Anche pubblicato come “Il prim’attore”.

Walter M. Miller Jr.

Il mattatore

All’Universal della Quinta Strada si stava programmando Giuda, Giuda e il cast era tutto di umani. Per vederlo, Ryan Thornier aveva fatto dei risparmi per diverse settimane e ora poteva permettersi un biglietto per una matinée. Era stata una corsa contro il tempo tra il suo salvadanaio e i portafogli degli svariati angeli, pieni di spirito civico, che mandavano avanti lo spettacolo, e il salvadanaio aveva vinto. Avrebbe potuto godersi lo spettacolo prima che i portafogli si sgonfiassero e che il teatro chiudesse i battenti, come era destino di qualsiasi spettacolo del genere, dopo poche settimane di fiacca. Fu preso dall’entusiasmo dell’attesa. Dopo aver guardato, giorno dopo giorno, lo squallido scimmiottamento di arte drammatica al New Empire Theatre, dove lavorava come custode, l’opportunità di poter vedere del vero teatro gli sembrava una boccata d’aria pura.

La mattina del giovedì andò al lavoro con un’ora di anticipo e ci diede dentro a tutta forza. Terminò prima dell’una, fece una doccia nei camerini, si cambiò d’abito e salì nervosamente le scale per andare a domandare a Imperio D’Uccia il permesso di uscire per il resto della giornata.

D’Uccia era insediato dietro una scrivania traballante, sistemata vicino a un muro ricoperto da fotografie di dive poco vestite dei giorni andati. Ascoltò la petizione del custode con un sorriso leggero, quasi orientale, che sembrava esprimere simpatia, poi si alzò di tutto il suo metro e sessantacinque, si appoggiò alla scrivania con le mani paffute per studiare Thornier con i suoi occhietti brillanti.

— Libbera? Così vogliamo la ggiornata libbera? Mmmmmm… — Scosse la testa come se fosse stupito da una richiesta tanto balorda.

Il custode strisciò i piedi a disagio. — Sissignore. Ho finito il lavoro e Jigger starà qui a sostituirmi nel caso lei avesse bisogno di qualcosa. — Fece una pausa. D’Uccia stava studiandosi le unghie e aggrottava la fronte con aria grave. — In due anni non ho mai chiesto un giorno libero, signor D’Uccia — aggiunse — ed ero certo che non trovasse niente in contrario, dopo tutti gli straordinari che ho…

— Jigger — grugnì D’Uccia. — E cchi è ’sto Jigger?

— Lavora al Paramount. È chiuso per restauri e può venire…

Il direttore del teatro grugnì con forza, agitando le mani.

— Io non pago nessun Jigger, io pago te. Ma che cosa mi vieni a raccontare? Hai lavato pe’ terra, hai messo via le cose, hai finito tutto, eh? Vuoi la ggiornata libbera. Ecco che cosa c’è di sbagliato al mondo, c’è troppo tempo libbero. Lasciamo a lavorare le macchine. Più tempo per combinare guai. — Il direttore del teatro uscì da dietro la scrivania e si diresse ciondolando verso la porta, allungò fuori il collo massiccio, guardò su e giù per il corridoio, poi tornò indietro sempre ciondolando verso Thornier e puntò un dito corto e grassoccio verso il lungo e maestoso naso del suo dipendente.

— Quand’è stata l’ultima volta che hai lucidato il pavimento del piano di sopra, eh?

Afflitto, Thornier rimase a bocca aperta.

— Be’ io…

— Non dirmi bugie. Guarda quell’entrata. Fa schifo, guarda! T’ho detto di guardare. — Prese Thornier per un braccio, lo trascinò fino alla porta e indicò concitato il vecchio e malandato pavimento di rovere. — Fa schifo, hai visto? Quand’è che abbiamo intenzione di dare un po’ di cera, eh?

Un profondo brivido sembrò scuotere da capo a piedi l’anziano e magro custode. Sospirò rassegnato e si voltò a guardare D’Uccia con tristi occhi grigi.

— Posso avere il pomeriggio libero, oppure no? — domandò senza speranza, sapendo già la risposta.

Ma D’Uccia non si accontentò di un semplice rifiuto. Cominciò a passeggiare. Evidentemente prendeva la cosa molto sul serio. Difese il sistema della libera iniziativa e le care tradizioni del teatro. Parlò eloquentemente delle virtù cardinali dell’industriosità e della dedizione al dovere. Si agitava come un pechinese scatenato che abbaia convinto contro uno spaventapasseri. Il collo di Thornier divenne rosso e la bocca gli si serrò.

— Posso andare adesso?

— E quand’è che lucidiamo i pavimenti? Quando puliamo le poltrone e controlliamo le luci? Quando ripuliamo i camerini, eh? — Fissò un momento Thornier, poi girò sui tacchi e si diresse a passo di carica verso la finestra. Cacciò il pollice nella sporcizia del recipiente sul davanzale dove alcuni gigli stavano già sbocciando. — Ah! — sbuffò — secchi, come pensavo! Credi forse che questi bulbi non abbiano bisogno di bere, eh?

— Ma li ho annaffiati questa mattina. Il sole…

— Ah! E tu lasci che questi fiorellini secchino e muoiano, eh? E tu vuoi pure avere la ggiornata libbera?

Era inutile. Quando D’Uccia indossava il suo manto di ostinata sordità o di falsa stupidità, diventava impenetrabile a qualsiasi richiesta o spiegazione. Thornier sospirò lentamente a denti stretti, fissò rabbiosamente il suo datore di lavoro per un momento e sembrò per un attimo pronto a lasciare esplodere la sua collera. Dopo averci pensato meglio, si morse il labbro, si voltò e uscì dall’ufficio, senza parlare. D’Uccia lo seguì trionfante fino alla porta.

— Non andare via di nascosto adesso! — gridò minaccioso e restò sorridente nel corridoio finché il custode svanì lungo le scale. Poi sospirò e tornò in ufficio a prendere cappello e cappotto. Stava preparandosi a uscire quando Thornier tornò di sopra carico di secchi, scope e stracci.

Il custode, quando vide cappotto e cappello, si fermò e il suo viso incavato divenne curiosamente vacuo. — Torna a casa, signor D’Uccia? — domandò gelido.

— Già. Sto lavorando troppo, dice il dottore. Ho bisogno di sole, di aria pura. Vado a riposarmi un po’ sulla spiaggia.

Thornier si chinò sul manico della scopa e sorrise malignamente. — Certo — disse. — Lasciamo lavorare le macchine.

Il commento era sprecato, con D’Uccia. Questi agitò una mano, si diresse verso le scale e gridò un arzillo: — A rivederci! — senza girarsi.

— A rivederci, padrone - mormorò Thornier con gli occhi chiari che brillavano nell’intrico delle rughe. Per un attimo il suo viso sembrò trasfigurarsi… e per un’altra volta divenne l’Adolfo del Cantico per l’uomo di morte di Chaubrec, all’uscita del comandante, atto secondo, scena quarta.

Da qualche parte, al piano inferiore, una porta sbatté alle spalle di D’Uccia.

— A morte! — sibilò Adolfo-Thornier, gettando indietro la testa per ridere con la risata di Adolfo. Fece tremare le pareti. Quando l’eco morì, si sentì un po’ meglio. Raccolse secchi e scope e si diresse lungo il corridoio sino all’ufficio di D’Uccia.

A meno che Giuda, Giuda non restasse in programma per tutta la fine settimana, non avrebbe potuto andare a vederlo, dal momento che non poteva permettersi un biglietto per lo spettacolo della sera ed era inutile chiedere favori a D’Uccia. Mentre lucidava l’ingresso si sentiva ribollire. Lucidò fino alla soglia dell’ufficio di D’Uccia e si fermò a guardare nell’interno per alcuni minuti.

— Sono stufo — disse alla fine.

L’ufficio rimase silenzioso. I gigli nel vaso sul davanzale si chinarono nella brezza.

— Piccolo verme! — brontolò. — Ne ho abbastanza!

L’ufficio restò muto. Thornier rizzò le spalle e si batté il petto.

— Io, Ryan Thornier, me ne vado via, hai capito? La commedia è finita!

Poiché dall’ufficio non venne risposta, girò sui tacchi e scese dabbasso. Alcuni minuti più tardi tornò indietro con un barattolo di vernice dorata e un paio di pennelli presi dal magazzino. Di nuovo si fermò sulla soglia.

— C’è dell’altro da fare, signor D’Uccia? — disse mellifluo.

Dalla strada veniva il fruscio del traffico; la brezza frusciava nei gigli; dall’edificio venne uno scricchiolio.

— Come? Vuole che dia la cera anche alle fessure dei muri? Come avrò fatto a dimenticarmene!

Schioccò la lingua e si avvicinò alla finestra. Che bei gigli. Aprì il barattolo di vernice, lo posò sul davanzale e poi, con molta attenzione, indorò tutti i gigli, petali, foglie e steli finché i fiori splendettero alla luce del sole come se fossero usciti dalle mani del re Mida. Quando ebbe finito, fece un passo indietro e sorrise per un momento ammirandoli, poi finì di lucidare il pavimento.

Lucidò con particolare cura la parte di fronte all’ufficio di D’Uccia. Passò la cera sotto il liso tappeto che copriva una zona consumata del pavimento dove D’Uccia per quindici anni aveva fatto una rapida svolta a sinistra per entrare ogni mattina nel suo santuario, girò il tappeto e lo cosparse di cera in polvere. Lo rimise attentamente al suo posto e lo spinse un paio di volte con il piede per assicurarsi che scivolasse bene. Il tappeto scivolò via come sull’olio.

Thornier sorrise e scese le scale. In qualche modo il mondo era improvvisamente cambiato. Persino l’aria aveva un altro odore. Si fermò sul pianerottolo per osservarsi in uno specchio decorativo.

Ah! Di nuovo il vecchio combattente. Basta con l’umile e sparuto servo. Basta con la malinconia e la tristezza di una perpetua schiavitù. Nonostante il grigio alle tempie e le rughe del viso, c’era qualcosa del vecchio Thornier… o di uno dei tanti vecchi Thornier del tempo andato. Quale? Quale sarà? Adolfo? O Amleto? Justin, oppure J.J. Jones del Boia della sedia elettrica? Ognuno di loro, tutti loro; perché lui era Ryan Thornier, divo dei vecchi tempi.

— Dove sei stato, ragazzo? — domandò alla propria immagine sorridendo leggermente in segno di approvazione, ammiccò e si avviò verso casa. Domani, promise a se stesso, avrà inizio una nuova vita.

— Ma hai già fatto la stessa promessa per anni e anni, Thorny — disse l’uomo nella cabina di controllo con voce impaziente. — Che cosa vuol dire che «te ne vai»? Hai già detto a D’Uccia che te ne vai?

Thornier sorrise alteramente mentre con la scopa toglieva un poco di polvere da un angolo. — Non esattamente, Richard — rispose. — Ma il padrone lo scoprirà abbastanza presto.

Il tecnico grugnì disgustato. — Non ti capisco, Thorny. Certo, se te ne vai veramente, allora va benissimo… a meno che tu non ti limiti a fare un giro e poi cercare un altro lavoro simile a questo.

— Mai! — proclamò con forza il vecchio attore, e alzò gli occhi verso l’orologio. Le dieci meno cinque. Quasi l’ora dell’arrivo di D’Uccia. Sorrise tra sé e sé.

— Se te ne vai veramente, che cosa stai facendo qui oggi? — domandò Rick Thomas distogliendo brevemente lo sguardo dal Maestro. Aveva le braccia profondamente affondate nelle viscere elettroniche della macchina e, dietro l’orecchio, teneva un sottile cacciavite. — Perché non vai a casa, visto che te ne vai?

— Oh, non preoccuparti, Richard. Questa volta è sul serio.

— Ssssss! — sibilò divertito il tecnico. — Già, era sul serio anche quando hai piantato il Bijou. Solo cne una settimana dopo sei venuto a lavorare qui. E adesso, Mercuzio?

— Ufficio collocamento attori, vecchio. Forse una piccola parte in qualche posto. — Thornier gli sorrise benignamente. — Non ti crucciare per me.

— Thorny, non riesci a ficcarti in testa che il teatro è morto? Non esiste più teatro! Né film, né televisione, eccetto che per i morti e il Maestro. — Batté con la mano sulla copertura metallica della macchina.

— Ho detto — spiegò con pazienza Thorny — «ufficio collocamento» e «piccola parte». Tu… tu, scalpellino dell’era delle macchine, immagine creata soltanto dalle parole.

— Già.

— Credevo che tu volessi che io piantassi questo lavoro, Richard.

— Sì! Se tu riuscissi a fare qualcosa che ti giovasse. Ryan Thornier, eroe di Partiam, partiam, che interpreta un martire con secchio e scopa! Ah ah ah! Mi fai venire i crampi. E ci ricascherai di nuovo. Tu non puoi stare lontano dal palcoscenico, anche se tutto quello che puoi fare è asciugare le macchie di olio.

— Non puoi proprio capire — disse Thornier rigido.

Rick si rizzò per guardarlo, tolse le braccia dal Maestro e vi si appoggiò sopra. — Non posso, Thorny — disse con voce più dolce. — O forse posso. Tu sei un attore e hai sempre interpretato delle parti. Le hai persino vissute. Immagino che tu non possa farci niente. Ma potresti almeno trovarti una parte più saggia da interpretare.

— È stato il mondo a scegliere la parte che devo interpretare — annunciò Thornier con una faccia da funerale.

Rick Thomas si batté una mano sulla fronte e poi se la passò, esasperato, lentamente sulla faccia. — Ci rinuncio! — brontolò. — Guardati! Idolo delle matinées che manovra una scopa. Otto anni fa era sensato… sensato secondo il tuo punto di vista, comunque. Un gesto drammatico. Attore di primo piano rinuncia alle offerte dell’autodramma e accetta di fare il custode. Leale verso le tradizioni, il sindacato e cose del genere. Non ha fatto molto notizia, ma forse è riuscito a far zoppicare ancora un po’ il vecchio teatro. Ma dopo un po’ il pubblico ha smesso di piangere per te, e poi ha persino smesso di pensare come te!

Thornier lo fissò, ansando leggermente. — Che cosa faresti tu — sibilò — se incominciassero a costruire una scatoletta nera da attaccare a quel muro… — Agitò la mano indicando un punto vuoto sopra l’ingombrante massa del Maestro. — Una scatola in grado di riparare, controllare, dirigere e mantenere in ordine… tutte le cose che stai facendo tu… quest’assurda baracca. Supponi che nessuno abbia più bisogno di elettrotecnici.

Rick Thomas ci pensò su per un momento poi sogghignò. — Be’, suppongo che allora cercherei un lavoro per fabbricare quelle scatolette nere.

— Non mi fai ridere, Richard!

— Non ne avevo l’intenzione.

— Tu… tu non sei un artista. — Rosso per l’ira, Thornier lavò insistentemente il pavimento vicino alla cabina di controllo.

Da qualche parte, in basso, sbatté una porta, molto lontano dalla cabina sopra il palcoscenico. Thorny posò da un lato la scopa e andò a guardare alla finestra. Il clop, clop, clop dei passi veloci si avvicinò al corridoio centrale.

— Sua Eccellenza Imperio — mormorò il tecnico guardando l’orologio. — O l’orologio è avanti di due minuti, oppure questa è la mattina in cui ha fatto il bagno.

Thornier sorrise acidamente verso il corridoio centrale, seguendo con gli occhi la figura ondeggiante del direttore del teatro. Quando D’Uccia scomparve oltre la balconata di fondo, riprese a strofinare il pavimento.

— Non capisco perché tu non cerchi un lavoro come venditore, Thorny — arrischiò Rick, tornando al proprio lavoro. — Un buon venditore è come un attore, meno il temperamento. Ci sono un mucchio di richieste per buoni attori, adesso che ci penso. Politici, grandi capi, persino generali, alcuni di loro sembrano basarsi esclusivamente sulle loro doti drammatiche. La storia lo dimostra.

— Bah, io non sono un commediante. — Si fermò a osservare Rick che stava mettendo a punto il Maestro, poi scosse lentamente la testa. — Tranquillizza la tua coscienza, Richard — disse alla fine.

Sorpreso, il tecnico fece cadere il cacciavite e guardò in su con aria interrogativa. — La mia coscienza? Che diavolo c’è che non va nella mia coscienza?

— Oh, non fingere. È per questo che ti preoccupi così per me. Lo so che tu non puoi farci niente se il tuo… lavoro ha pervertito una grande arte.

Rick lo fissò incredulo per un momento. — Tu credi che io… — e tossì. Divenne paonazzo dalla rabbia. Fissò il vecchio istrione e cominciò a smoccolare tra i denti.

Improvvisamente Thornier si pose un dito sulle labbra e lo zittì. Accennò con gli occhi verso il retro del teatro.

— Ma era solo D’Uccia sulle scale — incominciò a dire Rick. — Che cosa…?

— Shhhh!

Stettero in ascolto. Il custode sorrise acidamente. Un attimo più tardi accadde, dapprima un grido smorzato, poi…

Bbbrrummmpb!

Le finestrelle della cabina di controllo tremarono, Rick guardò verso l’alto con la fronte aggrottata.

— Che cosa…?

— Shhhh!

Il tonfo fu seguito da un sordo brontolio di bestemmie.

— Ma è D’Uccia. Che cosa è successo?

Il sordo brontolio divenne improvvisamente un tonante fiotto di maledizioni da qualche parte dietro le balconate.

— Ehi! — disse Rick. — Deve essersi fatto male.

— Nooo. Ha semplicemente trovato le mie dimissioni, ecco tutto. Vedi? Ti avevo detto che me ne sarei andato.

Il muggito blasfemo divenne man mano più forte, accompagnato contemporaneamente da un rimbombo di passi elefantini sulle scale ricoperte dal tappeto.

— Non è poi tanto dispiaciuto che tu vada via — grugnì Rick disorientato.

D’Uccia apparve di colpo in fondo al corridoio. Si bloccò con le gambe divaricate, una mano appoggiata al fondo della spina dorsale e con l’altra agitava un giglio dorato.

— Doratore di gigli! — urlò. — Pittore dei miei stivali! Disgraziato! Vieni fuori, spiritosone!

Thornier sporse con tutta calma la testa dalla finestrella della cabina di controllo, fissò con le sopracciglia alzate il direttore furioso. — Mi ha chiamato, signor D’Uccia?

D’Uccia sembrò soffocare un paio di volte prima di riuscire a ritrovare un po’ di fiato.

— Thornièrre!

— Sì, signore?

— Hai finito con me, hai capito?

— Che cosa ho finito, capo?

— Hai finito. Mi vado a trovare un negozio di servorobbòt. E mi compro una macchina lavapavimenti. Ti do i quindici giorni.

— Digli che non li vuoi — grugnì Rick sottovoce. — Vattene sotto il suo naso.

— D’accordo, signor D’Uccia — disse Thornier gentilmente.

D’Uccia restò fermo a farfugliare, lanciando accuse minacciose e agitando disperatamente il giglio. Alla fine lo gettò bestemmiando nel corridoio e se ne andò, zoppicando penosamente.

— Fiiiu! — sospirò Rick. — Che cosa hai combinato?

Thornier glielo raccontò con voce aspra. Il tecnico scosse la testa.

— Non ti licenzierà. Cambierà idea. È troppo difficile con i tempi che corrono trovare qualcuno che voglia fare questo sporco lavoro.

— L’hai sentito. Può comprare un’istallazione di controllo automatico. Una macchina “lavapavimenti”.

— Balle! “Dooch” è troppo tirchio per tirar fuori tanta grana. Inoltre, non potrebbe più togliersi la soddisfazione di urlare davanti a una macchina.

Thornier lo guardò di traverso. — E perché no?

— Be’… — Rick fece una pausa. — Già!… Hai ragione. Lo può fare. Una volta è venuto qui e si è messo a urlare contro il Maestro. L’ha preso a calci, insultato, scosso… come uno che cerca di riavere indietro il gettone da un telefono. Ed è riuscito ad andarsene via anche con aria soddisfatta.

— Perché no? — mormorò Thornier cupamente. — Per D’Uccia le persone sono delle macchine. E in questo è leale. Desidera trattare tutti alla stessa maniera.

— Ma non avrai per caso l’intenzione di restare qui due settimane, vero?

— Perché no? Questo mi darà tempo di saggiare il campo per trovare lavoro.

Rick grugnì dubbiosamente e rivolse l’attenzione alla macchina. Rimosse il pannello frontale superiore e lo mise da parte. Aprì un contenitore metallico posto sul pavimento e ne tolse un rotolo di nastro plastificato, del diametro di trenta centimetri e altrettanto largo. Lo montò su un perno all’interno del Maestro e cominciò a svolgere il nastro attraverso una serie di cilindri e guide. Il nastro sembrava mangiato dai vermi… coperto com’era da migliaia di piccoli punti e di solchi ondeggianti. Il custode rimase a guardare con fredda ostilità tutto il procedimento.

— È questo il nastro registrato per L’anarchico? — domandò in tono duro.

Il tecnico annuì. — Ed è anche nuovo di fabbrica. Devo stare attento a maneggiarlo. Ha ancora le sbavature per il taglio di stampa. — Fermò per un momento il meccanismo di ricarica, scalzò col punteruolo una sbavatura, vi soffiò sopra e avviò di nuovo il motore.

— Che cosa accade quando il nastro si intacca o si rompe? — borbottò interessato Thorny. — Gli attori crollano sul palcoscenico?

Rick scosse la testa. — No, è una cosa che capita spesso. Un graffio o un’irregolarità sul nastro fanno saltare all’attore qualche battuta o lo fanno magari esitare, ma poi il Maestro individua l’intoppo e rimedia. Il Maestro riceve dal palcoscenico gli impulsi e dirige minuto per minuto tutto lo spettacolo. Può fare molto per rimediare…

— Pensavo che l’intero spettacolo dipendesse dal nastro.

Il tecnico sorrise. — In un certo senso è così. Ma è più di uno spettacolo di burattini diretti da un nastro magnetico, Thorny. Il Maestro sorveglia il palcoscenico… no, più che sorvegliare, il Maestro è il palcoscenico, in versione elettronica. — Batté affettuosamente la mano sulla copertura metallica. — Chiuso qui dentro c’è il temperamento di tutti gli attori. È molto più di un controllo a distanza come molti pensano. È una macchina che dirige e crea. Ha persino dei ricevitori situati in platea per saggiare le reazioni del pubblico e…

Tacque improvvisamente vedendo la faccia del vecchio attore. Deglutì nervosamente. — Thorny, non fare quella faccia. Mi dispiace. Tieni, prendi una sigaretta.

Thorny la prese con mani tremanti. Con gli occhi socchiusi, fissò il labirinto rilucente dei circuiti, osservò il nastro srotolarsi lentamente sui rulli per poi scendere nelle viscere del Maestro.

— Arte! — sibilò. — Teatro! In che cosa ti sei specializzato, Richard? In ingegneria drammatica?

Scosso da un tremito, uscì dalla cabina. Rick ascoltò il rumore rabbioso dei suoi tacchi sulla scaletta di ferro che scendeva dal palcoscenico. Scosse la testa con tristezza, si strinse nelle spalle e tornò a dedicarsi al controllo del nastro in cerca di irregolarità.

Dopo pochi minuti Thorny fu lì di nuovo con secchio e scopa. Aveva l’aspetto di un pentito riluttante. — Mi dispiace, amico — brontolò. — Lo so che cerchi solamente di guadagnarti la vita, e…

— Lascia perdere — tagliò corto Rick.

— È solo… cioè… è questo spettacolo in particolare che mi prende.

— Questo?… Vuoi dire L’anarchico? Perché, Thorny? L’hai forse recitato?

— Mmmm. Non è stato più rappresentato fin dal Novanta, eccetto… be’, dieci anni fa stava per essere ripresentato. L’abbiamo provato per settimane. Lo spettacolo è fallito prima dell’andata in scena. Finiti i soldi.

— Avevi una bella parte?

— Dovevo interpretare la parte di Andreyev — rispose Thornier con un sorriso triste.

Rick fischiò tra i denti. — Il protagonista. Peccato. — Alzò i piedi per permettere a Thorny di passarvi sotto la scopa. — Una grande delusione, immagino.

— Non è questo. È solo che… be’… fu proprio durante le prove dell’Anarchico che Mila e io ci trovammo per l’ultima volta insieme sul palcoscenico. Tutto qui.

— Mila? — Il tecnico tacque corrugando la fronte. — Mila Stone?

Thornier annuì.

Rick afferrò un nastro e lo agitò verso di lui. — Ma è lei in questa versione, Thorny! Lo sai? Interpreta la parte di Marka.

La risata di Thornier fu breve e spezzata.

Rick arrossì leggermente. — Be’, volevo dire che è il suo manichino che recita.

Thorny guardò con disgusto il Maestro. — Vuoi dire che il tuo Svengali meccanico dirige tutte le parti di quegli zombi gonfiati.

— Oh, smettila, Thorny. Sii amaro verso il mondo se questo ti fa piacere, ma non biasimarmi per quello che il pubblico vuole. E comunque non sono stato io a inventare l’autodramma.

— Non biasimo nessuno. Semplicemente odio questo… questo… — Colpì la base del Maestro con la scopa bagnata d’acqua.

— Tu e D’Uccia — brontolò Rick disgustato. — Solo che D’Uccia lo adora quando funziona bene. È solamente una macchina, Thorny. Perché odiarla?

— Non ho bisogno di ragioni per odiarla — brontolò con aria petulante. — Detesto anche gli elitaxi. Si tratta solo di gusti, tutto qui.

— D’accordo, ma il pubblico ama l’autodramma, per televisione, in rilievo o su un palcoscenico. E hanno quello che vogliono.

— Perché?

Rick soffocò una risata. — Be’, i soldi sono roba loro. L’autodramma è portatile, duplicabile, senza sorprese. E poi è flessibile. Puoi rappresentare Macbeth questa sera, L’anarchico domani e Il re della Luna la sera successiva… tutto nella stessa sala. Non ci sono problemi di umore per gli attori. Nessun problema di collaborazione. Affitti la pubblicità, i manichini e i nastri dalla Smithfield. Teatro in scatola. Sistematizzato, prodotto in massa. Persino a Coon Creek, Georgia.

— Bah!

Rick finì l’operazione di imbobinamento del nastro, richiuse il pannello e ne aprì uno adiacente. Aprì una scatola di cartone e ne tolse un mucchio di nastri avvolti su rulli più piccoli e li posò sulla tavola.

— Sono queste le anime vendute della Smithfield? — domandò Thornier, sorridendo in modo piuttosto bizzarro.

La sedia del tecnico scricchiolò minacciosamente e Rick esplose. — Sai benissimo che cosa sono.

Thornier annuì e si chinò per fissarli meglio, come se ne fosse affascinato. Ne prese uno dal mucchio e sospirò.

— Se mi dici “ohimé, povero Yorick”, ti sbatto fuori di qui! — disse Rick tra i denti.

Thornier lo rimise nel mucchio con un altro sospiro, e si pulì la mano sulla tuta. Temperamento in scatola. L’io degli attori applicato su nastro. Autentici attori una volta e ora dei manichini che li sostituivano sulla scena. I nastri contenevano un complesso di informazioni psicofisiologiche ricavate dopo mesi di controlli fisici e somatici degli attori che avevano firmato un contratto con la Smithfield. Informazioni per le matrici delle personalità incluse nel Maestro. Astrazioni della psiche umana incorporate su vetro, rame e cromo. Le anime che avevano venduto alla Smithfield in cambio di una percentuale, insieme alla loro carne e al sangue imitati dai manichini.

Rick montò un nastro di una delle parti sul perno e incominciò a inserirlo tra i rulli.

— Che cosa accade se tralasci di montare una parte vitale? — chiese Thornier. — Per esempio il nastro di Mila Stone?

— Il manichino interpreterebbe la parte come uno zombie, tutto qui — spiegò Rick. — Né vivacità, né interpretazione. Piatto e monotono come un robot.

— Ma sono dei robot.

— Non esattamente. Marionette controllate dal Maestro, ma comunque degli interpreti. Una volta abbiamo messo in scena Amleto senza l’ausilio di nastri magnetici. Recitarono tutti la propria parte senza espressione, in piatta monotonia. Uno strazio.

— Ah, ah — esclamò Thornier truce.

Rick montò un altro nastro sul perno, formò una nuova combinazione sul quadro e fece correre questo nuovo nastro. — Questo è Andreyev, Thorny… interpretato da Peltier. — Improvvisamente bestemmiò, bloccò il nastro e lo controllò nervosamente, aprì il meccanismo di lettura e lo ispezionò con la lente d’ingrandimento.

— Che cosa c’è che non va? — domandò il custode.

— Il meccanismo di lettura è quasi del tutto consumato. È difficile mantenere le pause esatte. Ho sempre il timore che afferri tutto il nastro e me lo maciulli.

— Non ci sono dei nastri di scorta?

— Sì. Una serie completa in più. Ma il programma va in scena questa sera. — Lanciò un altro sguardo dubbioso al rullo trasportatore del registratore, poi lo richiuse e avviò di nuovo il congegno. Stava rimontando il pannello quando il meccanismo di ricarica s’inceppò. Dall’interno si udì uno strappo. Mormorando un fiume di bestemmie, tolse il contatto e strappò via di nuovo il pannello. Mostrò a Thornier un brandello lacerato di nastro e poi lo scaraventò attraverso la cabina. — Vattene! Menagramo!

— Non prima di aver finito di lavare.

— Thorny, per favore, vuoi chiamarmi D’Uccia? Dovremo far arrivare un nuovo complesso di lettura dalla Smithfield prima di questo pomeriggio. È un gran bel guaio.

— Perché non assumere un attore umano? — domandò Thorny malignamente. Poi aggiunse: — Scusami. Questa verrebbe considerata una perversione per la tua arie, non e vero? Vado a chiamare D’Uccia.

Rick gli gettò contro il rullo con la registrazione di Peltier. Thorny uscì sorridendo e andò a cercare il direttore del teatro. A metà della scala di ferro, si fermò a guardare il vasto palcoscenico che si stendeva dietro il sipario rialzato. Le luci della ribalta erano accese e il palco grigioverde aveva un aspetto pulito e splendente con quella specie di scacchiera formata da strisce di rame. Durante lo spettacolo le strisce venivano elettrificate per rinnovare la riserva di energia dei manichini; questi portavano sotto le suole dei dischi metallici e dei rettificatori alla caviglia. Quando le batterie stavano per esaurirsi, il Maestro faceva muovere i piedi dell’attore di qualche centimetro fino a portarlo a contatto con gli elettrodi del pavimento per una periodica ricarica durante lo spettacolo, dal momento che il manichino abbandonato a se stesso, avrebbe cominciato a ondeggiare e a parlare indistintamente dopo una dozzina di minuti.

Thorny fissò la grande distesa del palcoscenico, che non veniva mai calcato da piede umano durante le rappresentazioni serali. Il gatto siamese di D’Uccia stava facendo tolètta seduto al centro del palcoscenico; lo fissò altezzosamente, sembrò annusare l’aria e poi riprese a leccarsi. Thorny lo guardò per un momento, poi tornò verso Rick.

— Ti spiace dare corrente al palco, Rick?

— Eh? Perché? — fu l’occupato grugnito di risposta.

— Voglio vedere una cosa.

— D’accordo, ma poi vammi a chiamare D’Uccia.

Sentì che il tecnico girava un interruttore. La calma altezzosità del gatto si dileguò istantaneamente; miagolò, si agitò pazzamente, saltando e rotolando in mezzo a deboli scintille; fece un salto mortale oltre le luci del palcoscenico, planando in platea con un certo fragore, poi scappò con il pelo ritto su per le scale verso il suo paradiso, situato sotto la scrivania di Imperio.

— Che diavolo? — sbraitò Rick mettendo fuori la testa dalla cabina.

— Spegni adesso — disse il custode. — D’Uccia sarà qui tra un minuto.

— Sì, con le zanne di fuori.

Thornier andò a finire il solito lavoro di pulizia. Si sentì prendere dalla tristezza. Stava andandosene. Andandosene anche da quest’ultimo umile ruolo che lo teneva legato al teatro. Lo assalì l’improvvisa consapevolezza della propria impotenza: senza speranza. Senza speranza a tal punto da cercare piccole rivincite, come quella di vandalizzare i vasi di fiori di D’Uccia e di tormentare il gatto di D’Uccia: questo perché non vi era alcun nemico reale contro cui lottare.

Abbandonò deciso questa impressione e la escluse dai propri pensieri. Era Ryan Thornier, mai disperato a meno di non desiderarlo. Farò vedere loro almeno una volta chi sono io, pensò, prima di andarmene. Farò in modo che lo ricordino e che non lo dimentichino.

Ma sapeva che l’idea di interpretare un ultimo grande ruolo, un’ultima interpretazione magistrale, non era buona. — Thorny, se tu interpretassi un ultimo grande ruolo — gli aveva detto una volta Rick — non ti resterebbe alcuna ragione per continuare a vivere, vero? — Rick l’aveva detto cinicamente, ma comunque il concetto era giusto. In un certo senso le piacevoli fantasticherie erano, oltre che piacevoli, anche allarmanti.

La piccola donna elegante col cappello ricoperto di piume bianche stava spiegando qualcosa con molta attenzione, con vocali tonde e una precisa pronuncia, al Commediografo di Successo, un tipo promettente, che ascoltava il piccolo e vivace impresario con lo sguardo colmo di timorosa venerazione. — L’autentico realismo, vedi, è il perno di un autodramma — diceva. — Ricordati sempre, Bernie, che la considerazione per gli attori appartiene al passato. Studia il dramma di Roma, dell’antica Roma. Se in un dramma c’era una scena di crocifissione, prendevano uno schiavo per quella parte e lo crocifiggevano. Sulla scena, ma sul serio!

Il Commediografo di Successo rise rispettosamente intorno al suo lungo bocchino. — Così è da qui che è nata la frase: “È fantastico, ma gli attori sono uno strazio”. Devo riscrivere la scena del delitto nel mio La veglia funebre di George. Userò un’accetta, questa volta.

— Oh, Bernie, esagerato! I manichini non sanguinano.

Risero entrambi di cuore. — E sono anche molto cari. Non sono gli attori lo strazio, adesso, ma il bilancio.

— Probabilmente i romani avevano lo stesso problema. Lo terrò a mente.

Thornier li vide, arrivando dal retropalco, diretto al centro della platea: l’impresario e il Commediografo di Successo, giù in prima fila. Erano appoggiati ai braccioli delle loro poltrone e intorno a loro pullulava una folla di tecnici e di personale della produzione. Il momento della prima rappresentazione si stava avvicinando.

La piccola donna agitò con garbo una mano in direzione di Thorny quando lo vide passare lentamente nel corridoio, poi si voltò di nuovo verso il commediografo. — Bernie, sii un tesoro, vammi a prendere qualcosa da bere, vuoi? Ho i crampi allo stomaco.

— Certo. Secco o dolce?

— Oh, secco. Un goccio di scotch in un bicchiere di carta, per favore. C’è un bar alla porta accanto.

Il commediografo annuì con la testa fino quasi a inchinarsi e si avviò lungo la platea. La donna afferrò il custode per la manica quando le passò accanto.

— Hai intenzione di ignorarmi, Thorny?

— Oh, salve, signorina Ferne — rispose educatamente.

Si fece più vicina e mormorò: — Chiamami ancora “signorina Ferne” e ti graffio. — Le vocali tonde erano scomparse.

— D’accordo, Giada, però… — Si guardò attorno, nervoso. Intorno a loro si affollavano i tecnici. Ian Feria, il direttore di scena, li guardava con curiosità dalle quinte.

— Che cosa ti è successo, Thorny? Perché non ti ho più visto? — si lamentò lei.

Fece un gesto con il manico della scopa e si strinse nelle spalle. Giada Ferne gli studiò il viso per un momento poi aggrottò la fronte.

— Perché quell’aria da agonizzante, Thorny? Arrabbiato con me?

Scosse la testa. — Questo lavoro, Giada, L’anarchico, be’… — Guardò infelice il palcoscenico.

Il ricordo la colpì improvvisamente. Sospirò compassionevole.

— Quella tentata ripresa, dieci anni fa. Tu dovevi essere Andreyev. Oh, Thorny, me n’ero dimenticata.

— Non importa. — Atteggiò il viso a un accurato sorriso da martire.

Gli batté amichevolmente una mano sulla spalla. — Ci vediamo dopo la prova, Thorny. Andremo a bere qualcosa e a parlare dei vecchi tempi.

Si guardò in giro e scosse la testa. — Ora hai dei nuovi amici, Giada. A loro non andrebbe.

— Il personale? Sciocchezze! Non sono degli snob.

— No, ma loro vogliono tutta la tua attenzione. Proprio adesso Feria cerca di incontrare il tuo sguardo. Non c’è bisogno di amareggiarli.

— D’accordo, ma dopo la prova ci troviamo nella stanza dei manichini. Scapperò via senza che nessuno mi veda.

— Se vuoi.

— Sì che lo voglio. Thorny, è passato tanto di quel tempo.

Il commediografo tornò col suo goccio di scotch e lanciò uno sguardo di ostile curiosità verso Thornier.

— Che tu sia ringraziato, Bernie — disse Giada con vocali tonde, poi rivolgendosi a Thornier: — Thorny, mi faresti un favore? Ho cercato di bloccare D’Uccia, ma è impegnato da qualche parte con un rappresentante di servorobot. Qualcuno deve correre a prendere un analogico dal deposito. La consegna è stata fatta, ma il camionista ha dimenticato una delle casse d’imballaggio. Ne avremo bisogno per le prove. Potresti…

— Certo, signorina Ferne. Ho bisogno di un ordine di prelievo?

— No, basta che tu firmi la bolla di consegna. E, Thorny, vedi se la nuova parte è già stata inserita nel Maestro. Un’altra cosa… il Maestro ha stritolato il nastro con la registrazione di Peltier. Abbiamo un duplicato, ma ne dovremmo avere due per precauzione.

— Andrò a vedere se ne hanno uno in magazzino — mormorò allontanandosi.

D’Uccia era nel ridotto con il piazzista quando passò. Il direttore del teatro lo vide e sorrise con affettazione.

— …naturalmente con certe speciali caratteristiche — stava dicendo il piazzista. — È un vecchio stabile e non è stato costruito per l’impiego di un custode meccanico, come lo sono invece gli edifici più moderni. Ma noi costruiremo il meccanismo in modo che si adatti al suo teatro, signor D’Uccia. Noi desideriamo fare un buon lavoro mentre un’unità monoblocco non lo farebbe.

— Be’, ora mi dice pure il prezzo, eh?

— Le faremo avere un preventivo domani. Farò venire qui un ingegnere nel pomeriggio per un’ispezione e questa sera mi farà un progetto.

— E quando me la fa ’sta dimostrazione, eh? Quando mi fa vedere come va ’sta macchina lavapavimenti?

Il piazzista esitò, occhieggiando il custode che aspettava poco lontano. — Be’, il robot lavapavimenti rappresenta solo una piccola parte di tutto il servizio, ma… le dirò che cosa faremo. Questo pomeriggio le porterò un complesso tuttofare e potrà darci un’occhiata.

— Vabbène. Così vabbène. Lei me lo porta che poi vediamo.

Si strinsero la mano. Thornier restò fermo in attesa osservando attentamente un insetto che strisciava su una fronda di una palma in vaso, aspettando l’occasione per domandare a D’Uccia le chiavi del camion. Si rese conto dello sguardo trionfante del direttore, ma non diede segno di avere ascoltato il colloquio.

— Svolgeremo un ottimo lavoro per lei, signor D’Uccia. Le sue preoccupazioni saranno ridotte della metà. E, come mi diceva, questo servirà anche a diminuire della metà i conti del dottore. Sì, signore! Un uomo nella sua posizione resta avvilito per la normale inefficienza umana… per l’inefficienza del prossimo. Una volta che lei abbia l’edificio autocustodito non dovrà più preoccuparsi, no, signore!

— Grazie mille.

— Grazie a lei, signor D’Uccia. Ci vediamo più tardi, nel pomeriggio.

Il piazzista se ne andò.

— Allora, lazzarone? — grugnì D’Uccia rivolto al custode.

— Le chiavi del camion. La signorina Ferne vuole che vada a prendere un analogico al magazzino.

D’Uccia gliele gettò. — Hai sentito c’ha detto quel tizio? Lasciamo fare tutto alle macchine, eh? Vuoi sempre la ggiornata libbera, vabbène, e pigliati ’sta ggiornata libbera, anzi presto tutte le ggiornate che vuoi. Ti va bbène così, ragazzo?

Thornier si allontanò in fretta per evitare di far trapelare l’indesiderata rabbia che gli urgeva. — Torno tra un’ora — brontolò e si affrettò per eseguire la commissione, con la mascella che gli tremava per il risentimento. Perché restare ancora per due umilianti settimane? Perché non andarsene via subito? Lasciare D’Uccia ad arrangiarsi con le pulizie finché l’autocustode non sia istallato. Non sarebbe riuscito comunque a trovare un altro lavoro in teatro, quindi la reazione di D’Uccia avrebbe perso ogni valore.

Me ne vado via, adesso, pensò… ma immediatamente seppe che non lo avrebbe fatto. Trovava difficile spiegarselo, però quando pensava al momento decisivo in cui si sarebbe trovato libero di guardarsi intorno per un lavoro decente e una vita migliore, sentiva un brivido di paura difficile da spiegare.

Il lavoro di custode gli aveva reso appena da farlo vivere in un stanza al quarto piano, dove cucinava da solo i suoi magri pasti e scriveva i ricordi dei vecchi tempi, però l’aveva tenuto vicino ai residui vaganti di qualcosa che amava.

“Teatro” lo chiamavano. Non il teatro, come lo era per la vittima del bagarino, per la massaia frequentatrice di matìnées o per il provinciale reverente: soltanto “teatro”. Non era un luogo, non era un lavoro, non era il nome di un’arte. “Teatro” era una condizione del cuore e dell’animo umani. Giada Ferne era teatro; e così Ian Feria. Anche Mila, povera ragazza, prima che si mettesse con la Smithfield. Alcuni l’avevano, altri no: ai vecchi tempi chi non possedeva questo dono ben presto ne usciva. Ma quelli che lo avevano, continuavano ad averlo, anche dopo che il teatro era stato divorato dall’avvento della tecnologia. Ed erano rimasti. Alcuni di loro, come Giada, Ian e Mila si erano adattati al cambio, avevano tratto profitto dalla prostituzione del palcoscenico, guadagnandoci ulcera e coscienza sporca. Ma erano sempre teatro e, poiché lo erano, anche Thornier vi restava, strofinando i pavimenti sui quali loro passavano e sentendo che comunque appartenevano ancora al teatro. Ora stava andandosene. E sentiva dentro di sé ribollire l’antica amarezza. L’amarezza era stata cronica e passiva, e ora minacciava di diventare attiva e acuta.

Se solo potessi fargli vedere un’ultima interpretazione! pensò. Un’ultima grande parte…

Ma questo pensiero lo riportava al fantastico piano di vendetta, il piano che gli tornava spesso alla mente, mentre girava per il teatro deserto. Ma la vendetta non andava bene.

E il piano era soltanto un sogno a occhi aperti. Eppure… non avrebbe avuto mai più un’altra occasione.

Strinse la mascella con aria arcigna e si diresse al magazzino della Smithfield.

L’impiegato del magazzino aveva trasportato il manichino imballato verso l’uscita e stava aspettando Thornier quando questi entrò nel deposito. Lo fece rotolare dal muro sopra un carrello e il custode lo aiutò a sollevare l’imballaggio a forma di bara fino sul bancone.

— Non lo porti ancora sul camion — brontolò l’impiegato intorno al grosso mozzicone di sigaro. — Non ci sono manichini nuovi e lei deve firmarmi una ricevuta assicurativa.

— Quale ricevuta assicurativa?

— Per il caso di cattivo funzionamento. Se il manichino si guasta durante lo spettacolo voi non potete citare la Smithfield. È la prassi normale per l’affitto dei manichini usati.

— E se io non firmo?

— Niente firma, niente manichino.

— Ah. — Ci pensò su un momento. Evidentemente l’impiegato l’aveva preso per uno della produzione. La sua firma non avrebbe avuto alcun valore, ma si stava facendo tardi e Giada aveva fretta. Dal momento che in ogni caso quella ricevuta non avrebbe avuto valore, prese il modulo.

— Aspetti — disse l’impiegato. — È meglio che dia un’occhiata prima, per vedere che rischi corre. — Afferrò una leva e la passò sotto la correggia metallica dell’imballaggio. La correggia si spezzò con un rumore stridente. — È stato imballato esageratamente — continuò l’impiegato. — Gli è stato cambiato il fluido solenoide, un nuovo lavoro di cosmesi. Niente di veramente preoccupante. Alcuni punti consumati nell’imbottitura e un dito del piede che manca. Ma comunque è giusto che ci dia un’occhiata.

Terminò di rompere i legami del coperchio e poi si girò verso un quadro di controllo murale. — Non abbiamo qui un Maestro completo — disse mentre chiudeva un interruttore a coltello — ma abbiamo i trasmettitori di controllo e alcuni nastri magnetici. È sufficiente per provare un manichino.

Da dietro il pannello l’apparecchio prese vita. Mentre Thornier aspettava con impazienza, l’impiegato mise a punto diversi quadranti.

— Vediamo… — mormorò l’impiegato. — Penso che sia meglio cominciare con la scena di Frankenstein. — Abbassò un interruttore.

Dall’interno della cassa a forma di bara venne un ronzio soffocato. Thornier osservò nervoso. Il coperchio si mosse e cominciò a sollevarsi. Apparve una mano di donna che scostò il coperchio. Il ronzio divenne più forte. Il coperchio cadde di lato, trattenuto soltanto dalle corregge metalliche. La donna si mise seduta e sorrise al custode.

Thornier sbiancò in viso. — Mila! — sussurrò.

— Non fa venire i brividi? — sogghignò l’impiegato. — Adesso la scena della sbronza.

— No…

L’impiegato abbassò un altro interruttore. Il manichino si alzò lentamente, castamente nudo come quello di una vetrina. Sempre sorridendo a Thorny, il manichino ebbe un sussulto e digrignò i denti.

— La fermi! — urlò con voce rauca.

— Che ti piglia, amico?

Thorny udì scattare un altro interruttore. Il manichino si stirò graziosamente e sbadigliò. Si sdraiò di nuovo nella cassa, chiuse gli occhi e incrociò le mani sul seno. Il ronzio tacque.

— Che le rode? — brontolò l’impiegato, sbattendo di nuovo il coperchio sulla cassa. — Sta male o che cosa?

— La… la conoscevo — ansimò Ryan Thornier. — Ero abituato a lavorare… — Si scosse con rabbia e afferrò l’imballaggio.

— Aspetti, le do una mano.

La rabbia gli risvegliò nuove forze. Alzò senza aiuto la cassa, la mise sul carrello e poi la caricò sul camion. Dopo tornò indietro per scarabocchiare il suo nome sul modulo assicurativo.

— Lei se la prende troppo calda — brontolò l’impiegato. — È meglio che si calmi, davvero, meglio che si calmi.

Thornier, mentre si inseriva con il camion nel fiume del traffico, imprecò a bassa voce. Forse Giada aveva pensato che fosse divertente mandarlo a prendere il manichino di Mila. Giada ricordava come era andata tra loro due… se pure si era data la pena di pensarci. Thornier e Stone… una coppia che aveva costantemente richiamato ai vecchi tempi l’attenzione di giornalisti pettegoli. Voci di fidanzamento, voci di un matrimonio segreto, voci di litigi e riconciliazioni, di divisioni e riunioni, e alcune di queste voci erano state abbastanza vere. Forse Giada aveva pensato che fosse veramente un’idea geniale mandarlo a ritirare il manichino.

Ma no… la rabbia gli sbollì mentre percorreva il viale… lei non ci aveva pensato. Probabilmente si era sforzata di non pensare mai più ai vecchi tempi.

Di nuovo la tristezza gli ripiombò addosso, sostituendo la rabbia. Era ancora ossessionato da quella sensazione di orrore provata nel vederla alzarsi come un cadavere risvegliato e sorridergli. Mila… Mila…

Erano stati bene insieme, e male anche. Piccole parti e fagioli mangiati in un appartamento gelido. Parti di primo piano e bistecche da Sardi’s. E poi… amore? Era proprio questo? Ci pensò a disagio. Un’attrazione ipnotica l’uno per l’altra, forse, nella reciproca intossicazione del loro successo… ma non era stato necessariamente amore. L’amore era calma, unicità e durata, e lo si paga dedicandovi la propria vita: Mila non aveva voluto pagare. Li aveva calpestati. Se n’era andata alla Smithfield e aveva acquistato la sicurezza sacrificando i princìpi. C’era un nome per definire quello che aveva fatto. «Crumiro» dicevano.

Si riscosse. Non andava bene pensare a quei tempi. Il tempo muore con il passato di ogni minuto. Ora la gente pagava 8 dollari e 80 per guardare il pupazzo di Mila, che si muoveva come Mila, aveva la sua faccia, gli stessi gesti e camminava con la stessa andatura leggera. E il manichino era sempre giovane, mentre Mila era invecchiata di dieci anni, anni passati a raccogliere le percentuali trimestrali sui suoi manichini e a vivere comodamente.

I grandi attori immortali, era uno dei brevi slogan della Smithfield. Ma l’impiegato aveva détto che vi era una produzione discontinua dei manichini di Mila Stone. Sovrapproduzione.

La promessa di una relativa immortalità non era stata che un’esca. I sindacati degli attori avevano resistito all’autodramma, perché ovviamente per i generici e quelli poco noti non ci sarebbero state richieste. Costruendo dozzine, anche centinaia, di copie dello stesso attore, si sarebbero potuti avere attori di talento per ogni parte; e il manichino di un solo attore avrebbe potuto recitare contemporaneamente dozzine di parti in tutto il paese. I sindacati avevano resistito, ma pochi comunque venivano richiesti dalla Smithfield, e l’esca era molto attraente. La promessa di altissime percentuali era abbastanza allettante e inoltre… immortalità per l’attore, tramite la duplicazione dei manichini. Autori, artisti, commediografi erano sempre riusciti a sopravvivere al loro secolo, ma gli attori venivano ricordati soltanto da quelli del mestiere e i loro nomi brevemente citati negli annali del teatro. Shakespeare avrebbe vissuto ancora un migliaio di anni, ma chi si ricordava di Dick Burbage che aveva una compagnia ai tempi del Bardo? Carne e ossa, cuore e cervello, questi erano gli strumenti dei commedianti e la loro arte non poteva sopravvivere a questi strumenti.

Thorny conosceva la brama di sopravvivere e non se la sentiva di odiare coloro che si erano arresi. Per quanto lo riguardava, l’industria dell’autodramma gli aveva fatto un’offerta tentatrice, ma lui aveva resistito in parte perché era ragionevolmente certo che l’offerta sarebbe stata ritirata durante la procedura delle prove. Alcuni attori non erano “cibergenici”; non potevano essere adeguatamente schematizzati nei facsimili elettrorobotici. Questi erano gli intimisti, la cui arte era rivolta all’intimo e le cui parti dovevano venir vissute più che recitate. Nessun facsimile poligrafico avrebbe potuto registrare il loro talento e Thornier sapeva di essere uno di loro. Gli era stato facile resistere.

All’angolo dell’Ottava Strada, si ricordò del nastro di riserva e della testina magnetica per il Maestro. Ma se fosse tornato indietro subito, avrebbe ritardato la prova e Giada si sarebbe infuriata. Si prese mentalmente a calci e guidò il camion verso l’entrata di servizio del teatro. Lasciò il manichino imballato ai macchinisti e ritornò al deposito senza aver visto l’impresario.

— Ehi, amico — disse l’impiegato — il tuo capo ha telefonato. Sembrava piuttosto infelice.

— Chi… D’Uccia?

— No… be’, sì, anche D’Uccia. Ma lui non era infelice, solo un attacco di nervi. Volevo dire la signorina Ferne.

— Oh… dov’è il telefono?

— Da quella parte. La signorina era quasi isterica.

Thorny deglutì con fatica e si diresse verso la cabina. Giada Ferne era una buona amica, ma se la sua sbadataggine le avesse mandato all’aria il programma…

— Ho già preparato il nastro e la testina magnetica — gli gridò dietro l’impiegato. — Me lo ha detto la signorina quando ha telefonato. Amico, lei è davvero nel pallone oggi… eh sì, un bel po’ nel pallone.

Thorny si sentì avvampare e formò il numero nervosamente.

— Grazie a Dio — si lamentò Giada. — Thorny, abbiamo fatto la prova con Andreyev che sembrava uno zombie. Il Maestro si è mangiato la copia del nastro di Peltier e stiamo andando avanti senza l’analogico di uno dei protagonisti. Pupo, ti ammazzerei!

— Mi dispiace, Giada. Credo d’essere un po’ sfasato.

— Non importa. Sbrigati a portare il meccanismo magnetico per Thomas e il nastro di Peltier. E non naufragare. Sono le due e stasera c’è la “prima” e non abbiamo ancora il protagonista. E non abbiamo neppure il tempo di far arrivare i ricambi in aereo dalla Smithfield.

— In un certo senso, niente è cambiato, vero, Giada? — brontolò, pensando all’eterno isterismo che regnava dietro le quinte e che durava fino a quando le luci si spegnevano mentre, miracolosamente, dal caos prevalente nascevano bellezza e calma.

— Non filosofeggiare, sbrigati a venir qui! — sbottò lei e attaccò.

Quando uscì dalla cabina l’impiegato aveva già preparato i pacchi. — Senta, amico, stia bene attento a questo nastro di Peltier — lo avvisò. — È l’ultimo disponibile. Ne ho ordinati altri, ma non arriveranno prima di un paio di giorni.

Thornier fissò pensosamente il pacco più piccolo. L’ultimo Peltier?

Il piano, si ricordò del piano. Questo l’avrebbe reso più facile. Naturalmente, il piano era solo una fantasia, un sogno vendicativo. Non era possibile attuarlo. Sabotare lo spettacolo sarebbe stata una coltellata per Giada.

Udì la propria voce, come se fosse quella di un altro: — La signorina Ferne mi ha anche detto di prendere un nastro di Wilson Granger e un paio di calettature da tre pollici.

L’impiegato lo guardò sorpreso. — Granger? Non c’è nell’Anarchico, no?

Thornier scosse la testa. — No… credo che lo voglia per una prova. Forse è per il prossimo spettacolo.

L’impiegato si strinse nelle spalle e andò a prendere il nastro e le calettature. Thornier aspettava torturandosi le mani. Naturalmente non aveva intenzione di portarlo fino in fondo: era soltanto un’idea balzana.

— Dovrò fare uno scontrino separato per questi — disse l’impiegato ritornando.

Firmò le bollette di consegna come se fosse in coma, poi salì sul camion. Si allontanò di tre isolati dal magazzino e poi si fermò in un parcheggio. Aprì con cura l’imballaggio dei nastri usando un coltellino, togliendo il nastro adesivo in modo da poterlo rimettere a posto. Tolse dalle loro piccole scatole metalliche i due nastri a schemi perforati, tolse attentamente i sigilli e li mise per il momento nel cruscotto. Srotolò i primi cinquanta centimetri del nastro di Peltier; non era perforato, ma vi erano stampati i dati di identificazione e di fabbricazione. Fortunatamente non si trattava di un nastro nuovo; era già stato usato altre volte e lo si poteva vedere da svariati segni d’usura. Un taglio non avrebbe sollevato sospetti.

Tagliò con il coltello l’etichetta di identificazione e la mise da parte. Poi fece lo stesso lavoro sul nastro di Granger.

Granger era grasso, gioviale, sulla cinquantina: il suo manichino interpretava i caratteri brillanti.

Peltier era giovane, magro, malinconico… il malvagio intellettuale, il fanatico convinto. Una buona scelta per la parte di Andreyev.

Le mani di Thornier si muovevano come per volontà propria, eseguendo automaticamente una parte lungamente provata. Tagliò i nastri; prese una delle scatole delle calettature a caldo e strappò la linguetta che dava il via alla reazione chimica. Aspettò quindici secondi controllando l’orologio poi aprì la scatola e vi inserì il capo tagliato del nastro di Granger e l’etichetta di identificazione di Peltier, li fece attentamente combaciare, poi richiuse la scatola. Quando smise di fumare la aprì per controllare il montaggio. Un taglio netto, ma scarsamente visibile, sul liscio nastro di plastica. L’analogico di Granger classificato come fosse Peltier: e il corpo del manichino era quello di Peltier. Lo rimise nella sua scatola e riapplicò il sigillo.

Cacciò nell’altra scatola il nastro di Peltier, l’etichetta di Granger e la bolla di consegna. Poi guidò il camion fuori dal parcheggio e si inserì nel traffico caotico come un pazzo, fidando nel radar antiurto per uscirne sano e salvo. Mentre attraversava il ponte buttò fuori dal finestrino il nastro Peltier che finì nel fiume. E così non vi era più modo di tornare indietro.

Giada e Feria erano seduti nell’orchestra e stavano guardando l’ultimo atto della prova con un Andreyev imbambolato. Quando Thorny fu al loro fianco, Giada finse di tergersi la fronte dal sudore.

— Grazie a Dio, sei tornato! — gli sussurrò mentre le mostrava gli attesi pacchetti. — Corri tra le quinte e portali a Rick, nella cabina di controllo, ti spiace? Sto impazzendo, Thorny.

— Mi dispiace, signorina Ferne. — Temendo che la sua colpevole agitazione gli si leggesse in faccia, scivolò velocemente dietro le quinte e consegnò i pacchetti a Thomas, nella cabina di controllo. Il tecnico era così intento a controllare il Maestro durante la prova che fece soltanto un breve cenno con la testa e un gesto di saluto.

Thorny si rifugiò in vecchi corridoi polverosi e camerini fuori uso, dove ora si ammucchiavano cianfrusaglie e stracci dei giorni andati. Doveva farsi forza, doveva smetterla di tremare. Girò senza meta nelle zone deserte dell’edificio aprendo vecchie porte per sbirciare in oscuri cubicoli dove grandi dive si erano agghindate in altri tempi, in altre serate. Ora erano pieni di bauli e specchi rotti, tele cerate e manichini rotti. Vi aleggiavano leggeri odori, odori inquietanti, sudore, cerone, un vago profumo che ancora impregnava i muri. Muffa e polvere, l’aroma del tempo. I suoi passi risuonavano sordamente in quelle stanze abbandonate mentre gli echi smorzati delle prove giungevano attraverso le pareti: l’isterica preghiera di Marka, la volgare risata di Piotr, gli stivali in marcia delle guardie rivoluzionarie, un’esplosione di musica verso la fine della scena.

Si voltò bruscamente e si avviò verso il palcoscenico. Era inutile nascondersi così. Doveva comportarsi normalmente, fare quel che faceva di solito. Il nastro manomesso di Peltier non avrebbe provocato il disastro fin dopo la fine della prima prova, quando Thomas l’avrebbe inserito nel Maestro, rimontando la macchina e preparandola per l’inizio della seconda prova. Fino a quel momento doveva agire con naturalezza, ma dopo?…

Dopo, le cose sarebbero dovute andare come aveva progettato. Dopo, Giada sarebbe dovuta venire da lui, come pensava che avrebbe fatto. Se non l’avesse fatto, allora avrebbe fallito, rovinato tutto in modo maldestro e senza alcun vantaggio.

Scivolò attraverso la cabina elettrica dove i trasformatori ronzavano in sordina, fornendo energia al palcoscenico. Si fermò vicino all’ingresso a guardare l’inizio della scena terza, del terzo atto. Andreyev, il pupazzo di Peltier, era solo in scena e passeggiava truce nel suo appartamento mentre gli effetti sonori guidati dal Maestro fornivano il cupo brontolìo della turba in strada e il lontano crepitìo d’una mitragliatrice. Dopo qualche minuto, si accorse che i movimenti di Andreyev non erano “truci” ma semplicemente metodici e inerti. Il manichino, privo del nastro, eseguiva quanto prescritto dal copione, come un automa, senza alcuna interpretazione. Sentì dalla platea dei brevi scoppi di risa da parte di qualcuno della produzione e, dopo aver osservato l’interpretazione da zombie di Andreyev in una scena colma di tensione, si scoprì anch’egli a sogghignare sommessamente.

Improvvisamente il manichino ambulante guardò dalla sua parte, col volto impassibile e alzò i pugni all’altezza del viso.

— Aiuto — disse in tono di monotona conversazione. — Ivan, dove sei. Dove? Certamente sono già arrivati; devono arrivare. — Parlava quietamente, senza inflessioni. Si premeva indifferente i pugni contro le tempie, camminando meccanicamente.

A qualche passo di distanza, due manichini che erano irrigiditi dietro le quinte ripresero improvvisamente vita. Dall’immobilità spettrale di fantocci da vetrina, improvvisamente, a un impulso di comando del Maestro, si scossero. I muscoli, sacchetti di plastica pieni di polvere magnetica a sospensione oleosa avvolti in elastiche matasse di cavi, simili a solenoidi flessibili, si irrigidirono e si gonfiarono sotto la carne di plastica espansa, lavorando spasmodicamente al ritmo pulsante dei policromatici comandi u.h.f. del Maestro. Sui loro visi si formò un’espressione di paura e di tensione. Si piegarono, si irrigidirono, si guardarono attorno e poi irruppero in scena respirando affannosamente.

— È arrivata, compagno, è arrivata! — urlò uno dei due. — È arrivata con lui, con Boris!

— Cosa? Lo ha catturato? — fu l’indifferente risposta.

— No, no, compagno. Siamo stati traditi. Sta con lui. È una traditrice, ci ha venduti a loro.

Non vi fu alcun sentimento nella replica senza interpretazione di Andreyev, neppure quando sparò al cuore del latore di queste cattive notizie.

Man mano che la scena si svolgeva, Thornier ne era sempre più affascinato. I manichini si muovevano con grazia, i loro movimenti sinuosi erano più fluidi e armoniosi di quelli umani: sembravano privi di ossa. La proporzione tra massa ed energia muscolare nei loro arti era stata attentamente studiata per donare la levità della danza a ogni loro movimento. Né meccanici robot sferraglianti, né fantocci malfermi, quei manichini sopportavano uno schema motorio ed espressivo che avrebbe rapidamente affaticato un attore umano; il Maestro coordinava quanto succedeva sulla scena come non sarebbe stato possibile a nessun gruppo di umani, composto di esseri individuali e ragionanti in modo indipendente.

Accadde come sempre. Dapprima guardava con un brivido la Macchina che si muoveva facendo le veci della carne e del sangue, il Meccanismo che aveva detronizzato l’Arte. Ma gradualmente quella sensazione di freddo si sciolse e venne preso dallo spettacolo e gli attori non gli apparvero più come macchine. Viveva la parte di Andreyev, ne sussurrava le battute e conosceva tutti loro: Mila e Peltier, Sam Dion e Peter Repplewaite. Partecipava alla loro tensione, digrignava i denti anticipando le battute più difficili, malediceva sommesso l’inerte Andreyev e dimenticava di notare il tenue sfrigolio delle scintille quando i piedi dei manichini passavano sulle strisce di rame, di quando in quando succhiando energia per tenere gli accumulatori quasi al massimo della carica.

Essendo tanto assorto, notò appena il ronzio e il raspare e il fruscio alle sue spalle, che diventavano sempre più forti. Udì vicino un quieto borbottare, ma la distrazione lo fece soltanto accigliare, senza che distogliesse l’attenzione dalla scena.

Poi un sottile spruzzo d’acqua gli solleticò le caviglie. Qualcosa di fradicio e spugnoso gli urtò il piede. Si girò di scatto.

Un rilucente ragno metallico, alto quasi un metro, gli si avvicinò lentamente muovendosi su sei zampe, allungando due pinze prensili. Gli si avvicinava tintinnando e spargendo sul pavimento un leggero getto di liquido che veniva subito risucchiato dalla proboscide spugnosa. Con una delle pinze alzò un bidone da circa quaranta litri vicino alla sua gamba, vi spruzzò sotto, asciugò e rimise a posto il bidone.

Thornier si riscosse con un lamento, scavalcò la cosa e barcollò sul pavimento umido insaponato. Scivolò e finì per terra. Il ragno sfregò con lena il pavimento al limite del palcoscenico, poi cambiò direzione e ritornò verso Thornier.

Gemendo, questi cominciò a rialzarsi, sulle mani e sulle ginocchia, lo colpì la risata gorgogliante di D’Uccia. Guardò in alto. Il paffuto direttore e il piazzista di elettrodomestici lo sovrastavano: il piazzista sogghignava, D’Uccia gli faceva eco.

— Eccolo qua il mio ragazzo, eccolo qua! Sta sempre a guarda’ lo spettacolo e non mi fa pulizia e poi vuole la ggiornata libbera. Eccolo qua, è proprio lui. — D’Uccia si chinò a dare un leggero colpo con la mano alla carrozzeria del ragno. — Ehi, ragazzo - disse rivolgendosi di nuovo a Thornier — devi conoscere il mio nuovo ragazzo. Questo qua, e lui non sta a guarda’ lo spettacolo com’a te.

Si rialzò in piedi borbottando e livido in viso. D’Uccia lo osservò più da vicino e il ghigno gli si smorzò. Indietreggiò di un passo. Thornier lo fissò per un attimo e poi si voltò per andarsene. Voltandosi per poco non urtò il manichino di Mila Stone, lo evitò e fece per passare oltre.

Poi si sentì gelare.

Il manichino di Mila Stone era sul palcoscenico, a recitare l’ultimo atto. E quest’altro sembrava più vecchio e più smunto, con un’espressione di profonda sorpresa quando alzò lo sguardo su di lui. Una mano scattò verso la bocca.

— Thorny…! — Un sussurro spaventato.

— Mila! - Nonostante lo spettacolo, urlò questo nome, spalancandole le braccia. — Mila, che meraviglia!

Poi si accorse che lei si scostava dalla sua tuta inzuppata: e non era contenta di vederlo.

— Thorny, che piacere — riuscì a mormorare, tendendogli cautamente la mano. Una mano risplendente di gioielli.

Gliela strinse per un vuoto attimo, la fissò, poi si allontanò in fretta sentendosi un nodo alla gola. Ora poteva darci dentro. Ora poteva andare in fondo e persino rallegrarsi nel mettere in atto il suo piano contro tutti loro.

Mila era venuta ad assistere alla “prima” del suo manichino nell’Anarchico come se fosse lei stessa a recitare. Farò in modo, pensò, che questo non sia uno spettacolo noioso.

— No, no, nooo! — si sentì la monotona protesta dell’inerte Andreyev nel finale. I colpi della pistola di Marka, e il manichino di Peltier si afflosciò sul palcoscenico; eccettuato un breve e trionfante chiarimento, il dramma era praticamente concluso.

Al rumore dello sparo, Thornier si fermò, guardando oltre la spalla con un sorriso tirato, con gli occhi che lucevano nel suo viso da falco. Poi svanì tra le quinte.

Si allontanò da loro non appena le fu possibile e girò per tutto il retropalco fino a quando lo trovò nel magazzino del reparto costumi. Solo, stava frugando nel contenuto di un vecchio baule mormorando qualcosa in tono nostalgico. Trasalì e lasciò ricadere nel baule un vecchio cappello a cilindro pieghevole e una scatola di cartucce a salve. Mentre si raddrizzava infilò le mani in tasca.

— Giada! Non mi aspettavo…

— Che venissi? — Con uno stanco sospiro, si lasciò cadere su una vecchia sedia a sdraio polverosa, chiuse gli occhi e cominciò a farsi vento, con un programma. Si sfilò le scarpe e mormorò: — Banda di nevrastenici. Li odio! — Assunse un’aria disgustata e si abbandonò ai ricordi della giovinezza. Una ragazzina che aveva fatto parte della troupe con Thornier e con tutti gli altri… l’attrice Giada Ferne, che aveva elemosinato qualche particina, che aveva perseguitato le agenzie e conquistato le sue parti attraverso interminabili prove e aveva tremato di panico prima che si alzasse il sipario, come tutti gli altri. Ora era una donnina vivace, dagli occhi furbi, un’ombra di grigio alle tempie e rughe profonde agli angoli della bocca. Ma come lasciò svanire quella maschera di donna d’affari, lo sguardo furbo e le rughe furono soltanto stanchezza.

— Quindici minuti per ritornare normale, Thorny — mormorò, guardando l’orologio come per controllare il tempo.

Thornier sedette sul baule, cercando di rilassarsi. Sembrava che lei non avesse notato il suo disagio, oppure era troppo stanca per attribuirgli un motivo qualsiasi. Se l’avesse scoperto, l’avrebbe scuoiato e sbattuto fuori dall’edificio per le orecchie: forse avrebbe chiamato la polizia. Era una piccola cosa, ma anche le granate incendiarie sono piccole. Quello che sto per fare non ti danneggerà, Giada, si disse. Farà un gran chiasso e non ti piacerà, ma non ti danneggerà e non manderà a fondo lo spettacolo, neppure.

Lo faceva per il gusto dello spettacolo, quello d’una volta, quello che entrambi conoscevano e amavano. E in questo senso, si disse ancora, lo faceva per lei non meno che per se stesso.

— Com’è andata la prova, Giada? — chiese con noncuranza. — A parte Andreyev, intendo.

— Superba, davvero superba — rispose lei macchinalmente.

— Sul serio, intendo.

Aprì gli occhi, fece una smorfia con la bocca. — Come sempre. Di un gigionismo nauseante e perfettamente diretta per una folla di masticatori di gomma dalla borsa piena. Una folla che ama il gigionismo in modo da non doversi affaticare a capire quel che succede. Una folla che non vuole sforzarsi a cercare dei sentimenti o un significato. Vuole che il significato gli venga sbattuto in faccia, così da non doverlo cercare. Sono stufa.

La guardò un attimo, sorpreso. — Ci credo — borbottò con finto compatimento.

Ripiegò i talloni nudi sotto la sdraio e si abbracciò le gambe, posando il mento sulle ginocchia; poi ammiccò. — Mi odi perché produco questa roba, Thorny?

Ci pensò su un momento, poi scosse la testa. — L’andata in scena mi rattrista a volte, ma non ti biasimo per questo.

— È qualcosa. Qualche volta vorrei cambiar posto con te. Qualche volta desidererei essere una sguattera e lavare i pavimenti per D’Uccia, davvero.

— Niente da fare — rispose aspro. — I parenti del Maestro si stanno occupando anche di questo.

— Lo so. Ho sentito. Grazie a Dio, sei senza lavoro. Adesso potrai darti da fare altrove.

Scosse la testa. — Non so proprio dove. Non so fare altro che recitare.

— Sciocchezze. Posso trovarti un lavoro domani.

— Dove?

— Con la Smithfield. Incremento vendite. Stanno assumendo un bel po’ di vecchi attori in quel settore.

— No. — Una risposta secca e gelida.

— Non occorre. C’è qualcosa di nuovo. L’azienda è in sviluppo.

— Ah.

— Autodramma da casa. Un palcoscenico di un metro e venti in ogni stanza di soggiorno. Manichini in miniatura, alti sedici centimetri. Servizio di Maestro centralizzato. Il grande teatro a domicilio per cavo coassiale. Basta chiamare la Smithfield per telefono e fare la richiesta. Non è una buona idea?

La fissò gelido. — La cosa più grande in campo teatrale dopo Sarah Bernhardt — suggerì con voce atona.

— Thorny! Non essere perfido con me!

— Scusa. Ma che c’è di tanto nuovo nell’avere il teatro in casa? L’autodramma ha sbancato la tv già da molti anni.

— Lo so, ma questo è diverso. Un vero teatro in miniatura. I bambini ne andranno matti. Ma ci vorrà una forte propaganda per farglielo prendere.

— Spiacente, ma mi conosci abbastanza bene.

La donna si strinse nelle spalle, sospirò stancamente e chiuse di nuovo gli occhi. — Sì, lo so. Possiedi l’integrità del grande artista. Sei un mattatore. L’ulcera dei registi. Non puoi interpretare una parte senza viverla e non puoi viverla a meno che tu non ci creda. E allora vai avanti e crepa di fame. — Parlava con ira, ma lui sapeva che dietro quelle parole c’era un’ammirazione piena d’invidia.

— Starò benissimo — brontolò, aggiungendo mentalmente: dopo la recita di stasera.

— Posso fare niente per te?

— Certo. Dammi una parte. Sostituirò qualche manichino suonato.

Lo fissò con sguardo tagliente, esitando. — Sai? Credo proprio che lo faresti!

Si strinse nelle spalle. — Perché no?

Fissò con aria pensosa una catasta di casse, scuotendo i capelli scuri. — Mmm! Che spettacolo sarebbe… un vero attore, in incognito, che recita in un autodramma.

— È già stato fatto… in provincia.

— Sì, ma il pubblico sapeva tutto e questa è una cosa che rovina sempre lo spettacolo. Crea dei contrasti che non esistono o che altrimenti non verrebbero rilevati. Fa sembrare i manichini sinuosi, svolazzanti, troppo elastici e veloci. Senza umani a far contrasto sul palcoscenico, i manichini sembrano soltanto fatti di pensosa grazia, eterei.

— Ma se il pubblico non lo sapesse…

Giada sorrise leggermente. — Me lo chiedo — disse meditabonda. — Mi chiedo se avrebbero un dubbio. Naturalmente, noterebbero una differenza… in un manichino.

— Ma penserebbero soltanto a una particolare interpretazione del Maestro.

— Forse… se l’attore umano facesse attenzione.

Ridacchiò con amarezza. — Se ingannasse i critici…

— Qualche idiota scriverebbe “un’interpretazione abissalmente antirealistica” oppure “troppo evidentemente meccanica”. — Gettò un’occhiata all’orologio, si scosse, si stirò faticosamente e tornò a infilarsi le scarpe. — Comunque — aggiunse — non c’è ragione di farlo, dal momento che il Maestro è davvero capace di un’interpretazione migliore di quella umana.

L’affermazione strappò al custode un’esclamazione angosciata. Lo guardò e sorrise. — Non impressionarti, Thorny. Ho detto «capace di…» non «fa di solito». L’autodramma diverte il pubblico al livello a cui il pubblico vuole essere divertito.

— Ma…

— Proprio — aggiunse con fermezza — come il mondo dello spettacolo ha sempre fatto.

— Ma…

— Oh, tira dentro quegli occhi, Thorny. Non volevo bestemmiare. — Si aggiustò, ricominciando ad assumere l’aspetto dell’impresario, preparandosi a tornare alla sua gente. — La sola cosa sbagliata nell’autodramma è che si è man mano abbassato al livello degli imbecilli… ma è successo sempre così all’industria dello spettacolo e probabilmente bisogna che sia così. Anche se a noi bambini questo duole. — Sorrise e gli diede un buffetto sulla guancia. — Mi dispiace di averti scosso. Au ’voir, Thorny. E auguri.

Quando se ne fu andata, sedette, tastando le cartucce nella sua tasca e fissando il vuoto. Nessuno di loro aveva un po’ di sensibilità? Anche Giada, una venditrice di princìpi. E lui aveva sempre pensato che lei si fosse compromessa per pura necessità, contro i suoi desideri. L’idea che ella potesse davvero credere l’autodramma capace di dare un’interpretazione migliore di quella di un essere umano…

Non era possibile. Naturalmente lei aveva bisogno di razionalizzare, di scusare quel che ora faceva…

Sospirò e andò a chiudere la porta a chiave, poi riprese dal baule il vecchio copione dell’Anarchico. Le mani gli tremavano leggermente, aveva insinuato l’idea a sufficienza nella mente di Giada: l’avrebbe ricordata più tardi? O forse l’avrebbe ricordata troppo chiaramente e cominciato a sospettare?

Si riscosse con decisione. Le preoccupazioni non erano permesse. Quando Rick avrebbe suonato il campanello per la seconda prova sarebbe stata la sua battuta d’avvio: avrebbe dovuto esser già entrato nella parte per quel momento. Peccato non essere un commediante, peccato non potersi scaldare e raffreddare come faceva Giada, ma la necessità di una lunga concentrazione era lo scotto che doveva pagare il mattatore. Non poteva entrare in una parte senza prima cambiare se stesso, lasciando che la revisione filtrasse all’esterno come poteva, riflettendo lo stato d’animo dell’uomo.

Le note di Mussorgsky risuonarono tra le pareti. Chiuse gli occhi per ascoltare e intendere. Musica per un impero, musica insieme brutale e maestosa. Era il tempo della riscossa, della vendetta, dello sconvolgimento. Due tempi, sovrapposti. Era il tempo della serata di gala, dieci anni prima, con Ryan Thornier nella parte del protagonista. Cadde in una specie di trance misurando le sensazioni dello spirito mentre ascoltava e ricordò. A malapena si rese conto che la musica era finita e che le prime battute del dramma giungevano attraverso le pareti.

— Ferma! Ferma! — Un grido preoccupato: era Feria.

Era cominciato.

Thornier respirò profondamente e sembrò risvegliarsi. Quando aprì gli occhi e si alzò in piedi, il custode non c’era più. Quella del custode era stata una parte da incubo, nient’altro.

E Ryan Thornier, divo di Partiam, partiam, prediletto dai critici, fidente in uno splendido futuro, uscì dal magazzino con passo stranamente leggero. Portava una scopa, indossava ancora una lurida tuta, ma ora come fosse un costume di scena.

Il manichino di Peltier era scompostamente disteso sul palcoscenico in un grottesco ammasso. Ryan Thornier lo fissò con aria calma da dietro le quinte mentre ascoltava attentamente il fitto chiacchierìo dei macchinisti e dei tecnici intorno a lui.

— Non lo so. Non posso dire niente, ancora. È uscito barcollando e farfugliando… come se fosse sbronzo. Ha annaspato verso il tavolo, poi è caduto a faccia in giù.

— Si comportava come se il guaio dipendesse da un nastro mal messo, ma Rick lo ha ricontrollato: è davvero il nastro di Peltier…

— Non capisco. La Ferne sta dando i numeri.

Thornier indugiò a valutare il suo pubblico. Giada, Ian, e tutta la loro troupe che si raggruppavano nell’orchestra. Il palcoscenico era vuoto, a parte il manichino grottesco. In mezzo a tutto quel frenetico chiacchierare la sua entrata non sarebbe stata notata. Entrò lentamente in scena e sovrastò il pupazzo caduto, le mani in tasca e il viso rattristato da un’espressione luttuosa. Dopo un poco diede al pupazzo un colpetto con la punta del piede, aspettò un attimo poi gli diede un altro colpetto. Dall’orchestra venne un ridacchiare sommesso; con la coda dell’occhio notò una rapida occhiata di Giada verso la scena: si era interrotta a metà di una frase.

Sicuro che lei lo stesse guardando, recitò per un immaginario amico tra le quinte: gli lanciò un’occhiata, poi alzò le sopracciglia con aria interrogativa. Apparentemente l’amico gli fece un cenno d’assenso; si guardò attorno cautamente, si inginocchiò accanto al fantoccio caduto: gli tastò il polso, annuì premurosamente verso l’amico fuori scena. Dall’orchestra venne un’altra risatina. Sollevò la testa del fantoccio, gli annusò l’alito e fece una smorfia; poi lo girò con cautela.

Infilò profondamente nella tasca del manichino la mano in cui aveva precedentemente nascosto il proprio orologio, ve la lasciò un poco, poi sorrise al complice tra le quinte e annuì con aria avida. Estrasse l’orologio sollevandolo per la catena, cercando l’approvazione del suo complice.

Il personale della produzione scoppiò in una risata fragorosa. La risata spaventò il ladro. Scoccò in giro un’occhiata timorosa, frettolosamente restituì l’orologio al manichino caduto e gli ritastò il polso. Scambiò una rapida occhiata col compare, sussurrò — Aha! — e sorrise con aria misteriosa; poi aiutò il pupazzo a tirarsi in piedi e se lo portò via barcollando… un amico che riaccompagna un ubriaco a casa. Sulla soglia si fermò per sottolineare la sua uscita con un’occhiata circospetta all’indietro, per far capire che lo stava portando in un vicolo buio dove poterlo derubare in santa pace.

Giada lo guardava a bocca aperta.

Tre tecnici che erano stati a guardare dalle quinte e ridevano di cuore gli batterono sulla spalla mentre passava, impersonando il pubblico fuori scena per cui aveva fatto finta di recitare.

Dalla troupe di Giada in sala venne un applauso cordiale: e mentre portava il fantoccio verso il magazzino, Thornier borbottava sommessamente.

Alle sei meno cinque Rick Thomas e uno degli uomini della Smithfield scesero dalla cabina di controllo e Giada si fece largo tra la gente interrogandoli con lo sguardo.

— Il nastro — disse Rick. — Difettoso.

— Ma è troppo tardi per averne un altro! — stridette lei.

— Be’, comunque è il nastro.

— Come fai a saperlo?

— Be’… il guaio può dipendere da tre cose. Il pupazzo, il nastro, o la cassetta dei dati analogici. Abbiamo svuotato la cassetta e provato con un altro attore. Ha funzionato. E anche il manichino va bene con una prova non interpretata. Così, per eliminazione, è il nastro.

Crollò in una poltrona gemendo e coprendosi la faccia con le mani.

— Proprio non c’è modo di metterci un altro nastro? — chiese Rick.

— Abbiamo chiamato ogni deposito nel raggio di cinquecento chilometri. Dovrebbero ricavarlo tutti dalla copia campione. Ci vuole troppo.

— E allora mandiamo a monte lo spettacolo! — sbottò rassegnato Ian Feria, alzando le mani con aria disgustata. — Rimborsiamo i biglietti e rimandiamo a domani.

— Aspetta! — scattò l’impresario alzando di colpo gli occhi. — Dooch… il teatro è esaurito, no?

— Già — grugnì irritato D’Uccia. — Com’a un uovo è! Ma che cacchio ci avete voi, non sapete manco aggiustare il Maestro? Ma che cacchio! Qua perdiamo soldi, oh!

— Ma piantala! Spostiamo l’apertura alle nove, offriamo il rimborso se non vogliono aspettare. Ian, pensaci tu. Preparate tutto per stasera. — Giada parlava con stanca decisione guardando la gente attorno. — Forse c’è una magra speranza. Datevi da fare. Devo vedere una cosa. — Si voltò e fece per allontanarsi.

— Ehi! — la chiamò Feria.

— Ti spiego dopo — borbottò lei, girando appena la testa.

Trovò Thornier che stava cambiando le lampadine fulminate nei pannelli elettrici. Le sorrise dall’alto della scala mentre risistemava i morsetti di un pannello di vetro ambrato. — Ha bisogno di qualcosa, signorina Ferne? — le chiese con aria amabile.

— Può darsi — disse concisa. — Dicevi sul serio, per quell’offerta di sostituire un manichino suonato?

Una lampadina scivolata dalle mani di Thornier le esplose ai piedi. Scese lentamente dalla scala guardandola a bocca aperta.

— Stai scherzando.

— Pensi di poter fare una prova nella parte di Andreyev?

Lanciò una rapida occhiata verso il palcoscenico, si umettò le labbra e la guardò con aria stolida.

— Be’… potresti?

— Sono dieci anni, Giada… io…

— Puoi ripassarti il copione e portare una radio auricolare… così Rick può suggerirti dalla cabina.

Aveva fatto l’offerta con tono efficiente e pratico, e questo fece sorridere mentalmente Thorny. Così era il teatro: chiedere con calma le cose più impossibili, rischiare e spuntarla.

— I clienti… si aspettano Peltier.

— Per ora ti sto chiedendo di fare una prova, Thorny. E dopo vedremo. Ma ricordati che è la sola nostra speranza di andar su stasera.

— Andreyev — sussurrò. — Il protagonista.

— Per piacere, Thorny, vuoi provare?

Guardò verso la sala, annuì lentamente. — Vado a studiare le mie battute — rispose quieto, chinando il capo in un gesto che, sperava, fosse l’adatta espressione di modesto coraggio.

Devo farlo bene, devo fare che sia qualcosa di grande. L’ultima occasione, l’ultima bella parte…

Le luci splendenti della ribalta, un sommesso bisbiglìo nelle orecchie e il freddo panico della prima entrata: venne e passò rapidamente. Poi la scena fu una stanza chiusa e il pubblico, i tecnici e quelli della produzione furono soltanto la quarta parete, qualcosa al di là delle luci. Egli era Andreyev, commissario di polizia, commissario politico, leale servitore del regime, travolto dalla bufera rivoluzionaria degli anni Ottanta. L’ultimo bolscevico, non più un ribelle, non più un radicale, ma soltanto lealista, conservatore, difensore dello status quo, campione delle classi dirigenti marxiste. Non più cosciente di una possibile autonomia dalla sua parte, viveva la parte: gli altri, quelli che si trovavano con lui, era come se anch’essi avessero vita, agiva e reagiva con loro e contro di loro e mentre il dramma procedeva, dimenticò per un poco la loro mancanza di vita.

Afferrato dalla magia, immerso nello schema dell’inevitabile, trascinato dall’onda del dramma, sentì ancora una volta di essere una parte nel tutto, un tutto conosciuto e prevedibile che si svolgeva con sicurezza dalla prima scena fino al calar del sipario, come un uomo dal grembo materno alla tomba; non c’erano più anni perduti, non più errori e il sentimento di propositi sconfitti tra le prove di tutti quegli anni passati e questo, la pienezza di una serata di “prima”. Soltanto quando saltò una battuta, e Rick gli sussurrò nell’orecchio la correzione, l’incanto che gli si era creato attorno si spezzò per un momento: e si ritrovò indicibilmente spaventato, spaventato dall’improvviso ritorno alla realtà di sentire che tutto attorno a lui era Macchina, spaventato anche per averlo dimenticato. Si era adattato alla lieve grazia meccanica degli altri, imitando per riflesso la caratteristica leggerezza del movimento dei manichini, la danzante fluidità della loro recitazione. Lo aveva dimenticato: ora all’improvviso si rendeva conto che la bocca da lui appena baciata non era quella di una donna, ma la gommosa bocca d’un pupazzo e che la fresca e morbida mano che gli aveva sfiorato il viso era controllata dagli ondeggianti impulsi ad alta frequenza provenienti dal Maestro, gli stessi che, guidando la corrente nei solenoidi, le facevano girare il viso amorevole verso di lui. Sulla bocca sentiva ancora il lieve sapore e l’odore della gomma.

Alla prima uscita di scena tremava. Vide che Giada gli stava venendo incontro e, per un istante, ebbe l’orribile certezza che lei gli avrebbe detto: — Thorny, sei stato bravo quasi come un manichino! — Invece non disse niente, si limitò a tendergli la mano.

— Andava tanto male, Giada?

— Thorny, ci sei! Continua così e potrai avere più che uno spettacolo da fare. Persino lan è convinto. Solo all’idea s’era messo a strillare, ma adesso è tutto nostro.

— Niente proteste? Che ne dici del dialogo con Piotr?

— Meraviglioso. Continua così, sei stato stupendo, caro.

— Tutto a posto, allora?

— Tesoro, non è mai niente a posto finché il sipario non si è alzato. Lo sai bene. — Ridacchiò. — Veramente c’è stata una protesta… ma forse non dovrei dirtelo.

Si irrigidì lievemente. — Ah. Da parte di chi?

— Mila Stone. Ti ha visto andar su, è diventata bianca come un lenzuolo e se n’è andata. Non capisco perché!

Si lasciò cadere lentamente su un divano dall’aria malconcia e la guardò fisso. — Ma sì che lo capisci — disse tra i denti.

— Si trova qui per un contratto di presentazione, lo sai. Deve fare una presentazione dell’opera e dell’autore all’inizio e nell’intervallo. — Giada gli sorrise con affettata gaiezza. — Cinque minuti fa ha chiamato e ha tentato di annullare la sua presentazione. Naturalmente non può permettersi uno scherzo del genere, almeno finché lavora per la Smithfield.

Giada ammiccò, gli dette un colpetto sul braccio e spinse verso di lui una copia non cifrata del copione e poi si avviò di nuovo verso la sala. Si chiese in fretta che cosa avesse Giada contro Mila: niente di serio probabilmente. Erano state entrambe attrici: Mila aveva avuto un contratto dalla Smithfield, Giada non ci era riuscita. Era sufficiente.

Quando ebbe ripassato la scena seguente, la sua seconda entrata era ormai vicina, e si avviò di nuovo verso il palcoscenico.

Andò tutto liscio. Soltanto tre volte, nel corso del primo atto, si impuntò su qualche battuta non provata da dieci anni. Rick era pronto a suggerirgli, mentre il Maestro poteva compensare entro certi limiti le sue variazioni sul copione. Questa volta evitò di abbandonarsi al piacere della recitazione; e ora la strana sensazione di essere una cosa sola con lo schema meccanico non lo disturbò. Questa volta ricordò, ma alla prima pausa Ian Feria lo chiamò.

— Non è andata granché bene, Thorny. Qualunque cosa tu facessi nella prima scena, fallo ancora. Eri un po’ legnoso, adesso. Rifai l’ultimo pezzo e dacci dentro. Andreyev non è un orso impazzito degli Urali. Comunque adesso tocca a Marka. Andiamo.

Annuì lentamente e guardò attorno a sé i fantocci rigidi. Doveva dimenticare il meccanismo; doveva perdercisi dentro e viverlo, anche se questo voleva dire essere un pezzo di ricambio nel meccanismo. In qualche modo questo gli dava fastidio, nonostante fosse abituato, come nei tempi andati, a subordinare se stesso all’univoca gestalt scenica. Senza ragione apparente, si scoprì a tender l’orecchio per udire delle risate da parte di quelli della produzione, ma non ce ne furono.

— Va bene — gridò Feria. — Diamogli un po’ d’energia.

Riprese, ma una sensazione di disagio lo tormentava: autoderisione e l’attesa del ridicolo da parte degli spettatori. Non riusciva a capire perché, eppure…

C’era un antico film, un classico, in cui un uomo di nome Chaplin veniva legato al suo posto in una catena di montaggio dove eseguiva un lavoro del tutto meccanico in modo perfettamente meccanico, un lavoro che ovviamente avrebbe potuto essere compiuto da alcune camme e un paio di articolazioni. Era una delle commedie più divertenti d’ogni tempo… per quanto tragica. Un lavoro che l’aveva trasformato in una parte d’un complesso meccanismo.

Sudò per tutto il secondo e il terzo atto, in un continuo compromesso con se stesso, esagerando l’interpretazione per riabituarsi e ancora per convincere Feria e Giada che avrebbe potuto farcela, e bene. La recitazione esagerata era necessaria alle prime prove, come tecnica d’apprendimento. Gigioneggiare deliberatamente durante le prove per mandare a mente le battute, poi recitarle in tono più naturale durante lo spettacolo… era un vecchio trucco nelle compagnie di giro, quando bisognava dare un nuovo spettacolo tutte le sere e si avevano soltanto poche ore per provare e imparare le battute. Ma avrebbero capito perché lo stava facendo?

Quando fu finito non c’era più tempo per un’altra prova: a malapena il tempo per un pisolino e un boccone, prima di vestirsi per lo spettacolo.

— Era impossibile, Giada — borbottò. — Ho fatto un pasticcio, so bene di averlo fatto.

— Sciocchezze. Sarai a posto stasera, Thorny. Ho capito cosa stavi facendo e so perché.

— Grazie. Vedrò di darci dentro.

— A proposito dell’ultima scena, lo sparo.

Le lanciò un’occhiata circospetta. — Che c’è ancora?

— La pistola sarà carica stasera, a salve naturalmente. E stavolta dovrai cadere.

— E allora?

— E allora stai attento quando cadi. Non andare sulle fasce di rame. Centoventi volts non ti uccideranno, ma non vogliamo un Andreyev morente che salta in piedi tra un mucchio di scintille. Gli operai toglieranno un po’ di fasce per lasciarti una zona sicura. E un’altra cosa.

— Sì?

— Marka ti sparerà da vicino. Cerca di non scottarti.

— Starò attento.

Fece per andare, poi si fermò guardandolo per qualche momento con la fronte aggrottata. — Thorny, ho una strana sensazione nei tuoi confronti, ma non so bene che cosa.

La fissò con calma, in attesa.

— Thorny, hai intenzione di mandare a monte lo spettacolo?

La sua faccia non fece trasparire nulla, ma qualcosa tremò dentro di lui. Lei sembrava implorare, fiduciosa ma preoccupata. Faceva affidamento su di lui, aveva fiducia in lui.

— Perché dovrei mandare all’aria la recita, Giada? Perché dovrei fare qualcosa del genere?

— Te lo chiedo.

— Va bene, te lo prometto… avrai il migliore Andreyev che io possa permettermi.

Annuì lentamente. — Ti credo. Non era di questo che dubitavo, per l’esattezza.

— Allora, cos’è che ti preoccupa?

— Non lo so. So come ti senti tu di fronte all’autodramma. Ho soltanto avuto la gelida sensazione che tu abbia un asso nella manica. Tutto qui. Mi dispiace. So bene che sei troppo integro per mandare a picco un tuo spettacolo, però. — Si fermò e scosse la testa, scrutandolo con gli occhi neri. Era ancora preoccupata.

— E va bene, volevo fermare lo spettacolo al terzo atto, mostrare alla gente la cicatrice dell’appendice, fare un paio di giochetti con le carte e annunciare che entravo in sciopero. Poi sarei uscito. — Schioccò la lingua verso di lei, con aria offesa.

Arrossì lievemente e rise. — So bene che non faresti niente di tanto spregevole. Faresti quanto sta in te per dare una mazzata all’autodramma, in via generale, però… non c’è niente che tu possa fare stasera in questo senso, salvo che mandare gli spettatori a casa impazziti. Non è roba per te e mi dispiace di averlo pensato.

— Grazie. Smettila di preoccuparti, se perdete della grana non sarà certamente per colpa mia.

— Ti credo, ma…

— Ma che cosa?

Si chinò verso di lui. — Ma hai un’aria troppo trionfante, ecco cos’è! — sibilò e poi gli dette un colpetto sulla guancia.

— Be’, è la mia ultima parte. Io…

Ma se n’era già andata, lasciandolo solo col suo panino e la possibilità di un pisolo.

Il sonno non sarebbe certamente venuto. Giacque, tastando le pallottole calibro 32 nella sua tasca e pensando al colpo che il suo ultimo finale sarebbe stato sulla coscienza del teatro. Il pensiero era piacevole.

Mentre sonnecchiava, lo colpì d’improvviso il pensiero che l’avrebbero chiamato un suicidio. Che idiozia. Pensa alla scossa, all’effetto drammatico, alla reazione del pubblico. I manichini non sanguinano. E poi i titoli: UN ROBOATTORE UCCIDE VECCHIO ATTORE, VITTIMA DEL PALCOSCENICO MECCANIZZATO. E ancora, lo avrebbero chiamato suicidio. Che idiozia.

Ma forse è a questo che pensa anche il paranoico sul davanzale della finestra al ventesimo piano… alla reazione del pubblico. Ogni ferita autoinferta non era forse diretta alla coscienza del mondo?

La cosa lo turbò un poco, ma…

— Quindici minuti all’inizio - gracidò un altoparlante. — Quindici minuti…

— Ehi, Thorny! — Feria lo chiamava irritato. -Torna in camerino, ti stanno cercando.

Si alzò a fatica, guardò il trambusto tra le quinte e poi si avviò con passo strascicato verso i camerini. Una cosa era certa: doveva andare avanti.

La sala era tutt’altro che esaurita. Un terzo degli spettatori si era ripreso i soldi, piuttosto che aspettare uno spettacolo rinviato e con un Andreyev sostituito: un sostituto ignoto o nel migliore dei casi a malapena ricordato, senza indici di preferenza Smithy sulla scritta luminosa dov’era il suo nome. Nonostante questo, la massa del pubblico aveva già pianificato le proprie serate e si era fermata per occupare i propri posti, solo con un represso malumore causato dal ritardo. I clienti dei bagarini che avevano strapagato i loro posti e che non potevano reclamare dal botteghino più della metà della somma spesa erano costretti ad accettare lo spettacolo o rimetterci i soldi senza aver niente in cambio. Arrivarono, muovendosi nervosamente e guardando di continuo gli orologi, mentre dagli altoparlanti una voce continuava a scusarsi e a presentare brani musicali, quasi tutti di compositori russi. E poi, finalmente…

— Signore e signori, abbiamo stasera con noi una delle più ammirate attrici della scena, dello schermo e dell’autodramma, protagonista del nostro dramma di stasera, giovane e affascinante come quando venne resa immortale dalla Smithfield… Mila Stone!

Thornier stava a guardare dall’ombra, le labbra strette, come lei avanzava con grazia nello splendore delle luci della ribalta. Appariva insolitamente pallida, ma i maestri del trucco avevano fatto un buon lavoro; sembrava soltanto un po’ più vecchia del suo manichino, ancora incantevole ma d’una bellezza non più tanto arrogante. I suoi sfavillanti gioielli erano scomparsi, adesso portava soltanto una semplice tunica nera con una profonda scollatura, e i suoi capelli fulvi erano acconciati a forma di turbante, in modo da lasciare allo scoperto il collo grazioso.

— Dieci anni fa — cominciò con tono quieto — partecipai alle prove di un’edizione dell’Anarchico che non è mai stata rappresentata; era con me, quale protagonista maschile, un uomo chiamato Ryan Thornier, l’attore che interpreta questa sera la parte principale. Ricordo con particolare affetto quei giorni…

Esitò, poi proseguì con scarsa convinzione. Thorny ebbe un sussulto. Ovviamente il testo era stato scritto da Giada Ferne e ogni parola era un evidente boccone avvelenato per la bocca di Mila. Dava l’impressione di pronunziarle soltanto perché non sarebbe stato educato vomitarle. Mila era stata punita per il suo tentativo di fuga: Giada l’aveva costretta a presentarsi soltanto minacciandola di applicare al suo manichino una parrucca grigia e di mandarlo alla ribalta a leggere in sua vece la presentazione. Il piccolo impresario aveva il polso di ferro e lo adoperava se qualcuno le attraversava la strada.

La presentazione di Mila era stata scritta per convincere il pubblico che era una bella fortuna poter avere Thornier invece di Peltier, ma non c’era nulla che chiarisse trattarsi d’un attore in carne e ossa: non erano state usate le parole “pupazzo” o “manichino”, per lasciare al pubblico la sua convinzione senza avvalorarla. Era anche breve: dopo qualche aneddoto sulla prima presentazione dello spettacolo, più d’una generazione indietro, fu terminata.

— E ora, senza ulteriori indugi, amici cari, eccovi… L’anarchico di Procjev.

Fece un elaborato inchino e sparì dietro il sipario, piangente, mentre un’esplosione di musica maestosa annunciava l’inizio. Non ancora fuori del palcoscenico, si fermò vedendo Thornier. Il sipario cominciò ad alzarsi. Fece per gettarsi contro di lui, esitò, si fermò a guardarlo timorosa mordendosi le labbra, gli occhi pieni di lacrime.

In scena un telefono squillò sul tavolo del commissario Andreyev. La sua prima entrata sarebbe avvenuta tre minuti dopo: un tenente entrò per rispondere al telefono.

— È andata bene, Mila — sussurrò Thorny, con un sorriso agro.

Non lo sentì. Gli occhi le corsero al costume, molto simile all’uniforme che lui aveva indossato per una prova di abiti dieci anni prima. Si portò la mano alla gola; desiderava fuggire lontana da lui, ma dopo un momento riprese il controllo di se stessa. Dette un’occhiata al suo manichino, in attesa fuori scena, poi tornò a Thornier.

— Non vuoi dire qualcosa di adeguato alla circostanza? — sibilò.

— Io… — Il suo gelido sorriso svanì lentamente. Era il suo primo piccolo trionfo… trionfo su Mila, una Mila nauseata e tormentata dai rimorsi che aveva acquistato la sicurezza a spese dell’integrità e stava ancora pagando a piccole rate come questa, la Mila che un tempo aveva amato. Il primo piccolo “trionfo” divenne un doloroso nodo in gola.

Fece per andarsene, ma le afferrò un braccio.

— Mi spiace, Mila — mormorò con voce rauca. — Mi spiace davvero.

— Non è colpa tua.

Ma lo era. Naturalmente lei non sapeva quello che aveva fatto; non sapeva che aveva manomesso i nastri e fatto in modo di essere scelto per sostituire il manichino di Peltier, in modo che lei lo vedesse dar la replica all’immagine meccanica di una Mila che aveva smesso di esistere dieci anni prima, lo vedesse dar nuova vita alla parodia di qualcosa.

— Mi spiace — sussurrò ancora.

Scosse la testa, liberò il suo braccio e fuggì via. La guardò allontanarsi e sentì che qualcosa gli faceva male, dentro. Il loro gelido incontro poche ore prima era stato il momento decisivo, quando in un rigurgito d’amarezza aveva deciso di portare a fondo il suo progetto e persino di scusare se stesso per farlo. Forse l’amarezza gli aveva fatto velo, pensò. La sua reazione nel trovarselo di colpo davanti non era stato snobismo, ma orrore. Un vecchio fantasma ridotto a fare il buffone vestito di una tuta lurida, la cui faccia aveva probabilmente tentato di dimenticare, era balzato fuori per affrontarla in un luogo che era già fin troppo pieno di ricordi. Nessuna meraviglia che fosse apparsa fredda; probabilmente lui era il simbolo di qualcuna delle sue autoaccuse, come sapeva che era stato per altri. Quelli che avevano avuto successo, quelli che avevano tratto profitto dall’autodramma, lo avevano visto spesso con secchio e strofinaccio: e se per caso si ricordavano di Ryan Thornier, si voltavano con troppa fretta. E ogni volta aveva sentito una tiepida soddisfazione immaginando il loro pensiero: Thornier non avrebbe voluto compromessi… e il loro odio, perché avevano accettato il compromesso e così avevano perduto qualcosa. Ma essere odiato da Mila… era comunque diverso. Non voleva che fosse così. Qualcuno gli dette una gomitata nelle costole. — Il tuo attacco, Thorny! — sibilò una voce tesa. — Sei di scena!

Si riscosse brontolando. Feria lo stava spingendo di furia verso la sua entrata. Tentò di recuperare in fretta la propria presenza di spirito, di immergersi nel personaggio e corse fuori.

Sbagliò malamente la scena. Seppe di averla sbagliata ancor prima di rientrare e vedere le loro facce. Aveva perso due attacchi e, aveva avuto bisogno più volte dei suggerimenti di Rick dalla cabina. Aveva recitato in modo legnoso, lo sentiva.

— Vai molto bene, Thorny, molto bene! — gli disse Giada: non osava dirgli niente altro durante una recita. Scuoti l’orgoglio di un attore durante una prova e avrà modo di riprendersi; scuotilo durante uno spettacolo e riuscirai solo a irritarlo. — Ma senza che gli venisse detto sapeva quanta preoccupazione fosse celata dietro quel piccolo sorriso meccanico. — Cerca solo di calmarti un po’, eh? — lo avvertì. — Sta andando bene.

Lo lasciò a fremere in solitudine. Si appoggiò al muro, guardando torvo in basso e flagellandosi mentalmente. Un fallito, sei, una miserabile briciola, custode del cavolo, fantesca filodrammatica…

Doveva riprendersi; se avesse sciupato questa, non ci sarebbe più stata per lui un’altra possibilità. Ma continuava a pensare a Mila, a come aveva desiderato ferirla, a come adesso che l’aveva ferita desiderasse fermarsi. — Il tuo attacco, Thorny… sveglia!

E fu di nuovo in scena, inciampando sulle battute, terrorizzato dal mare di facce confuse che erano dove avrebbe dovuto trovarsi la quarta parete.

Lo stava aspettando quando rientrò per la seconda volta. Uscì di scena pallido e tremante, col colletto umido di sudore; si appoggiò all’indietro, accese una sigaretta e la guardò con aria abbattuta. Lei non riusciva a parlare. Gli prese un braccio tra le mani e lo strinse convulsamente mentre appoggiava la fronte contro la spalla. Abbassò su di lei uno sguardo costernato. Lei non si sentiva più ferita, non poteva sentirsi ferita vedendolo fare là fuori una figura da sciocco. Avrebbe potuto soddisfare deliziosamente il suo spirito di vendetta e quasi desiderò che così fosse. Invece, aveva compassione di lui. Si sentiva intorpidito e dolorante fino al midollo. Non ce l’avrebbe fatta.

— Mila, è meglio che te lo dica; non posso dire a Giada che cosa…

— Non parlare, Thorny. Fa’ del tuo meglio. — Alzò lo sguardo su di lui.

— Ti prego, fa’ del tuo meglio!

Ne fu meravigliato. Perché lei doveva comportarsi in quel modo?

— Non vorresti piuttosto vedermi fallire? — le chiese.

Scosse rapida la testa, poi si fermò e annuì. — Una parte di me lo vorrebbe, Thorny. La parte vendicativa. Devo credere nel teatro meccanico, io… io ci credo. Ma non voglio che tu fallisca, davvero. — Si coprì un momento gli occhi con le mani. — Non sai che cos’è vederti là fuori… in mezzo a tutto quel… quel… — Si scosse lievemente. — È una buffonata, Thorny, tu non c’entri niente con quella roba, ma… finché ci stai, non rovinare tutto. Fa’ del tuo meglio!

— Sì, certo.

— È qualcosa di molto precario: l’effetto, voglio dire. Se il pubblico comincia a rendersi conto che tu non sei un pupazzo… — Scosse lentamente la testa.

— E se succede?

— Riderebbero. Ti riderebbero in faccia.

Era pronto a tutto ma non a questo. Questo confermava quel tormentoso presentimento che aveva avuto durante la prova.

— Thorny, questo è quello che mi preme veramente. Non m’interessa se tu reciti bene o da cane, finché non scoprono che cosa sei. Non voglio che ti ridano dietro; hai già sofferto abbastanza.

— Non riderebbero se io recitassi come si deve.

— Lo farebbero! Non allo stesso modo, ma lo farebbero. Non capisci?

Rimase a bocca aperta; scosse la testa: non era vero. — Attori umani lo hanno già fatto — protestò. — In provincia, in piccoli teatri, con un Maestro ridotto.

— Hai mai visto roba del genere?

Scosse la testa.

— Io sì. Gli spettatori sanno in anticipo che parte faranno gli umani: così la cosa non li colpisce come se fosse buffa. Non c’è la sorpresa di scoprire qualcosa di incongruente. Stammi a sentire, Thorny… fa’ del tuo meglio, ma non osare di fare meglio di quanto possa un manichino.

Lo riprese l’ondata dell’amarezza. Era questo che aveva sperato? Dare un’interpretazione quanto più meccanica possibile, fare un buon lavoro a livello del Maestro, ma non migliore e soprattutto non diverso, in modo che non se ne possano accorgere?

Notò la sua espressione abbattuta e cercò la sua mano. — Thorny, non odiarmi per avertelo detto. Desidero che tu riesca e penso fosse meglio che tu ti rendessi conto. Credo di sapere cosa c’è di sbagliato. Sei spaventato, profondamente, che loro non ti riconoscano per quello che sei veramente e questo rende la tua interpretazione diversa da quella d’un manichino. Farai meglio ad aver paura che ti riconoscano, Thorny.

Guardandola, si rese conto che era ancora capace di essere la donna che una volta aveva conosciuto e amato. Peggio, desiderava salvarlo dal rendersi ridicolo. Perché? Se si sentiva materna era concepibile che volesse proteggerlo dal furore, dalla critica o dai pomodori marci, ma non dalla perdita di dignità. Il senso materno prospera con la rinuncia della dignità maschile, poiché dà risalto all’immagine del bambino che è nell’uomo.

— Mila…?

— Sì, Thorny.

— Credo di non averti mai capita veramente.

Scosse rapida la testa, quasi irritata. — Caro, tu stai vivendo i tempi di dieci anni fa. Io no, e non voglio neppure. Forse il presente non mi piace granché, ma ci sono dentro e posso cambiarlo solo in piccola parte. Non posso ritrasformarlo nel passato e non lo voglio. — Tacque un momento, studiando il suo viso. — Dieci anni fa nessuno di noi due viveva nel presente; vivevamo in un futuro mitico, magico, meraviglioso. Grande talento, appena in boccio. In quei giorni la nostra vita era fatta di progetti di sogno. Il futuro in cui vivevamo non si è mai avverato: tu non puoi tornare indietro e farlo avverare. E quando un sogno non è più realizzabile, diventa un’illusione. Non voglio vivere in un’illusione. Voglio rimanere ragionevole, anche se questo fa soffrire.

— È stato un peccato che tu sia dovuta venire questa sera — disse seccamente.

Sembrò colpita. — Oh, Thorny, non volevo dirlo in questo modo. E nemmeno con tanta durezza, se… — guardò attraverso il cristallo antiacustico verso la scena, dove il suo manichino stava recitando insieme a Piotr… — se anch’io non avessi dei problemi, e troppi desideri.

— Io vorrei che tu fossi con me là fuori — disse dolcemente. — Senza pupazzi e senza Maestro. So come andrebbe, allora.

— No! Ti prego, Thorny, no.

— Mila, io ti amavo.

— No! — Si alzò di scatto. — Io… Voglio vederti dopo lo spettacolo. Aspettami. Ma non parlare così: soprattutto non qui e non adesso.

— Non posso farci niente.

— Ti prego! Arrivederci per ora, Thorny, e… fa’ del tuo meglio.

Del mio meglio per essere un meccanismo, pensò amaramente, mentre la guardava andar via.

Si voltò a guardare l’azione. C’era qualcosa che non andava, là sul palcoscenico, qualcosa di maledettamente sbagliato. L’interpretazione che il Maestro dava della scena la rendeva in qualche modo sconosciuta. Si accigliò. Rick gli aveva parlato dell’abilità del Maestro nel rimediare, nel mutare le interpretazioni, nel rifare la regia. Era quel che stava accadendo? Il Maestro stava rimediando… alla sua interpretazione?

Il suo attacco era prossimo. Si spostò più vicino al palcoscenico.

Il primo atto era stato un fiasco. Feria, Ferne e Thomas discutevano in un’atmosfera carica di tensione e di fumo di sigarette. Sentì un vivace brontolare, ma non riuscì a distinguere le parole. Giada chiamò un macchinista, gli parlò brevemente e poi lo mandò via. Il macchinista vagò tra la troupe finché trovò Mila Stone, le parlò velocemente facendo dei gesti. Thorny la vide avviarsi a raggiungere il gruppo della produzione, poi si voltò. Si mise fuori vista dietro un velario ripiegato, attendendo la fine del breve intervallo e cercando di non pensare.

— Molto bene, Thorny — disse meccanicamente un costumista e passando gli batté sulla spalla.

Represse a stento l’impulso di prendere a calci il costumista. Prese un copione e finse di ripassare le battute. Qualcuno lo tirò per una manica.

— Giada! — la guardò con aria afflitta, cominciando a scusarsi.

— Lascia perdere — gli disse. — Ne abbiamo già discusso. Diglielo tu, Rick.

Rick Thomas, fermo accanto a lei, sorrise compassionevole e scosse la testa. — Non è tutta colpa tua, Thorny. O non te ne sei neppure accorto?

— Che cosa vuoi dire? — chiese con aria sospettosa.

— Prendi la quinta scena, per esempio — s’intromise Giada. — Supponi che fossero tutti attori umani. Come ti sentiresti per quanto è accaduto?

Chiuse gli occhi per un momento per rivivere la scena. — Sarei probabilmente seccato — disse lentamente. — Probabilmente accuserei Kovrin di rubarmi le battute e Aksinya di avere ammazzato la mia uscita… come scusa per me stesso — aggiunse con un sorriso sforzato. — Ma io non posso accusare i pupazzi. Non possono rubarmi la scena.

— In pratica, possono farlo, vecchio mio — disse il tecnico. E la tua scusa è perfettamente giusta.

— Come?…

— Certamente. Tu hai sbagliato la prima e la seconda scena. Il pubblico ha reagito; e il Maestro reagisce alla reazione del pubblico, rimediando con correzioni all’interpretazione. Lui vede il palcoscenico come un tutto, te compreso. Per quanto riguarda il Maestro, tu sei un manichino suonato e senza nastro, come il pupazzo di Peltier che abbiamo usato nella prima prova. Ti manda soltanto i segnali contenuti nel nastro delle battute, senza interpretazione, poiché non esistono nastri analogici che ti riguardino. Senza il pubblico sarebbe andato tutto bene, ma con le reazioni di un pubblico su cui basarsi comincia a rimediare. E dal momento che non può fare le correzioni su di te le fa sugli altri.

— Non capisco.

— In breve, Thorny, le prime due scene non marciavano. Tu al pubblico non sei piaciuto; allora il Maestro ha cominciato a rimediare rendendo più enfatiche le altre parti: e dando un nuovo carattere a te, attraverso gli altri.

— Un nuovo carattere? E come può farlo?

— Niente di più facile — interloquì Giada. — Quando Marka dice: «Lo odio: è una bestia», per esempio, può dirlo come se fosse vero oppure come se fosse momentaneamente furiosa con Andreyev. E questo influisce sul modo in cui il pubblico vede te. Gli altri attori influiscono sulla tua parte. Sai bene quanto fosse vero sui vecchi palcoscenici. Be’, è vero anche con l’autodramma.

Li guardò stupito.

— Non potete fermarlo? Voglio dire, rimettere a posto il Maestro?

— Non senza smontare tutta la programmazione e ripartire da capo. L’effetto è cumulativo: più continua a rimediare, più difficile diventa per te; più difficile è per te, più sembri scadente agli spettatori; e più sembri scadente agli spettatori, più tenta di rimediare.

Fissò furioso l’orologio. Meno di un minuto alla prima scena del secondo atto. — Che cosa devo fare?

— Tieni duro! — rispose Giada. — Abbiamo chiamato la Smithfield; in città c’è un ingegnere programmatore e sta per venire qui con un elitaxi. Poi vedremo.

— Può darsi che si riesca a raddrizzarlo, un po’ alla volta — interloquì Rick — inserendo una programmazione truccata sulle reazioni del pubblico e chiudendo il suo circuito in sala. Proveremo, è tutto.

Le luci si accesero per l’inizio del secondo atto.

— Buona fortuna, Thorny.

— Ne avrò bisogno. — Si avviò verso la scena con aria truce.

La cosa nella cabina lo stava guardando. Guardava, misurava e lo trovava insufficiente. Forse, pensò furioso, mi odia anche. Osservava, programmava, regolava e lo stava rovinando.

I visi dei pupazzi, le mani, le voci… gli appartenevano. Il circuito stregato nella cabina li faceva alleare contro di lui. Indubbiamente la cosa lo vedeva come uno di loro, ma che non rispondeva agli impulsi programmati. Forse lo vedeva come un pupazzo difettoso, e cercava così di correggere gli effetti del suo comportamento sbagliato. Ricordò l’antico conflitto tra regista e mattatore, l’attore che non accettava imposizioni… era la stessa cosa, aggravata dall’incapacità di un regista elettronico di capire che certe cose possono accadere. Il mattatore, l’interprete che non si lascia guidare, la cui recitazione scaturisce dalle fonti dell’inconscio senza influenze esterne… i registi erano inclini a odiarlo, anche quando l’interpretazione era stupenda. Un manichino, d’altronde, era il perfetto commediante, l’attore che un regista può manovrare come uno strumento.

Sarebbe stato assai più facile per lui se fosse stato un commediante, forse avrebbe potuto adattarsi. Ma era Andreyev, il suo Andreyev, da quando si era preparato per quella parte. Andreyev era dentro di lui come una seconda anima. Non aveva mai “recitato” un personaggio: era diventato sempre il personaggio. E adesso poteva adattarsi alle necessità della scena soltanto come Andreyev, senza cambiare assolutamente il sentimento della sua interpretazione. Tentarlo, cercare di conformarsi all’azione del Maestro, avrebbe condotto a una maggiore confusione. Eppure, la macchina cercava di imporsi a lui, attraverso gli altri.

Restò impassibile dietro il tavolo, ascoltando freddamente i dinieghi del prigioniero, un rivoluzionario, un incendiario associato alla banda di guerriglieri di Piotr.

— Te l’ho detto, compagno, io non c’entro niente! — gridò il prigioniero. — Niente!

— L’avete interrogato attentamente? — ringhiò Andreyev verso il tenente che sorvegliava il prigioniero. — Ha firmato una confessione?

— Non ce n’era bisogno, compagno. Il suo complice ha confessato — protestò il tenente.

Soltanto, non avrebbe dovuto essere una protesta.

Il tenente l’aveva fatta apparire come qualcosa di mostruoso… estorcere al prigioniero un’altra confessione, magari con la tortura, quando vi erano già prove sufficienti per condannarlo. Le parole erano giuste, ma il significato era stato distorto. Avrebbe dovuto essere una semplice constatazione. Non ce n’era bisogno, compagno, il suo complice ha confessato.

Thorny fece una pausa, rosso dalla rabbia. La sua battuta seguente avrebbe dovuto essere: — Bada che anche questo confessi — ma non l’avrebbe pronunziata. Avrebbe aumentato l’effetto di sorpresa e di protesta provocato dal tenente. Il tenente era un generico e non sarebbe tornato in scena fino al terzo atto: non sarebbe successo nulla a schiacciarlo.

Guardò con aria torva il pupazzo, chiese gelido: — E che ne avete fatto del complice?

Il Maestro non poteva inventarsi battute, né concepire una recitazione a soggetto; il Maestro poteva soltanto interpretare una deviazione come un difetto e cercare di rimediarvi. Il Maestro tornò indietro di una battuta e il tenente ridiede l’attacco.

— Ve l’ho detto… ha confessato.

— È così? — ruggì Andreyev. — L’avete ucciso, vero? Non ha resistito all’interrogatorio, vero? L’avete ucciso!

Thorny, che stai combinando? Nell’auricolare si udì il frenetico sussurrare di Rick.

— Ha confessato — ripeté il tenente.

— Sei agli arresti, Nikolàj! — sbraitò Thorny. — Presentati al maggiore Malin per la punizione. Riporta il prigioniero in cella. — Fece una pausa; il Maestro non poteva proseguire finché non gli avesse ridato l’attacco giusto, ma ora non c’era più pericolo a dire la battuta. — E adesso, bada che anche questo confessi.

— Sissignore — replicò rigidamente il tenente e uscì di scena col prigioniero.

Thorny si divertì a distruggergli l’uscita, gridandogli dietro: — E bada che sopravviva all’interrogatorio!

Il Maestro li fece uscire senza farli più voltare e Thorny fu per un momento molto compiaciuto con se stesso. Colse al volo una Giada, che, nascosta tra le quinte, gli faceva un cenno di vittoria, con le mani giunte sopra la testa. Ma non poteva certamente conquistare la vittoria recitando a soggetto fino all’ultimo.

Più di tutto temeva l’entrata di Marka, il pupazzo di Mila. Il Maestro lavorava per lei, rendendo più nobile la sua parte, giustificando astutamente il suo tradimento, a scapito del personaggio di Andreyev. Non voleva lottare ancora: la parte di Marka era troppo importante per sopraffarla, inoltre sarebbe stato come schiaffeggiare Mila, disturbare l’interpretazione del suo pupazzo.

Il sipario si abbassò; l’arredamento venne cambiato e la scena si trasformò in una stanza di soggiorno. Il sipario si alzò di nuovo.

Sbraitò al telefono: — Basta con gli arresti; dopo il coprifuoco, sparate a vista! — e riagganciò.

Quando si volse, lei era sulla soglia, in ascolto. Scrollò le spalle ed entrò con passo indifferente, mentre lui la fissava sospettoso in silenzio. Era la conclusione dell’inganno: era tornata da lui, ma come spia di Piotr. La sospettava soltanto di infedeltà, non di tradimento. Era un punto cruciale: il Maestro poteva farla agire come una perfida oppure come una traditrice riluttante, facendo apparire Andreyev un bruto. La guardò cautamente.

— Be’… ciao — disse lei con tono petulante dopo essersi aggirata per la stanza.

Brontolò, freddo. Lei continuava a mostrarsi impertinente e distante. Finora era come doveva essere; ma la disputa pericolosa doveva ancora arrivare.

Si avvicinò a uno specchio e cominciò a sistemarsi i capelli scompigliati dal vento. Parlava con tono nervoso, a scatti, chiacchierando di cose futili, nascondendo l’inquietudine di trovarsi di fronte a lui dopo il tradimento. Aveva un’aria furtiva, sofferente, in qualche modo simile alla Mila attuale: il controllo dell’espressione da parte del Maestro era davvero eccezionale.

— Che cosa fai qui? — scoppiò all’improvviso, interrompendo il suo parlare sconnesso.

— Abito ancora qui, o no?

— Te ne sei andata.

— Soltanto perché mi hai detto di andarmene.

— Hai fatto capire chiaramente che volevi andartene.

— Bugiardo!

— Infedele!

Andarono avanti su questo tono per un po’; finalmente lui cominciò a scaraventare dentro una valigia il contenuto di alcuni cassetti.

— Abito qui, io, e intendo restarci — disse lei rabbiosa.

— Fa’ come vuoi, compagna.

— Che stai facendo?

— Sgombero, evidentemente.

La disputa continuava; eppure non c’era ancora nessun tentativo del Maestro per intromettersi. Il pasticcio era stato sistemato? O forse il suo dialogo col tenente aveva influenzato la macchina? Qualcosa era cambiato: stava diventando una buona scena, la sua migliore, finora.

Lei stava ancora infuriando, quando lui si avviò verso l’uscita. Tacque nel mezzo di una frase senza fiato… poi gridò il suo nome e si lasciò cadere sul divano, singhiozzando disperatamente. Si fermò, voltandosi, e rimase a guardarla, i pugni sui fianchi. Pian piano, si commosse. Mise giù la valigia e tornò verso di lei, il volto ancora arcigno e sospettoso.

I singhiozzi continuarono; lei alzò lo sguardo verso di lui, capì che era incapace di fuggirsene e cominciò a sorridere. Si rialzò lentamente, facendogli scivolare le braccia intorno al collo.

— Sasha… oh, mio Sasha…

Le braccia erano tiepide, le labbra umide, la donna tra le sue braccia era viva. Per un momento dubitò dei suo sensi. Lei soffocò un risolino e sussurrò: — Mi spezzi le costole.

— Mila…

— Lascia, matto… la scena! — poi, a voce alta: — Posso restare, amore?

— Sempre — rispose rauco.

— E non sarai più geloso?

— Mai più.

— E non farai più domande ogni volta che starò via un’ora o due?

— O sedici. Erano sedici ore.

— Mi dispiace. — Lo baciò, la musica irruppe e la scena fu conclusa.

— Come mai sei entrata? — le sussurrò stringendola. — Perché?

— Me l’hanno chiesto loro. A causa del Maestro. — Rise divertita. — Sembravi distrutto. Ehi, puoi lasciarmi adesso. Il sipario è calato.

L’arredamento mobile si stava spostando; si affrettarono a uscire, costeggiando un divano che scivolava via. Giada li stava aspettando.

— Magnifico! — sussurrò, stringendo loro le mani. — Era davvero magnifico.

— Grazie… grazie per avermi fatta entrare — fu la risposta di Mila.

— Vai avanti tu, Mila… le scene con Thorny, almeno.

— Non so — mormorò. — È passato tanto tempo. Chiunque avrebbe potuto andare a soggetto in questa scena del litigio.

— Puoi farcela. Rick sarà pronto a suggerirti. L’ingegnere è arrivato e stanno già trafficando intorno al Maestro. Ma credo che si raddrizzerà da solo, se gli date da guardare ancora un paio di scene come questa.

Il secondo atto era stato salvato. Le parti secondarie erano ancora un’incognita e il Maestro stava ancora tentando di rimediare secondo le reazioni del pubblico durante il primo atto; però, con una Marka umana i tentativi di rimediare avevano un effetto minore e persino le distorsioni interpretative sembravano in parte diminuite. Il Maestro stava registrando nuovi dati, man mano che lo spettacolo continuava, e ne traeva nuove indicazioni.

— Non è stato magnifico — sospirò mentre si sdraiavano per rilassarsi tra un atto e l’altro — era appena passabile.

— Il terzo atto sarà migliore, Thorny — promise Mila. — Salveremo anche quello. Soltanto il primo è andato male.

— Avrei voluto che fosse il culmine — sospirò ancora. — Avrei voluto dargli qualcosa a cui pensare, qualcosa da ricordare. E adesso stiamo lottando solo per evitare che sia un fiasco totale.

— Non è stato sempre così? Ti ammazzi per fare qualcosa di storico e poi ti ritrovi a darti da fare come un matto solo perché sia almeno passabile.

— O a volte soltanto per evitare un lancio di ortaggi.

Rise: — Jaggie diceva sempre: «Sono entrato come il piatto forte e sono uscito come un’insalata di scarto». Tacque un momento, poi aggiunse malinconicamente: — La cosa più dura è che devi mirare bene in alto per colpire quello che vuoi. Può essere persino straziante cercare di arrivare ogni volta al sublime e riuscire appena a evitare il ridicolo o la mediocrità.

— Non conta quanto tu possa mirare alto, non puoi raggiungere la velocità di fuga. L’ambizione è una traiettoria il cui punto d’impatto è nell’oblìo, per quanto il lancio sia alto.

— Sembra una citazione.

— Lo è. Dal Satyricon di un ex custode.

— Thorny…?

— Sì?

— Domani mi dispiacerà, ma adesso mi piace molto… voglio dire ritrovarsi ancora qui. Vivere un po’ nell’illusione. Ma non è bene: è oppio.

La fissò per un momento sorpreso, senza dire nulla. Forse era oppio per Mila, ma lei non vi era entrata con la folle speranza che questa serata fosse l’apice, il grande momento di un’intera vita passata in scena. Lei vi era entrata per salvare lo spettacolo, tutto questo non aveva significato per lei nei riguardi d’una carriera che aveva deliberatamente abbandonato. Lui invece aveva sperato in una grande interpretazione; ma non era grande. Se si fosse impegnato duramente nel terzo atto, avrebbe potuto essere nell’insieme al livello delle sue interpretazioni del passato. A meno che…

— Credi che qualcuno tra il pubblico abbia sospettato? Di noi, intendo.

Scosse la testa. — Non ho notato niente del genere — mormorò con aria assonnata. — La gente vede soltanto quello che si aspetta di vedere. Ma domani verranno a saperlo.

— Perché?

— La tua scena col tenente, quando hai improvvisato. Può esserci stato un critico o forse un professore là in mezzo che ha letto il testo prima dello spettacolo e che è rimasto perplesso quando hai detto quelle battute. A casa vorrà dare un’occhiata alla sua copia, giusto per essere sicuro, e scoprirà gli altarini.

— Non avrà importanza dopo.

— No.

Desiderava dormire o sonnecchiare e Thorny non parlò più. Guardandola mentre riposava, un po’ del suo amaro disappunto scomparve; era bello recitare ancora, anche se per una sola serata d’oppio. E forse era meglio non ottenere quel che aveva desiderato; era persino pronto ad ammettere che vi era stato un certo grado di pazzia nell’aver affrontato una cosa del genere.

Perfezione e sacrificio. Dal momento che la perfezione non era possibile, l’intero schema appariva come l’incubo d’un fanatico malato e ne provava vergogna. Perché lo aveva fatto… perché aveva messo in opera quel che era sempre stata una petulante fantasia, un sogno infantile? Il desiderio, più l’opportunità, più la spinta, in un traliccio di amarezza e in un momento di crisi personale… era stato sufficiente per portare quella pazzesca brama fuori da qualche piega corticale e farlo vivere in un sogno. Il sogno di un bambino.

Poi l’impulso l’aveva trascinato; i nastri manomessi, la pistola carica, il brutto scherzo alle spalle di Giada… e ora eccolo lì a combattere per impedire allo spettàcolo di cadere. Era sceso fino al fiume e si era arrampicato sul ponte per scrutare le onde nere e vorticose: e poi era tornato a scendere perché il vento avrebbe guastato il tuffo del cigno.

Tremò. Lo spaventò un poco l’idea di potersi perdere con tanta facilità. Che cosa avevano fatto gli anni: o che cosa aveva fatto a se stesso?

Forse si era conservato integro, ma a che cosa serviva l’integrità nel nulla? Aveva l’anima di un attore, vi si era aggrappato mentre gli altri la vendevano: ma gli anni avevano spazzato via il mercato e lui con esso. Era rimasto fermo sui suoi princìpi e gli anni avevano sciolto il freddo ghiacciaio della realtà su cui poggiavano; e ancora vi stava sopra, mentre la realtà correva a gettarsi nel mare. Si era dedicato al teatro vivente e aveva vegliato amorevolmente la sua bara, in attesa della resurrezione.

Vecchio idiota, pensò, hai vacillato in mezzo a pazze fissazioni e hai barcollato in una dimensione ai limiti della pazzia. Hai preso l’irrealtà per mano e l’hai condotta eroicamente attraverso il pericolo e la confusione e finalmente l’hai sposata prima di renderti conto che era morta. Ora l’unica cosa decente da fare era seppellirla, ma la sua sepoltura non lo avrebbe in alcun modo portato indietro attraverso il pericolo e la confusione, di nuovo sulla strada. Non gli restava che andarsene. Forse era troppo tardi per costruire qualcosa per il resto dei suoi giorni: ma c’era un unico modo per scoprirlo, e il primo passo era quello di mettere tra sé e il teatro miglia di distanza.

Se una scatoletta nera svolgesse il mio lavoro, aveva detto Rick, cercherei un lavoro per costruire scatolette nere.

Thorny trasalì leggermente rendendosi conto che il tecnico intendeva proprio questo. Mila lo aveva fatto, in un certo senso; anche Giada. Specialmente Giada. Ma questa non era una risposta per lui, non in quel momento. Era restato troppo a lungo intorno alla morta a far lamentazioni e aveva bisogno di un taglio netto. Domani sarebbe stato fuori vista, sparito, fingendo di avere di nuovo ventun anni e avrebbe brancolato alla ricerca di un qualcosa da fare per il resto della vita. Come riuscire a mangiare fino a quando lo avesse trovato… questo sarebbe stato un problema urgente. Era difficile ormai trovare lavoratori non specializzati, ma era difficile anche trovare lavori non specializzati. Vendere il suo talento d’attore per scopi commerciali avrebbe funzionato solo nel caso che avesse potuto trovare uno scopo commerciale in cui credere e per cui vivere, dal momento che il suo talento non era l’abilità superficiale di un commediante. Sarebbe stata una ricerca estenuante, perché non si era mai dato la pena di interessarsi a nient’altro che al teatro.

Mila si riscosse all’improvviso. — Qualcuno mi ha chiamata? — mormorò. — Quanto fracasso…! — Si alzò a sedere guardandosi in giro.

Brontolò dubbioso. — Quanto manca ancora all’inizio? — domandò poi.

Mila si alzò improvvisamente e disse: — Giada mi sta facendo segno. Ci vediamo in scena, Thorny.

Guardò Mila allontanarsi in fretta, lanciò uno sguardo attraverso il palco fino a Giada che aspettava Mila al centro di una piccola riunione e sentì una fitta di rimorso. Sarebbe costato loro denaro, guai e sfacchinate e forse quell’interpretazione avrebbe nuociuto alle prossime repliche. Era stata una mascalzonata e ne era dispiaciuto, ma non era possibile tornare indietro e l’unico risarcimento possibile era di fare un ottimo terzo atto e poi sparire. In fretta: prima che Giada lo trovasse e organizzasse un linciaggio.

Dopo aver fissato con aria assente la piccola riunione per un momento, chiuse gli occhi e riprese a sonnecchiare. Improvvisamente li riaprì. Qualcosa nel gruppo della riunione… qualcosa di particolare. Sedette e li guardò di nuovo accigliato. Giada, Mila, Rick e Feria, e tre estranei. Niente di particolare in questo. Eccetto… vediamo… quello magro dall’aria da studioso, quello doveva essere, probabilmente, l’ingegnere programmatore. Quello dall’aspetto robusto, bovino, vestito di scuro e con lo sguardo indagatore. Thorny non riusciva a farsene un’idea… sembrava fuori posto sul palco. Il terzo aveva un’aria abbastanza familiare, ma anche lui sembrava fuori posto: un uomo piccolo e grassoccio, senza cravatta e con un grosso sigaro in bocca, sembrava più interessato alla baraonda tra le quinte che agli argomenti del gruppo. Il tizio bovino continuava a porgli delle domande e quello borbottava brevi risposte intorno al suo sigaro mentre guardava la parata dei macchinisti.

Una volta, rispondendo, tolse il sigaro di bocca e gettò una rapida occhiata in direzione di Thorny. Thorny si irrigidì, e sentì un brivido lungo la schiena. Il tizio piccolo e grassoccio era…

— L’impiegato del magazzino!

Quello che gli aveva consegnato i nastri e le scatole di calettatura e che poteva immediatamente indicare la causa dei guai, come senza dubbio stava facendo.

Doveva andarsene. Doveva andarsene in fretta. Il tizio bovino era un poliziotto o un investigatore privato, uno dei tanti assunti dalla Smithfield. Doveva correre via, doveva nascondersi, doveva… Il linciaggio.

— Non da questa parte, amico, si va in scena di qui; ma dove sta… Oh, Thorny! Non è ancora il momento di entrare.

— Mi dispiace — brontolò verso il trovarobe e si allontanò.

Le luci si attenuarono, il campanello risuonò debolmente.

— Adesso è il momento — lo richiamò il trovarobe.

Dove stava andando? E a che cosa gli sarebbe servito?

— Ehi, Thorny! Il campanello. Torna indietro. Tocca a te. Sei di prima scena… ehi!

Si fermò, voltandosi e poi tornò sui suoi passi. Entrò in scena e prese il suo posto. Lei era già là, e lo guardava stranamente mentre si avvicinava.

— Non sei stato tu a farlo, Thorny, vero? — sussurrò.

La fissò in silenzio stringendo le labbra e annuì.

Lei sembrò perplessa. Lo guardava come se non fosse più una persona, ma uno strano oggetto da studiare. Non sdegnata, o arrabbiata o virtuosa… solamente perplessa.

— Immagino di essere stato un pazzo — disse debolmente.

— Suppongo di sì.

— Però non è stato un gran danno — disse con tono speranzoso.

— La gente sbagliata ha assistito al primo atto, Thorny. Se ne sono andati.

— Gente sbagliata?

— Due produttori e un critico.

— No!

Restò come stordito. Allora smise di guardarlo e restò ferma aspettando che il sipario si alzasse; il suo viso non mostrava che una malinconica perplessità. Non era uno spettacolo suo, vi aveva dentro soltanto un manichino che le avrebbe reso un paio di assegni per diritti e adesso lei stessa come temporanea sostituta del manichino. La tristezza era per lui, che invece avrebbe capito di più lo sdegno.

Il sipario si alzò. Un mare di facce sfocate oltre le luci del palcoscenico. E lui fu Andreyev, capo di una guarnigione di polizia sovietica, servo fedele di una causa morente. Questa volta era facile immedesimarsi nella parte, costringere con decisione il proprio io nel personaggio del poliziotto russo e vivere un po’ del secolo passato. Perché l’io si sentiva più a suo agio lì dentro che non nella pelle di Ryan Thornier… una pelle che rischiava ben presto di essere mandata in conceria, a giudicare dalle occhiate furtive che arrivavano da dietro le quinte. Poteva quasi essere consigliabile restare Andreyev dopo lo spettacolo, ma questo sarebbe stato un modo sicuro per avere come compagno di camera Napoleone Bonaparte.

Non ci fu cambio di scenografia tra la prima e la seconda scena: soltanto il sipario calava per indicare un passaggio di tempo e per permettere un cambio di attori. Restò sulla scena ed ebbe un momento per pensare. I pensieri non erano affatto piacevoli.

I finanziatori se n’erano andati. Domani lo spettacolo avrebbe dovuto chiudere a meno che l’edizione telestampata del mattino del Times non portasse una recensione entusiasta: cosa che sembrava altamente improbabile.

I critici erano sazi e i sazi sono anche propensi a essere impazienti. Non sarebbero affatto stati desiderosi di dimenticare il primo atto. Lui l’aveva rovinato e non aveva possibilità di rimediare.

La vendetta non era dolce. Sapeva di marcio e di mal di stomaco.

Dagli un buon terzo atto. Non c’è nient’altro che tu possa fare. Ma anche questo non sarebbe riuscito a togliergli di bocca quel sapore disgustoso.

Perché lo hai fatto, Thorny? La voce di Rick gli arrivò come un sussurro dalla cabina attraverso l’auricolare.

Alzò gli occhi e vide che il tecnico lo fissava da una finestrella della cabina. Allargò le mani in un ampio gesto come per dire: come posso spiegartelo, che cosa posso fare?

Continua fino in fondo, che altro? sussurrò Rick e si ritirò dalla finestrella.

L’incidente sembrava confermare che in ogni caso Giada intendeva farlo continuare fino alla fine. Difficilmente avrebbe potuto fare altrimenti; in un certo senso, c’era dentro anche lei. Se il pubblico si accorgeva che il dramma aveva un interprete umano e se ai critici non piaceva lo spettacolo, avrebbero potuto dare addosso all’impresario che aveva “perpetrato una simile assurda sostituzione…” con maggiore acredine di quanta ne avrebbero avuta contro di lui. Lei aveva puntato su Thornier, a parte il suo complotto per forzarla a puntare; lo spettacolo era suo, e sua la responsabilità, quindi gli attacchi sarebbero stati per lei. Critici, proprietari, finanziatori e pubblico… se ne fregavano della “vergogna”, se ne fregavano di scuse o ragioni. A loro interessava solo il prodotto finito e se questo non era di loro gradimento, la responsabilità cadeva su una sola persona.

E per lui? Un poliziotto che lo aspettava dietro le quinte. Perché? Non aveva studiato il codice penale, ma non riusciva a pensare a qualche piccola, chiara etichetta criminale da applicare a ciò che aveva fatto. Frode? Non senza uno scambio di denaro o proprietà, pensò. Era qualcosa di immateriale e la legge è cosa del tutto terrena; diventava confusa quando delle ragioni portavano uomini da assalti a proprietà e persone ad assalti a idee o princìpi. In questo caso passavano il carico allo psichiatra.

Forse il tizio bovino non era affatto un poliziotto. Forse era un collezionista di maniaci.

Thorny non si preoccupò molto. Il sogno si era frantumato e lui non doveva far altro che aspettare che tutti i pezzi gli cadessero attorno, fino a trovare una possibilità di tirarsi fuori da quello sfacelo. Era la fine di qualcosa che avrebbe dovuto finire anni prima e lui non poteva tirarsene fuori prima che finisse di crollare.

Il sipario si alzò. La seconda scena fu buona. Non brillante, ma sufficiente per farli smettere di masticare gomma e farli restare incollati alla sedia, assorbiti completamente da Andreyev.

La terza scena era il suo Getsemani: quando la turba assediava gli uffici pubblici mentre lui era in attesa di una parola di Marka e di una risposta alla sua offerta di una tregua con i guerriglieri. La risposta era di una sola parola.

— Niet.

La sua sentenza di morte. La parola che lo avrebbe gettato fra gli sciacalli nella strada, la parola che lo avrebbe consegnato alla turba avida. La turba aveva un sistema: stava collezionando ufficiali per farne scempio. Poteva vedere la loro collezione dalla finestra, guardando attraverso la piazza, e ne discuteva con un aiutante. Nove uomini impalati sulle punte d’acciaio della pesante inferriata di fronte agli uffici regionali del Soviet. Con le sue mille mani la turba si impossessò di un altro esemplare e lo appese con cura. Sollevarono l’esemplare, in posizione seduta, fino in cima alla punta alta sessanta centimetri e ve lo lasciarono cadere. Due esemplari ancora si contorcevano.

Lui avrebbe truffato la turba, naturalmente. Sotto, l’edificio era barricato e ci sarebbe stato tutto il tempo per incontrare la morte in privato e castamente, prima che la turba si facesse strada fino all’interno. Ma rimandava, in attesa di una parola da parte di Marka.

La parola venne. Irruppero due guardie.

— È qui, compagno, è arrivata!

Arrivata con il nemico, dicevano. Arrivata per tradirlo, per tradire lo stato. Impossibile! Ma la guardia insisteva.

Furia violenta e rifiuto di credere. Con un ringhio sommesso prese l’automatica e colpì al cuore il latore delle cattive notizie.

Al rumore del colpo di pistola, il manichino si accasciò. L’esplosione gli riportò alla mente un pensiero nascosto: la seconda cartuccia nel caricatore… non era a salve! Si era dimenticato di scaricare l’arma.

Per un istante pensò di sparare ancora una volta contro il manichino caduto per liberarsi del colpo, ma poi abbandonò l’idea e seguì il copione. Fissò la propria vittima, accasciato, lasciando che la pistola scivolasse dalle dita e cadesse a terra. Si avvicinò barcollando alla finestra per guardare oltre la piazza e si coprì il viso con le mani aspettando l’abbassarsi del sipario.

Il sipario si chiuse. Si voltò di scatto e si diresse verso la pistola.

No, Thomy, no! Sussurrò freneticamente Rick dalla cabina. Verso l’icona… l’icona!

Si fermò in mezzo al palcoscenico. Non c’era tempo per recuperare la pistola e scaricarla. Il sipario si era abbassato appena per un attimo e stava per risollevarsi. Lasciamo che sia Mila a liberarsene, pensò. Si diresse verso il reliquiario, aprendosi il colletto e scompigliandosi i capelli. Cadde in ginocchio davanti all’antica icona, relitto umano davanti al Dio di una Russia più vecchia, una Russia che era sopravvissuta tenacemente in tempi di feroce negazione, come aveva sopravvissuto in tempi di feroce affermazione.

L’anima della cultura era una cosa viva ed era sopravvissuta tanto nella disfatta che nella vittoria; non poteva essere estirpata, ma solo corrosa o cambiata lentamente dal tempo e dalla lieve erosione della pioggia sulla roccia.

Sotto l’icona vi era un busto di Lenin. E sul muro di D’Uccia c’era un busto di Harvey Smithfield, sotto le maschere dei tragici greci. I segni del tempo e i segni delle cose fuori del tempo e il cuore della cultura pulsava al ritmo dei secoli. Lui aveva resistito a una brusca svolta del tempo, ma nessun uomo poteva nuotare a lungo contro la corrente mentre questa procedeva serpeggiando nell’eternità; e le brusche deviazioni del suo corso erano illusorie… perché in realtà ogni deviazione portava sempre più in basso. Nessun uomo aveva mai aggiunto niente alla corrente, dedicando tutte le proprie forze per resistervi. La marea l’avrebbe distrutto, portandolo verso l’oblìo, mentre il mondo fluiva sopra di lui.

Marka, Boris e Piotr erano entrati in scena, e lui si era voltato guardandoli senza capire. Deridendolo con rauche risate, cominciarono a spingerlo, facendo girare per la stanza come un animale intontito incapace di reagire quello che era stato un capo altezzoso, ormai distrutto. Lui rimbalzava dall’uno all’altro mentre lo pungolavano per disperdere quel senso di ebetudine ipnotica.

— Finita la preghiera, compagno — disse Marka raccogliendo la pistola che aveva lasciato cadere.

Mentre barcollava accanto a Mila, colse l’occasione per sussurrarle in fretta: — La pistola, Mila… estrai la prima cartuccia, estraila, presto!

Era sicuro che avesse sentito, per quanto non mostrasse alcuna reazione… a meno che quel guizzare dello sguardo non fosse stato per la pistola. Aveva capito? Un attimo dopo ebbe un’altra occasione di sussurrarle: — Il prossimo colpo è vero. Gira il caricatore, estrai la pallottola.

Inciampò quando Piotr gli diede una spinta, cadde contro un pesante divano, scivolò a terra e rimase a fissarli. Piotr andò ad aprire la finestra e gridò un’offerta alla turba sottostante. Dall’esterno giunse il possente ruggito del branco. Lo trascinarono verso la finestra per mostrarlo come un trofeo.

— Hai visto, compagno? — ringhiò il guerrigliero. — Il tuo fedele uditorio ti sta aspettando.

Marka chiuse le finestre. — Non sopporto questa visione — disse piangente.

— Portatelo al suo popolo — ordinò il capo.

— No… — Marka alzò la pistola e scosse la testa con furia. — Non te lo lascerò fare. Non lo lascerò a quella turba!

Piotr ringhiò un’imprecazione. — Lo avrebbero in ogni modo. Verrebbero qui a cercarlo.

Thorny fissò l’attrice aggrottando la fronte attonito. Non aveva ancora tolto la pallottola. E il momento era vicino… un veloce colpo per salvarlo dalla turba, un po’ di calda pietà lanciatagli dalla donna che l’aveva ammaliato, che si era servita di lui e l’aveva tradito.

Voltò verso di lui la pistola e Thorny cominciò ad arretrare.

— D’accordo, Piotr… se l’avrebbero in ogni modo…

Fece alcuni passi verso di lui che stava indietreggiando verso un angolo. Il colpo, Mila, toglilo!

Poi uno dei suoi piedi calpestò una striscia di rame e lui vide il debole sprizzare delle scintille. Occhi di vetro, carne di plastica espansa, nervi azionati elettronicamente.

Mila se n’era andata: questa era il suo manichino. Forse la vera Mila non poteva più sopportarlo dopo aver saputo quel che aveva fatto, o forse Giada l’aveva chiamata fuori dopo la prima scena del terzo atto. Una mano di plastica reggeva la pistola, e un leggero solenoide flessibile era in attesa dell’impulso che avrebbe fatto stringere il dito sul grilletto. Fu preso dal terrore.

Dagli l’attacco, Thorny, l’attacco! sussurrò l’auricolare.

Il pupazzo doveva aspettare la sua battuta di protesta prima di poter sparare; doveva ricevere la battuta d’attacco. I suoi occhi corsero lungo la scena, cercando una via d’uscita. Soltanto un istante per decidere.

Poteva avvicinarsi al pupazzo e prendergli di mano la pistola senza dire la propria battuta… tradendo la propria identità e rovinando il finale dello spettacolo.

Poteva mettersi a correre, dare l’attacco, sperando che lei lo mancasse, e cadere dopo lo sparo. Ma così sarebbe caduto sulle strisce di rame e sarebbe saltato in piedi strillando.

Per amor di Dio, Thorny! Rick stava gemendo. L’attacco, l’attacco!

Fissò la pistola e incominciò a oscillare leggermente. La pistola oscillava con lui… leggermente fuori fase. Un secondo di ritardo, non di più…

— Ti prego, Marka… — disse, oscillando più velocemente.

Il dito si tese sul grilletto. La pistola si mosse verso il bersaglio stabilito, mentre lui continuava a spostarsi. Era rischioso, doveva calcolare esattamente i tempi. Era come ballare con un cobra. Avrebbe voluto volar via.

Hai manomesso il nastro, hai rovinato lo spettacolo, ti sei adeguato mediocremente a un sistema che odiavi, ricordò a se stesso. E hai persino caricato la pistola. Ora se non sai rischiare…

Digrignò i denti, continuò a oscillare irregolarmente, poi…

— Ti prego, Marka… no, no, nooooo!

Un pugno rovente lo colpì da qualche parte vicino alla cintura, lo fece roteare, cadere a terra; l’aspro tossire della pistola era soltanto una parte dello scoppio. Poi si ritrovò afflosciato sul fianco nella zona priva di strisce, sanguinando e imprecando sommessamente. L’azione continuava. Ebbe l’impulso di gridare ma si sforzò di trattenere il grido; attraverso un velo vedeva gli altri portare a termine il finale, vedeva lo sfocato mare di facce oltre la ribalta. La pallottola gli doleva nel fianco.

Basta contorcersi. Non è credibile un Andreyev morto che si dibatte sul palcoscenico come un pesce trafitto. Un momento… solo un altro momento… tieni duro.

Ma non poteva. Si tastò il fianco cercando la ferita: difficile da individuare fra tutto quell’appiccicaticcio. Avrebbe voluto liberarsi dei vestiti per arrivare alla ferita e fermare il sangue, ma neanche questo andava bene. Avrebbero accettato un manichino che si dibatteva ancora nell’agonia, ma certo non avrebbero accettato un manichino sanguinante. I manichini non sanguinavano. Ma non lo vedevano lo stesso? Dovevano accorgersene. Bel trucco, avrebbero pensato: forse un tubetto di inchiostro rosso. Il realismo è il giusto mezzo di…

Cacciò la mano nella cintura cercando di stringerla quanto più potesse attorno alla vita. Per un attimo il dolore si acuì, ma il flusso del sangue sembrò diminuire. Strinse ancora, serrando i denti e aspettò.

Sapeva dove era stato colpito, ma era difficile dire da che parte fosse uscita la pallottola, e che cosa si fosse portata dietro nella traiettoria. Grazie a Dio per questa perdita di sangue: forse all’interno non era tanto grave.

Cercò di mettere a fuoco il resto della scena. La musica stava aumentando di tono: se n’erano andati via tutti lasciandolo lì? Ma no… dietro il velo vedeva Piotr, che si avvicinava alla sedia dell’ufficio, sedia pesante, ornata, antica. Una volta aveva appartenuto a un nobile dello Zar. Piotr, giovane macchina del tutto fredda, nel suo trionfo… esaminava la sedia.

Da qualche parte dietro le quinte, un grido soffocato. Mila. Non riusciva a tenere chiusa la bocca per mezzo minuto? Forse aveva scorto il sangue. Forse la musica era riuscita a coprire il grido.

Piotr salì sulla pedana e si voltò; sedette cautamente sulla sedia del comando, provandola e sorridendo per la vittoria. Sembrava che trovasse la sedia comoda.

— Devo tenerla, Marka — disse.

Thorny gli indirizzò una sommessa maledizione. L’avrebbe ben conservata, fino a che il tempo avesse fatto un’altra svolta nel lungo e antico fiume. E col favore del popolo… a giudicare dagli applausi scroscianti.

Il sipario calò lentamente, a coprire la finestra sul palcoscenico.

Dietro di lui vi fu un rumore di passi e rantolò Aiuto! un paio di volte ma i passi continuarono ad andare. I manichini marciavano verso le scatole d’imballaggio.

Si rialzò da solo e tutto divenne scuro. Ma quando l’oscurità si dissolse, si ritrovò ancora in piedi, così si diresse barcollando verso l’uscita. Stavano correndo verso di lui… Mila e Rick e un paio di operai. Mani si tesero ad afferrarlo, ma le respinse.

— Adesso cammino da solo — brontolò.

Ma le mani lo afferrarono lo stesso. Vide Giada e il tizio bovino, cercò di trascinarsi verso di loro per spiegare tutto ma lei divenne più pallida e si allontanò. Devo sembrare un bue scannato, pensò.

— Cercavo di abbassarmi. Non volevo.

— Non sprecare il fiato — gli disse Rick. — Ti ho visto. Cerca solo di resistere.

Lo misero dentro una cassa d’imballaggio dei pupazzi e sentì che qualcuno cercava gridando un dottore tra il pubblico che usciva; poi un sacco di mani cominciarono a frugargli il fianco e a strappare.

— Mila…

— Qui, Thorny. Sono qui.

E dopo un po’ lei era ancora lì, ma sul letto batteva il sole e sentì un leggero odore d’ospedale. Batté le palpebre per diversi secondi, guardandola, prima di trovare la voce.

— Lo spettacolo? — chiese con voce roca.

— L’hanno stroncato — disse con voce dolce.

Richiuse gli occhi, lamentandosi.

— Ma farà un mucchio di soldi.

La fissò stupito, battendo le palpebre.

— Pubblicità. Fenomenale. Devo leggerti le recensioni?

Annuì e lei prese i giornali: parlavano tutti del pazzo che sanguinava sul palcoscenico. La fermò a metà del primo articolo, era sufficiente. Il pubblico aveva cominciato a sospettare qualcosa durante le ultime battute dello spettacolo e la ricerca di un dottore aveva confermato i sospetti.

— Hai perso il pandemonio tra le quinte — gli disse. — È stato veramente un caos.

— Ma lo spettacolo non chiude?

— E come potrebbe, con tutta questa morbosità come forza d’attrazione? Se chiude, sarà a causa dell’interpretazione di Peltier.

— E Giada…?

— Offesa. Molto offesa: puoi biasimarla?

Scosse la testa. — Non volevo far del male a nessuno. Mi spiace.

Lo guardò in silenzio per un momento poi: — Non puoi continuare ad agitarti come stai facendo, Thorny, senza ferire qualcuno, senza che qualcuno cominci a odiare il tuo coraggio, perché è stato calpestato. Proprio non puoi.

Era vero. Quando ti attacchi a un pezzo del passato e lo fai quietamente, fai male solo a te stesso. Ma quando incominci a dar colpi all’impazzata per fargli posto nel presente, cominci anche a colpire gli astanti.

— Il teatro è morto, Thorny. Ci credi adesso?

Ci pensò su un po’ e scosse la testa. Non era morto. Soltanto la forma era cambiata e forse neppure in modo permanente. Ci aveva pensato la prima volta la sera prima, davanti all’icona. C’erano cose che appartenevano al tempo loro e poche altre che erano senza tempo. Il tempo era il risultato di un certo genere di cultura umana; le cose senza tempo erano il risultato di ogni cultura umana: e l’Uomo di Cultura era un Teatrante. Creava delle locandine di cultura per un pubblico di uomini, esponendovi le sue aspirazioni, ideali e mete, e queste esposizioni erano necessarie per la continuità della cultura, per il deliberato orientamento della specie.

Al di là di una siffatta locandina, l’Uomo di Cultura erigeva un altare e ci metteva davanti un prete che cantasse la descrizione liturgica delle ragioni emotive dei suoi tempi. E al di là di un’altra locandina costruiva un palcoscenico e vi sistemava sopra i propri manichini parianti per vivere una sequenza drammatica dei desideri e dei dolori del suo tempo.

È vero, i preti sarebbero cambiati, e la liturgia sarebbe cambiata, e i manichini, e i drammi, e i contenuti… ma le locandine non sarebbero cambiate, no mai… non sarebbero mai state tolte fin tanto che l’Uomo fosse sopravvissuto, perché solo attraverso queste locandine gli uomini transitori avrebbero potuto vedere se stessi contro l’orizzonte di una curva più ampia, vedere l’uomo circondato dall’Uomo. Nessuna prospettiva sarebbe stata possibile senza una locandina.

Il Dramma: antico come l’Uomo civile. Forme, tecniche e applicazioni sopravvissute. Sopravviveva anche all’attuale culto popolare del Grande Dio Meccanismo che era stato temporaneamente custodito mentre era ancora incompreso dal popolo. Come il Grande Dio Commercio di un secolo precedente e il Dio Agricoltura prima di lui.

Improvvisamente scoppiò a ridere. — Se impiegassero oggi attori umani, otterrebbero uno spettacolo che sa di muffa. E neppure realistico, considerati i tempi.

Aveva cominciato a sentirsi molto espansivo ed eroico riguardo a tutto questo, mentre un’altra persona sostava sulla soglia. Quando un leggero colpo di tosse gli fece alzare gli occhi, restò un attimo a guardarla, poi sorrise apertamente e chiamò: — Ohé, Richard! Entra. Qui… siediti. Aiutami a prendere una decisione per una nuova carriera, vuoi? eh, eh… — Agitò la mano e sghignazzò. — Che specie di scatolette nere un vecchio idiota può…

Tacque. L’espressione di Rick era fredda. Non diede segno di voler entrare e dopo un momento disse: — Credo che ci sarà sempre un fesso pronto a riaffrontare questa specie di corsa a staffetta.

— Corsa? — Thorny aggrottò lentamente la fronte.

— Già. Il secolo scorso fu tra un cinese al pallottoliere e una macchina IBM. FU una vera competizione, lo sai?

— Ma, senti un po’…

— E il secolo precedente ci fu una gara tra una segretaria manolesta e una macchina per scrivere.

— Se sei venuto qui a…

— E prima ancora, un tessitore contro un telaio meccanico.

— È stato simpatico vederti, Richard. Uscendo, vuoi dire all’infermiera di…

— Rompete i telai, distruggete le macchine, picchettate gli uffici che hanno macchine per scrivere, tenete fuori dalla Cina le calcolatrici! E dopo? Cercate di essere degli strumenti migliori di uno strumento?

Thorny voltò la testa di lato e fissò torvo il muro. — D’accordo. Ho sbagliato. Che cosa vuoi fare? Prendermi in giro? Farmi la morale?

— No, sono solo curioso. Continua a succedere… uno specialista che tenta di competere con gli strumenti di uno specialista di più alto livello. Perché?

— Più alto livello? — Thorny si tirò su a sedere con un ringhio, gemette, si strinse il fianco e ricadde indietro, ansando.

— Calma, vecchio — disse Rick tranquillamente — Mi dispiace. Volevo dire, di un più alto livello organizzativo. Perché continuate a farlo?

Thorny restò in silenzio per alcuni minuti, poi rispose: — Gelosia di casta. Anche i falchi cercano di cacciare gli altri falchi dai loro territori di caccia. Spirito di competizione.

— Ma tu non sei un falco. E con una macchina non c’è competizione.

— Smettila, Rick. Perché sei venuto?

Rick si guardò la punta di una scarpa, sbuffò leggermente ed entrò nella stanza. — Ho pensato che potresti aver bisogno di aiuto per trovare lavoro — disse. — Quando ti ho visto, dalla porta, steso lì come una specie di re Artù, mi sono sentito di nuovo offeso. — Sedette irrequieto sull’orlo di una sedia e fissò il vecchio con un misto di tristezza, irritazione e affetto.

— Mi aiuteresti… a trovare un lavoro?

— Forse. Un lavoro, non una nicchia permanente.

— È troppo tardi per trovare una nicchia permanente.

— Era già troppo tardi quando sei nato, vecchio! Non esiste una cosa del genere, non è più esistita dal secolo scorso. In qualsiasi cosa tu ti specializzi, un’altra specializzazione ti inghiottirà o troverà un modo per rimpiazzarti. Se ottieni quella che sembra una nicchia sicura, qualcuno verrà a murartici dentro e ci scriverà su un bell’epitaffio. E più una società si specializza, più pericolosa diventa per il puro specialista. Pensi forse che un ingegnere elettronico sia più al sicuro di un attore, o di uno sterratore?

— Non lo so. Non è leale. La carriera di un uomo.

— C’è sempre una specializzazione sicura.

— Quale?

— La specializzazione di creare nuove specializzazioni, continuamente: la tua.

— Ma questa è… — Cominciò a protestare, a dire che un concetto del genere apparteneva ai pochi altamente specializzati, all’élite dei tecnici di quel tempo, e che non era una specializzazione, ma una generalizzazione. Ma perché a pochi? La specializzazione di creare nuove specializzazioni…

— Ma questa è…

— Più o meno una definizione di Uomo, non è vero? — finì per lui Rick. — Ora, per quanto riguarda il lavoro…

— Sì, per quanto riguarda il lavoro…

Così, forse, non incominci proprio dal fondo, dopo tutto, decise. Cominci decisamente più in alto del lèmure, dello scimpanzé, dell’orango, del Maestro, seppure hai mai cominciato.