mentre Siddharta cessava di pensare a sé e alla propria ferita, questa scoperta del mutato essere di Vasudeva si impossessava di lui, e quanto più egli se n'accorgeva e ci s'immergeva, tanto meno la cosa diventava meravigliosa, tanto più egli scorgeva che tutto era in regola e naturale, che già da lungo tempo, forse da sempre Vasudeva era stato così, soltanto egli non se n'era mai reso conto pienamente. Sentiva ch'egli ora vedeva il vecchio Vasudeva come il popolo vede gli dèi, e che un simile stato non poteva durare; nel suo cuore cominciava già a prender congedo da Vasudeva. Con tutto ciò continuava a parlare. 

Quand'egli ebbe finito, Vasudeva levò su di lui il suo sguardo affettuoso, un po' indebolito dagli anni, non parlò, ma gli diffuse incontro in silenzio amore e serenità, comprensione e sapere. Prese per mano Siddharta, lo condusse al sedile presso la riva, sedette con lui, e sorrise al fiume. 

«Tu l'hai sentito ridere» disse. «Ma non hai sentito tutto. Ascoltiamo, udrai ancor altro». 

Ascoltarono. Lieve si levava il canto del fiume dalle molte voci. Siddharta guardò nell'acqua e nell'acqua gli apparvero immagini: apparve suo padre, solo, afflitto per il figliolo; egli stesso apparve, solo, anch'egli avvinto dai legami della nostalgia per il figlio lontano; apparve suo figlio, solo anche lui, avido ragazzo sfrenato sulla strada ardente dei suoi giovani desideri, ognuno teso alla sua meta, ognuno in preda alla sofferenza. Il fiume cantava con voce dolorosa, con desiderio, e con desiderio scorreva verso la sua meta, la sua voce suonava come un lamento. 

«Odi?» chiese lo sguardo silenzioso di Vasudeva. Siddharta annuì. 

«Ascolta meglio!» sussurrò Vasudeva. 

Siddharta si sforzò d'ascoltar meglio. L'immagine del padre, la sua propria immagine, l'immagine del figlio si mescolarono l'una nell'altra, anche l'immagine di Kamala apparve e sparì, e così l'immagine di Govinda, e altre ancora, e tutte si mescolarono insieme, tutte si tramutarono in fiume, tutte fluirono come un fiume verso la meta, bramose, avide, sofferenti, e la voce del fiume suonava piena di nostalgia, piena di ardente dolore, d'insaziabile desiderio. Il fiume tendeva alla meta, Siddharta lo vedeva affrettarsi, quel fiume che era fatto di lui e dei suoi e di tutti gli uomini ch'egli avesse mai visto, tutte le onde, tutta quell'acqua si affrettavano, soffrendo, verso le loro mete. Molte mete: la cascata, il lago, le rapide, il mare, e tutte le mete venivano raggiunte, e a ogni meta una nuova ne seguiva, e dall'acqua si generava vapore e saliva in cielo, diventava pioggia e precipitava giù dal cielo, diventava fonte, ruscello, fiume, e di nuovo riprendeva il suo cammino, di nuovo cominciava a fluire. Ma l'avida voce era mutata. Ancora suonava piena d'ansia e d'affanno, ma altre voci si univano a lei, voci di gioia e di dolore, voci buone e cattive, sorridenti e tristi, cento voci, mille voci. Siddharta ascoltava. Era ora tutt'orecchi, interamente immerso in ascolto, totalmente vuoto, totalmente disposto ad assorbire; sentiva che ora aveva appreso tutta l'arte dell'ascoltare. Spesso aveva già ascoltato tutto ciò, queste mille voci nel fiume; ma ora tutto ciò aveva un suono nuovo. Ecco che più non riusciva a distinguere le molte voci, le allegre da quelle in pianto, le infantili da quelle virili, tutte si mescolavano insieme, lamenti di desiderio e riso del saggio, grida di collera e gemiti di morenti, tutto era una cosa sola, tutto era mescolato e intrecciato, in mille modi contesto. E tutto insieme, tutte le voci, tutte le mete, tutti i desideri, tutti i dolori, tutta la gioia, tutto il bene e il male, tutto insieme era il mondo. Tutto insieme era il fiume del divenire, era la musica della vita. E se Siddharta ascoltava attentamente questo fiume, questo canto dalle mille voci, se non porgeva ascolto né al dolore né al riso, se non legava la propria anima a una di quelle voci e se non s'impersonava in essa col proprio Io, ma tutte le udiva, percepiva il Tutto, l'Unità, e allora il grande canto delle mille voci consisteva di un'unica parola, e questa parola era Om: la perfezione. 

«Senti?» chiese di nuovo lo sguardo di Vasudeva. Chiaro splendeva il sorriso di Vasudeva, sopra tutte le rughe del suo vecchio volto aleggiava luminoso, così come l'Om, si librava su tutte le voci del fiume. Chiaro splendeva il suo sorriso quando guardava l'amico, e chiaro splendeva ora lo stesso sorriso anche sul volto di Siddharta. La sua ferita fioriva, il suo dolore spandeva raggi, mentre il suo Io confluiva nell'Unità. 

In quell'ora Siddharta cessò di lottare contro il destino, in quell'ora cessò di soffrire. Sul suo volto fioriva la serenità del sapere, cui più non contrasta alcuna volontà, il sapere che conosce la perfezione, che è in accordo con il fiume del divenire, con la corrente della vita, un sapere che è pieno di compassione e di simpatia, docile al flusso degli eventi, aderente all'Unità. 

Quando Vasudeva si alzò dal sedile presso la riva, quando guardò Siddharta negli occhi e vi scorse scintillare la serenità del sapere, gli posò lievemente una mano sulla spalla, con le sue maniere caute e delicate, e disse: «Aspettavo quest'ora, amico. Ora è venuta, lasciami andare. A lungo ho aspettato quest'ora, a lungo sono stato il barcaiolo Vasudeva. Ora basta. Addio capanna, addio fiume, addio Siddharta!». 

Siddharta s'inchinò profondamente davanti al compagno che si congedava. 

«L'avevo sempre saputo» disse a bassa voce. «Andrai nelle foreste, ora?». 

«Vado nelle foreste, vado nell'Unità» disse Vasudeva raggiante di luce. 

Raggiante si allontanò: Siddharta lo segui a lungo con lo sguardo. Con profonda gioia, con serenità profonda lo guardò dileguare, e vide i suoi passi pieni di pace, vide il suo capo circonfuso di splendore, vide la sua figura radiosa di luce. 

 

Govinda 

 

Con altri monaci s'indugiava un giorno Govinda, durante un riposo nel giardino di cui la cortigiana Kamala aveva fatto dono ai discepoli di Gotama. Aveva sentito parlare di un barcaiolo che abitava presso il fiume, a una giornata di cammino, e che da molti era ritenuto un saggio. Quando Govinda riprese il suo cammino, scelse la via che portava al traghetto, curioso di vedere questo barcaiolo. Poiché, sebbene egli fosse vissuto tutta la vita secondo la Regola e fosse anche considerato con rispetto dai monaci più giovani per la sua età e per la sua devozione, pure non era spenta nel suo cuore l'irrequietezza e l'ansia della ricerca. 

Venne dunque al fiume, pregò il vecchio che lo traghettasse, e quando furono sulla barca gli disse: «Tu hai dimostrato molta bontà verso noi monaci e pellegrini, molti di noi hai già traghettato. Non sei anche tu, o barcaiolo, uno che cerca la retta via?». 

Parlò Siddharta, e i suoi vecchi occhi eran tutto un sorriso: «Come, tu ti dici uno che cerca, o venerabile, eppure sei già avanti negli anni, e porti l'abito dei monaci di Gotama?». 

«Son vecchio, sì» disse Govinda «ma di cercare non ho mai tralasciato. E mai cesserò di cercare, questo mi sembra il mio destino. Ma tu pure hai cercato, così mi pare. Vuoi dirmi una parola, o degnissimo?». 

Disse Siddharta: «Che dovrei mai dirti, io, o venerabile? Forse questo, che tu cerchi troppo? Che tu non pervieni a trovare per il troppo cercare?». 

«Come dunque?» chiese Govinda. 

«Quando qualcuno cerca,» rispose Siddharta «allora accade facilmente che il suo occhio perda la capacità di vedere ogni altra cosa, fuori di quella che cerca, e che egli non riesca a trovar nulla, non possa assorbir nulla, in sé, perché pensa sempre unicamente a ciò che cerca, perché ha uno scopo, perché è posseduto dal suo scopo. Cercare significa: avere uno scopo. Ma trovare significa: esser libero, restare aperto, non aver scopo. Tu, venerabile, sei forse di fatto uno che cerca, poiché, perseguendo il tuo scopo, non vedi tante cose che ti stanno davanti agli occhi». 

«Non capisco ancora completamente» pregò Govinda. «Che intendi dire con ciò». 

Parlò Siddharta: «Un tempo, o venerabile, tanti anni fa, tu passasti già un'altra volta presso questo fiume, e vi trovasti un uomo addormentato, e ti sedesti accanto a lui per proteggerne il sonno. Ma quell'uomo che dormiva, o Govinda, tu non l'hai riconosciuto». 

Stupito, come affascinato, il monaco fissava il barcaiolo negli occhi. 

«Tu sei Siddharta?» chiese timidamente. «Anche questa volta non t'avrei riconosciuto! Di cuore ti saluto, Siddharta! Di cuore mi rallegro di rivederti! Tu sei molto mutato, amico! E così, ora sei diventato barcaiolo?». 

Siddharta rise affettuosamente. «Ma sì, barcaiolo. Tanti, Govinda, hanno bisogno di molti cambiamenti, devono portare ogni sorta d'abiti, e io sono uno di quelli, amico. Sii benvenuto, Govinda, e resta questa notte nella mia capanna». 

Govinda passò la notte nella capanna e dormì sul giaciglio ch'era stato un tempo il giaciglio di Vasudeva. Molte domande rivolse all'amico della sua giovinezza, molto gli dovette raccontare Siddharta della propria vita. 

Il mattino seguente, quando per lui fu ora di riprendere il cammino, Govinda disse, non senza esitazione, queste parole: «Prima ch'io continui il mio pellegrinaggio, Siddharta, permettimi ancora una domanda. Hai tu una dottrina? Hai una fede o una scienza che tu segua, che ti aiuti a vivere e a ben fare?». 

Parlò Siddharta: «Tu sai, amico, che già da giovane, allora, quando vivevamo tra gli asceti nel bosco, io ero pervenuto a diffidare delle dottrine e dei maestri e ad allontanarmi da loro. Sono rimasto allo stesso punto. Tuttavia ho avuto dopo d'allora molti maestri. Una bella cortigiana è stata per lungo tempo mia maestra, e un ricco mercante fu mio maestro, nonché alcuni giocatori d'azzardo. Una volta anche un discepolo del Buddha in pellegrinaggio fu mio maestro; egli mi sedette accanto, interrompendo il suo andare. Anche da lui ho appreso, anche a lui sono riconoscente, molto riconoscente. Ma soprattutto ho imparato qui, da questo fiume, e dal mio predecessore, il barcaiolo Vasudeva. Era un uomo semplice, Vasudeva, non era un filosofo; ma sapeva ciò che occorre sapere, tanto bene quanto Gotama, era un perfetto, un santo». 

Disse Govinda: «Ancor sempre, Siddharta, tu ami un poco lo scherzo, a quel che vedo. Io ti credo, e so che non hai seguito nessun maestro. Ma non hai tu stesso trovato, se non una dottrina, almeno alcuni pensieri, alcuni princìpi fondamentali che ti son propri e che ti aiutano a vivere? Se tu mi volessi dire qualcosa di ciò riempiresti di gioia il mio cuore». 

Rispose Siddharta: «Ho avuto pensieri, sì, e princìpi, e come! Tante volte ho sentito in me il sapere, per un'ora o per un giorno così come si sente la vita nel proprio cuore. Molti pensieri furono quelli, ma mi sarebbe difficile fartene parte. Vedi, Govinda, questo è uno dei miei pensieri, di quelli che ho trovato io: la saggezza non è comunicabile. La saggezza che un dotto tenta di comunicare ad altri, ha sempre un suono di pazzia». 

«Vuoi scherzare?» chiese Govinda. 

«Non scherzo. Dico quel che ho trovato. La scienza si può comunicare, ma la saggezza no. Si può trovarla, si può viverla, si può farsene portare, si possono fare miracoli con essa, ma dirla e insegnarla non si può. Questo era ciò che da giovane avevo più d'una volta presentito e che mi ha tenuto lontano dai maestri. Ho trovato un pensiero, Govinda, che tu riterrai di nuovo uno scherzo o una sciocchezza, ma che è il migliore di tutti i miei pensieri. Ed è questo: d'ogni verità anche il contrario è vero! In altri termini: una verità si lascia enunciare e tradurre in parole soltanto quando è unilaterale. E unilaterale è tutto ciò che può essere concepito in pensieri ed espresso in parole, tutto unilaterale, tutto dimidiato, tutto privo di totalità, di sfericità, di unità. Quando il sublime Gotama nel suo insegnamento parlava del mondo, era costretto a dividerlo in samsara e nirvana, in illusione e verità, sofferenza e liberazione. Non si può far diversamente, non c'è altra via per chi vuol insegnare. Ma il mondo in sé, ciò che esiste intorno a noi e in noi, non è unilaterale. Mai un uomo, o un atto, è tutto samsara o tutto nirvana, mai un uomo è interamente santo o interamente peccatore. Sembra così, perché noi siamo soggetti alla illusione che il tempo sia qualcosa di reale. Il tempo non è reale, Govinda; questo io l'ho appreso ripetutamente, in più d'una occasione. E se il tempo non è reale, allora anche la discontinuità che sembra esservi tra il mondo e l'eternità, tra il male e il bene, è un'illusione». 

«Ma come?» chiese Govinda ansiosamente. 

«Ascolta, caro, ascolta bene! Il peccatore ch'io sono e che tu sei è peccatore, sì, ma un giorno sarà di nuovo Brahma, un giorno raggiungerà il nirvana, sarà Buddha. E ora vedi: questo "un giorno" è illusione, è soltanto un modo di dire! Il peccatore non è in cammino per diventare Buddha, non è coinvolto in un processo di sviluppo, sebbene il nostro pensiero non sappia rappresentarsi le cose diversamente. No, nel peccatore è, già ora, oggi stesso, il futuro Buddha, il suo avvenire è già tutto presente, tu devi venerare in lui, in te, in ognuno il Buddha potenziale, il Buddha in divenire, il Buddha nascosto. Il mondo, caro Govinda, non è imperfetto o impegnato in una lunga via verso la perfezione: no, è perfetto in ogni istante, ogni peccato porta già in sé la grazia, tutti i bambini portano già in sé la vecchiaia, tutti i lattanti la morte, tutti i morenti la vita eterna. Non è concesso all'uomo di scorgere a che punto sia il suo simile della propria strada: in briganti e in giocatori d'azzardo si cela il Buddha, nel Brahmino può celarsi il brigante. La meditazione profonda consente la possibilità di abolire il tempo, di vedere in contemporaneità tutto ciò che è stato, ciò che è e ciò che sarà, e allora tutto è bene, tutto è perfetto, tutto è Brahma. Per questo a me par buono tutto ciò che esiste, la vita come la morte, il peccato come la santità, l'intelligenza come la stoltezza, tutto dev'essere così, tutto richiede solamente il mio accordo, la mia buona volontà, la mia amorosa comprensione, e così per me tutto è bene, nulla mi può far male. Ho appreso, nell'anima e nel corpo, che avevo molto bisogno del peccato, avevo bisogno della voluttà, dell'ambizione, della vanità, e avevo bisogno della più ignominiosa disperazione, per imparare la rinuncia a resistere, per imparare ad amare il mondo, per smettere di confrontarlo con un certo mondo immaginato, desiderato da me, con una specie di perfezione da me escogitata, ma per lasciarlo, invece, così com'è, e amarlo e appartenergli con gioia. Tali, o Govinda, sono alcuni dei pensieri che mi sono venuti in mente». 

Siddharta si chinò, alzò una pietra da terra e la soppesò sulla mano. 

«Questa» disse giocherellando «è una pietra, e forse, entro un determinato tempo, sarà terra, e di terra diventerà pianta, o bestia, o uomo. Bene, un tempo io avrei detto: "Questa pietra è soltanto una pietra, non vai niente, appartiene al mondo di Maya: ma poiché forse nel cerchio delle trasformazioni può anche diventar uomo e spirito, per questo io attribuisco anche a lei un pregio". Così avrei pensato un tempo. Ma oggi invece penso: questa pietra è pietra, ed è anche animale, è anche dio, è anche Buddha, io l'amo e l'onoro non perché un giorno o l'altro possa diventare questo o quello, ma perché essa è, ed è sempre stata, tutto; e appunto questo fatto, che sia pietra, che ora mi appaia come pietra, proprio questo fa sì ch'io l'ami, e veda un senso e un valore in ognuna delle sue vene e cavità, nel giallo, nel grigio, nella durezza, nel suono che emette quando la colpisco, nell'aridità e nella umidità della sua superficie. Ci sono pietre che hanno al tatto un'apparenza oleosa, o come di sapone, e altre che paiono foglie, altre sabbia, e ognuna è speciale e prega l'Om a modo suo, ognuna è Brahma, ma nello stesso tempo è anche pietra, è oleosa o grassa come sapone, e appunto questo mi piace e mi sembra meraviglioso e degno di adorazione. Ma non farmi più dir altro di ciò. Le parole non colgono il significato segreto, tutto appare sempre un po' diverso quando lo si esprime, un po' falsato, un po' sciocco, sì, e anche questo è bene e mi piace moltissimo, anche con questo sono perfettamente d'accordo, che ciò che è tesoro e saggezza d'un uomo suoni sempre un po' sciocco alle orecchie degli altri». Govinda ascoltava in silenzio. 

«Perché mi hai detto quella faccenda della pietra?» chiese, dopo una pausa, esitando. 

«Mi venne detto senza premeditazione. O forse era per dire che appunto questa pietra, e il fiume, e tutte queste cose dalle quali possiamo imparare, io le amo. Posso amare una pietra, Govinda, e anche un albero o un pezzo di corteccia. Queste son cose, e le cose si possono amare. Ma le parole non le posso amare. Ecco perché le dottrine non contan nulla per me: non sono né dure né molli, non hanno colore, non hanno spigoli, non hanno odori, non hanno sapore, non hanno null'altro che parole. Forse è questo ciò che impedisce di trovar la pace: le troppe parole. Poiché anche liberazione e virtù, anche samsara e nirvana sono mere parole, Govinda. Non c'è nessuna cosa che sia il nirvana, esiste solo la parola nirvana». 

Disse Govinda: «Non una sola parola è il nirvana, amico. È un pensiero». 

Siddharta continuò: «Un pensiero, sia pure. Devo confessarti, mio caro, che non faccio una gran distinzione tra pensieri e parole. Per dirtela schietta, non tengo i pensieri in gran conto. Apprezzo di più le cose. Qui a questo traghetto, per esempio, ci fu, mio predecessore e maestro, un uomo, un santo uomo, che per tanti anni credette semplicemente nel fiume e in nient'altro. Egli aveva notato che la voce del fiume gli parlava, e da quella imparava, essa lo educava e lo istruiva, il fiume gli pareva un dio, e per tanti anni non seppe che ogni brezza, ogni nuvola, ogni uccello, ogni insetto è altrettanto divino e può essere altrettanto saggio e istruttivo quanto il venerato fiume. Ma quando questo santo se ne andò nella foresta, allora sapeva già tutto, sapeva più di te e di me, senza maestro, senza libri, solo perché aveva avuto fede nel fiume». 

Govinda disse: «Ma ciò che tu chiami "cose", è forse qualcosa di reale, di essenziale? Non è soltanto illusione di Maya, soltanto immagine e apparenza? La tua pietra, il tuo albero, il tuo fiume, sono forse realtà?». 

«Anche questo» disse Siddharta «non mi preoccupa molto. Siano o non siano le cose soltanto apparenza, allora sono apparenza anch'io e quindi esse sono sempre miei simili. Questo è ciò che me le rende così care e rispettabili: sono miei simili. Per questo posso amarle. Ed eccoti ora una dottrina della quale riderai: l'amore, o Govinda, mi sembra di tutte la cosa principale. Penetrare il mondo, spiegarlo, disprezzarlo, può essere l'opera dei grandi filosofi. Ma a me importa solo di poter amare il mondo, non disprezzarlo, non odiare il mondo e me; a me importa solo di poter considerare il mondo, e me e tutti gli esseri, con amore, ammirazione e rispetto». 

«Questo lo capisco» disse Govinda. «Ma appunto in ciò egli, il Sublime, riconobbe un inganno. Egli prescrisse la benevolenza, la generosità, la compassione, l'indulgenza, ma non l'amore; egli ci proibì di vincolare il nostro cuore nell'amore di cose terrene». 

«Lo so» disse Siddharta, e il suo sorriso pareva ora raggiante. «Lo so, Govinda. E, vedi, qui siamo proprio nel cuore delle opinioni, dei contrasti di parole. Poiché io non posso negare che le mie parole sull'amore non siano in contrasto, in apparente contrasto con le parole di Gotama. Appunto per questo diffido tanto delle parole, perché so che questo contrasto è illusorio. So che son d'accordo con Gotama. Come potrebbe non conoscere l'amore, lui che aveva riconosciuto tutta la caducità, la nullità del genere umano, eppure amava tanto gli uomini da impiegare tutta una lunga vita laboriosa unicamente a soccorrerli, ad ammaestrarli! Anche in lui, nel tuo grande maestro, mi son più care le cose che le parole, la sua vita e i suoi fatti più che i suoi discorsi: sono più importanti gli atti della sua mano che le sue opinioni. Non nella parola, non nel pensiero, vedo la sua grandezza, ma nella vita, nell'azione». 

Tacquero a lungo i due vecchi. Poi Govinda parlò, mentre s'inchinava per prendere congedo: «Ti ringrazio, Siddharta, di avermi rivelato qualcosa dei tuoi pensieri. Sono pensieri singolari, in parte, e non tutti mi sono riusciti immediatamente chiari. Ma comunque sia, ti ringrazio, e ti auguro giorni di pace». 

(Ma in segreto pensava: Questo Siddharta è un uomo stupefacente, meravigliosi pensieri esprime, e la sua dottrina sembra un po' pazzesca. Ben altrimenti suona la pura dottrina del Sublime, più chiara, più pura, più razionale, e non contiene nulla di bizzarro, di pazzesco o di ridicolo. Ma ben altro che i suoi pensieri mi sembrano le mani e i piedi di Siddharta, i suoi occhi, la fronte, il respiro, il sorriso, il modo di salutare, di camminare. Mai, dacché il nostro sublime Gotama entrò nel nirvana, mai ho incontrato un uomo del quale sentissi così distintamente: costui è un santo! Soltanto lui, questo Siddharta mi ha fatto questa impressione. La sua dottrina può esser strana, pazzesche possono suonare le sue parole, ma il suo sguardo e la sua mano, la sua pelle e i suoi capelli, tutto in lui irradia una purezza, una pace, irradia una serenità e mitezza e santità, quale non ho mai visto in nessun uomo dopo la morte del nostro sublime maestro). 

Mentre Govinda svolgeva questi pensieri, e una contraddizione si dibatteva nel suo cuore, l'amore lo trasse a inchinarsi ancora una volta a Siddharta. Questi sedeva tranquillamente, e Govinda gli fece un profondo inchino. 

«Siddharta,» disse «tutti e due siamo diventati vecchi. Difficilmente ci rivedremo ancora in questa forma umana. Vedo, amico, che tu hai trovato la pace. Io riconosco di non averla trovata. Dimmi ancora una parola, o degnissimo amico, dammi qualcosa ch'io possa afferrare, ch'io possa comprendere! Dammi qualcosa che mi accompagni nel mio cammino. Spesso è gravoso il mio cammino, e spesso oscuro, Siddharta». 

Siddharta taceva e lo guardava con quel suo sorriso tranquillo, sempre uguale. Govinda lo guardava fisso in volto, con ansia, con desiderio. La sofferenza d'un eterno cercare era scritta nel suo sguardo, la sofferenza d'un eterno non trovare. Siddharta guardava e sorrideva. 

«Chinati verso me!» sussurrò piano all'orecchio di Govinda. «Chinati verso di me! Così, ancora più vicino! proprio vicino! Baciami sulla fronte. Govinda!». 

Ma mentre Govinda obbediva alle sue parole, meravigliato, eppure attratto dal grande amore e da una specie di presentimento, e si accostava a lui e gli sfiorava la fronte con le labbra, gli accadde qualcosa di meraviglioso. Mentre i suoi pensieri ancora s'occupavano delle meravigliose parole di Siddharta, ancora si sforzava invano, e con una certa ripugnanza, di pensare l'abolizione del tempo, d'immaginarsi nirvana e samsara come una cosa sola, mentre perfino un certo disprezzo per le parole dell'amico combatteva in lui con l'amore sconfinato e col rispetto, ecco quel che gli accadde: Non vide più il volto del suo amico Siddharta, vedeva invece altri volti, molti, una lunga fila, un fiume di volti, centinaia, migliaia di volti, che tutti venivano e passavano, ma pure apparivano anche tutti insieme, e tutti si mutavano e rinnovavano continuamente, eppure erano tutti Siddharta. Vide il volto d'un pesce, d'un carpio, con la bocca spalancata in un dolore infinito, un pesce in agonia, con gli occhi che scoppiavano — vide il volto d'un bimbo appena nato, rosso e pieno di rughe, contratto nel pianto — vide il volto d'un assassino, e vide costui piantare un coltello nella pancia d'un uomo — vide, nello stesso istante, questo malfattore incatenato e in ginocchio davanti al boia, che gli mozzava la testa con un colpo della mannaia — vide i corpi d'uomini e donne nudi, negli atti e nella lotta di frenetico amore — vide cadaveri distesi, tranquilli, freddi, vuoti — vide teste d'animali, di cinghiali, di coccodrilli, d'elefanti, di tori, d'uccelli — vide dèi, vide Krishna, vide Agni — vide queste immagini e questi volti mescolati in mille reciproci rapporti, ognuno aiutare gli altri, amarli, odiarli, distruggerli, rigenerarli, ognuno avviato alla morte, ognuno testimonianza appassionatamente dolorosa della loro caducità, eppure nessuno moriva, ognuno si trasformava soltanto, veniva un'altra volta generato, riceveva un volto sempre nuovo, senza che, tuttavia, ci fosse un intervallo di tempo fra l'uno e l'altro volto — e tutte queste immagini e questi volti giacevano, fluivano, si generavano, galleggiavano e rifluivano l'uno nell'altro, e sopra tutti v'era costantemente qualcosa di sottile, d'impalpabile, eppure reale, come un vetro o un ghiaccio sottilissimo, interposto, come una pellicola trasparente, un guscio o una forma o una maschera d'acqua, e questa maschera sorrideva, e questa maschera era il volto sorridente di Siddharta, che egli, Govinda, proprio in quell'istante sfiorava con le labbra. E, così parve a Govinda, questo sorriso della maschera, questo sorriso dell'unità sopra il fluttuar delle forme, questo sorriso della contemporaneità sopra le migliaia di nascite e di morti, questo sorriso di Siddharta era appunto il medesimo, era esattamente il costante, tranquillo, fine, impenetrabile, forse benigno, forse schernevole, saggio, multirugoso sorriso di Gotama, il Buddha, quale egli stesso l'aveva visto centinaia di volte con venerazione. Così — questo Govinda lo sapeva — così sorridono i Perfetti. 

Senza più sapere che cosa fosse il tempo, senza più sapere se questo brivido fosse durato un secondo o un secolo, senza più sapere se esistesse un Siddharta, o un Gotama, un Io o un Tu, ferito nel più profondo dell'anima come da una saetta divina, la cui ferita fosse tutta dolcezza, affascinato e sciolto nell'intimo suo, Govinda rimase ancora un poco chinato sul tranquillo volto di Siddharta, che aveva giust'appunto baciato, ch'era stato giust'appunto teatro di tutte quelle immagini, di tutto quel divenire, di tutto quell'essere. Il volto era immutato, dopo che la profondità delle mille rughe s'era di nuovo chiusa sotto la sua superficie, ed egli sorrideva tranquillo, sorrideva dolce e sommesso, forse molto benignamente, forse molto schernevole, esattamente com'egli aveva sorriso, il Sublime. 

Profondamente s'inchinò Govinda, sul suo vecchio viso corsero lacrime, delle quali egli nulla sapeva, come un fuoco arse nel suo cuore il sentimento del più intimo amore, della più umile venerazione. Profondamente egli s'inchinò, fino a terra, davanti all'uomo che sedeva immobile e il cui sorriso gli ricordava tutto ciò ch'egli avesse mai amato in vita sua, tutto ciò che nella sua vita vi fosse mai stato di prezioso e di sacro. 

 

FINE