PARTE PRIMA 

 

a Romain Rolland 

con rispettosa amicizia 

 

Il figlio del Brahmino 

 

Nell'ombra della casa, sulle rive soleggiate del fiume presso le barche, nell'ombra del bosco di Sal, all'ombra del fico crebbe Siddharta, il bel figlio del Brahmino, il giovane falco, insieme all'amico suo, Govinda, anch'egli figlio di Brahmino. Sulla riva del fiume, nei bagni, nelle sacre abluzioni, nei sacrifici votivi il sole bruniva le sue spalle lucenti. Ombre attraversavano i suoi occhi neri nel boschetto di mango, durante i giochi infantili, al canto di sua madre, durante i santi sacrifici, alle lezioni di suo padre, così dotto, durante le conversazioni dei saggi. Già da tempo Siddharta prendeva parte alle conversazioni dei saggi, si esercitava con Govinda nell'arte oratoria, nonché nell'esercizio delle facoltà di osservazione e nella pratica della concentrazione interiore. Già egli sapeva come si pronuncia impercettibilmente l'Om, la parola suprema, sapeva assorbirla in se stesso pronunciandola silenziosamente nell'atto di inspirare, sapeva emetterla silenziosamente nell'atto di espirare, con l'anima raccolta, la fronte raggiante dello splendore che emana da uno spirito luminoso. Già egli sapeva, nelle profondità del proprio essere, riconoscere l'Atman, indistruttibile, uno con la totalità del mondo. 

Il cuore del padre balzava di gioia per quel figlio così studioso, così avido di sapere; era un grande sapiente, un sommo sacerdote quello ch'egli vedeva svilupparsi in lui: un principe fra i Brahmini. 

La gioia gonfiava il petto di sua madre quand'ella lo guardava, quando lo vedeva camminare, quando lo vedeva sedere e alzarsi: Siddharta, così forte, così bello, che procedeva col suo passo snello, che la salutava con garbo così compito. 

L'amore si agitava nel cuore delle giovani figlie dei Brahmini, quando Siddharta passava per le strade della città, con la sua fronte luminosa, con i suoi occhi regali, così slanciato e nobile nella persona. 

Ma più di tutti lo amava l'amico suo Govinda, il figlio del Brahmino. Amava gli occhi di Siddharta e la sua cara voce, amava il suo passo e il garbo perfetto dei movimenti, amava tutto ciò che Siddharta diceva e faceva, ma soprattutto ne amava lo spirito, i suoi alti, generosi pensieri, la sua volontà ardente, la vocazione sublime. Sapeva bene Govinda: questo non diventerà un Brahmino come ce n'è tanti, un pigro ministro di sacrifici, o un avido mercante d'incantesimi, un vano e vacuo retore, un prete astuto e cattivo, e non sarà nemmeno una buona, sciocca pecora nel gregge dei molti. No, e anch'egli, Govinda, non voleva diventare tale, un Brahmino come ce ne son migliaia. Voleva seguire Siddharta, il prediletto, il magnifico. E se un giorno Siddharta fosse diventato un dio, se fosse asceso un giorno nella gloria dei celesti, allora Govinda l'avrebbe seguito, come suo amico, suo compagno, suo servo, suo scudiero, sua ombra. 

Così tutti amavano Siddharta. A tutti egli dava gioia, tutti ne traevano piacere. 

Ma egli, Siddharta, a se stesso non procurava piacere, non era di gioia a se stesso. Passeggiando sui sentieri rosati del frutteto, sedendo nell'ombra azzurrina del boschetto delle contemplazioni, purificando le proprie membra nel quotidiano lavacro di espiazione, celebrando i sacrifici nel bosco di mango dalle ombre profonde, con la sua perfetta compitezza d'atteggiamenti, amato da tutti, di gioia a tutti, pure non portava gioia in cuore. Lo assalivano sogni e pensieri irrequieti, portati fino a lui dalla corrente del fiume, scintillati dalle stelle della notte, dardeggiati dai raggi del sole; sogni lo assalivano, e un'agitazione dell'anima, vaporata dai sacrifici, esalante dai versi del Rig-Veda, stillata dalle dottrine dei vecchi testi brahminici. 

Siddharta aveva cominciato ad alimentare in sé la scontentezza. Aveva cominciato a sentire che l'amore di suo padre e di sua madre, e anche l'amore dell'amico suo, Govinda, non avrebbero fatto per sempre la sua eterna felicità, non gli avrebbero dato la quiete, non l'avrebbero saziato, non gli sarebbero bastati. Aveva cominciato a sospettare che il suo degnissimo padre e gli altri suoi maestri, cioè i saggi Brahmini, gli avevano già impartito il più e il meglio della loro saggezza, avevano già versato interamente i loro vasi pieni nel suo recipiente in attesa, ma questo recipiente non s'era riempito, lo spirito non era soddisfatto, l'anima non era tranquilla, non placato il cuore. Buona cosa le abluzioni, certo: ma erano acqua, non lavavano via il peccato, non guarivano la sete dello spirito, non scioglievano gli affanni del cuore. Eccellente cosa i sacrifici e la preghiera agli dèi: ma questo era tutto? Davano i sacrifici la felicità? E come stava questa faccenda degli dèi? Era realmente Prajapati che aveva creato il mondo? Non era invece l'Atman, l'unico, il solo, il tutto? Che gli dèi non fossero poi forme create, come tu e io, soggette al tempo, caduche? Anzi, era poi bene, era giusto, era un atto sensato e sublime sacrificare agli dèi? A chi altri si doveva sacrificare, a chi altri si doveva rendere onore, se non a Lui, all'unico, all'Atman? E dove si poteva trovare l'Atman, dove abitava, dove batteva il suo eterno cuore, dove altro mai se non nel più profondo del proprio io, in quel che di indistruttibile ognuno porta in sé? Ma dove, dov'era questo Io, questa interiorità, questo assoluto? Non era carne e ossa, non era pensiero né coscienza: così insegnavano i più saggi. Dove, dove dunque era? Penetrare laggiù, fino all'Io, a me, all'Atman: c'era forse un'altra via che mettesse conto di esplorare? Ahimè! questa via nessuno la insegnava, nessuno la conosceva, non il padre, non i maestri e i saggi, non i pii canti dei sacrifici! Tutto sapevano i Brahmini e i loro libri sacri, tutto, e perfino qualche cosa di più; di tutto s'erano occupati, della creazione del mondo, della natura del linguaggio, dei cibi, dell'inspirare e dell'espirare, della gerarchia dei cinque sensi, dei fatti degli dèi... cose infinite sapevano... Ma valeva la pena saper tutto questo, se non si sapeva l'uno e il tutto, la cosa più importante di tutte, la sola cosa importante? 

Certo, molti versi dei libri santi, specialmente nelle Upanishad di Samaveda, parlavano di questa interiorità e di quest'assoluto; splendidi versi. «L'anima tua è l'intero mondo»: così vi stava scritto. E vi stava scritto che l'uomo nel sonno, nel profondo sonno, penetra nel proprio Io e prende stanza nell'Atman. Meravigliosa saggezza stava in questi versi, tutta la scienza dei più saggi stava qui radunata in magiche parole, pura come miele. No, non si doveva certo far poco conto della prodigiosa conoscenza che qui era stata raccolta e conservata da innumerevoli generazioni di Brahmini. Ma dov'erano i saggi, dove i sacerdoti o i penitenti, ai quali fosse riuscito, non soltanto di conoscerla, questa profondissima scienza, ma di viverla? Dove era l'esperto che sapesse magicamente richiamare dal sonno allo stato di veglia l'esperienza dell'Atman, ricondurla nella vita quotidiana, nella parola e nell'azione? Molti degni Brahmini conosceva Siddharta, suo padre prima di tutti, il puro, il dotto, degno sopra ogni altro. Ammirabile era suo padre, nobile e calmo il suo contegno, pura la sua vita, saggia la sua parola, squisiti e alti pensieri avevan dimora dietro la sua fronte... ma anche lui, che tanto sapeva, viveva forse nella beatitudine, possedeva la pace, non era anche lui soltanto un uomo che cerca, un assetato? Non doveva egli sempre riattingere, come un assetato, alle sacre fonti, sacrifici, libri, conversazioni dei Brahmini? Perché doveva anche lui, l'irreprensibile, purificarsi ogni giorno dal peccato, affannarsi per le abluzioni, sempre da capo, ogni giorno? Dunque non era in lui l'Atman, non zampillava nel suo cuore la fonte originaria? Eppure era questa che bisognava trovare: scoprire la fonte originaria nel proprio Io, e impadronirsene! Tutto il resto era ricerca, era errore e deviazione. 

Tali erano i pensieri di Siddharta, questa era la sua sete, questo il suo tormento. 

Spesso egli recitava a se stesso le parole di una Chandogya-Upanishad: «In verità, Satyam è il nome di Brahma: in verità, chi sa questo, ascende ogni giorno nel mondo celeste». Spesso gli pareva vicino, il mondo celeste, ma mai l'aveva raggiunto interamente, mai aveva spento l'ultima sete. E di tutti i saggi e dottissimi ch'egli conosceva, valendosi del loro insegnamento, non uno ve n'era che l'avesse raggiunto interamente, il mondo celeste, non uno che interamente l'avesse spenta, l'eterna sete. 

«Govinda,» disse Siddharta all'amico «Govinda, caro, vieni con me sotto il banyano: vogliamo esercitarci nella concentrazione». 

Andarono verso il banyano, sedettero a terra, qui Siddharta, venti passi più in là Govinda. Mentre sedeva, pronto a pronunciare l'Om, Siddharta ripeteva mormorando i versi: 

 

Om è l'arco, la saetta è l'anima, 

bersaglio della saetta è Brahma, 

da colpire con immobile certezza. 

 

Quando il tempo consueto della concentrazione fu trascorso, Govinda si alzò. Era calata la sera, era tempo di cominciare l'abluzione vespertina. Govinda chiamò Siddharta per nome, ma non ottenne risposta. Siddharta sedeva assorto, i suoi occhi erano fissati rigidamente sopra una meta lontana, la punta della lingua spuntava un poco fra i denti: pareva ch'egli non respirasse. Così sedeva, immerso nella concentrazione, pensando l'Om, l'anima indirizzata a Brahma come una saetta. 

E un giorno passarono i Samana attraverso la città di Siddharta: asceti girovaghi, tre uomini secchi e spenti, né vecchi né giovani, con spalle impolverate e sanguinose, arsi dal sole, circondati di solitudine, estranei e ostili al mondo, forestieri nel regno degli uomini come macilenti sciacalli. Spirava da loro un'aura di cheta passione, di devozione fino all'annientamento, di spietata rinuncia alla personalità. 

A sera, dopo l'ora dell'osservazione, Siddharta comunicò a Govinda: «Domani mattina per tempo, amico mio, Siddharta andrà dai Samana. Diventerà un Samana anche lui». 

A queste parole Govinda impallidì, e nel volto immobile dell'amico lesse la decisione, inarrestabile come la saetta, scagliata dall'arco. Subito, al primo sguardo, Govinda si rese conto: ora comincia, ora trova Siddharta la sua via, ora comincia il suo destino a germogliare, e con il suo il mio. E divenne pallido, come una buccia di banana secca. 

«O Siddharta,» esclamò «te lo permetterà tuo padre?». 

Siddharta sollevò lo sguardo, come uno che si ridesta. Fulmineamente lesse nell'anima di Govinda: vi lesse la paura, vi lesse la dedizione. 

«O Govinda,» rispose sommessamente «è inutile sprecar parole. Domani all'alba comincerò la vita del Samana. Non parliamone più». 

Siddharta entrò nella camera dove suo padre sedeva sopra una stuoia di corteccia, s'avanzò alle sue spalle e rimase là, fermo, finché suo padre s'accorse che c'era qualcuno dietro di lui. Disse il Brahmino: «Sei tu, Siddharta? Allora di' quel che sei venuto per dire». 

Parlò Siddharta: «Col tuo permesso, padre mio. Sono venuto ad annunciarti che desidero abbandonare la casa domani mattina e recarmi fra gli asceti. Diventare un Samana, questo è il mio desiderio. Voglia il cielo che mio padre non si opponga». 

Tacque il Brahmino: tacque così a lungo che nella piccola finestra le stelle si spostarono e il loro aspetto mutò, prima che venisse rotto il silenzio nella camera. Muto e immobile stava ritto il figlio con le braccia conserte, muto e immobile sedeva il padre sulla stuoia, e le stelle passavano in cielo. Finalmente parlò il padre: «Non s'addice a un Brahmino pronunciare parole violente e colleriche. Ma l'irritazione agita il mio cuore. Ch'io non senta questa preghiera una seconda volta dalla tua bocca». 

Il Brahmino si alzò lentamente; Siddharta restava in piedi, muto, con le braccia conserte. 

«Che aspetti?» chiese il padre. 

Disse Siddharta: «Tu lo sai». 

Irritato uscì il padre dalla stanza, irritato cercò il suo giaciglio e si coricò. 

Dopo un'ora, poiché il sonno tardava, il Brahmino si alzò, passeggiò in su e in giù, uscì di casa. Guardò attraverso la piccola finestra della stanza, e vide Siddharta in piedi, con le braccia conserte: non s'era mosso. Come un pallido bagliore emanava dal suo mantello bianco. Col cuore pieno d'inquietudine, il padre ritornò al suo giaciglio. 

E venne di nuovo dopo un'ora, venne dopo due ore, guardò attraverso la piccola finestra, vide Siddharta in piedi, nel chiaro di luna, al bagliore delle stelle, nelle tenebre. E ritornò ogni ora, in silenzio, guardò nella camera, vide quel ragazzo in piedi, immobile, ed il suo cuore si riempì di collera, il suo cuore si riempì di disagio, il suo cuore si riempì d'incertezza, il suo cuore si riempì di compassione. Ritornò nell'ultima ora della notte, prima che il giorno spuntasse, entrò nella stanza, vide il giovane in piedi, e gli parve grande, quasi straniero. 

«Siddharta,» chiese «che attendi?». 

«Tu lo sai». 

«Starai sempre così ad aspettare che venga giorno, mezzogiorno e sera?». 

«Starò ad aspettare». 

«Ti stancherai, Siddharta». 

«Mi stancherò». 

«Ti addormenterai, Siddharta». 

«Non mi addormenterò». 

«Morirai, Siddharta». 

«Morirò». 

«E preferisci morire, piuttosto che obbedire a tuo padre?». 

«Siddharta ha sempre obbedito a suo padre». 

«Allora rinunci al tuo proposito?». 

«Siddharta farà ciò che suo padre gli dirà di fare». 

Le prime luci del giorno entravano nella stanza. Il Brahmino vide che Siddharta tremava leggermente sulle ginocchia. Nel volto di Siddharta, invece, non si vedeva alcun tremito: gli occhi guardavano lontano. Allora il padre s'accorse che Siddharta non abitava già più con lui in quella casa: Siddharta l'aveva già abbandonato. 

Il padre posò la mano sulla spalla di Siddharta. «Andrai nella foresta,» disse «e diverrai un Samana. Se nella foresta troverai la beatitudine, ritorna, e insegnami la beatitudine. Se troverai la delusione, ritorna: riprenderemo insieme a sacrificare agli dèi. Ora va' a baciar tua madre, dille dove vai. Ma per me è tempo d'andare al fiume e di compiere la prima abluzione». 

Tolse la mano dalla spalla di suo figlio, e uscì. Siddharta barcollò, quando provò a muoversi. Ma fece forza alle sue membra, s'inchinò davanti al padre e andò dalla mamma, per fare come suo padre aveva prescritto. 

Quando alle prime luci del giorno, lentamente, con le gambe indolenzite, lasciò la città ancora silenziosa, un'ombra, ch'era accucciata presso l'ultima capanna, si levò e s'unì al pellegrino: Govinda. 

«Sei venuto» disse Siddharta, e sorrise. 

«Sono venuto» disse Govinda. 

 

Presso i Samana 

 

La sera di quello stesso giorno essi raggiunsero gli asceti, gli scarni Samana, cui si offersero compagni e discepoli. Vennero accolti. 

Siddharta fece dono del suo abito a un povero Brahmino incontrato sulla strada. Non portava più che il perizoma e una tonaca color terra, senza cuciture. Mangiava soltanto una volta al giorno, e mai cibi cotti. Digiunò per quindici giorni. Poi digiunò per ventotto giorni. Dalle cosce e dalle guance gli sparì la carne. Dai suoi occhi smisuratamente ingranditi parevano prendere il volo ardenti visioni, unghie lunghissime uscivano dalle sue dita rinsecchite, e sul mento germogliava un'arida barba stopposa. Gelido diventava il suo sguardo quando incontrava donne; la sua bocca si contraeva con disprezzo quand'egli doveva accompagnarsi con uomini ben vestiti. Vedeva i mercanti commerciare, i principi andare a caccia, la gente in lutto piangere i suoi morti, le meretrici far copia di sé, i medici affannarsi per i loro ammalati, i preti stabilire il giorno per la semina, gli amanti amare, le madri cullare i loro bimbi — e tutto ciò non era degno dello sguardo dei suoi occhi, tutto mentiva, tutto puzzava, puzzava di menzogna, tutto simulava un significato di bontà e di bellezza, e tutto era inconfessata putrefazione. Amaro era il sapore del mondo. La vita, tormento. Una meta si proponeva Siddharta: diventare vuoto, vuoto di sete, vuoto di desideri, vuoto di sogni, vuoto di gioia e di dolore. Morire a se stesso, non essere più lui, trovare la pace del cuore svuotato, nella spersonalizzazione del pensiero rimanere aperto al miracolo, questa era la sua meta. Quando ogni residuo dell'Io fosse superato ed estinto, quando ogni brama e ogni impulso tacesse nel cuore, allora doveva destarsi l'ultimo fondo delle cose, lo strato più profondo dell'essere, quello che non è più Io: il grande mistero. 

Tacendo Siddharta restava in piedi sotto il sole a picco, ardendo di dolore, ardendo di sete, finché non sentisse più né dolore né sete. Tacendo stava in piedi sotto la pioggia; l'acqua gli cadeva dai capelli sulle spalle gelate, sui fianchi e sulle gambe gelate, e il penitente restava in piedi, finché spalle e gambe non fossero più gelate, ma tacessero e stessero chete. Tacendo egli s'accoccolava sul giaciglio di spine, e dalla pelle riarsa gocciolava il sangue, il marcio gemeva dalle piaghe, e Siddharta rimaneva rigido, immobile, finché più nulla pungesse, finché più nulla bruciasse. 

Siddharta si tirava su a sedere e imparava l'economia del respiro, imparava a emettere poco fiato, imparava a sospendere la respirazione. Imparava, partendo dal respiro, ad assopire il palpito del cuore, imparava a ridurne i battiti, finché fossero pochi e sempre più radi. 

Istruito dal più vecchio dei Samana, Siddharta praticò la spersonalizzazione, praticò la concentrazione, secondo le strane norme di quegli asceti. Un airone volava sopra il boschetto di bambù e Siddharta assumeva quell'airone nella propria anima, volava sopra boschi e montagne, era airone, mangiava pesci, provava la fame degli aironi, parlava la lingua gracchiante degli aironi, moriva la morte degli aironi. Uno sciacallo morto giaceva sulla rena del fiume, e l'anima di Siddharta penetrava in quella carogna, era sciacallo morto, giaceva sulla spiaggia, si gonfiava, puzzava, marciva, era dilaniata dalle iene, scuoiata dagli avvoltoi, diventava scheletro, polvere, si librava sulla campagna. E poi l'anima di Siddharta faceva ritorno, era stata morta, putrefatta, polverizzata, aveva gustato la torbida ebbrezza del cerchio delle vite, e ora si tendeva ansiosamente per una nuova sete, come un cacciatore all'agguato, verso lo spiraglio per il quale si potesse sfuggire al circolo delle trasformazioni, dove si spezzasse la catena delle cause ultime e cominciasse la pace dell'eterno. Egli uccideva i propri sensi, uccideva la propria memoria, sgusciava fuori dal proprio Io in mille forme estranee, era bestia, era carogna, era pietra, era legno, era acqua, e ogni volta si ritrovava al risveglio — splendesse il sole oppur la luna —, era di nuovo quello stesso Io, rientrava nel circolo delle trasformazioni, sentiva sete, superava la sete, sentiva nuova sete. 

Molto apprese Siddharta dai Samana, molte vie imparò a percorrere per uscire dal proprio Io. Percorse la via della spersonalizzazione attraverso il dolore, attraverso la volontaria sofferenza e il superamento del dolore, della fame, della sete, della stanchezza. Percorse la via della spersonalizzazione attraverso la meditazione, attraverso lo svuotamento dei sensi da ogni immagine per mezzo del pensiero. Queste e altre vie apprese a percorrere, mille volte abbandonò il proprio Io, per ore e per giorni indugiò nel non-Io. Ma anche se queste vie uscivano inizialmente dall'Io, all'Io la loro fine riconduceva pur sempre. Mille volte Siddharta poteva sfuggire dal suo Io, indugiare nel nulla, trattenersi in una bestia, nella pietra; inevitabile era il ritorno, inesorabile l'ora in cui egli — splendesse il sole oppure la luna, sotto la pioggia o nell'ombra — ritrovava se stesso, ed era di nuovo l'Io-Siddharta, e di nuovo provava il tormento di non poter sfuggire al circolo delle trasformazioni. 

Accanto a lui viveva Govinda, come la sua ombra, percorreva le stesse vie, si sottoponeva agli stessi sforzi. Raramente parlavano tra loro di qualcos'altro che non fosse il culto e gli esercizi che il culto richiedeva. Talvolta andavano loro due attraverso i villaggi, a mendicare il cibo per sé e per i loro maestri. 

«Che ne pensi, Govinda?» disse una volta Siddharta durante una di queste peregrinazioni per elemosina «che ne pensi tu? Abbiamo fatto progressi? Abbiamo raggiunto la meta?». 

Rispose Govinda: «Abbiamo imparato, e impariamo ancora. Tu diventerai un grande Samana, Siddharta. Hai appreso così in fretta ogni esercizio, spesso i vecchi Samana si sono meravigliati di te. Un giorno tu sarai un santo, o Siddharta». 

Disse Siddharta: «Io non sono di questo parere, amico mio. Ciò che ho imparato finora presso i Samana, o Govinda, avrei potuto impararlo più presto e più semplicemente. In qualunque bettola di malaffare, tra carrettieri e giocatori di dadi, l'avrei potuto imparare». 

Disse Govinda: «Siddharta si prende gioco di me. Come avresti potuto imparare, là, tra quegli sciagurati, la concentrazione, la sospensione del respiro, l'insensibilità alla fame e al dolore?». 

E Siddharta disse piano, come se parlasse a se stesso: «Che è la concentrazione? Che l'abbandono del corpo? Che cos'è il digiuno? la sospensione del respiro? Tutto questo è fuga di fronte all'Io, breve pausa nel tormento di essere Io, è un effimero stordimento contro il dolore insensato della vita. La stessa evasione, lo stesso effimero stordimento prova il bovaro all'osteria, quando si tracanna alcuni bicchieri di acquavite o di latte di cocco fermentato. Allora egli non sente più il proprio Io, allora non sente più le pene della vita, allora prova un effimero stordimento. E prova lo stesso, sonnecchiando sul suo bicchiere di acquavite, che provano Siddharta e Govinda, quando riescono a sfuggire, grazie a lunghi esercizi, dai loro corpi, e a indugiare nel non-Io. Così è, o Govinda». 

Disse Govinda: «Così dici tu, amico mio, eppure sai bene che Siddharta non è un bovaro, né un Samana un ubriacone. Certo il beone trova lo stordimento, certo trova breve tregua ed evasione, ma egli ritorna dalla sua ebbrezza e ritrova tutto come prima, non è diventato più saggio, non ha raccolto conoscenza, non è salito di un gradino più in alto». E Siddharta replicò con un sorriso: «Non lo so, non sono mai stato un beone. Ma che io, Siddharta, nelle mie pratiche e concentrazioni trovo soltanto una passeggera ebbrezza e rimango tanto lontano dalla saggezza, dalla soluzione, quanto lo ero infante nel ventre della madre, questo lo so, Govinda, questo lo so». 

E un'altra volta che Siddharta con Govinda aveva lasciato il bosco per andare a mendicare nel villaggio un po' di cibo per i loro fratelli e maestri, di nuovo Siddharta prese a parlare e disse: «Ma ora, o Govinda, siamo veramente sulla retta via? Ci accostiamo davvero alla conoscenza? Ci avviciniamo davvero alla soluzione? O non ci aggiriamo piuttosto in un cerchio, noi che pur pensavamo di sottrarci al circolo delle trasformazioni elementari?». 

Disse Govinda: «Molto abbiamo appreso, Siddharta, molto rimane ancora da apprendere. Non ci moviamo in cerchio, ci moviamo verso l'alto, il cerchio è una spirale, e di molti gradini siamo già ascesi». 

Rispose Siddharta: «Che età credi che abbia il più vecchio dei nostri Samana, il nostro venerabile maestro?». 

Disse Govinda: «Il più vecchio potrà avere un sessantanni». 

E Siddharta: «Sessant'anni è vissuto, e il nirvana non l'ha mai raggiunto. Ne vivrà settanta, ottanta, e tu e io, anche noi, diverremo vecchi e faremo i nostri esercizi, digiuneremo, mediteremo. Ma il nirvana non lo raggiungeremo: non lo raggiungerà il maestro, non lo raggiungeremo noi. O Govinda, di tutti i Samana che esistono non uno, io credo, neanche uno, raggiunge il nirvana. Troviamo conforti, troviamo da stordirci, acquistiamo abilità con le quali cerchiamo d'illuderci. Ma l'essenziale, la strada delle strade non la troviamo». 

«Non pronunciare,» disse Govinda «non pronunciare così terribili parole, Siddharta! Come sarebbe possibile che fra tanti sapienti, fra tanti Brahmini, fra tanti austeri e venerabili Samana, fra tanti uomini che cercano, fra tanti uomini che si applicano con tutta l'anima loro, fra tanti santi non uno debba trovare la strada delle strade?». 

Ma Siddharta rispose, con una voce in cui trapelavano a un tempo tristezza e dispetto, una voce lieve, un po' triste, ma anche alquanto beffarda: «Presto, Govinda, il tuo amico abbandonerà questa via dei Samana che ha così a lungo percorso con te. Io soffro la sete, o Govinda, e su questa lunga via dei Samana la mia sete non si è per nulla placata. Sempre ho sofferto sete del sapere, sempre sono stato pieno d'interrogativi. Ho interrogato i Brahmini, d'anno in anno, ho interrogato i sacri Veda, d'anno in anno. Forse, o Govinda, sarebbe stato altrettanto saggio e altrettanto utile interrogare il rinoceronte o lo scimpanzé. Lungo tempo ho impiegato, Govinda, e non ne sono ancora venuto a capo, per imparare questo: che non si può imparare nulla! Nella realtà non esiste, io credo, quella cosa che chiamiamo "imparare". C'è soltanto, o amico, un sapere, che è ovunque, che è Atman, che è in me e in te e in ogni essere. E così comincio a credere: questo sapere non ha nessun peggior nemico che il voler sapere, che l'imparare». 

Govinda si fermò di botto in mezzo alla strada, alzò le mani e disse: «Non crucciare, Siddharta, non spaventare l'amico con simili discorsi! In verità, paura svegliano le tue parole nel mio cuore. Ma pensa dunque: che ne sarebbe della santità dei Samana, se fosse così come tu dici, se non fosse possibile imparare?! Che ne sarebbe, o Siddharta, che ne sarebbe allora di tutto ciò che sulla terra v'ha di santo, di venerabile, di degno?!». 

E Govinda mormorò un versetto tra sé e sé, un versetto di una Upanishad: 

 

Chi s'immerge medicando, con puro intelletto, nell'Atman, 

Parole non v'hanno ad esprimere la beatitudine del suo cuore. 

 

Ma Siddharta taceva. Pensava le parole che Govinda gli aveva dette, e le pensava a fondo. 

Sì, pensava a testa bassa, che rimane dunque ancora di tutto ciò che ci pareva sacro? Che rimane? Che cosa resta confermato? E scosse il capo. 

Un giorno — eran circa tre anni che i due giovani vivevano coi Samana, partecipando ai loro esercizi spirituali —, un giorno giunse fino a loro, passata per mille bocche, una notizia, una voce, una fama: un uomo era apparso, chiamato Gotama, il Sublime, il Buddha, che aveva superato in sé il dolore del mondo ed era riuscito a fermare la ruota delle rinascite. Passava per la terra insegnando, circondato di giovani, senza ricchezze, senza casa, senza donna, avvolto nel giallo saio del pellegrino, ma con fronte serena: un beato. E principi e Brahmini si inchinavano a lui e diventavano suoi discepoli. Questa fama, questa voce, questa leggenda risuonava qua e là, si propagava, nelle città ne parlavano i Brahmini, nella foresta i Samana, e sempre quel nome di Gotama, il Buddha, ritornava alle orecchie dei giovani, in un'aureola or buona or cattiva, oggetto di lode e di scherno. 

Come quando in un paese infierisce la peste, e sorga la notizia che in qualche luogo ci sia un uomo, un saggio, un mago, cui la parola o il respiro bastino a guarire ogni vittima del contagio, e come allora questa novella percorre la terra e ognuno ne parla, molti credono, molti dubitano, ma molti anche si mettono senz'altro in cammino per cercare il saggio, il salvatore, così percorse la terra quella leggenda, diffondendosi come un profumo, la leggenda di Gotama, il Buddha, il saggio della stirpe dei Sakya. A lui era congenita, così affermavano i suoi fedeli, la somma sapienza, egli si ricordava della sua precedente esistenza, egli aveva raggiunto il nirvana e non sarebbe rientrato mai più nel circolo delle reincarnazioni, mai più sarebbe stato sommerso nella torbida corrente delle forme. Si riferivano di lui cose magnifiche e incredibili: aveva fatto miracoli, aveva sottomesso il demonio, aveva parlato con gli dèi. Ma i suoi nemici e gli increduli dicevano che questo Gotama era un vacuo seduttore, che passava i suoi giorni nelle mollezze, disprezzava i sacrifìci, non aveva alcuna dottrina e non praticava esercizi né mortificazione. 

Dolce suonava la leggenda del Buddha, un incanto si sprigionava da queste notizie. Certo il mondo era malato, dura da sopportare era la vita, ed ecco, qua sembrava che sgorgasse una fonte, qua sembrava che risuonasse un messaggio consolatore, benigno, pieno di nobili promesse. Dappertutto dove la fama del Buddha si spandeva, in ogni paese dell'India ascoltavano i giovani attentamente, con desiderio e speranza, e tra i figli dei Brahmini delle città e dei villaggi ogni pellegrino e ogni straniero era benvenuto, se portava notizie di lui, del sublime, del Sakyamuni. 

Anche ai Samana nel bosco, anche a Siddharta, anche a Govinda era pervenuta la voce, lentamente, a gocce, e ogni goccia grave di speranza, ogni goccia grave di dubbio. Non ne parlarono a lungo, poiché il più anziano dei Samana non sentiva volentieri questo discorso. S'era fatto l'idea che quel sedicente Buddha fosse stato precedentemente un eremita e fosse vissuto nella foresta, ma poi avesse fatto ritorno alle mollezze e ai piaceri del mondo: non faceva quindi alcuna stima di questo Gotama. 

«O Siddharta,» così parlò una volta Govinda al suo amico «quest'oggi fui al villaggio e un Brahmino m'invitò a entrare nella sua casa, e nella sua casa c'era il figlio d'un Brahmino di Magadha: costui ha visto coi suoi occhi il Buddha e l'ha sentito predicare. In verità, il cuore mi dolse in petto, e io pensai tra me: o potessimo dunque anche noi, Siddharta e io, vivere quell'ora in cui sentiremo la dottrina dalla bocca di quell'uomo perfetto! Parla, amico mio, non vogliamo anche noi andar laggiù ad ascoltare la dottrina dalla bocca del Buddha?». 

Disse Siddharta: «Sempre, o Govinda, avevo pensato che Govinda sarebbe rimasto fra i Samana, sempre avevo creduto che fosse suo scopo diventar vecchio, di sessanta, di settant'anni, e sempre continuare a praticare le arti e gli esercizi che adornano il Samana. Ma guarda un po', io non conoscevo abbastanza Govinda, poco sapevo del suo cuore. E ora ecco che tu vuoi, carissimo, prendere un'altra strada e andare laggiù dove il Buddha annuncia la sua dottrina». 

Disse Govinda: «A te piace burlare, Siddharta. Ma possa tu sempre continuare a burlarmi! Forse non s'è destato anche in te un desiderio, un ardore di ascoltare questa dottrina? E non m'hai detto una volta che non avresti più seguito per molto la via del Samana?». 

Allora sorrise Siddharta, del suo sorriso, mentre sul tono della sua voce si stendeva un'ombra di tristezza e anche un'ombra di canzonatura, e disse: «Bene, Govinda, bene hai parlato: il tuo ricordo è stato molto a proposito. Ma vogliti anche ricordare del resto che hai udito da me, e cioè che sono diventato diffidente e stanco verso le dottrine e verso l'apprendere, e che scarsa è la mia fede nelle parole che ci vengono dai maestri. Tuttavia sta bene, mio caro, sono pronto ad ascoltare quella dottrina, sebbene nel mio cuore io creda che di tale dottrina il meglio l'abbiamo già sperimentato». 

Disse Govinda: «La tua deliberazione rallegra il mio cuore. Ma dimmi, come potrebbe essere possibile? Come potrebbe la dottrina del Buddha, prima ancora che noi l'abbiamo intesa, aver maturato per noi i suoi frutti migliori?». 

Disse Siddharta: «Godiamoci questi frutti, o Govinda, e attendiamo quelli che verranno! Ma il frutto di cui già ora andiamo debitori a Gotama consiste in ciò, ch'egli ci porta via dai Samana! Se poi egli abbia anche altro e di meglio da darci, questo, o amico, lo vedremo: attendiamo intanto con cuore tranquillo». 

Quello stesso giorno Siddharta notificò al più vecchio dei Samana la propria decisione di volerlo lasciare. Ciò gli rese noto con quella cortesia e quella modestia che si addicono a un giovane e a un discepolo. Ma il Samana andò in collera a sentire che i due giovani lo volessero abbandonare, e alzò la voce con grossolane parole di oltraggio. 

Govinda si spaventò e rimase altamente imbarazzato, ma Siddharta accostò la bocca all'orecchio di Govinda e gli sussurrò: «Ora voglio mostrare al vecchio che qualcosa con lui ho pure imparato». Collocandosi ben vicino di fronte al Samana, con l'anima tutta concentrata, colse col proprio sguardo lo sguardo del vecchio e lo avvinse, lo fece ammutolire, disarmò la sua volontà e l'assoggettò alla propria, ordinandogli di fare, senza tante storie, ciò ch'egli desiderava da lui. Il vecchio ammutolì sbarrando gli occhi, la sua volontà si allentò, le braccia gli caddero penzoloni, e impotente egli dovette subire la fascinazione di Siddharta. Anzi, i pensieri di Siddharta s'impadronirono del Samana, ed egli dovette eseguire ciò che essi gli comandavano. Perciò il vecchio s'inchinò parecchie volte, eseguì gesti di benedizione, pronunciò balbettando un pio augurio di buon viaggio. E i giovani ricambiarono l'augurio e salutando si dipartirono. 

Per strada disse Govinda: «O Siddharta, non sapevo che tanto avessi appreso dai Samana. È difficile, molto difficile ipnotizzare un vecchio Samana. In verità, se tu fossi rimasto con loro, avresti presto imparato a camminare sulle acque». 

«Non desidero camminare sulle acque» rispose Siddharta. «Queste arti le lascio volentieri ai vecchi Samana». 

 

Gotama 

 

Nella città di Savathi anche i bambini conoscevano il nome del sublime Buddha, e ogni famiglia si dava d'attorno per riempire le ciotole delle elemosine ai discepoli di Gotama, che mendicavano in silenzio. Nei dintorni della città si trovava il soggiorno preferito di Gotama, il boschetto Jetavana, che il ricco mercante Anathapindika, un devoto ammiratore del Sublime, aveva offerto in dono a lui e ai suoi discepoli. 

Nella loro peregrinazione in cerca del soggiorno di Gotama, i due giovani pellegrini s'erano informati del cammino da seguire: e tutte le risposte ricevute, come in genere i racconti uditi, li indirizzarono a questo luogo. Come giunsero a Savathi, subito, nella prima casa alla cui porta si fermarono a chiedere, venne loro offerto cibo; ed essi accettarono il cibo e Siddharta interrogò la donna che glielo porgeva: «Vorremmo sapere, o donna gentile, dove abita il Buddha, il Venerabilissimo, poiché noi siamo due Samana del bosco, e siam venuti per vedere lui, il Perfetto, e apprendere la dottrina dalle sue labbra». 

Disse la donna: «Veramente in buon punto siete arrivati voi, Samana del bosco. Sappiate che a Jetavana, nel giardino di Anathapindika si trova il Sublime. Là potrete passar la notte, voi, pellegrini, poiché là appunto vi è spazio sufficiente per le folle innumerevoli che affluiscono a sentire la dottrina dalle sue labbra». 

Si rallegrò allora Govinda e pieno di gioia esclamò: «Bene dunque, così la nostra meta è raggiunta e il nostro cammino finito! Ma dicci, tu, buona madre dei pellegrini, lo conosci tu il Buddha, l'hai visto coi tuoi occhi?». 

Disse la donna: «Molte volte l'ho visto, il Sublime. Spesso accadeva di vederlo passare per le strade, silenzioso, nel suo mantello giallo: tacendo porge la ciotola delle elemosine alle porte delle case e la ritrae colma di offerte». 

Govinda ascoltava entusiasmato e avrebbe ancor voluto chiedere e sapere tante cose. Ma Siddharta lo esortò a procedere oltre. Ringraziarono e partirono, e raramente ebbero ancor bisogno di chiedere la strada, perché molti pellegrini e monaci della comunità di Gotama erano in cammino per Jetavana. Come vi giunsero, nella notte, era un continuo movimento di nuovi arrivi, continue domande e risposte di gente che chiedeva e otteneva ospitalità. I due Samana, avvezzi alla vita nel bosco, trovarono presto e senza rumore un ricovero, e vi riposarono fin al mattino. 

Al sorgere del sole videro con stupore qual folla di credenti e curiosi avesse pernottato in quel luogo. Per tutti i sentieri del magnifico boschetto passeggiavano monaci in tunica gialla, sedevano qua e là sotto gli alberi, immersi nella contemplazione o in elevati discorsi; le aiuole ombrose presentavano l'aspetto d'una città, piene di uomini ronzanti come api. La maggior parte dei monaci uscivano con la ciotola delle elemosine, per raccogliere in città il cibo dell'unico pasto giornaliero, quello di mezzogiorno. Anche il Buddha stesso, l'Illuminato, soleva fare di mattina il suo giro per mendicare. 

Siddharta lo vide, e lo riconobbe subito, come se un dio gliel'avesse additato. Lo vide, un ometto semplice, in cotta gialla, che camminava tranquillo con la sua ciotola in mano per le elemosine. 

«Guarda là!» disse piano Siddharta a Govinda. «Quello là è il Buddha». 

Attentamente guardò Govinda il monaco in cotta gialla, che non pareva distinguersi in nulla dai cento e cento altri monaci. E tosto anche Govinda si rese conto: sì, era quello. E lo seguirono, osservandolo. 

Il Buddha andava per la sua strada, modesto e immerso nei propri pensieri; la sua faccia tranquilla non era né allegra né triste, solo pareva illuminata da un lieve sorriso interiore. Con un sorriso nascosto, cheto, tranquillo, non dissimile da un bambino sano e ben disposto, camminava il Buddha; portava la tonaca e posava i piedi tale e quale come tutti i suoi monaci, esattamente secondo la regola. Ma il suo volto e il suo passo, il suo sguardo chetamente abbassato, la sua mano che pendeva immota, e perfino ogni dito della mano penzolante immota, esprimevano pace, esprimevano perfezione: nulla in lui che tradisse la ricerca, l'aspirazione a qualche cosa, egli respirava dolcemente in una quiete imperitura, in una imperitura luce, in una pace inviolabile. 

Così camminava Gotama verso la città, per raccogliere elemosine, e i due Samana lo riconobbero unicamente alla perfezione della sua calma, alla tranquillità della sua immagine, in cui non v'era ricerca, non vi era desiderio, non aspirazione, non sforzo, ma solo luce e pace. 

«Oggi ascolteremo la dottrina dalle sue labbra» disse Govinda. 

Siddharta non rispose. Era poco curioso della dottrina, non credeva ch'essa gli potesse apprendere qualcosa di nuovo; non meno di Govinda, ne aveva già sentito tante e tante volte esporre il contenuto, sia pure grazie a resoconti di seconda e terza mano. Ma egli fissava attentamente la testa di Gotama, le sue spalle, i suoi piedi, la mano penzolante immota, e gli pareva che ogni articolazione in ogni dito di quella mano fosse dottrina, parlasse, spirasse, emanasse, riflettesse verità. Quest'uomo, questo Buddha era intriso di verità, fin nell'ultimo atteggiamento del suo dito mignolo. Quest'uomo era santo. Mai Siddharta aveva tanto stimato un uomo, mai aveva tanto amato un uomo quanto costui. 

I due seguirono il Buddha fino alla città e ritornarono silenziosi: per quel giorno contavano di astenersi dal cibo. Videro Gotama ritornare, lo videro consumare il pasto nel cerchio dei suoi discepoli — ciò che egli mangiò non avrebbe saziato nemmeno un uccello — e lo videro ritirarsi nell'ombra degli alberi del mango. 

Ma verso sera, quando il calore decrebbe e la vita si rianimava nell'accampamento e tutti si raggrupparono, udirono il Buddha predicare. Udirono la sua voce, e anche questa era perfetta, di perfetta calma, piena di pace. Gotama predicò la dottrina del dolore: l'origine del dolore, la via per superare il dolore. Tranquillo e chiaro fluiva il suo pacato discorso. Dolore era la vita, pieno di dolore il mondo, ma la liberazione dal dolore s'era trovata: l'avrebbe trovata chi seguisse la via del Buddha. 

Con voce dolce ma ferma parlava il Sublime: insegnò i quattro punti fondamentali, insegnò l'ottuplice strada, pazientemente ripercorse la consueta via della dottrina, degli esempi, delle ripetizioni. Limpida e calma si librava la sua voce sugli ascoltatori, come una luce, come una stella nel cielo. Quando il Buddha — già era scesa la notte — conchiuse il suo discorso, diversi pellegrini si fecero avanti e pregarono d'essere accolti nella comunità, manifestando il desiderio di convertirsi a quella dottrina. E Gotama li accolse dicendo: «Bene avete appreso la dottrina, bene vi è stata annunciata. Avanzate nel cammino e peregrinate in santità, per preparare la fine d'ogni dolore». 

Ed ecco anche Govinda s'avanzò, il timido Govinda, e disse: «Anch'io voglio rifugiarmi presso il Sublime e la sua dottrina» e pregò d'essere accolto nella comunità dei discepoli, e fu accolto. 

Subito dopo, poiché il Buddha s'era ritirato per il riposo della notte, Govinda si volse a Siddharta e parlò con fuoco: «Siddharta, non a me s'addice di muoverti rimprovero. Tutti e due abbiamo ascoltato il Sublime, tutti e due abbiamo appreso la dottrina. Govinda ha sentito la dottrina e s'è rifugiato in lei. Ma tu, mio degno amico, non vuoi anche tu seguire il sentiero della liberazione? Vuoi indugiare, vuoi aspettare ancora?». 

Siddharta si destò come da un sogno, quando sentì le parole di Govinda. A lungo lo fissò nel volto. Poi parlò sommessamente, e nella sua voce non c'era scherno, questa volta: «Govinda, amico mio, ora tu hai fatto il passo, ora tu hai scelto la tua strada. Sempre, Govinda, tu sei stato mio amico, sempre tu m'hai seguito a distanza di un passo. Spesso avevo pensato: non farà mai, Govinda, un passo da solo, senza di me, non ad altri ubbidiente che alla sua anima? Ed ecco, ora tu sei diventato un uomo, e scegli da te la tua strada. Possa tu percorrerla fino alla fine, amico mio! Possa tu trovare la liberazione!». 

Govinda, che non comprendeva ancora pienamente, ripeté con un tono d'impazienza la sua domanda: «Parla dunque, ti prego, carissimo! Dimmi che certamente non può essere altrimenti: anche tu, mio dotto amico, verrai a rifugiarti presso il Buddha sublime!». 

Siddharta posò la mano sulla spalla di Govinda: «Tu non hai badato al mio augurio e alla mia benedizione, Govinda. Te lo ripeto: possa tu percorrere questa via fino in fondo! Possa tu trovare la liberazione!». 

In questo istante Govinda capì che l'amico l'aveva abbandonato, e cominciò a piangere. 

«Siddharta!» chiamò tra i singhiozzi. 

Siddharta gli parlò benignamente: «Non dimenticare, Govinda, che ora appartieni ai Samana del Buddha! A patria e parenti hai rinunciato; hai rinunciato al tuo ceto e ai tuoi successi, alla tua personale volontà, e all'amicizia. Così vuole la dottrina, così vuole il Sublime. Così tu stesso hai voluto. Domani, o Govinda, ti lascerò». 

Ancora a lungo passeggiarono gli amici nel bosco, a lungo giacquero senza trovar sonno. E sempre Govinda ricominciava a insistere presso l'amico, perché non volesse anch'egli convertirsi alla dottrina di Gotama, quali difetti vi trovasse dunque. Ma Siddharta si sottraeva sempre alle spiegazioni e diceva: «Sta contento, Govinda! Ottima è la dottrina del Sublime, come potrei trovarvi un difetto?». 

Assai per tempo attraversò il giardino un seguace di Buddha, uno dei suoi monaci più anziani, e chiamò a sé tutti i neofiti che si erano convertiti alla dottrina, per imporre loro la tonaca gialla e istruirli circa le prime norme e i primi doveri del loro stato. Allora Govinda si fece forza, abbracciò ancora una volta l'amico della sua giovinezza e si riunì alla cerchia dei novizi. 

Ma Siddharta passeggiava pensieroso attraverso il boschetto. S'imbatte così in Gotama, il Sublime, e lo salutò rispettosamente e poiché lo sguardo del Buddha era pieno di bontà e di dolcezza, il giovane si fece animo e chiese al degno uomo il permesso di parlargli. Con un cenno silenzioso, il Sublime acconsentì. 

Parlò Siddharta: «Ieri, o Sublime, mi fu dato di ascoltare la tua mirabile dottrina. Insieme col mio amico io venni da lontano per ascoltare la dottrina. E ora il mio amico rimarrà coi tuoi uomini, egli si rifugia in te. Ma io riprendo ancora il mio pellegrinaggio». 

«Come ti piace» disse il degno uomo cortesemente. 

«Troppo ardite son le mie parole,» continua Siddharta «ma non vorrei lasciare il Sublime senza avergli esposto schiettamente il mio pensiero. Vuole il Venerabile prestarmi ascolto ancora un momento?». 

Con un cenno silenzioso il Sublime assentì. 

Disse Siddharta: «Una cosa, o Venerabilissimo, ho ammirato soprattutto nella tua dottrina. Tutto in essa è perfettamente chiaro e dimostrato; come una perfetta catena, mai e in nessun luogo interrotta, tu mostri il mondo: una eterna catena, contesta di cause e di effetti. Mai ciò è stato visto con tanta chiarezza, né esposto in modo più irrefutabile; certamente più vivo deve battere il cuore in petto a ogni Brahmino quand'egli, guidato dalla tua dottrina, senza soluzioni di continuità, limpido come un cristallo, non dipendente dal caso, non dipende dagli dèi. Se esso sia buono o cattivo, se la vita in esso sia gioia o dolore, può forse rimanere oscuro (può anche essere che questo non sia la cosa essenziale); ma l'unità del mondo, la connessione di tutti gli avvenimenti, l'inclusione di ogni essere, grande e piccolo, nella stessa corrente, nella stessa legge delle cause ultime, del divenire e del morire, questo risplende chiaramente dalla tua sublime dottrina, o Perfettissimo. Ma ora, secondo la tua stessa dottrina, in un punto è interrotta questa unità e consequenzialità di tutte le cose, attraverso un piccolo varco irrompe in questo inondo unitario qualcosa che prima non era e che non può essere indicato né dimostrato: e questo varco è la tua dottrina del superamento del mondo, della liberazione. Ma con questo piccolo spiraglio, con questa piccola rottura viene di nuovo infranto e compromesso l'intero ordinamento del mondo unitario ed eterno. Voglimi perdonare, se ho osato proporti quest'obiezione». 

Tranquillo e immobile l'aveva ascoltato Gotama. Quindi parlò a sua volta, il Perfetto: parlò con la sua voce benigna, con la sua voce chiara e cortese: «Tu hai udito la dottrina, o figlio di Brahmino, e torna a tuo onore di avervi riflettuto così profondamente. Tu vi hai trovato una frattura, un errore. Possa tu andar oltre col pensiero. Permetti solo ch'io ti inetta in guardia, o tu che sei avido di sapere, contro la molteplicità delle opinioni e contro le contese puramente verbali. Le opinioni non contano niente, possono essere belle o odiose, intelligenti o stolte, ognuno può adottarle o respingerle. Ma la dottrina che hai udito da me, non è mia opinione, e il suo scopo non è di spiegare il mondo agli uomini avidi di sapere. Un altro è il suo scopo: la liberazione dal dolore. Questo è ciò che Gotama insegna, null'altro». 

«Perdona il mio ardire, o Sublime» disse il giovane. «Non per avere una discussione con te, una discussione puramente terminologica, ti ho parlato poc'anzi in questo modo. In verità, hai ragione: contano poco le opinioni. Ma permettimi di dire ancora questo: non un minuto io ho dubitato di te. Non un minuto ho dubitato che tu sei Buddha, che tu hai raggiunto la meta, la somma meta verso la quale si affaticano tante migliaia di Brahmini e di figli di Brahmini. Tu hai trovato la liberazione dalla morte. Essa è venuta a te attraverso la tua ricchezza, ti è venuta incontro sulla tua stessa strada, attraverso il tuo pensiero, la concentrazione, la conoscenza, la rivelazione. Non ti è venuta attraverso la dottrina! E — tale è il mio pensiero, o Sublime — nessuno perverrà mai alla liberazione attraverso una dottrina! A nessuno, o Venerabile, tu potrai mai, con parole, e attraverso una dottrina, comunicare ciò che avvenne in te nell'ora della tua illuminazione! Molto contiene la dottrina del Buddha cui la rivelazione è stata largita: a molti insegna a vivere rettamente, a evitare il male. Ma una cosa non contiene questa dottrina così limpida, così degna di stima: non contiene il segreto di ciò che il Sublime stesso ha vissuto, egli solo fra centinaia di migliaia. Questo è ciò di cui mi sono accorto, mentre ascoltavo la dottrina. Questo è il motivo per cui continuo la mia peregrinazione: non per cercare un'altra e migliore dottrina, poiché lo so, che non ve n'è alcuna, ma per abbandonare tutte le dottrine e tutti i maestri e raggiungere da solo la mia meta o morire. Ma spesso ripenserò a questo giorno, o Sublime, e a questa ora, in cui i miei occhi videro un Santo». 

Chetamente fissavano il suolo gli occhi del Buddha, chetamente raggiava in perfetta calma il suo viso imperscrutabile. 

«Voglia il cielo che i tuoi pensieri non siano errori!» parlò lentamente il Venerabile. «Possa tu giungere alla meta! Ma dimmi, hai tu visto la schiera dei miei Samana, dei molti miei fratelli che si sono convertiti alla dottrina? E credi tu, o Samana forestiero, credi tu che per tutti costoro sarebbe meglio abbandonare la dottrina e rientrare nella vita del mondo e dei piaceri?». 

«Lungi da me un tal pensiero!» gridò Siddharta. «Possano essi rimaner tutti fedeli alla dottrina, possano raggiungere la loro meta. Non tocca a me giudicare la vita di un altro. Solo per me, per me solo devo giudicare, devo scegliere, devo scartare. Liberazione dall'Io è quanto cerchiamo noi Samana, o Sublime. Se io diventassi ora uno dei tuoi discepoli, o Venerabile, mi avverrebbe — temo — che solo in apparenza, solo illusoriamente il mio Io giungerebbe alla quiete e si estinguerebbe, ma in realtà, esso continuerebbe a vivere e a ingigantirsi, poiché lo materierei della dottrina, della mia devozione e del mio amore per te, della comunità con i monaci!». 

Con un mezzo sorriso, con immutata e benigna serenità Gotama guardò lo straniero negli occhi e lo congedò con un gesto appena percettibile. 

«Tu sei intelligente, o Samana» disse il Venerabile. «Sai parlare con intelligenza!». 

Il Buddha s'allontanò, e il suo sguardo e il suo mezzo sorriso rimasero per sempre incisi nella memoria di Siddharta. 

Mai ho visto un uomo guardare, sorridere, sedere, camminare a quel modo, egli pensava, così veramente desidero anch'io saper guardare, sorridere, sedere e camminare, così libero, venerabile, modesto, aperto, infantile e misterioso. Così veramente guarda e cammina soltanto l'uomo che è disceso nell'intimo di se stesso. Bene, cercherò anch'io di discendere nell'intimo di me stesso. 

Ho visto un uomo, pensava Siddharta, un uomo unico, davanti al quale ho dovuto abbassare lo sguardo. Davanti a nessun altro voglio mai più abbassare lo sguardo: a nessun altro. Nessuna dottrina mi sedurrà mai più, poiché non m'ha sedotto la dottrina di quest'uomo. 

Il Buddha m'ha derubato, pensava Siddharta, m'ha derubato, eppure è ben più prezioso ciò ch'egli mi ha donato. M'ha derubato del mio amico, di colui che credeva in me e che ora crede in lui, che era la mia ombra e che ora è l'ombra di Gotama. Ma mi ha donato Siddharta, mi ha fatto dono di me stesso. 

 

Risveglio 

 

Quando Siddharta lasciò il boschetto nel quale rimaneva il Buddha, il Perfetto, e nel quale rimaneva Govinda, allora egli sentì che in questo boschetto restava dietro di lui anche tutta la sua vita passata e si separava da lui. Su questa sensazione, che lo riempiva tutto, egli venne riflettendo mentre s'allontanava a lento passo. Profondamente vi pensò, come attraverso un'acqua profonda si lasciò calare tino al fondo di questa sensazione, fin là dove riposano le cause ultime, poiché conoscere le cause ultime, questo appunto è pensare — così gli pareva — e solo per questa via le sensazioni diventano conoscenze e non vanno perdute, ma al contrario si fanno essenziali e cominciano a irradiare ciò che in esse è contenuto. 

Rifletteva Siddharta nel suo lento cammino. Stabilì che non era più un giovinetto, ma era diventato un uomo. Stabilì che una cosa l'aveva abbandonato, così come il serpente viene abbandonato dalla sua vecchia pelle, che una cosa non era più presente in lui, che l'aveva accompagnato durante tutta la sua giovinezza, e gli era appartenuta: il desiderio di avere maestri e di conoscere dottrine. L'ultimo maestro che era apparso sulla sua strada, il sommo e sapientissimo maestro, il più santo di tutti, il Buddha, anche questo egli l'aveva abbandonato, aveva dovuto separarsi da lui, non aveva potuto accogliere la sua dottrina. 

Sempre più lento andava il pensieroso e si chiedeva frattanto: «Ma che è dunque ciò che avevi voluto apprendere dalle dottrine e dai maestri, e che essi, pur avendoti rivelato tante cose, non sono riusciti a insegnarti?». Ed egli trovò: «L'Io era, ciò di cui volevo apprendere il senso e l'essenza. L'Io era, ciò di cui volevo liberarmi, ciò che volevo superare. Ma non potevo superarlo, potevo soltanto ingannarlo, potevo soltanto fuggire o nascondermi davanti a lui. In verità, nessuna cosa al mondo ha tanto occupato i miei pensieri come questo mio Io, questo enigma ch'io vivo, d'essere uno, distinto e separato da tutti gli altri, d'essere Siddharta! E su nessuna cosa al mondo so tanto poco quanto su di me, Siddharta!». 

Colpito da questo pensiero s'arrestò improvvisamente nel suo lento cammino meditativo, e tosto da questo pensiero ne balzò fuori un altro, che suonava: «Che io non sappia nulla di me, che Siddharta mi sia rimasto così estraneo e sconosciuto, questo dipende da una causa fondamentale, una sola: io avevo paura di me, prendevo la fuga davanti a me stesso! L'Atman cercavo, Brahma cercavo, e volevo smembrare e scortecciare il mio Io, per trovare nella sua sconosciuta profondità il nocciolo di tutte le cortecce, l'Atman, la vita, il divino, l'assoluto. Ma proprio io, intanto, andavo perduto a me stesso». 

Siddharta schiuse gli occhi e si guardò intorno, un sorriso gli illuminò il volto, e un profondo sentimento, come di risveglio da lunghi sogni, lo percorse fino alla punta dei piedi. E appena si rimise in cammino, correva in fretta, come un uomo che sa quel che ha da fare. 

«Oh!» pensava respirando profondamente «ora Siddharta non me lo voglio più lasciar scappare! Basta! cominciare il pensiero e la mia vita con l'Atman e col dolore del mondo! Basta! uccidermi e smembrarmi, per scoprire un segreto dietro le rovine! Non sarà più lo Yoga-Veda a istruirmi, né l'Atharva-Veda, né gli asceti, né alcuna dottrina. Dal mio stesso Io voglio andare a scuola, voglio conoscermi, voglio svelare quel mistero che ha nome Siddharta». 

Si guardò attorno come se vedesse per la prima volta il mondo. Bello era il mondo, variopinto, raro e misterioso era il mondo! Qui era azzurro, là giallo, più oltre verde, il cielo pareva fluire lentamente come i fiumi, immobili stavano il bosco e la montagna, tutto bello, tutto enigmatico e magico, e in mezzo v'era lui, Siddharta, il risvegliato, sulla strada che conduce a se stesso. Tutto ciò, tutto questo giallo e azzurro, fiume e bosco penetrava per la prima volta attraverso la vista in Siddharta, non era più l'incantesimo di Mara, non era più il velo di Maya, non era più insensata e accidentale molteplicità del mondo delle apparenze, spregevole agli occhi del Brahmino, che, tutto dedito ai suoi profondi pensieri, scarta la molteplicità e solo dell'unità va in cerca. L'azzurro era azzurro, il fiume era fiume, e anche se nell'azzurro e nel fiume vivevan nascosti come in Siddharta l'uno e il divino, tale era appunto la natura e il senso del divino, d'esser qui giallo, là azzurro, là cielo, là bosco e qui Siddharta. Il senso e l'essenza delle cose erano non in qualche cosa oltre e dietro loro, ma nelle cose stesse, in tutto. 

«Come sono stato sordo e ottuso!» pensava, e camminava intanto rapidamente. «Quand'uno legge uno scritto di cui vuol conoscere il senso, non ne disprezza i segni e le lettere, né li chiama illusione, accidente e corteccia senza valore, bensì li decifra, li studia e li ama, lettera per lettera. Io invece, io che volevo leggere il libro del mondo e il libro del mio proprio Io, ho disprezzato i segni e le lettere, a favore d'un significato congetturato in precedenza, ho chiamato illusione il mondo delle apparenze, ho chiamato il mio occhio e la mia lingua fenomeni accidentali e senza valore. No, tutto questo è finito, ora son desto, mi sono risvegliato nella realtà e oggi nasco per la prima volta». 

Mentre rivolgeva tali pensieri, si fermò tuttavia improvvisamente, come se un serpente fosse apparso sulla strada davanti ai suoi piedi. 

Poiché improvvisamente anche questo gli si era rivelato: egli, che nella realtà si trovava come un risvegliato o come un nuovo nato, doveva ricominciare interamente la sua vita. Ancora in quello stesso mattino, quando aveva lasciato Jetavana, il boschetto di quel Sublime, e già era in atto di ridestarsi, già era sulla strada che riconduce a se stesso, era stata sua intenzione e gli era parso perfettamente ovvio e naturale, dopo gli anni del suo noviziato ascetico, far ritorno a casa sua, da suo padre. Ma ora per la prima volta, proprio in quell'istante in cui egli s'era arrestato come se un serpente giacesse sulla sua strada, s'era destata in lui anche questa idea: «Io non sono più quel che ero, non sono più eremita, non sono più prete, non sono più Brahmino. Che dunque vado a fare a casa di mio padre? Studiare? Offrire sacrifici? Praticare la concentrazione? Tutto questo è passato, tutto questo non si trova più sul mio cammino». Immobile restò Siddharta, e per un attimo, la durata d'un respiro, un gelo gli strinse il cuore, ed egli lo sentì gelare nel petto come una povera bestiola, un uccello o un leprotto, quando s'accorse quanto fosse solo. Ora lo sentiva. Sempre, finora, anche nella più profonda concentrazione, egli era rimasto il figlio di suo padre, era stato Brahmino, d'alto ceto, un sacerdote. Adesso non era più che Siddharta, il risvegliato, e nient'altro. Trasse un profondo sospiro, e per un attimo si sentì gelare. Rabbrividì. Nessuno era così solo come lui. Non v'era un nobile che non appartenesse all'ambiente dei nobili, non v'era un manovale che non appartenesse all'ambiente dei manovali; e fra i loro pari tutti trovavano ricetto, ne condividevano la vita, ne parlavano la lingua. Non v'era un Brahmino che non fosse annoverato tra i suoi colleghi e non vivesse con loro, non v'era un eremita che non potesse trovar ricetto nella società dei Samana, e anche il più sperduto solitario della foresta non era uno e solo, anche lui era circondato da aderenti, anche lui apparteneva a una categoria che gli faceva da patria. Govinda s'era fatto monaco, e mille monaci erano suoi fratelli, portavano un abito come il suo, condividevano la sua fede, parlavano il suo linguaggio. Ma lui, Siddharta, a quale comunità apparteneva? Di chi condivideva la vita? Di chi avrebbe parlato il linguaggio? 

Da questo momento in cui il mondo circostante parve disciogliersi intorno a lui, in cui egli rimase abbandonato come in cielo una stella solitaria, da questo momento di gelo e di sgomento Siddharta emerse, più di prima sicuro del proprio Io, vigorosamente raccolto. Lo sentiva: questo era stato l'ultimo brivido del risveglio, l'ultimo spasimo del nascimento. E tosto riprese il suo cammino, mosse il passo rapido e impaziente, non più verso casa, non più verso il padre, non più indietro. 

 

PARTE 

SECONDA 

 

a Wilhelm Gundert 

mio padrino in Giappone 

 

Kamala 

 

A ogni passo del suo cammino Siddharta imparava qualcosa di nuovo, poiché il mondo era trasformato e il suo cuore ammaliato. Vedeva il sole sorgere sopra i monti boscosi e tramontare oltre le lontane spiagge popolate di palme. Di notte vedeva ordinarsi in cielo le stelle, e la falce della luna galleggiare come una nave nell'azzurro. Vedeva alberi, stelle, animali, nuvole, arcobaleni, rocce, erbe, fiori, ruscelli e fiumi; vedeva la rugiada luccicare nei cespugli al mattino, alti monti azzurri e diafani nella lontananza; gli uccelli cantavano e le api ronzavano, il vento vibrava argentino nelle risaie. Tutto questo era sempre esistito nei suoi mille aspetti variopinti, sempre erano sorti il sole e la luna, sempre avevano scrosciato i torrenti e ronzato le api, ma nel passato tutto ciò non era stato per Siddharta che un velo effimero e menzognero calato davanti ai suoi occhi, considerato con diffidenza e destinato a essere trapassato e dissolto dal pensiero, poiché non era realtà: la realtà era al di là delle cose visibili. Ma ora il suo occhio liberato s'indugiava al di qua, vedeva e riconosceva le cose visibili, cercava la sua patria in questo mondo, non cercava la «Realtà», né aspirava ad alcun al di là. Bello era il mondo a considerarlo così: senza indagine, così semplicemente, in una disposizione di spirito infantile. Belli la luna e gli astri, belli il ruscello e le sue sponde, il bosco e la roccia, la capra e il maggiolino, fiori e farfalle. Bello e piacevole andar così per il mondo e sentirsi così bambino, così risvegliato, così aperto all'immediatezza delle cose, così fiducioso. Diverso era ora l'ardore del sole sulla pelle, diversamente fredda l'acqua dei ruscelli e dei pozzi, altro le zucche e le banane. Brevi erano i giorni, brevi le notti, ogni ora volava via rapida come vela sul mare, e sotto la vela una barca carica di tesori, piena di gioia. Siddharta vedeva un popolo di scimmie agitarsi su tra i rami nell'alta volta del bosco e ne udiva lo strepito selvaggio e ingordo. Siddharta vedeva un montone inseguire una pecora e congiungersi con lei. Tra le canne di una palude vedeva il luccio cacciare affannato verso sera: davanti a lui i pesciolini sciamavano a frotte rapidamente, guizzando e balenando fuor d'acqua impauriti; un'incalzante e appassionata energia si sprigionava dai cerchi precipitosi che l'impetuoso cacciatore tracciava nell'acqua. 

Tutto ciò era sempre stato, ed egli non l'aveva mai visto: non vi aveva partecipato. Ma ora sì, vi partecipava e vi apparteneva. Luce e ombra attraversavano la sua vista, le stelle e la luna gli attraversavano il cuore. 

Cammin facendo Siddharta si ricordò anche di tutto ciò che gli era successo nel giardino Jetavana, della dottrina che vi aveva ascoltato, del Buddha divino, della separazione da Govinda, della conversazione col Sublime. Gli ritornarono alla mente le sue stesse parole, quelle che aveva detto al Sublime, ogni parola, e con stupore si accorgeva che in quella occasione aveva detto cose di cui, allora, non aveva ancora esatta coscienza. Ciò ch'egli aveva detto a Gotama: che il segreto e il tesoro di lui, del Buddha, non era la dottrina, ma l'inesprimibile e ininsegnabile ch'egli una volta aveva vissuto nell'ora della sua illuminazione, questo era appunto ciò che egli cominciava ora a esperimentare. Di se stesso doveva far ora esperienza. Già da un pezzo s'era persuaso che il suo stesso Io era l'Atman, di natura ugualmente eterna che quella di Brahma. Ma mai aveva realmente trovato questo suo Io, perché aveva voluto pigliarlo con la rete del pensiero. Anche se il corpo non era certamente quest'Io, e non lo era il gioco dei sensi, però non era l'Io neppure il pensiero, non l'intelletto, non la saggezza acquisita, non l'arte appresa di trarre conclusioni e dal già pensato dedurre nuovi pensieri. No, anche questo mondo del pensiero restava di qua, e non conduceva a nessuna meta uccidere l'accidentale Io dei sensi per impinguare il non meno accidentale Io del pensiero. Belle cose l'una e l'altra, il senso e i pensieri, dietro alle quali stava nascosto il significato ultimo; a entrambe occorreva porgere ascolto, entrambe occorreva esercitare, entrambe bisognava guardarsi dal disprezzare o dal sopravvalutare, di entrambe occorreva servirsi per origliare alle voci più profonde dell'Io. A nulla egli voleva d'ora innanzi aspirare, se non a ciò cui la voce gli comandasse d'aspirare, in nessun luogo indugiarsi, se non dove glielo consigliasse la voce. Perché un giorno Gotama, nell'ora fatidica, s'era seduto sotto l'albero del bo, dove l'illuminazione scese in lui? Aveva udito una voce, una voce nel proprio cuore, che gli ordinava di cercar riposo sotto quell'albero, ed egli non aveva anteposto penitenze, sacrifici, abluzioni o preghiera, non cibo o bevanda, non sonno né sogni; egli aveva obbedito alla voce. Obbedire così, non a un comando esterno, ma solo alla voce, essere pronto così, questo era bene, questo era necessario, null'altro era necessario. 

Nella notte, mentre dormiva nella capanna di paglia d'un barcaiolo sulla riva del fiume, Siddharta ebbe un sogno: Govinda gli stava innanzi, in una gialla tonaca da monaco. Triste sembrava Govinda, e triste chiedeva: perché mi hai abbandonato? Allora egli abbracciava Govinda, lo cingeva con le braccia, e mentre lo tirava al proprio petto e lo baciava, non era più Govinda, ma una donna, dall'abito della donna sfuggiva un seno rigonfio a cui Siddharta s'attaccava e beveva: dolce e forte il sapore del latte di quel seno. Sapeva di donna e d'uomo, di sole e di bosco, di bestia e di fiore, d'ogni frutto, d'ogni piacere. Inebbriava e privava della coscienza. Quando Siddharta si svegliò, pallido, scintillava il fiume attraverso la porta della capanna e nel bosco echeggiava profondo e sonoro l'oscuro richiamo della civetta. 

Quando il giorno fu cominciato, Siddharta pregò il suo ospite, il barcaiolo, di traghettarlo oltre il fiume. Il barcaiolo lo fece salire sulla sua zattera di bambù; l'ampia distesa d'acqua s'imporporava nella luce del mattino. 

«Un bel fiume» diss'egli al suo compagno. 

«Sì,» rispose il barcaiolo «bellissimo fiume, io lo amo più d'ogni altra cosa. Spesso lo ascolto, spesso lo guardo negli occhi, e sempre ho imparato qualcosa da lui. Molto si può imparare da un fiume». 

«Ti ringrazio, mio benefattore» disse Siddharta quando saltò sull'altra riva. «Non ho alcun dono con cui ricambiare la tua ospitalità, né ho denaro per pagarti il traghetto. Non ho casa, io, sono un figlio di Brahmino e un Samana». 

«L'avevo ben visto,» disse il barcaiolo «e non m'aspettavo nessun compenso da te, e nessun dono in cambio dell'ospitalità. Mi darai il dono un'altra volta». 

«Lo credi?» chiese Siddharta di buon umore. 

«Sicuramente. Anche questo ho imparato dal fiume: tutto ritorna! Anche tu, o Samana, ritornerai. Ora addio! Possa la tua amicizia essere il mio compenso. Ricordati di me quando sacrifichi agli dèi». 

Si separarono sorridendo. Sorridendo si rallegrò Siddharta dell'amicizia e della cortesia del barcaiolo. «È come Govinda,» pensava sorridendo «tutti coloro che incontro sul mio cammino sono come Govinda. Tutti sono riconoscenti, mentre avrebbero essi stessi diritto a riconoscenza. Tutti sono sottomessi, tutti desiderano essere amici, desiderano obbedire e pensare meno che si può. Bambini son gli uomini». 

Verso mezzogiorno passò attraverso un villaggio. Davanti alle capanne di loto bambini ruzzolavano sulla strada, giocavano con scorze di zucca e conchiglie, gridavano e s'azzuffavano, ma scapparono tutti spaventati davanti al Samana forestiero. Alla estremità del villaggio la strada attraversava un ruscello, e sulla riva del ruscello era inginocchiata una giovane donna e lavava. Come Siddharta la salutò, ella levò il capo e lo guardò sorridendo, sì che egli le vide balenare il bianco degli occhi. Egli le gridò un augurio, come si suol fare tra viaggiatori, e le chiese quanto cammino ci fosse ancora fino alla città grande. Allora ella si alzò e gli si avvicinò: bella le splendeva la bocca nel giovane volto. Scambiò con lui alcune parole scherzose, gli chiese se avesse già mangiato, se fosse vero che i Samana di notte dormono soli nei boschi e non possono tener donne con sé. Ciò dicendo pose il piede sinistro sul destro e fece un movimento come fa la donna quando invita l'uomo a quella forma di godimento d'amore che i libri della dottrina chiamano «l'arrampicata sull'albero». Siddharta si sentì divampare il sangue e poiché in quell'istante gli ritornò in mente il suo sogno, egli si chinò un poco verso la donna e le baciò la bruna punta del seno. Quindi sollevando lo sguardo vide il suo volto sorridere vogliosamente e gli occhi rimpicciolirsi e quasi dissolversi nel desiderio. Anche Siddharta sentì desiderio, e si commosse la sua virilità; ma, come non aveva ancora mai toccato donna, le sue mani, già pronte ad afferrare, esitarono un momento. E in quel momento udì, rabbrividendo, la voce della sua coscienza, e la voce diceva: no. Allora sparì ogni incanto dal volto sorridente della giovinetta, egli non vide più altro che l'umido sguardo d'una bestiola in calore. L'accarezzò affettuosamente sulla guancia, si distolse da lei, delusa, e scomparve davanti ai suoi occhi con passo leggero nel canneto di bambù. 

Quello stesso giorno raggiunse, in serata, una grande città, e si rallegrò, poiché desiderava ardentemente trovarsi fra gli uomini. A lungo era vissuto nei boschi, e la capanna di paglia del barcaiolo, in cui aveva dormito quella notte, era stata, dopo molto tempo, il primo tetto che si trovasse ad avere sul capo. 

All'ingresso della città, presso un bel boschetto cintato, s'imbatté nel pellegrino una piccola schiera di servitori carichi di ceste. In mezzo a loro, in un'adorna lettiga portata da quattro persone, sedeva su cuscini rossi, sotto un parasole variopinto, una signora, la padrona. Siddharta si fermò presso l'ingresso del giardino e contemplò la sfilata del corteo, guardò i servi, le ancelle, guardò la lettiga e vide nella lettiga la dama. Sotto neri capelli acconciati a guisa di torre egli vide un volto luminoso, molto tenero, molto vivace, una bocca rossa come un fico appena spezzato, sopracciglia curate e dipinte in alto arco, occhi neri intelligenti e vivaci, collo fragile e sottile che emergeva dal corpetto verde e oro; le candide mani riposavano lunghe e strette, con larghi cerchi d'oro ai polsi. 

Siddharta vide quanto fosse bella, e rise il suo cuore. S'inchinò profondamente quando la lettiga s'avvicinò, e rialzandosi spiò nel caro volto luminoso, lesse per un istante nei vividi occhi sotto l'alto arco delle sopracciglia, respirò una ventata di profumo ignoto. Sorridendo accennò un saluto la bella donna, per un attimo, quindi sparì nel boschetto, e dietro a lei i servi. 

Così mi accosto a questa città, pensò Siddharta, sotto un dolce presagio. Avrebbe avuto voglia di entrare subito in quel giardino, ma si trattenne, e solo allora si rese conto del modo con cui servitori e ancelle l'avevano considerato all'ingresso, con quanto disprezzo, con quanta diffidenza, con quanta repulsione. 

Sono ancora un Samana, pensò, ancor sempre un eremita e un mendicante. Non posso rimanere in questo stato; non così posso pretendere di entrare nel giardino. E rise. 

Dalla prima persona in cui s'imbatte per strada s'informò del giardino e del nome di quella donna, e apprese che quello era il giardino di Kamala, la celebre cortigiana, e che oltre a quel boschetto ella possedeva una casa in città. 

Allora egli entrò in città. Adesso aveva uno scopo. Perseguendo questo scopo si lasciò inghiottire dalla città, s'immerse nella corrente delle strade, si fermò nelle piazze, riposò sui gradini di pietra in riva al fiume. Verso sera strinse amicizia con un garzone barbiere che aveva visto lavorare nell'ombra di un portico e poi aveva ritrovato, intento alla preghiera, in un tempio di Visnu. Gli raccontò le storie di Visnu e di Lakshmi, poi passò la notte dormendo presso le barche ormeggiate in riva al fiume e di buon mattino, prima che i primi clienti entrassero nella bottega, si fece radere la barba e tagliare i capelli dal garzone barbiere, nonché pettinare la chioma e ungere di essenze profumate. Poi andò a bagnarsi nel fiume. 

Nel tardo pomeriggio, quando la bella Kamala giungeva in lettiga al suo boschetto, Siddharta stava all'ingresso, s'inchinò e ricevette il saluto della cortigiana. Ma all'ultimo dei servi che sfilavano in corteo egli fece un cenno e ordinò di annunciare alla signora che un giovane Brahmino desiderava parlarle. Dopo un poco ritornò il servo, lo invitò a seguirlo, lo condusse silenziosamente in un padiglione dove Kamala riposava su di un divano, e lo lasciò solo con lei. 

«Non sei tu ch'eri là fuori già ieri e che m'hai salutata?» chiese Kamala. 

«Certo: ti ho già vista ieri e ti ho salutata». 

«Ma ieri non avevi la barba, e i capelli lunghi e impolverati?». 

«Bene hai osservato, nulla è sfuggito al tuo sguardo. Tu hai visto Siddharta, il figlio del Brahmino, che ha abbandonato casa sua per diventare un Samana e per tre anni è stato veramente un Samana. Ma ora ho abbandonato quella strada, e venni in questa città, e la prima in cui m'imbattei, all'ingresso di questa città fosti tu. Per dirti questo sono venuto, o Kamala! Tu sei la prima donna a cui Siddharta parli altrimenti che con occhi bassi. Mai più voglio abbassare gli occhi, quando una bella donna mi sta di fronte». 

Kamala sorrise e giocherellò col suo ventaglio di penne di pavone. E chiese: 

«E solo per dirmi questo Siddharta è venuto a me?». 

«Per dirti questo e per ringraziarti di essere così bella. E se non ti dispiace, Kamala, vorrei pregarti d'essere mia amica e maestra, poiché non so ancora nulla dell'arte in cui tu sei maestra». 

Questa volta Kamala rise a voce spiegata. 

«Mai mi è successo, amico, che un Samana venisse a me dal bosco per mettersi alla mia scuola! Mai mi è successo che venisse a me un Samana dai capelli lunghi e in vecchio abito stracciato da penitenza! Molti giovanotti vengono a me, e tra questi anche figli di Brahmini, ma vengono ben vestiti, ben calzati, uno squisito profumo nei capelli e molto denaro in tasca. Così, o Samana, sono fatti i giovanotti che vengono a trovarmi». 

Parlò Siddharta: «Ecco che già comincio a imparare da te. Anche ieri ho già imparato. Già ho smesso la barba, ho pettinato e profumato i capelli. Poco è ciò che ancora mi manca, o bellissima: abiti eleganti, scarpe fini, denaro in tasca. Sappi che Siddharta s'è proposto scopi ben più difficili che queste bagatelle, e c'è riuscito. Perché mai non dovrei riuscire in ciò che ieri mi sono proposto: diventare tuo amico e apprendere da te le gioie dell'amore! Tu mi sarai maestra, Kamala: ho appreso cose ben più difficili di ciò che mi devi insegnare. E ora dunque: non ti basta Siddharta così com'è, coi capelli profumati, ma senz'abiti, senza scarpe, senza denaro?». 

Ridendo esclamò Kamala: «No, caro mio, ancora non mi basta. Abiti devi avere, abiti eleganti, e scarpe, scarpe fini, e molto denaro in tasca, e doni per Kamala. Lo sai ora, Samana del bosco? Te ne sei ben preso nota?». 

«Ben me ne sono preso nota» rispose Siddharta. «Come non dovrei prendermi nota di ciò che viene da una tal bocca! La tua bocca è come un fico appena spezzato, Kamala. Anche la mia bocca è rossa e fresca, e piacerà alla tua, vedrai. Ma dimmi, bella Kamala, non hai proprio nessuna paura del Samana del bosco che è venuto a imparare l'amore?». 

«Perché mai dovrei aver paura di un Samana, uno sciocco Samana del bosco, che viene dal regno degli sciacalli e ancora non sa che siano le donne?». 

«Oh, ma è forte, il Samana, e non ha paura di nulla. Egli potrebbe costringerti, bella fanciulla. Potrebbe rapirti. Potrebbe farti male». 

«No, Samana, di questo non ho paura. Ha mai avuto paura, un Samana o un Brahmino, che qualcuno potesse venire ad afferrarlo e gli strappasse la sua dottrina, la sua devozione e la profondità del suo ingegno? No, perché questi beni appartengono a lui in proprio, ed egli ne dona solo ciò che vuol dare, e solo a chi vuole. E lo stesso, proprio lo stesso è per Kamala e per le gioie dell'amore. Bella e rossa è la bocca di Kamala, ma provati a baciarla contro il volere di Kamala, e non ne trarrai una goccia di dolcezza, da quella bocca che tanta dolcezza sa distillare! Tu sei un sapiente, o Siddharta; ebbene, impara anche questo: l'amore si può mendicare, comprare, regalare, si può trovarlo per caso sulla strada, ma non si può estorcere. Quella che hai escogitato è una via sbagliata. No, sarebbe un peccato se un bel giovanotto come te volesse cominciare così male». 

Siddharta fece un inchino, e sorrise. «Peccato sarebbe, Kamala, quanto hai ragione! Soprattutto sarebbe peccato. No, non una goccia di dolcezza della tua bocca deve andarmi perduta, né a te della mia. Dunque resta inteso: Siddharta ritornerà quando abbia ciò che ancora gli manca: abiti, scarpe, denaro. Ma dimmi, cara Kamala, non puoi darmi ancora un piccolo consiglio?». 

«Un consiglio? E perché no? Chi non darebbe di buon grado un consiglio a un povero Samana ignorante, che arriva dai boschi degli sciacalli?». 

«Cara Kamala, allora consigliami: dove devo andare a trovare al più presto quelle tre cose?». 

«Caro mio, questo è quanto molti vorrebbero sapere. Devi eseguire ciò che hai imparato e farti dare in cambio denaro, abiti, scarpe. Non c'è altro mezzo, per un povero, di procurarsi denaro. Che cosa sai fare, dunque?». 

«Io so pensare. So aspettare. So digiunare». 

«Nient'altro?». 

«Niente. Però... so anche comporre versi. Vuoi darmi un bacio per una poesia?». 

«Te lo darò se la tua poesia mi piace. Sentiamo un po'». 

Siddharta si raccolse un momento, quindi pronunciò questi versi: 

 

Nel suo ombroso boschetto entrava la bella Kamala, 

all'ingresso del boschetto stava il bruno Samana. 

Profondamente s'inchinò quando vide il Fior di Loto, 

con un sorriso ringraziò Kamala. 

Più ameno, pensò il giovane, che sacrificare agli dèi, 

più ameno è sacrificare alla bella Kamala. 

 

Kamala batté le mani con forza, sì che i braccialetti d'oro tintinnarono. 

«Belli sono i tuoi versi, bruno Samana, e veramente io non ci faccio un cattivo affare se ti do in cambio un bacio». 

Ella lo invitò a sé con gli occhi, chinò il proprio volto sul suo e gli posò sulla bocca la bocca, ch'era come un fico appena spezzato. Lungamente lo baciò Kamala, e con profondo stupore Siddharta sentì quanto ella lo istruisse, quanto fosse sapiente, quanto lo dominasse, ora respingendolo e ora attirandolo, e soprattutto intuì come dietro a questo primo bacio stesse una lunga, una bene ordinata, bene esperimentata serie di baci, l'uno dall'altro diverso, che ancora lo attendevano. Rimase lì esterrefatto, respirando profondamente, e in quel momento era come un bambino stupito per la copia del sapere e per la quantità di cose da imparare che gli si schiudono davanti agli occhi. 

«Bellissimi sono i tuoi versi,» esclamò Kamala «se fossi ricca li pagherei a peso d'oro. Ma ti riuscirà difficile guadagnare coi versi tanto denaro quanto te ne occorre. Perché ti occorre molto denaro, se vuoi diventare l'amico di Kamala». 

«Come sai baciare, Kamala!» balbettò Siddharta. 

«Sì, so baciare bene, e appunto per questo non mi mancano abiti, scarpe, braccialetti e ogni sorta di belle cose. Ma che sarà di te? Non sai fare nient'altro che pensare, digiunare e verseggiare?». 

«Conosco anche le canzoni dei sacrifici,» disse Siddharta «ma non le voglio più cantare. Conosco anche formule magiche, ma non le voglio più pronunciare. Ho letto le Scritture...». 

«Un momento» lo interruppe Kamala. «Sai leggere? E scrivere?». 

«Certo che so. Tanti sanno leggere e scrivere». 

«Mica tanti come credi. Io per la prima. Va benissimo che tu sappia leggere e scrivere, molto bene. Anche delle formule magiche avrai ancora bisogno». 

A questo punto arrivò di corsa un'ancella e sussurrò qualcosa all'orecchio della padrona. 

«Mi arriva una visita» esclamò Kamala. «Svelto, sparisci, Siddharta; nessuno deve vederti qui, ricordati! Ci rivedremo domani». 

Ma ella comandò ancora all'ancella di dare al pio Brahmino un mantello bianco. Senza ben rendersi conto come ciò avvenisse, Siddharta si vide spinto via dall'ancella, per sentierini traversi condotto in un padiglione del giardino, fornito d'un mantello, guidato in mezzo al boschetto e insistentemente ammonito a scomparire al più presto e non visto dal giardino. 

Tutto contento, fece come gli era stato comandato. Avvezzo alla foresta, fu un gioco per lui scavalcare la siepe e uscire silenziosamente dal boschetto. Ritornò soddisfatto in città, portando sottobraccio il mantello arrotolato. Giunto a un albergo frequentato da viaggiatori, si piazzò accanto alla porta, mendicò in silenzio un po' di cibo, in silenzio si mangiò un pezzo di torta di riso. Forse già domani — pensava — non mendicherò più il cibo da nessuno. Improvviso divampò in lui l'orgoglio. Non era più un Samana, era indegno di lui il mendicare. Gettò la torta di riso a un cane e restò senza cibo. 

«Semplice è la vita che si conduce qui nel mondo» pensava Siddharta. «Non presenta difficoltà di sorta. Tutto era difficile, faticoso e, in definitiva, privo di speranze, quand'ero ancor Samana. Ora tutto è facile, facile come la lezione di bacio che Kamala mi ha impartito. Ho bisogno d'abiti e denaro, e nient'altro. Bell'affare! Queste sono piccolezze, a portata di mano, non son problemi che ci si debba perdere il sonno». 

S'era subito informato circa la casa di città di Kamala, e là si trovò il giorno dopo. 

«Andiamo bene» ella gli gridò incontro. «Sei aspettato da Kamaswami, il più ricco mercante della città. Se gli vai a genio, ti assumerà in servizio. Sii furbo, bruno Samana. Da altri gli ho fatto parlare di te. Sii cortese con lui: è molto potente. Ma non essere troppo modesto! Non voglio che tu divenga un suo servo: devi diventare un suo pari, altrimenti non sarò soddisfatta di te. Kamaswami comincia a diventare vecchio e pigro. Se gli vai a genio, può darsi che ti affidi grandi cose». 

Siddharta la ringraziò e rise, ed ella, come apprese che non aveva toccato cibo né ieri né oggi, gli fece portare pane e frutta e lo rifocillò. 

«Hai avuto fortuna» gli disse all'atto di separarsi. «Le porte ti si aprono innanzi l'una dopo l'altra. Come fai? Hai qualche incantesimo?». 

Siddharta disse: «Ieri ti raccontai che so pensare, aspettare e digiunare, ma tu trovasti che ciò non serve a nulla. Eppure serve molto, Kamala, lo vedrai. Vedrai che gli sciocchi Samana del bosco imparano molte belle cose e possono ciò che voi non potete. Ier l'altro ero ancora un mendicante dalla barbaccia incolta, ieri ho già baciato Kamala, e presto sarò un mercante e avrò denaro e tutte quelle cose di cui tu fai tanto conto». 

«È un fatto» ammise Kamala. «Ma come ti troveresti senza di me? Che saresti se Kamala non ti aiutasse?». 

«Cara Kamala,» disse Siddharta, drizzandosi in tutta la sua altezza «quand'io venni nel tuo boschetto feci il primo passo. Era mio proposito imparare l'amore da questa bellissima donna. Dal momento in cui formulai il proposito seppi anche che l'avrei attuato. Sapevo che mi avresti aiutato, ne fui certo fin dal tuo primo sguardo all'ingresso del boschetto». 

«Ma se io non avessi voluto?». 

«Tu hai voluto. Vedi, Kamala, se tu getti una pietra nell'acqua, essa si affretta per la via più breve fino al fondo. E così è di Siddharta, quando ha una meta, un proposito. Siddharta non fa nulla. Siddharta pensa, aspetta, digiuna, ma passa attraverso le cose del mondo come la pietra attraverso l'acqua, senza far nulla, senza agitarsi: viene scagliato, ed egli si lascia cadere. La sua meta lo tira a sé, poiché egli non conserva nulla nell'anima propria, che potrebbe contrastare a questa meta. Questo è ciò che Siddharta ha imparato dai Samana. Questo è ciò che gli stolti chiamano magia, credendo che sia opera dei demoni. Ognuno può compiere opera di magia, ognuno può raggiungere i propri fini, se sa pensare, se sa aspettare, se sa digiunare». Kamala lo ascoltava. Amava la sua voce, amava lo sguardo dei suoi occhi. 

«Forse è così» , disse piano «così come tu dici, amico. Forse è anche così che Siddharta è un bell'uomo, il suo sguardo piace alle donne, e per questo la fortuna gli corre incontro». 

Siddharta prese congedo con un bacio. «Così sia, mia maestra. Possa sempre piacerti il mio sguardo, possa sempre da te corrermi incontro la fortuna!». 

 

Tra gli uomini-bambini 

 

Siddharta andò dal mercante Kamaswami. Gli fu indicata una bella casa; fra preziosi tappeti, servi lo condussero a una camera, dove rimase in attesa del padron di casa. 

Entrò Kamaswami, un uomo vivace e duttile, dai capelli fortemente grigi, occhi accorti e guardinghi, bocca avida. L'ospite e il padron di casa si salutarono cortesemente. 

«Mi è stato detto» cominciò il mercante «che tu sei un Brahmino molto istruito, ma che cerchi un impiego presso un mercante. Sei caduto in miseria, Brahmino, per cercare impiego?». 

«No,» disse Siddharta «non sono caduto in miseria e non son mai stato in miseria. Sappi che vengo dai Samana, presso i quali sono vissuto per molto tempo». 

«Se vieni dai Samana, come fai a non essere in miseria? Non vivono i Samana in assoluta povertà?». 

«Povero lo sono,» disse Siddharta «non possiedo niente, se è questo che intendi dire. Certamente son povero. Ma lo sono volontariamente, quindi non sono in miseria». 

«Ma di che vuoi vivere se non possiedi nulla?». 

«Non ci ho mai pensato, signore. Per più di tre anni sono vissuto nella più assoluta povertà, e non ho mai pensato di che potessi vivere». 

«Allora sei vissuto dei beni degli altri». 

«Probabilmente è così. Anche il mercante vive dei beni degli altri». 

«Ben detto. Ma egli non prende la roba agli altri per nulla; dà in cambio la propria merce». 

«Così pare, difatti, che stia la cosa. Ognuno prende, ognuno dà. Così è la vita». 

«Ma permetti: se tu non possiedi nulla cosa vuoi dare?» 

«Ognuno dà di quel che ha. Il guerriero dà la forza, il mercante la merce, il saggio la saggezza, il contadino riso, il pescatore pesci». 

«Benissimo. E che cos'è dunque che tu hai da dare? Che cosa hai appreso, che sai fare?». 

«Io so pensare. So aspettare. So digiunare». 

«E questo è tutto?». 

«Credo che sia tutto».