In casa di Coraline ci sono tredici porte che permettono di entrare e uscire da stanze e corridoi. Ma ce n’è anche un’altra, la quattordicesima, che dà su un muro di mattoni. Cosa ci sarà oltre quella porta? Un giorno Coraline scopre che al di là della porta si apre un corridoio scuro, e alla fine del corridoio c’è una casa identica alla sua, con una donna identica a sua madre. O quasi.

Neil Gaiman

Coraline

L’ho iniziato per Holly

L’ho terminato per Maddy

Le fiabe dicono più che la verità. E non solo perché raccontano che i draghi esistono, ma perché affermano che si possono sconfiggere.

G. K. Chesterton

I

Coraline scoprì quella porta poco dopo aver traslocato con la famiglia.

La casa era molto vecchia, con una soffitta, una cantina e un giardino pieno di erbacce e di grossi e vecchi alberi.

Date le sue notevoli dimensioni, però, non era occupata esclusivamente dalla famiglia di Coraline. I suoi ne possedevano solo una parte.

Nel resto dell’edificio abitavano altre persone.

Nell’appartamento del pianterreno, sotto quello di Coraline, vivevano Miss Spink e Miss Forcible. Le due donne erano anziane e grassocce, e occupavano l’appartamento in compagnia di alcuni vecchi terrier scozzesi che portavano nomi come Hamish, Andrew e Jock. In passato Miss Spink e Miss Forcible erano state attrici, e Miss Spink in persona lo aveva rivelato a Coraline, non appena si erano conosciute.

— Vedi, Caroline — le aveva detto Miss Spink, sbagliando a pronunciare il nome — sia io che mia sorella Forcible eravamo attrici famose, ai nostri tempi. Calcavamo le scene, tesoruccio. Ehi, togli quella torta di frutta da sotto il muso di Hamish o avrà mal di pancia per tutta la notte.

— Mi chiamo Coraline. Non Caroline. Coraline — le aveva fatto notare la bambina.

Nell’appartamento sopra quello di Coraline, nel sottotetto, viveva un vecchio pazzo con un paio di baffoni enormi. Le aveva detto che stava ammaestrando un circo di topi, ma non permetteva a nessuno di vederlo.

— Un giorno, piccola Caroline, quando tutto sarà pronto, il mondo intero assisterà alle meraviglie del mio circo. Mi domanderai perché adesso non puoi vederlo. Me lo hai appena chiesto, vero?

— No — aveva risposto Coraline sottovoce. — Le ho chiesto di non chiamarmi Caroline. Il mio nome è Coraline.

— La ragione per cui adesso non puoi vedere il mio circo — aveva detto l’uomo del piano di sopra — è che i topi non sono ancora pronti e non hanno provato abbastanza. Inoltre si rifiutano di suonare le canzoni che ho scritto per loro. Tutte le canzoni che ho scritto per i topi fanno umpah umpah. Ma il topo bianco si ostina a suonare solamente tudle udle. Sto pensando di metterli alla prova con diversi tipi di formaggio.

Secondo Coraline, quel circo di topi non esisteva affatto. Anzi, era convinta che il vecchio si fosse inventato tutto.

Il giorno dopo il trasloco, Coraline andò in esplorazione.

Esplorò il giardino. Era davvero grande: in fondo, nel punto più lontano, c’era un vecchio campo da tennis, ma in casa nessuno giocava a tennis, così il campo era pieno di buche e la rete addirittura decrepita; c’era anche un roseto, pieno di arbusti striminziti e coperti di polvere; c’era un giardino giapponese tutto di rocce; c’era un cerchio delle fate, fatto di funghi velenosi marrone e umidicci, che puzzavano tremendamente se uno ci andava a finire sopra per sbaglio.

C’era anche un pozzo. Il giorno in cui la famiglia di Coraline si era trasferita lì, Miss Spink e Miss Forcible si erano subito premurate di spiegare alla bambina quanto fosse pericoloso quel pozzo, e l’avevano messa in guardia perché ne stesse alla larga. Perciò Coraline non aveva perso tempo e aveva subito cominciato a cercarlo, per sapere con precisione dove si trovasse e poterne stare effettivamente alla larga.

L’aveva trovato il terzo giorno, in un prato pieno di erbacce accanto al campo da tennis, dietro un boschetto: un muretto di mattoni basso e circolare, quasi nascosto dall’erba alta. Il pozzo era stato coperto con alcune tavole, per impedire che qualcuno ci cadesse dentro. In una delle assi c’era un piccolo buco, e Coraline aveva trascorso un pomeriggio intero a gettarci dentro ghiande e sassolini e ad aspettare, canticchiando, di sentire il plop che producevano toccando l’acqua.

Era anche andata in cerca di animali. Aveva trovato un porcospino, una pelle di serpente (ma non il serpente), una roccia che pareva proprio una rana, e poi un rospo che pareva proprio una roccia.

C’era anche un altezzoso gatto nero che si sedeva sui muretti e sulle ceppaie per osservarla, ma che sgattaiolava subito via se lei gli andava vicino e cercava di giocarci.

Aveva trascorso così le prime due settimane nella nuova casa: esplorando il giardino e i dintorni.

Sua madre la chiamava all’ora di pranzo e di cena, e Coraline doveva assicurarsi di uscire ben coperta, perché quell’anno l’estate era davvero freschetta. Tuttavia, ogni giorno uscì ed esplorò, finché cominciò a piovere e fu costretta a restare in casa.

— E adesso che faccio? — domandò.

— Leggi un libro — le rispose sua madre. — Guarda un video. Gioca con i tuoi giocattoli. Va’ a dare fastidio a Miss Spink o a Miss Forcible, o a quel vecchio pazzo che abita sopra di noi.

— No — disse Coraline. — Non mi va di fare queste cose. Voglio esplorare.

— A essere sincera non mi interessa quello che fai — disse sua madre — purché tu non metta in disordine.

Coraline andò alla finestra e guardò la pioggia che cadeva. Non era una pioggia del tipo che ti permette di uscire, ma dell’altro tipo, cioè quella che scroscia violentemente dal cielo e tocca terra schizzando dappertutto. Era il tipo di pioggia che fa sul serio, e ciò che stava facendo, in quel momento, era trasformare il giardino in una specie di zuppa umida e fangosa.

Coraline aveva guardato tutti i video. Si era stufata dei giocattoli e aveva letto tutti i libri che possedeva.

Accese la televisione. Passò da un canale all’altro, ma c’erano solo uomini in giacca e cravatta che parlavano del mercato azionario, e programmi sportivi. Alla fine trovò qualcosa da guardare: la seconda parte di un programma di storia naturale su una faccenda che si chiamava mimetismo. E vide animali, uccelli e insetti che si mimetizzavano tra le foglie e i ramoscelli o tra gli altri animali, per fuggire da cose o creature che avrebbero potuto far loro del male. Il programma le piaceva, ma finì troppo presto e venne seguito da un altro su una fabbrica di dolci.

Era arrivato il momento di parlare con suo padre.

Il papà di Coraline era in casa. Tutti e due i genitori lavoravano con il computer, perciò passavano molto tempo in casa. Ciascuno aveva il suo studio personale.

— Ciao, Coraline — le disse suo padre quando la vide entrare nello studio, ma non si voltò verso di lei.

— Uffa — disse Coraline. — Piove.

— Eh già — replicò suo padre. — A catinelle.

— No, è una semplice pioggia. Posso andare fuori?

— Tua madre che ne dice?

— Dice: «Con un tempo così non esci di sicuro, Coraline Jones.»

— Allora è no.

— Ma io voglio continuare la mia esplorazione.

— Bene, puoi esplorare l’appartamento — le suggerì suo padre. — Tieni! Eccoti un foglio e una penna. Conta tutte le porte e tutte le finestre. Fa’ un elenco di tutte le cose blu. Organizza una spedizione per trovare lo scaldabagno. E lasciami lavorare in santa pace.

— Posso andare in salotto? — Il salotto era la stanza in cui i Jones tenevano i mobili costosi (e scomodi) che la nonna di Coraline aveva lasciato alla sua morte. A Coraline non era permesso entrarci. Nessuno ci entrava. A fin di bene.

— Se non metterai in disordine. E se non toccherai niente.

Coraline ci pensò su, poi prese carta e penna e cominciò a esplorare l’appartamento.

Trovò lo scaldabagno (era in un armadio a muro della cucina).

Contò tutte le cose blu (153).

Contò le finestre (21).

Contò le porte (14).

Delle porte che aveva trovato, tredici si aprivano e si chiudevano normalmente. La quattordicesima, piuttosto grande e in legno marrone intagliato, nell’angolo più lontano del salotto, era chiusa a chiave.

— E da quella porta dove si va? — domandò a sua madre.

— Da nessuna parte, tesoro.

— Dovrà pur portare da qualche parte.

La madre scosse la testa. — Vieni a vedere — disse a Coraline.

Allungò la mano e prese un mazzo di chiavi da sopra la cornice della porta di cucina. Le esaminò e ne scelse una, la più vecchia, la più grossa, la più nera, la più arrugginita. Quindi andarono in salotto. La mamma infilò la chiave nella serratura e la girò.

La porta si spalancò.

Aveva ragione. Non portava da nessuna parte. Dava su un muro di mattoni.

— Quando questa casa non era ancora divisa — disse la madre di Coraline — questa porta conduceva da qualche parte. Quando poi hanno diviso l’edificio in appartamenti, hanno semplicemente deciso di murarla. Dall’altra parte c’è un appartamento libero, ancora in vendita.

Richiuse la porta e rimise il mazzo di chiavi sulla cornice della porta di cucina.

— Non hai dato i giri con la chiave — osservò Coraline.

Sua madre si strinse nelle spaile. — Perché dovrei? — domandò. — Tanto non porta da nessuna parte.

Coraline non disse nulla.

Ormai era quasi buio e la pioggia continuava a cadere, tamburellando sui vetri delle finestre e offuscando i fari delle macchine che passavano nella strada davanti a casa.

Il padre di Coraline smise di lavorare e preparò la cena.

Coraline era disgustata. — Papà — disse — un’altra delle tue ricette!

— Stufato di patate e porri, guarnito con dragoncello e gruviera fusa — ammise suo padre.

Coraline sospirò. Quindi andò al freezer e tirò fuori una pizzetta e patatine fritte da riscaldare al microonde.

— Lo sai che le ricette non mi piacciono — disse al padre, mentre la sua cena continuava a girare nel forno a microonde e i numeretti rossi sul display facevano il conto alla rovescia per tornare allo zero.

— Se lo assaggiassi, magari il mio stufato ti piacerebbe — disse il papà di Coraline. Ma lei fece segno di no con la testa.

Quella notte, Coraline giaceva sveglia nel suo letto. Aveva smesso di piovere e lei si era quasi addormentata, quando qualcosa cominciò a fare t-t-t-t-t-t-t. Si tirò su a sedere nel letto.

Qualcosa fece kriiiiiii…

…aaaak.

Coraline scese dal letto e guardò verso l’ingresso, ma non notò niente di strano.

Percorse tutto il corridoio. Dalla stanza dei genitori proveniva un sommesso russare — suo padre — e un saltuario mormorio nel sonno — sua madre.

Coraline si chiese se l’avesse sognato, quel rumore che aveva sentito.

Qualcosa si mosse.

Poco più che un’ombra, che filò rapidamente in fondo all’ingresso buio, come un piccolo frammento di notte.

Si augurò che non fosse un ragno. I ragni mettevano Coraline in uno stato di profonda agitazione.

La sagoma nera entrò in salotto e Coraline, con un po’ di nervosismo, le andò dietro.

La stanza era buia. L’unica luce veniva dall’ingresso e Coraline, che era ferma sulla soglia della stanza, gettava un’enorme ombra distorta sulla moquette del salotto: sembrava una gigantessa allampanata.

Si stava giusto chiedendo se fosse il caso di accendere la luce, quando vide la sagoma nera uscire lentamente da sotto il divano. Si fermò per un istante, poi sfrecciò in silenzio sulla moquette, in direzione dell’angolo più remoto, dove non c’erano mobili.

Coraline accese la luce.

In quell’angolo non c’era niente. Niente altro che una vecchia porta aperta su un muro di mattoni.

Era sicura che sua madre avesse richiuso la porta, che adesso, però, era leggermente aperta. Giusto di uno spiraglio. Coraline si avvicinò e guardò dentro. Non c’era niente, solo un muro di mattoni rossi.

Chiuse la vecchia porta di legno, spense la luce e tornò a letto.

Sognò sagome nere che strisciavano da una parte all’altra, schivando la luce, fino a concentrarsi tutte insieme sotto la luna. Piccole sagome nere con occhietti rossi e aguzzi denti gialli.

Che cominciarono a cantare:

Siamo piccine ma molte
Siamo molte ma piccine
Eravamo qui prima di voi
Saremo qui anche poi.

Le loro voci erano un sussurro acuto e vagamente lamenroso. E a Coraline misero addosso una grande agitazione.

Poi sognò degli spot pubblicitari, e finalmente smise di sognare.

II

Il giorno dopo aveva smesso di piovere, ma la casa era avvolta da una fitta nebbia bianca.

— Esco a fare una passeggiata — disse Coraline.

— Non allontanarti — le raccomandò sua madre. — E copriti bene.

Coraline si mise il cappotto blu con il cappuccio, la sciarpa rossa e gli stivali gialli di gomma.

E uscì.

Miss Spink stava portando a spasso i cani. — Ciao, Caroline — le disse. — Che tempaccio.

— Eh già! — disse Coraline.

— Una volta ho interpretato il ruolo di Portia — disse Miss Spink. — Miss Forcible non fa che parlare della sua Ofelia, ma era la mia Portia che venivano a vedere. Quando calcavamo le scene.

Miss Spink era infagottata in strati e strati di maglioni e cardigan, il che la faceva sembrare più bassa e grassa che mai. Assomigliava a un grosso uovo lanoso. Portava occhiali con le lenti talmente spesse che i suoi occhi sembravano enormi.

— Mi mandavano sempre i fiori in camerino. Altroché - disse.

— Chi? — domandò Coraline.

Miss Spink lanciò una cauta occhiata circolare, guardandosi prima dietro una spalla e poi dietro l’altra, sbirciando attraverso la nebbia come se qualcuno potesse sentirla.

— Gli uomini - sussurrò. Quindi diede uno strattone ai guinzagli dei cani e riprese la strada di casa.

Coraline proseguì la sua passeggiata.

Aveva fatto tre quarti di giro intorno alla casa quando vide Miss Forcible, ferma davanti alla porta dell’appartamento in cui viveva con Miss Spink.

— Hai per caso visto Miss Spink, Caroline?

Coraline le rispose che sì, Miss Spink era fuori con i cani.

— Speriamo che non si perda; altrimenti le verrà il Fuoco di Sant’Antonio, vedrai — disse Miss Forcible. — Bisogna essere veri esploratori per trovare la strada con questa nebbia.

— Io sono un’esploratrice — disse Coraline.

— Ma certo, tesoruccio — disse Miss Forcible. — Cerca di non perderti.

Coraline continuò a passeggiare nel giardino ammantato di nebbia grigia. Stava attenta a non perdere mai di vista la casa.

Dopo circa dieci minuti di cammino, si ritrovò esattamente al punto di partenza.

I capelli le cadevano flosci e bagnati davanti agli occhi, e aveva il viso umido.

— Ohé! Caroline! — gridò il vecchio pazzo del piano di sopra.

— Oh, salve — rispose Coraline.

Con quella nebbia riusciva a scorgerlo appena.

L’uomo scese le scale esterne che portavano dall’appartamento di Coraline al suo. Le scese molto lentamente. Lei lo aspettò in fondo alle scale.

— Ai topi la nebbia non piace — le disse. — Gli fa afflosciare i baffi.

— Neanche a me piace molto — ammise Coraline.

Il vecchio si chinò su di lei, avvicinandosi tanto da farle il solletico all’orecchio con la punta dei baffi. — I topi ti mandano un messaggio — sussurrò.

Coraline non sapeva cosa dire.

— Il messaggio è il seguente. Non varcare quella porta. - E si interruppe. — Ti dice niente?

— No — rispose Coraline.

Il vecchio alzò le spalle. — Che buffi, i topi! Non fanno che prendere fischi per fiaschi. Sbagliano anche il tuo nome, sai? Continuano a chiamarti Coraline. Non Caroline. Niente Caroline.

Raccolse una bottiglia di latte dal primo gradino e cominciò l’arrampicata verso la sua mansarda.

Coraline entrò in casa. La madre stava lavorando nel suo studio, che profumava di fiori.

— E adesso che faccio? — chiese Coraline.

— Quand’è che ricomincia la scuola? — le domandò sua madre.

— La settimana prossima.

— Uff — sbuffò sua madre. — Immagino che dovrò comprarti dei vestiti nuovi. Ricordamelo, tesoro, altrimenti me ne dimentico — e tornò a digitare qualcosa sulla tastiera del computer.

— E adesso che faccio? — chiese di nuovo Coraline.

— Fa’ un disegno. — Le passo un foglio di carta e una penna a sfera.

Coraline provò a disegnare la nebbia. Dopo dieci minuti il foglio bianco era ancora bianco, a parte

N E B B I A

scritto in un angolo, a lettere leggermente ondeggianti. Con un leggero grugnito, passò il foglio a sua madre.

— Mm. Molto moderno, tesoro — disse lei.

Coraline sgattaiolò in salotto e cercò di aprire la porta nell’angolo. Era di nuovo chiusa a chiave. Immaginò che fosse stata la madre a chiuderla, e si strinse nelle spalle.

Coraline andò da suo padre.

Stava scrivendo al computer con la schiena rivolta verso la porta. — Vattene — le disse allegramente quando lei entrò nella stanza.

— Mi annoio — disse Coraline.

— Impara a ballare il tip tap — le suggerì senza voltarsi.

Coraline scosse la testa. — Perché non giochi con me? — gli chiese.

— Ho da fare — rispose lui. — Lavoro — aggiunse. Ancora non si era voltato a guardarla. — Perché non vai a dare fastidio a Miss Spink e a Miss Forcible?

Coraline si infilò il cappotto, si tirò su il cappuccio, uscì di casa, scese le scale e suonò il campanello di Miss Spink e Miss Forcible. Sentì un frenetico bau bau e i terrier scozzesi che scorrazzavano nell’ingresso. Dopo un po’, Miss Spink andò ad aprire.

— Oh, sei tu, Caroline — disse. — Angus, Hamish, Bruce, a cuccia, tesorucci. È Caroline. Accomodati, tesoro. Ti andrebbe una tazza di tè?

L’appartamento odorava di cera per mobili e di cani.

— Sì, volentieri — rispose Coraline. Miss Spink la fece accomodare in una stanzetta piena di polvere, che lei chiamava salottino. Alle pareti erano appese fotografie in bianco e nero di belle donne, e locandine teatrali incorniciate. Miss Forcible era seduta su una delle poltrone, e ci dava sotto con il lavoro a maglia.

Miss Spink versò il tè in una tazzina di sottile porcellana rosa con tanto di piattino, e le offrì un biscotto con l’uvetta.

Miss Forcible guardò Miss Spink, prese il lavoro a maglia e fece un respiro profondo. — Comunque, April. Come stavo dicendo, dovrai ammettere che il vecchio cane è ancora pieno di spirito — disse.

— Miriam cara, nessuna di noi due è più giovane come una volta.

— Madame Arcati — replicò Miss Forcible. — La balia in Romeo. Lady Bracknell. Parti di caratterista. Non possono mica mandarti in pensione dal palcoscenico.

— Adesso sì che siamo d’accordo, Miriam — disse Miss Spink.

Coraline si chiese se le due donne si fossero dimenticate di lei. Parlavano di cose senza senso, così pensò che fosse in corso una discussione; una di quelle discussioni vecchie e rassicuranti come una poltrona, il genere di discussione in cui nessuno vinceva e nessuno perdeva per davvero, ma che potevano continuare all’infinito: bastava che le due parti lo volessero.

Coraline continuò a sorseggiare il suo tè.

— Se vuoi, ti leggo le foglie sul fondo della tazza — le disse Miss Spink.

— Come? — disse Coraline.

— Le foglie di tè, cara. Ti leggo il futuro.

Coraline porse la sua tazza a Miss Spink, e lei diede una miope sbirciatina alle nere foglie di tè che si erano depositate sul fondo. Quindi storse le labbra.

— Sai, Caroline — disse dopo un po’ — sei in grave pericolo.

Miss Forcible sbuffò e mise giù il lavoro a maglia. — Non essere sciocca, April. Smettila di spaventare la bambina. I tuoi occhi ormai sono andati. Passami quella tazza, bambina mia.

Coraline portò la tazza a Miss Forcible, e lei ne esaminò attentamente il contenuto, scosse la testa, e tornò a guardare i fondi.

— Oh, cara — disse. — Avevi ragione tu, April. È in pericolo.

— Lo vedi, Miriam? — disse Miss Spink in tono trionfale. — I miei occhi sono buoni come una…

— E che pericolo sarebbe? — domandò Coraline.

Miss Spink e Miss Forcible la fissarono inespressive. — Non lo dicono — rispose Miss Spink. — Le foglie di tè non sono granché affidabili. Davvero no. Vanno bene per la situazione in generale, ma non per dettagli.

— Che devo fare, allora? — domandò Coraline, leggermente spaventata.

— Non vestirti di verde in camerino — suggerì Miss Spink.

— E non nominare un certo dramma scozzese — aggiunse Miss Forcible.

Coraline si domandò come mai fossero così pochi gli adulti di sua conoscenza che riuscivano a dire cose sensate. A volte si domandava a chi credessero di rivolgersi.

— E sta’ molto, molto attenta — disse Miss Spink. Si alzò dalla poltrona e si diresse verso il caminetto. Sulla mensola c’era un piccolo barattolo di vetro; Miss Spink ne tolse il coperchio e cominciò a tirarne fuori degli oggettini: una minuscola anatra di porcellana, un ditale, una strana monetina di ottone, due graffette e un sassolino bucato.

Porse il sassolino a Coraline.

— A che serve? — domandò la bambina. Il buco era proprio al centro del sasso e lo trapassava da parte a parte. Lo sollevò in controluce e ci guardò attraverso.

— Potrebbe servirti — disse Miss Spink. — Funziona contro le cose brutte, a volte.

Coraline lo mise nella tasca del cappotto, salutò Miss Spink, Miss Forcible e i cani, e uscì.

La casa era avvolta in una nebbia impenetrabile. Molto lentamente, la bambina si diresse verso i gradini che portavano al suo appartamento, quindi si fermò e si guardò intorno.

Con quella nebbia, sembrava un mondo di fantasmi. In pericolo!, pensò Coraline. Sembrava eccitante. Per niente una brutta cosa. Proprio per niente.

Poi cominciò a salire le scale, con il suo sassolino ben stretto nel pugno.

III

Al giorno dopo splendeva di nuovo il sole, e Coraline andò con sua madre nella cittadina più vicina, per comprare i vestiti per la scuola. Prima accompagnarono alla stazione il padre, che doveva andare a Londra per incontrare delle persone.

Coraline lo salutò con la mano.

Per comprare i vestiti andarono ai grandi magazzini.

Coraline vide un paio di guanti d’un verde brillante che le piacquero moltissimo. Sua madre si rifiutò di comprarglieli e diede la precedenza a calzini bianchi, mutande blu marino, quattro camicette grigie e una gonna grigio scuro.

— Ma mamma, a scuola tutte portano le camicette grigie, e anche il resto. I guanti verdi invece non ce li ha nessuno. Io potrei essere l’unica.

La madre non le prestò la minima attenzione, perché stava decidendo con la commessa quale maglioncino prendere per Coraline, e le due donne si trovarono d’accordo sul fatto che fosse meglio comprarne uno vergognosamente largo e fuori misura, nella speranza che un giorno ci sarebbe cresciuta dentro.

Coraline si allontanò e andò a guardare gli stivali di gomma, tutti a forma di rana, di anatra e di coniglio.

Poi tornò da sua madre.

— Coraline? Oh, eccoti qua. Dove diamine eri finita?

— Mi avevano rapito gli extraterrestri — disse Coraline. — Sono arrivati dallo spazio con le pistole laser, ma io li ho imbrogliati mettendomi una parrucca e ridendo con accento straniero, poi sono fuggita.

— Certo, cara. Credo che ti servirebbero degli altri fermagli per i capelli, non credi anche tu?

— No.

— Be’, diciamo una mezza dozzina, tanto per stare tranquille — disse sua madre.

La bambina non disse una parola. In macchina, tornando a casa, Coraline disse: — Cosa c’è nell’appartamento vuoto?

— Non lo so. Niente, immagino. Probabilmente assomiglierà al nostro prima che ci andassimo ad abitare. Stanze vuote.

— Credi che ci si possa entrare dal nostro salotto?

— No, a meno che tu non riesca a passare attraverso i mattoni, cara.

— Oh.

Arrivarono a casa che era quasi l’ora di pranzo. Nonostante facesse freddo, splendeva un bel sole. La madre di Coraline guardò nel frigo e ci trovò un misero pomodoro e un pezzo di formaggio con della roba verde sopra. Nel contenitore del pane c’era solo una crosta secca.

— Forse farei meglio a fare una corsa al negozio e a prendere dei bastoncini di pesce o qualcos’altro — disse. — Vuoi venire con me?

— No — rispose Coraline.

— Fa’ come ti pare — disse sua madre. E uscì. Poi tornò indietro, perché aveva dimenticato il borsellino e le chiavi della macchina; quindi uscì di nuovo.

Coraline si annoiava.

Sfogliò il libro che stava leggendo sua madre e che parlava degli indigeni di un paese lontano; pareva che ogni giorno prendessero grandi pezze di seta bianca e ci facessero sopra dei disegni con la cera, poi immergevano la seta nella tintura, quindi ci disegnavano ancora sopra con la cera e la immergevano di nuovo nella tintura, poi toglievano la cera e mettevano tutto a cuocere nell’acqua bollente, e alla fine gettavano quelle pezze ormai bellissime su un falò, per ridurle in cenere.

A Coraline sembrava assolutamente privo di senso, ma sperava almeno che quella gente ci si divertisse.

La noia non era ancora passata, e sua madre non era ancora rientrata.

Coraline prese una sedia e la spinse vicino alla porta della cucina. Ci salì sopra e si protese verso l’alto, inutilmente. Poi scese e andò a prendere una scopa nel ripostiglio. Quindi salì di nuovo sulla sedia, e protese verso l’alto il manico della scopa.

Cling.

Scese dalla sedia e raccolse le chiavi. Sorrise trionfante. Poi appoggiò la scopa alla parete e andò in salotto.

La famiglia non usava mai quella stanza. Avevano ereditato i mobili dalla nonna di Coraline, insieme a un tavolinetto basso, una consolle, un pesante portacenere di vetro e il dipinto a olio di una fruttiera. Coraline non era mai riuscita a capire come mai ci fosse gente che aveva voglia di dipingere una fruttiera. Quanto al resto, la stanza era vuota: niente soprammobili sulla mensola del caminetto, niente statuine, né orologi; niente che rendesse quel luogo confortevole e vissuto.

La vecchia chiave nera sembrava più fredda di tutte le altre. Coraline la infilò nella toppa. Girò senza fare capricci, con un soddisfacente rumore metallico.

Coraline si fermò ad ascoltare. Sapeva che stava facendo qualcosa di proibito, così tese l’orecchio per sentire se sua madre stesse tornando, ma non sentì nulla. Poi mise la mano sulla maniglia e la girò: e finalmente la porta si aprì.

Si aprì su un corridoio buio. I mattoni erano scomparsi, come se non ci fossero mai stati. Da quel corridoio veniva un agghiacciante odore di stantio: l’odore di qualcosa di molto vecchio e di molto lento.

Coraline varcò la soglia.

Si domandò che aspetto avesse l’altro appartamento, ammesso che quel corridoio portasse lì.

Coraline percorse il corridoio con una certa inquietudine.

La moquette su cui camminava era identica a quella di casa loro. La carta da parati era identica a quella che avevano loro. Il quadro appeso nell’ingresso era identico a quello appeso nell’ingresso di casa loro.

Sapeva dov’era: a casa sua. Non l’aveva mai lasciata.

Confusa, scosse la testa.

Fissò il quadro appeso alla parete: no, non era esattamente lo stesso. Il quadro nell’ingresso di casa loro ritraeva un ragazzo con abiti all’antica che fissava delle bolle di sapone. Ma ora l’espressione del suo viso era diversa: osservava le bolle come se avesse in mente di fare qualcosa di veramente perfido. E c’era uno strano sguardo nei suoi occhi.

Coraline lo fissò, cercando di capire esattamente cosa avesse di diverso.

C’era quasi arrivata quando qualcuno disse: — Coraline?

Sembrava la voce di sua madre. Coraline andò in cucina, perché la voce veniva da lì. In cucina trovò una donna che le dava le spalle. Assomigliava un po’ a sua madre. Solo che…

Solo che aveva la pelle bianca come la carta.

Solo che era più alta e più magra.

Solo che aveva le dita troppo lunghe, che non stavano mai ferme, e le unghie, adunche e affilate, di un rosso scuro.

— Coraline? — disse la donna. — Sei tu?

Quindi si voltò a guardarla. Al posto degli occhi aveva due grossi bottoni neri.

— È ora di pranzo, Coraline — disse la donna.

— E tu chi sei? — domandò la bambina.

— Sono l’altra tua madre — rispose la donna. — Va’ a dire all’altro tuo padre che il pranzo è pronto. — E aprì lo sportello del forno. All’improvviso, Coraline si rese conto di avere una fame da lupi. E che odorino meraviglioso! — Allora, che aspetti?

Coraline arrivò in fondo al corridoio, dove si trovava lo studio di suo padre. Aprì la porta. All’interno c’era un uomo seduto alla tastiera del computer, che le dava le spalle. — Ciao — disse Coraline. — C-cioè, lei mi ha detto di dirti che è pronto il pranzo.

L’uomo si voltò.

Al posto degli occhi aveva due grossi bottoni neri e scintillanti.

— Ciao, Coraline — disse. — Non ci vedo più dalla fame.

Si alzò e andò con lei in cucina. Si sedettero intorno al tavolo e l’altra madre di Coraline servì il pranzo. Un enorme e dorato pollo arrosto, patate fritte, pisellini verdi. Coraline spazzolò il cibo che aveva nel piatto. Era buonissimo.

— È da un pezzo che ti aspettiamo — disse l’altro padre di Coraline.

— Me?

— Sì — disse l’altra madre. — Senza di te, qui non era più la stessa cosa. Ma sapevamo che un giorno saresti arrivata, e che a quel punto saremmo diventati una vera famiglia. Ti va un altro po’ di pollo?

Era il pollo più buono che Coraline avesse mai mangiato in vita sua. A volte lo faceva anche sua madre, il pollo, ma era sempre precotto o surgelato, veniva sempre troppo asciutto e non sapeva mai di niente. Quando cucinava suo padre, invece, comprava un pollo vero. Solo che poi gli faceva delle cose strane, come farlo stufare nel vino, o riempirlo di prugne, o farlo al forno avvolto nella pasta sfoglia, e Coraline si rifiutava di toccarlo per principio.

Accettò ancora un po’ di pollo.

— Non sapevo di avere un’altra madre — disse Coraline, guardinga.

— Ma certo. Tutti ce l’hanno — disse l’altra madre, con quei bottoni neri che le brillavano al posto degli occhi. — Pensavo che dopo pranzo ti sarebbe piaciuto giocare un po’ in camera tua con i topi.

— I topi?

— Quelli del piano di sopra.

Coraline non aveva mai visto un topo, se non alla televisione. Quasi quasi non vedeva l’ora. In fin dei conti, la giornata si stava rivelando piuttosto interessante.

Dopo pranzo, i suoi altri genitori lavarono i piatti e Coraline andò in fondo al corridoio dove si trovava la sua altra stanza da letto.

Era diversa da quella che aveva a casa. Tanto per cominciare era dipinta di una sgradevole tonalità di verde e rifinita in una singolare tonalità di rosa.

Coraline decise che non avrebbe voluto dormirci, ma che la combinazione di colori era molto più interessante di quella della sua cameretta.

C’erano anche un mucchio di cose straordinarie che non aveva mai visto prima: angeli con dentro un congegno a molla, che fluttuavano nella stanza come passerotti spaventati; libri con illustrazioni che si contorcevano, strisciavano e luccicavano; piccoli teschi di dinosauro che battevano i denti al suo passaggio. Una scatola piena di meravigliosi giocattoli.

Qui è meglio, pensò. Guardò fuori dalla finestra. Il panorama era identico a quello che vedeva dalla finestra della sua stanza: alberi, campi e, oltre i campi, sulla linea dell’orizzonte, lontane colline viola.

Una cosa nera attraversò velocissima il pavimento e scomparve sotto il letto. Coraline si mise ginocchioni e guardò. Cinquanta piccoli occhietti rossi le restituirono lo sguardo.

— Salve — disse Coraline. — Siete voi i topi?

Uscirono da sotto il letto battendo le palpebre per la troppa luce. Avevano il pelo corto e nero come la fuliggine, gli occhi piccoli e rossi, le zampette rosa che sembravano minuscole mani, la coda senza peli che assomigliava a un verme lungo e liscio.

— Sapete parlare? — domandò.

Il topo più grosso e più nero le rispose di no, scuotendo la testa. Il suo sorriso aveva un che di sgradevole, pensò Coraline.

— Bene — domandò — allora, cos’è che fate?

I topi formarono un cerchio.

Quindi cominciarono a salire uno sull’altro, con cautela ma con molta rapidità, finché non ebbero formato una piramide con in cima il topo più grosso.

I topi cominciarono a cantare, con voci acute ma sussurrate:

Abbiamo denti e abbiamo code
Abbiamo code e abbiamo occhi
Prima che tu cadessi qui eravamo
Quando tu qui sarai noi ci alzeremo.

Non era una bella canzone. Coraline era quasi certa di averla già sentita da qualche parte, ma non riusciva a ricordare dove.

Quindi la piramide crollò e i topi cominciarono a sgambettare rapidi e neri in direzione della porta.

L’altro vecchio pazzo del piano di sopra era fermo sulla soglia, con un grande cappello nero fra le mani. I topi gli corsero rapidamente addosso, rintanandosi nelle sue tasche, nella camicia, su per le gambe dei pantaloni, giù per il collo.

Il topo più grosso si arrampicò sulle spalle del vecchio, raggiunse i lunghi baffi grigi, quindi passò davanti a quei grossi bottoni neri che erano gli occhi, e arrivò in cima alla testa.

Pochissimi secondi dopo, l’unica prova che i topi fossero mai stati lì era rappresentata dalle inquiete protuberanze sotto i vestiti dell’uomo, che continuavano a spostarsi da un punto all’altro del suo corpo; e c’era sempre il topo più grosso che da sopra la testa continuava a guardare giù verso Coraline, con i suoi occhietti di un rosso scintillante.

Il vecchio si mise il cappello in testa, e così scomparve anche l’ultimo topo.

— Salve, Coraline — disse l’altro vecchio del piano di sopra. — Ho sentito che eri qui. Per i topi è ora di cena. Ma se ti va, puoi salire con me e guardare mentre gli do da mangiare.

Negli occhi-bottone del vecchio c’era qualcosa di famelico che metteva a disagio Coraline. — No, grazie — rispose. — Vado fuori a esplorare.

Il vecchio annuì, molto lentamente. Coraline sentì che i topi bisbigliavano fra loro, ma non riuscì a capire cosa si stessero dicendo.

E comunque non era tanto sicura di volerlo sapere.

I suoi altri genitori erano fermi sulla soglia della cucina quando lei apparve nel corridoio, con gli stessi identici sorrisi di prima, e la salutarono lentamente con la mano. — Divertiti là fuori — le disse la sua altra madre.

— Noi ti aspettiamo qui — le disse il suo altro padre.

Quando Coraline arrivò alla porta di casa, si voltò a guardarli. La stavano ancora fissando, e la salutavano, e sorridevano.

Coraline uscì di casa e scese le scale.

IV

Dall’esterno la casa sembrava esattamente come prima. O quasi esattamente come prima; la porta di Miss Spink e Miss Forcible era incorniciata da lampadine rosse e blu che si accendevano e si spegnevano a intermittenza, formando delle parole; e le luci si rincorrevano tutt’intorno alla casa. Accese, spente, tutt’intorno. STRABILIANTE! era seguito da TRIONFO e poi da TEATRALE!!!

Era una giornata fredda ma con un bel sole, proprio come quella di prima.

Alle sue spalle ci fu un lieve rumore.

Si voltò. Sul muricciolo accanto a lei c’era un grosso gatto nero, identico al grosso gatto nero che aveva visto sui prati di casa.

— Buon pomeriggio — disse il gatto.

La sua voce sembrava quella che Coraline aveva in fondo alla testa, la voce che usava per immaginare delle parole, ma era la voce di un uomo, non di una ragazza.

— Salve — disse Coraline. — Ho visto un gatto uguale a te nel giardino di casa mia. Tu devi essere l’altro gatto.

Il gatto fece segno di no con la testa. — No — disse. — Io non sono l’altro di nessuno. Io sono io. — E piegò la testa di lato; i suoi occhi verdi luccicavano. — Voi persone siete dappertutto. E i gatti, dal canto loro, devono restare uniti. Non so se mi spiego.

— Immagino di sì. Ma se tu sei il gatto che ho visto a casa, com’è che sai parlare?

I gatti non hanno le spalle come gli esseri umani. Tuttavia, quel gatto fece spallucce, con un lieve movimento che partiva dalla punta della coda e terminava con un crescente vibrare dei baffi. — Io so parlare.

— A casa mia, i gatti non parlano.

— No? — disse il gatto.

— No — ribatté Coraline.

Il gatto saltò agilmente dal muricciolo e atterrò sull’erba, accanto ai piedi di Coraline. Poi alzò lo sguardo e la fissò.

— Be’, l’esperta in queste cose sei tu — disse seccamente il gatto. — In fin dei conti, io che ne posso sapere? Sono solo un gatto.

E cominciò ad allontanarsi, fiero, a testa e coda alta.

— Torna qui — gli disse Coraline. — Per piacere. Ti chiedo scusa. Davvero.

Il gatto si fermò, si mise a sedere e cominciò a lavarsi con molta cura, come se Coraline non ci fosse.

— Noi… noi potremmo diventare amici, sai — disse Coraline.

— Noi potremmo essere rari esemplari di un’esotica razza di elefanti ballerini africani — disse il gatto. — Però non lo siamo. Almeno — aggiunse con tono dispettoso, dopo aver lanciato un’occhiata alla bambina — io non lo sono.

Lei sospirò.

— Per favore. Come ti chiami? — domandò al gatto. — Senti, io mi chiamo Coraline. Okay?

Il gatto sbadigliò lentamente e con attenzione, rivelando una bocca e una lingua di un rosa sorprendente. — I gatti non hanno nome — disse.

— No?

— No — disse il gatto. — Voi persone avete il nome. E questo perché non sapete chi siete. Noi sappiamo chi siamo, perciò il nome non ci serve.

Quel gatto era egocentrico in modo irritante, decise Coraline. Come se si sentisse l’unica creatura importante di qualsiasi mondo o luogo.

Una metà di lei voleva essere molto scortese con lui; l’altra metà, invece, voleva essere cortese e rispettosa. La metà cortese ebbe la meglio.

— Per favore. Che posto è questo?

Il gatto si guardò rapidamente intorno. — È qui — le rispose.

— Questo lo vedo. Be’, e tu come ci sei arrivato?

— Esattamente come te. A piedi — disse il gatto. — Così.

Coraline lo guardò camminare lentamente sul prato. Raggiunse un albero, ci passò dietro ma non sbucò dall’altra parte. Coraline si avvicinò al tronco e guardò. Il gatto era scomparso.

Tornando verso casa sentì un altro lieve rumore alle sue spalle. Era il gatto.

— A proposito — disse. — È stato saggio da parte tua portare una protezione. Se fossi in te, me la terrei ben stretta.

— Protezione?

— È quel che ho detto — disse il gatto. — E comunque …

Si interruppe e fissò intensamente qualcosa che non c’era.

Quindi si abbassò a pochi centimetri dal suolo e si mosse lentamente in avanti, facendo due o tre passi. Sembrava che stesse inseguendo un topo invisibile. Di botto, girò le spalle e se ne andò, sfrecciando in direzione del bosco.

Scomparve fra gli alberi.

Coraline si domandò cosa avesse voluto dire.

Si chiese anche se da dove veniva lei i gatti sapessero tutti parlare e avessero semplicemente deciso di non farlo, o se sapessero parlare solo quando si trovavano qui — ovunque fosse questo qui.

Scese i gradini di mattone che portavano alla porta di Miss Spink e Miss Forcible. Le luci rosse e blu continuavano ad accendersi e a spegnersi a intermittenza.

La porta era aperta, ma appena appena. Bussò e la porta si spalancò subito, così Coraline entrò.

Si ritrovò in una stanza buia in cui c’era odore di polvere e velluto. La porta si richiuse alle sue spalle e la stanza diventò nera. Coraline avanzò lentamente ed entrò in una piccola anticamera. Il suo viso incontrò qualcosa di morbido. Era un panno. Alzò la mano e lo spostò.

Battendo le palpebre, si ritrovò dall’altra parte delle tende di velluto, in un teatro male illuminato. In un angolo lontano della stanza c’era un alto palcoscenico di legno, vuoto e spoglio, illuminato dall’alto da un fioco riflettore.

Diverse poltrone dividevano Coraline dal palcoscenico. File e file di poltrone. Sentì un rumore di passi strascicati e una luce si mosse verso di lei, oscillando di qua e di là. Quando se la ritrovò vicino, si accorse che la luce veniva da una torcia tenuta in bocca da un terrier scozzese nero, con il muso grigio per via dell’età.

— Salve — disse Coraline.

Il cane posò la torcia a terra e guardò la bambina da sotto in su. — Bene. Fammi vedere il biglietto — le disse burbero.

— Il biglietto?

— L’ho appena detto. Il biglietto. Mica posso stare qui tutto il giorno, sai. E senza biglietto non puoi assistere allo spettacolo.

Coraline sospirò. — Non ce l’ho — ammise.

— Eccone un’altra — disse il cane sconfortato. — Che entra qua dentro sfacciata come non mai. «Dov’è il biglietto?» «Non ce l’ho.» — Scosse la testa e poi si strinse nelle spalle. — Avanti, su.

Il cane raccolse la torcia con la bocca e trotterellando penetrò nel buio. Coraline lo segui. Arrivato davanti al palcoscenico, il terrier si fermò e illuminò un posto libero. Lei si sedette e il cane lentamente si allontanò.

Mentre i suoi occhi si abituavano all’oscurità, si rese conto che tutti gli occupanti delle altre poltrone erano cani.

Da dietro le quinte arrivò un sibilo. A Coraline sembrò il rumore di un vecchio disco che grattava mentre lo mettevano sul giradischi. Il sibilo si tramutò in un suono di trombe, e Miss Spink e Miss Forcible entrarono in scena.

Miss Spink era in sella a una bicicletta con una ruota sola e si esibiva in un gioco di destrezza con le palle. Miss Forcible le saltellava dietro, con un cesto di fiori in mano, sparpagliando i petali sul palco. Arrivate sul proscenio, Miss Spink saltò agilmente giù dal monociclo, e le due anziane signore fecero un profondo inchino.

Tutti i cani batterono la coda e abbaiarono entusiasti. Coraline applaudì cortesemente.

Dopodiché le due donne sbottonarono i loro tondeggianti e lanuginosi cappotti e li aprirono. Ma non furono solo i cappotti a venire aperti: anche le due vecchie facce si aprirono come conchiglie vuote, e da quei vecchi corpi vuoti, tondi e lanuginosi, uscirono due giovani donne. Erano magre, pallide e piuttosto graziose, con due bottoni neri per occhi.

La nuova Miss Spink indossava calze verdi e alti stivali marrone, che le coprivano la gamba quasi per intero. La nuova Miss Forcible indossava un abito bianco e aveva dei fiori fra i lunghi capelli biondi.

Coraline si appiattì contro lo schienale della sua poltrona.

Miss Spink uscì di scena e le trombe emisero lunghi suoni striduli, mentre la puntina del grammofono girava nei solchi del disco, che a quel punto venne tolto.

— Questa è la parte che preferisco — sussurrò il cagnolino seduto accanto a lei.

L’altra Miss Forcible estrasse un coltello da una scatola in un angolo del palcoscenico. — È una spada quella che vedo dinanzi a me? — domandò.

— Sì! — gridarono i cani in coro. — Lo è!

Miss Forcible fece la riverenza e i cani applaudirono di nuovo. Questa volta Coraline non si prese il disturbo di battere le mani.

Miss Spink tornò in scena. Si batté una mano sulla coscia e tutti i cagnolini abbaiarono.

— E adesso — disse Miss Spink — Miriam e io abbiamo l’onore di presentare una nuova ed eccitante aggiunta alla nostra rappresentazione teatrale. C’è qualche volontario?

Il cagnolino vicino a Coraline le diede un colpetto con la fronte e le sussurrò: — Sei tu!

Coraline si alzò in piedi e si diresse verso gli scalini di legno del palcoscenico.

— Potrei avere un bell’applauso per la giovane volontaria? — domandò Miss Spink. I cani abbaiarono, guairono e batterono la coda sulle poltrone di velluto.

— Bene, Coraline — disse Miss Spink. — Come ti chiami?

— Coraline — rispose Coraline.

— E noi non ci conosciamo, dico bene?

Coraline guardò quella giovane donna magra con i neri occhi-bottone e scosse la testa, lentamente.

— E ora — disse l’altra Miss Spink — mettiti qui. — E condusse la bambina verso una tavola eretta a un’estremità del palcoscenico, quindi le mise un pallone in testa.

Miss Spink si avvicinò a Miss Forcible, le bendò gli occhi-bottone con un foulard nero e le mise il coltello in mano. Quindi la fece girare su se stessa tre o quattro volte e la fece fermare, rivolta verso Coraline. La bambina trattenne il fiato e strinse fortissimo i pugni.

Miss Forcible lanciò il coltello contro il pallone, che scoppiò con un botto. Il coltello rimase conficcato nella tavola, poco sopra la testa di Coraline, e lì rimase a vibrare. Coraline riprese fiato.

I cani impazzirono.

Miss Spink offrì a Coraline una piccolissima scatola di cioccolatini e la ringraziò per essere stata così di spirito. La bambina tornò al suo posto.

— Sei stata bravissima — le disse il cagnolino.

— Grazie — rispose Coraline.

Miss Forcible e Miss Spink cominciarono a fare dei giochi di destrezza con enormi clave di legno. Coraline aprì la scatola di cioccolatini. Il cagnolino li guardò con grande desiderio.

— Ne gradisci uno? — gli chiese Coraline.

— Grazie. Volentieri — sussurrò il cane. — Ma non al torrone. Mi fanno venire la bava.

— Credevo che la cioccolata non facesse molto bene ai cani — disse Coraline, ricordandosi di quel che le aveva detto una volta Miss Forcible.

— Forse dalle tue parti — sussurrò il cagnolino. — Qui non mangiamo altro.

Al buio, Coraline non riusciva a distinguere i cioccolatini. Provò ad assaggiarne uno che risultò essere al cocco. A lei il cocco non piaceva. E lo diede al cane.

— Grazie — disse il cane.

— Prego — rispose Coraline.

Miss Forcible e Miss Spink erano impegnate in un numero. Miss Forcible sedeva su una scala a libretto, mentre Miss Spink era in piedi sotto di lei.

— Che c’è in un nome? — domandò Miss Forcible. — Ciò che chiamiamo Rosa avrebbe con qualsiasi nome un profumo altrettanto dolce.

— Non so dirti chi sono — disse Miss Spink a Miss Forcible.

— Questa parte finisce presto — sussurrò il cane. — Poi si esibiranno in una danza popolare.

— Quanto dura? — domandò Coraline. — Il teatro, voglio dire?

— Tutto il tempo — rispose il cane. — In eterno.

— Tieni — disse lei. — Ti regalo i cioccolatini.

— Grazie — disse il cane. Coraline si alzò dalla sua poltrona.

— A presto — disse il cane.

— Arrivederci — disse Coraline. Uscì dal teatro e tornò nel giardino. La luce del giorno la costrinse a battere le palpebre.

I suoi altri genitori la stavano aspettando nel giardino, l’uno di fianco all’altra. E sorridevano.

— Ti sei divertita? — le chiese la sua altra madre.

— È stato interessante — rispose Coraline.

E tutti e tre si incamminarono insieme verso l’altra casa di Coraline. L’altra madre le accarezzò i capelli con le sue lunghe dita. Coraline scosse la testa.

— Non farlo — disse Coraline.

L’altra madre ritrasse la mano.

— Allora — disse il suo altro padre. — Ti piace qui?

— Immagino di sì — rispose Coraline. — È molto più interessante che a casa.

Ed entrarono.

— Sono felice che ti piaccia — disse l’altra madre. — Perché amiamo pensare che la tua casa sia questa. Potrai restare per sempre. Se ti va.

— Mmm — fece Coraline. Si infilò le mani in tasca e ci pensò su. Con i polpastrelli toccava il sassolino che le avevano regalato il giorno prima le vere Miss Spink e Miss Forcible, quello con il buco in mezzo.

— Se ti va di restare — le disse l’altro padre — dobbiamo fare solo una piccola cosa, in modo che tu possa rimanere per sempre.

Andarono in cucina. In un piatto di porcellana posato sul tavolo c’erano un rocchetto di cotone nero e un lungo ago d’argento e, accanto a essi, due grossi bottoni neri.

— Non credo proprio! — disse Coraline.

— Oh, ma noi vogliamo che tu lo faccia — disse l’altra madre. — Noi vogliamo che tu rimanga. E questo non è che un dettaglio insignificante.

— Non sentirai nessun dolore — le disse l’altro padre.

Coraline lo sapeva bene: quando i grandi ti dicono che non sentirai nessun dolore, quasi sempre succede il contrario. E scosse la testa.

L’altra madre fece un largo sorriso e i suoi capelli si mossero come piante sott’acqua. — Noi vogliamo solo il tuo bene — disse.

Mise una mano sulla spalla di Coraline. Lei si tirò indietro.

— Adesso vado — disse. E rimise le mani in tasca. Le dita si strinsero intorno al sassolino con il buco.

La mano dell’altra madre si ritrasse dalla spalla di Coraline come un ragno impaurito.

— Se è quello che desideri — disse.

— Sì — ribatté Coraline.

— Ti rivedremo presto, però — disse il suo altro padre. — Quando tornerai qui.

— Ehm — fece Coraline.

— E allora saremo una vera famiglia. Una famiglia unita — disse l’altra madre. — Per l’eternità.

Coraline indietreggiò. Quindi si voltò e a passo svelto andò in salotto e spalancò la porta nell’angolo. Non c’era nessun muro di mattoni, solo il buio; un buio sotterraneo, nero come la notte, che sembrava pieno di cose in movimento.

Coraline esitò. Si voltò indietro. L’altra madre e l’altro padre si stavano dirigendo verso di lei, tenendosi per mano. La guardavano con i loro neri occhi-bottone. O almeno lei pensava che la stessero guardando. Ma non poteva esserne sicura.

La sua altra madre tese la mano e con un dito bianco le fece un cenno di richiamo. E muovendo le pallide labbra disse, senza suono: — Torna presto.

Coraline fece un respiro profondo e avanzò nel buio, dove strane voci sussurravano e venti lontani fischiavano. Adesso aveva la certezza che nel buio dietro di lei ci fosse qualcosa: qualcosa di molto vecchio e molto lento. Il cuore le batteva così forte che temeva potesse esploderle in petto. E chiuse gli occhi davanti al buio.

Alla fine urtò contro qualcosa e, spaventata, aprì gli occhi. Era andata a finire contro una poltrona, nel salotto di casa sua.

La porta alle sue spalle era bloccata da grezzi mattoni rossi.

Era a casa.

V

Coraline chiuse la porta del salotto con la fredda chiave nera.

Tornò in cucina, risalì sulla sedia e provò a rimettere il mazzo di chiavi sull’intelaiatura della porta. Dovette fare quattro o cinque tentativi prima di accettare il fatto che non era abbastanza alta, così le appoggiò sul ripiano accanto alla porta.

Sua madre non era ancora rientrata.

Coraline andò al freezer e prese il filone di pane surgelato che tenevano di riserva nello scomparto inferiore. Si preparò un toast con burro di noccioline e marmellata. E bevve un bicchiere d’acqua.

Poi si mise ad aspettare che i suoi genitori rincasassero.

Quando arrivò il buio, si preparò una pizza surgelata al microonde.

Poi guardò la televisione, domandandosi perché gli adulti si concedessero quei programmi pieni di urla e confusione, dove tutti non facevano che strillare.

Dopo un po’ cominciò a sbadigliare. Quindi si spogliò, si lavò i denti e si mise a letto.

L’indomani mattina entrò nella stanza dei suoi genitori, ma il letto era intatto e di loro due non c’era traccia da nessuna parte. Per colazione mangiò spaghetti in scatola.

Per pranzo mangiò una tavoletta di cioccolato e una mela. La mela era gialla e leggermente raggrinzita, ma era buona e dolce.

Per merenda scese da Miss Spink e Miss Forcible. Mangiò tre biscotti digestivi, un bicchiere di bibita al lime e una tazza di tè leggero. La bibita verde era molto interessante. Non sapeva affatto di lime. Aveva un gusto vagamente chimico. A Coraline piaceva da impazzire. Magari ce l’avesse avuta anche a casa sua!

— E come stanno i tuoi cari mamma e papà? — le domandò Miss Spink.

— Scomparsi — disse Coraline. — Non li vedo da ieri. Sono rimasta sola. Credo che la mia famiglia si sia ridotta a una figlia unica.

— Di’ a tua madre che abbiamo trovato i ritagli di giornale del "Glasgow Empire" di cui le avevamo parlato. Quando Miriam gliene ha accennato, sembrava che fosse molto interessata.

— È scomparsa in circostanze misteriose — disse Coraline — e credo che a mio padre sia capitata la stessa cosa.

— Temo che domani staremo via tutto il giorno, Caroline tesoro — disse Miss Forcible. — Andiamo a trovare la nipote di April a Royal Tunbridge Wells.

Mostrarono a Coraline un album con le foto della nipote di Miss Spink, e poi Coraline tornò a casa.

Aprì il suo salvadanaio e fece un salto al supermercato. Comprò due grosse bottiglie di bibita al lime, una torta al cioccolato e una confezione di mele, quindi tornò a casa e mangiò tutto per cena.

Si lavò i denti e poi andò nello studio di suo padre. Accese il computer e scrisse una storia.

LA STORIA DI CORALINE

C’ERA UNA RAGAZZINA CHE SI CHIAMAVA MELA E CHE BALLAVA TANTO. BALLÒ E BALLÒ FINCHÉ I PIEDI NON LE DIVENTARONO SALZIZZOTTI. FINE.

La stampò e spense il computer. Poi fece il disegno di una ragazzina che danzava sotto le parole scritte sul foglio.

Si preparò un bagno con troppo bagnoschiuma, e la schiuma traboccò dal bordo della vasca inondando il pavimento. Si asciugò e asciugò il pavimento meglio che poté, poi andò a letto.

Coraline si svegliò nel cuore della notte. Andò nella stanza dei suoi genitori, ma il letto era vuoto e intatto. I numeri verdi che brillavano sulla sveglia digitale dicevano: 3:12.

Tutta sola, nel bel mezzo della notte, Coraline scoppiò in lacrime. Nell’appartamento vuoto non si sentivano altri rumori.

Salì sul letto dei genitori e dopo un po’ si riaddormentò.

Coraline venne risvegliata da fredde zampette che le toccavano il viso. Aprì gli occhi. Due occhioni verdi le restituirono lo sguardo. Era il gatto.

— Salve — disse Coraline. — Come hai fatto a entrare?

Il gatto non rispose. Coraline scese dal letto. Indossava una lunga T-shirt e i pantaloni del pigiama. — Sei venuto per dirmi qualcosa?

Il gatto si esibì in uno sbadiglio che gli fece brillare di verde gli occhi.

— Tu lo sai dove sono mamma e papà?

Il gatto le rispose con un lento battito di palpebre.

— Significa sì?

Il gatto batté di nuovo le palpebre. Coraline decise che doveva per forza significare sì. — Mi porteresti da loro?

Il gatto la guardò fisso. Poi uscì nel corridoio. Lei gli andò dietro. Il gatto arrivò in fondo al corridoio e si fermò davanti a uno specchio a figura intera. Molto tempo prima, lo specchio si trovava all’interno dell’anta di un armadio. L’avevano appeso lì solo dopo il trasloco e, sebbene la mamma di Coraline ogni tanto dicesse di volerlo cambiare con uno più nuovo, non l’aveva mai fatto.

Coraline accese la luce del corridoio.

Lo specchio rifletté il corridoio dietro di lei; cos’altro poteva aspettarsi di vedere? Ma, goffamente riflessi nello specchio, c’erano anche i suoi genitori. Sembravano tristi e soli. Mentre Coraline li guardava, la salutarono lentamente con un gesto della mano, senza troppa energia. Il padre di Coraline teneva un braccio attorno alle spalle di sua moglie.

La madre e il padre di Coraline guardavano la figlia attraverso lo specchio. Suo padre aprì bocca e disse qualcosa, ma lei non riuscì a sentire nemmeno una sillaba. Sua madre alitò all’interno dello specchio, e rapidamente, prima che la condensa si dissolvesse, scrisse:

ICATUIA

con il polpastrello dell’indice. La condensa all’interno dello specchio svanì, come pure i suoi genitori. Ora si vedeva solo il riflesso del corridoio, di Coraline e del gatto.

— Dove sono? — domandò Coraline al gatto. Il gatto non rispose, ma Coraline immaginò la sua voce, secca come una mosca stecchita su un davanzale d’inverno, che diceva: Be’, dove credi che siano?

— Non torneranno più, vero? — disse Coraline. — Non senza l’aiuto di qualcuno.

Il gatto si limitò a battere le palpebre. Coraline lo interpretò come un sì.

— Bene — disse. — Allora immagino che ci sia una sola cosa da fare.

Entrò nello studio di suo padre e si sedette alla scrivania. Quindi alzò la cornetta, aprì l’elenco telefonico e chiamò il commissariato di zona.

— Polizia — rispose una ruvida voce maschile.

— Pronto — disse Coraline. — Il mio nome è Coraline Jones.

— Non dovresti già essere a letto da un pezzo, signorina? — le disse il poliziotto.

— Può darsi — rispose Coraline, decisa a non lasciarsi fuorviare — ma sto chiamando per denunciare un crimine.

— E di che crimine si tratterebbe?

— Rapimento. Rapimento-di-due-adulti, per la precisione. I miei genitori sono stati sequestrati in un mondo che si trova dall’altra parte dello specchio che abbiamo nell’ingresso.

— E tu sai chi li ha sequestrati? — le domandò il poliziotto. Coraline percepì un sorrisetto nella voce dell’uomo e si sforzò di assumere un tono adulto, per costringerlo a prenderla sul serio.

— Credo che li tenga in pugno la mia altra madre. Forse vuole trattenerli e cucire loro due bottoni neri sugli occhi; oppure potrebbe trattenerli semplicemente per attirarmi di nuovo nelle sue grinfie. Non ne sono certa.

— Ah. Le nefande grinfie dei diabolici pugni, eh? — disse il poliziotto. — Mmm. Sai cosa ti suggerisco io, signorina Jones?

— No — disse Coraline. — Cosa?

— Chiedi a tua madre di prepararti la classica vecchia tazza di cioccolata calda, e poi di stringerti nel classico vecchio avvolgente abbraccio. Per scacciare gli incubi non c’è niente di meglio di una cioccolata calda e un abbraccio. E se comincia a rimproverarti perché l’hai svegliata a quest’ora della notte, be’, spiegale che te l’ha detto un poliziotto. — La sua voce era profonda e rassicurante.

Coraline, però, non si era affatto tranquillizzata.

— Quando la rivedrò — disse Coraline — glielo dirò. — E mise giù il telefono.

Il gatto nero, che era rimasto seduto sul pavimento a pulirsi il pelo per tutta la durata della conversazione, si alzò e fece strada lungo il corridoio.

Coraline tornò nella sua stanza e si mise la vestaglia azzurra e le pantofole, poi cercò una torcia sotto il lavandino. Ne trovò una, ma le batterie erano mezzo scariche già da un bel pezzo, e la luce che emetteva era ridotta a un pallido alone paglierino. La rimise a posto, trovò una cassetta con dentro le candele di cera bianca che servivano in-caso-d’emergenza, e ne sistemò una nel candeliere. E in ciascuna delle tasche della vestaglia mise una mela. Prese il mazzo di chiavi e tolse dall’anello quella nera.

Andò in salotto e guardò la porta. Aveva la sensazione che la porta ricambiasse lo sguardo; sapeva che era una stupidaggine, ma in fondo in fondo sapeva anche che era vero.

Tornò dunque nella sua stanza e rovistò nella tasca dei jeans. Trovò il sassolino con il buco in mezzo e se lo mise in tasca.

Accese lo stoppino della candela, lo guardò crepitare e poi spandere luce; quindi prese in mano la chiave nera. Era gelida al tatto. La infilò nella serratura della porta, ma non girava.

— Quando ero piccola — disse Coraline al gatto — e abitavamo nella nostra vecchia casa, molto ma molto tempo fa, papà mi portò a fare una passeggiata nel terreno abbandonato che separava casa nostra dai negozi.

«In realtà, non è che fosse il posto ideale per andare a spasso. Era pieno di cose che la gente aveva buttato via: vecchie cucine a gas, piatti rotti, bambole senza braccia e senza gambe, lattine vuote e bottiglie rotte. Mamma e papà mi fecero promettere di non andarci mai da sola durante le mie spedizioni, perché c’erano troppe cose taglienti e poteva venirmi il tetano e cose così.

«Ma io continuavo a dire che volevo esplorare quel posto. Così un giorno mio padre si mise i suoi stivaloni marrone e i guanti, poi mi infilò gli stivali, i jeans e un maglione, e andammo a fare un giro.

«Avremo camminato per una ventina di minuti. Scendemmo lungo un pendio, fin sotto un canalone dove scorreva un torrente, e di colpo papà mi disse: "Coraline, scappa. Risali il pendio. Subito!" Me lo disse con tono severo, disperato, così obbedii. Corsi su per il pendio. Mentre correvo qualcosa mi fece male al braccio, ma io non mi fermai.

«Arrivata in cima alla salita, sentii qualcuno che sfrecciava su per il pendio, dietro di me. Era mio padre, che correva come un rinoceronte alla carica. Quando mi raggiunse, mi prese in braccio e corremmo oltre la sommità della scarpata.

«Poi ci fermammo, ansimando e cercando di riprendere fiato, e guardammo di nuovo in fondo al canalone.

«L’aria pullulava di vespe gialle. Forse camminando avevamo calpestato un nido in un tronco marcio. Mentre correvo su per la salita, mio padre si era fermato per darmi il tempo di scappare, e l’avevano punto. E correndo gli erano caduti gli occhiali.

«Io ci avevo rimediato una sola puntura sul braccio. Lui, ben trentanove punture su tutto il corpo. Le contammo dopo, facendo il bagno.»

Il gatto nero cominciò a lavarsi muso e baffi con crescente impazienza. Coraline allungò il braccio verso di lui e gli accarezzò la schiena, la testa e il collo. Il gatto si rialzò, fece qualche passo finché si trovò fuori portata, quindi si rimise a sedere e alzò di nuovo lo sguardo su di lei.

— Così — disse Coraline — più tardi, sempre quel pomeriggio, mio padre tornò là per riprendersi gli occhiali. Disse che se avesse rimandato di un altro giorno, poi non si sarebbe più ricordato il punto esatto in cui gli erano caduti.

«E poco dopo tornò a casa con gli occhiali sul naso. Disse che non aveva avuto paura, mentre era fermo lì con le vespe che lo pungevano e gli facevano male, mentre mi guardava correre via. Perché sapeva che doveva darmi il tempo di scappare, altrimenti le vespe avrebbero inseguito tutti e due.»

Coraline girò la chiave nella toppa, che scattò con un sonoro clangore.

La porta si spalancò.

Dall’altra parte non c’era nessun muro di mattoni: solo il buio. Dal corridoio soffiava un gelido vento.

Coraline rimase ferma dov’era.

— E mi disse che non era stato coraggioso, restando lì fermo a farsi pungere — disse Coraline al gatto. — Non era stato coraggioso perché non aveva avuto paura: quella era l’unica cosa che potesse fare. Ma quando era tornato a riprendersi gli occhiali, sapendo che lì c’erano le vespe, aveva veramente paura. Quello era stato vero coraggio.

Mosse il primo passo lungo il corridoio.

Sentiva odore di chiuso, di polvere e di umidità.

Il gatto avanzava lentamente accanto a lei.

— E perché mai? — le domandò il gatto, con un tono che rivelava scarso interesse.

— Perché — disse Coraline — quando hai paura di qualcosa, ma la fai comunque, quello è coraggio.

La candela gettava enormi, bizzarre ombre tremolanti lungo la parete. Coraline sentì che qualcosa si muoveva nel buio accanto a lei, di lato, non ne era sicura. Qualunque cosa fosse, sembrava che accordasse il passo con il suo.

— Ed è per questo motivo che stai tornando nel mondo di lei, allora? — disse il gatto. — Perché una volta tuo padre ti ha salvata dalle vespe?

— Non dire sciocchezze — replicò Coraline. — Torno a prenderli perché sono i miei genitori. Perché se fossi stata io a scomparire, loro avrebbero fatto esattamente la stessa cosa. Ti sei accorto che stai di nuovo parlando?

— Ma quanto sono fortunato — disse il gatto — ad avere una compagna di viaggio dotata di tanta saggezza e intelligenza. — Il suo tono era sarcastico, ma i peli gli si erano drizzati, e quella spazzola di coda svettava rigida in aria.

Coraline stava per dire qualcosa, del tipo scusa o il tragitto non era più breve l’altra volta? quando la candela si spense all’improvviso, come se fosse stata smorzata dalla mano di qualcuno.

Ci fu un raspare e un picchiettare, e Coraline sentì che il cuore le batteva forte contro le costole. Tese una mano… e una cosa filiforme, come una ragnatela, le sfiorò il viso e le mani.

In fondo al corridoio si accese la luce, accecante dopo tutto quel buio. Un po’ più avanti, in controluce, c’era una donna.

— Coraline? Tesoro? — disse.

— Mamma! — disse lei raggiungendola di corsa, impaziente e sollevata.

— Tesoro — disse la donna. — Perché sei scappata via da me?

Coraline era ormai troppo vicina per fermarsi, e sentì le gelide braccia dell’altra madre stringerla in un abbraccio. Rimase ferma e tremante mentre l’altra madre la teneva stretta.

— Dove sono i miei genitori? — domandò Coraline.

— Siamo qui — rispose l’altra madre, con una voce così uguale a quella della sua vera madre che Coraline fece fatica a distinguerle. — Siamo qui. Siamo pronti a volerti bene, a giocare con te, a darti da mangiare e a renderti la vita interessante.

Coraline si ritrasse e l’altra madre la lasciò andare, con riluttanza.

L’altro padre, che era rimasto seduto su una poltrona nel corridoio, si alzò in piedi e sorrise. — Vieni in cucina — le disse. — Preparerò uno spuntino di mezzanotte per tutti noi. Sicuramente ti andrà qualcosa da bere… magari una cioccolata calda?

Coraline attraversò il corridoio e raggiunse lo specchio in fondo, dove non si rifletteva altro che una ragazzina in vestaglia e pantofole, che rivelava i segni di un pianto recente, i cui occhi erano veri e non erano stati sostituiti da bottoni neri, e che stringeva saldamente in mano un candeliere con la candela spenta.

Guardò la ragazzina riflessa nello specchio e lei le restituì lo sguardo.

Sarò coraggiosa, pensò Coraline. Anzi, io sono coraggiosa.

Posò la candela sul pavimento e si voltò. L’altra madre e l’altro padre la guardavano con occhi famelici.

— Non mi serve nessuno spuntino — disse Coraline. — Mi sono portata una mela. Vedete? — E tirò fuori una mela dalla tasca della vestaglia, quindi le diede un morso con un gusto e un entusiasmo che in realtà non provava.

L’altro padre fece la faccia delusa. L’altra madre sorrise, mettendo in mostra una fila di denti, e ogni dente era leggermente troppo lungo. Le luci del corridoio facevano brillare i neri occhi-bottone.

— Non mi mettete mica paura — disse Coraline, benché la spaventassero, e pure tanto. — Rivoglio indietro i miei genitori.

Sembrava che il mondo brillasse debolmente ai margini del buio.

— Che posso averci mai fatto con i tuoi vecchi genitori? Se ti hanno abbandonata, Coraline, sarà perché gli eri venuta a noia, o li avevi stancati. A me, però, non verrai mai a noia, e non ti abbandonerò mai. Qui con me starai sempre al sicuro. — I neri capelli dell’altra madre, che parevano bagnati, fluttuavano da tutte le parti come i tentacoli di una creatura degli abissi.

— Non gli ero affatto venuta a noia — disse Coraline. — Stai mentendo. Li hai rubati tu!

— Sciocca, sciocca Coraline. Loro stanno bene dove sono.

Coraline si limitò a guardare in cagnesco l’altra madre.

— E te lo dimostrerò — disse l’altra madre, passando le sue lunghe e bianche dita sulla superficie dello specchio. Lo specchio si appannò, come se un drago ci avesse alitato sopra, e poi si schiarì di nuovo.

Nello specchio si era già fatto giorno. Coraline stava guardando il corridoio che correva dalla porta d’ingresso. La porta si aprì dall’esterno ed entrarono la madre e il padre di Coraline, con le valigie in mano.

— È stata proprio una bella vacanza — disse il padre di Coraline.

— Che bello esserci liberati di Coraline — disse sua madre con un sorriso di felicità. — Adesso potremo fare tutto quello che abbiamo sempre desiderato, come andare all’estero, ma che non abbiamo mai potuto fare perché avevamo una figlia piccola.

— E — aggiunse suo padre — mi consola moltissimo sapere che la sua altra madre si prenderà cura di lei, meglio di quanto avremmo mai potuto fare noi.

Lo specchio si appannò di nuovo, quindi si schiarì e rifletté un’altra volta la notte.

— Capito? — disse l’altra madre.

— No — disse Coraline. — Non capisco niente. E nemmeno ci credo.

Sperava che quanto aveva appena visto non fosse vero, ma il suo tono sicuro non corrispondeva affatto a ciò che provava. In lei si era insinuato un piccolo dubbio, come un verme dentro una mela. Quindi alzò gli occhi e vide l’espressione sul volto dell’altra madre: un lampo di autentica ira, che le attraversò il viso come il lampo di un temporale estivo, e in cuor suo Coraline ebbe la certezza che la scena nello specchio era solo un’illusione.

Coraline si mise a sedere sul divano e mangiò la sua mela.

— Ti prego — disse l’altra madre. — Non fare la difficile. — Entrò nel salotto e batté due volte le mani. Si sentì un fruscio e apparve un ratto nero. L’animale alzò lo sguardo verso di lei. — Portami la chiave — gli ordinò.

Il ratto squittì, poi varcò di corsa la porta aperta che conduceva nell’appartamento di Coraline.

Il ratto tornò trascinandosi dietro la chiave.

— Come mai non avete la vostra chiave, da questa parte? — domandò Coraline.

— Perché ce n’è una sola. E una sola porta — disse l’altro padre.

— Shh — fece l’altra madre. — Non devi turbare la testolina della nostra cara Coraline con queste sciocchezze. — Infilò la chiave nella toppa e girò. La serratura resistette, ma poi si chiuse con uno scatto metallico.

L’altra madre lasciò cadere la chiave nella tasca del suo grembiule da cucina.

Fuori, il cielo aveva cominciato a tingersi di un grigio luminescente.

— Se non vogliamo fare nessuno spuntino di mezzanotte — disse l’altra madre — abbiamo comunque bisogno del nostro sonno di bellezza. Io me ne torno a letto, Coraline. E ti raccomando caldamente di fare lo stesso.

Mise le lunghe e bianche dita sulle spalle dell’altro padre e lo guidò fuori dalla stanza.

Coraline raggiunse la porta nell’angolo estremo del salotto. Cercò di aprirla a strattoni, ma era chiusa saldamente. Anche la porta della stanza dei suoi altri genitori era chiusa.

Era stanca, certo, ma non aveva nessuna intenzione di dormire in camera sua. Non voleva dormire sotto lo stesso tetto dell’altra madre.

La porta di casa non era chiusa a chiave. Coraline uscì nella luce dell’alba e scese i gradini di pietra. Si sedette sul primo gradino in fondo alle scale. Era ghiacciato.

Sentì qualcosa di peloso premerle sul fianco, con un movimento subdolo e mellifluo. Coraline fece un salto, poi tirò un sospiro di sollievo quando capì di cosa si trattava.

— Oh! Sei tu — disse al gatto nero.

— Lo vedi? — ribatté il gatto. — Non è stato così difficile riconoscermi, no? Anche senza nomi.

— Be’. E se avessi voluto chiamarti?

Il gatto arricciò il naso e riuscì ad assumere un’espressione di indifferenza. — Mettere un nome ai gatti — rivelò a Coraline — è un’attività alquanto sopravvalutata. Tanto varrebbe mettere nome a una tromba d’aria.

— E se fosse l’ora di cena? — gli domandò lei. — Allora non vorresti che ti chiamassero?

— Naturalmente — disse il gatto. — Ma basterebbe semplicemente gridare: "La cena!" Non c’è nessun bisogno dei nomi.

— Perché quella mi vuole? — domandò Coraline al gatto. — Perché vuole che resti qui con lei?

— Vuole qualcosa a cui voler bene, immagino — le rispose il gatto. — Qualcosa che non sia lei stessa. E forse vuole anche qualcosa da mangiare. È difficile stabilirlo, con creature di quel genere.

— Hai qualche consiglio da darmi? — gli domandò Coraline.

Il gatto aveva l’espressione di chi sta per dire qualcosa di sarcastico. Poi mosse i baffi e disse: — Sfidala. Non c’è nessuna garanzia che giochi pulito, ma quelli come lei amano i giochi e le sfide.

— E chi sono quelli come lei? — domandò Coraline.

Ma il gatto non rispose, si limitò a stiracchiarsi beatamente e poi cominciò ad allontanarsi. A un certo punto si fermò, si voltò e disse: — Se fossi in te entrerei in casa. Cerca di dormire. Ti aspetta una giornata molto lunga.

E il gatto scomparve. Tuttavia, si rese conto Coraline, aveva ragione lui. Rientrò furtivamente nella casa silenziosa, passò davanti alla porta chiusa della stanza da letto dietro la quale l’altra madre e l’altro padre… cosa facevano?, si domandò. Dormivano? Aspettavano? E poi le venne in mente che, se avesse aperto la porta, avrebbe trovato la stanza vuota; anzi, più precisamente, che quella era una stanza vuota e che sarebbe rimasta vuota fino all’esatto momento in cui lei avrebbe aperto la porta.

In un certo senso, così diventava tutto più facile. Coraline entrò nella parodia rosa e verde della sua stanza. Chiuse la porta e la bloccò con la scatola dei giocattoli; non avrebbe di certo impedito a nessuno di entrare, ma il rumore che avrebbero fatto se avessero tentato di spostarla l’avrebbe di certo svegliata, o così sperava.

I giocattoli nella scatola dormivano quasi tutti, ma si girarono nel sonno e mormorarono qualcosa, quindi si riaddormentarono. Coraline controllò sotto il letto per vedere se ci fossero i ratti, ma non c’era niente. Si tolse la vestaglia e le pantofole, si mise a letto e si addormentò, senza avere il tempo di riflettere su cosa intendesse dire il gatto quando aveva parlato di una sfida.

VI

Coraline venne svegliata dal sole di metà mattina, che le illuminava il viso.

Per un istante si sentì profondamente scombussolata. Non capiva dove si trovasse; non era nemmeno del tutto sicura di chi fosse. È sorprendente come ciò che siamo possa dipendere dal letto in cui ci risvegliamo al mattino, ed è sorprendente quanto tutto ciò possa rivelarsi fragile.

C’erano volte in cui Coraline dimenticava chi fosse, quando sognava a occhi aperti di esplorare l’Artico, o la foresta pluviale amazzonica, o l’Africa più ignota… e solo quando qualcuno le batteva la mano sulla spalla o la chiamava per nome, lei tornava con un sussulto da un milione di miglia di distanza, e in una sola frazione di secondo doveva ricordarsi chi era, e come si chiamava, e che si trovava proprio lì.

Adesso aveva il sole in faccia, ed era Coraline Jones. Sì. E a quel punto il rosa e il verde della stanza in cui si trovava, e il fruscio di una grande farfalla di carta dipinta che svolazzava verso il soffitto battendo le ali, le dissero che si era svegliata.

Scese dal letto. Giunse alla conclusione che non poteva indossare pigiama, vestaglia e pantofole durante il giorno, anche se sarebbe stata costretta a indossare i vestiti dell’altra Coraline. (Esisteva un’altra Coraline? No, decise che non esisteva. Esisteva lei e basta.) Nell’armadio, però, non c’erano dei veri vestiti, e comunque non del genere che le sarebbe piaciuto trovare nell’armadio di casa sua: uno sbrindellato costume da strega; un costume da spaventapasseri tutto toppe; un costume da guerriero del futuro ornato di piccole luci che scintillavano, accendendosi e spegnendosi a intermittenza; un attillato abito da sera pieno di piume e lustrini. Alla fine, in un cassetto, trovò un paio di jeans neri che sembravano fatti di notte vellutata, e un maglione grigio del colore del fumo denso, con delicate e minuscole stelle di tessuto luccicante.

Indossò jeans e maglione. Poi calzò un paio di stivali arancione brillante che trovò in fondo all’armadio.

Dalla tasca della vestaglia prese l’ultima mela e poi, sempre dalla stessa tasca, il sassolino con il buco.

Si mise il sassolino nella tasca dei jeans e si sentì la testa leggermente più libera. Come se fosse uscita da una specie di nebbia.

Andò in cucina, ma la trovò deserta.

Eppure aveva la certezza che nell’appartamento ci fosse qualcuno. Raggiunse lo studio in fondo al corridoio, e scoprì che era occupato.

— Dov’è l’altra madre? — domandò all’altro padre, che era seduto dietro una scrivania identica a quella del suo padre vero. Lui però non stava facendo assolutamente niente; non stava nemmeno leggendo i cataloghi di giardinaggio che leggeva suo padre quando faceva finta di lavorare.

— Fuori — le rispose lui. — A riparare le porte. Ci sono problemi con i parassiti. — Sembrava che gli facesse piacere avere qualcuno con cui scambiare una parola.

— I ratti, intendi dire?

— No, i ratti sono nostri amici. Si tratta di quell’altro, quel grosso coso nero con la coda dritta.

— Il gatto, vuoi dire?

— Esattamente — disse l’altro padre.

Oggi assomigliava meno al suo vero padre. Il viso era leggermente gonfio, come la pasta del pane che comincia a lievitare, spianando bozzi, crepe e buchi.

— A dire il vero, quando lei non c’è non dovrei parlare con te — disse. — Ma stai tranquilla. Non andrà via tanto spesso. Ti dimostrerò quanto siamo amorevolmente ospitali, così non ti verrà più in mente di andartene. — Chiuse la bocca e incrociò le braccia sul ventre.

— E allora, adesso che devo fare? — domandò Coraline.

L’altro padre si portò un dito alle labbra. Silenzio.

— Se non mi parli nemmeno — disse Coraline — esco a esplorare.

— Inutile — disse l’altro padre. — Non esiste altro luogo che questo. E l’ha creato lei: la casa, il prato e la gente nella casa. L’ha creato e si è messa ad aspettare. — Poi prese un’espressione imbarazzata e di nuovo si portò un dito alle labbra, come se avesse detto anche troppo.

Coraline uscì dallo studio. Entrò in salotto, si diresse verso la vecchia porta, la tirò, la strattonò, la scosse. Niente. Era ben chiusa, e la chiave ce l’aveva l’altra madre.

Lanciò un’occhiata intorno alla stanza. Era così familiare… e fu proprio questo a farla sentire tanto strana. Tutto era esattamente come se lo ricordava: i mobili di sua nonna con il loro strano odore, il dipinto con la fruttiera (un grappolo d’uva, due prugne, una pesca e una mela) appeso alla parete, il basso tavolinetto di legno con i piedi di leone, il caminetto vuoto che sembrava risucchiare il calore dalla stanza.

Ma c’era dell’altro, qualcosa che non ricordava di aver mai visto prima. Una sfera di cristallo, sopra la mensola del caminetto.

Si avvicinò in punta di piedi e la tirò giù. Era un globo con la neve, con due minuscole figure dentro. Coraline lo agitò e smosse la neve, neve immacolata che scintillava vorticando nell’acqua.

Rimise il globo al suo posto e riprese a cercare i suoi veri genitori e una via d’uscita.

Uscì dall’appartamento. Oltrepassò la porta con le luci, dietro la quale le altre Miss Spink e Miss Forcible portavano ininterrottamente avanti il loro spettacolo, e prese la strada del bosco.

Una volta tra gli alberi non si vedeva altro che il prato e il vecchio campo da tennis. Qui il bosco continuava e gli alberi diventavano più spogli; e più avanti si andava, meno sembravano alberi.

Ben presto ebbero un aspetto molto approssimativo, più simili a un’idea di albero che a una pianta vera: un tronco grigio-marrone, con sopra una macchia verdastra che rappresentava le foglie.

Coraline si domandò se l’altra madre non fosse interessata agli alberi, o se semplicemente non si fosse impegnata più di tanto nel creare questa parte del bosco, perché non si aspettava che qualcuno si prendesse la briga di spingersi fin là.

Continuò a camminare.

E poi si alzò la foschia.

Non era umida, come una normale nebbia. Non era né fredda né calda. A Coraline sembrava di camminare nel nulla.

Sono un’esploratrice, pensò. E devo trovare tutte le possibili vie di fuga. Così continuerò a camminare.

Il mondo che stava attraversando era un pallido nulla, come un foglio di carta bianco o un’enorme stanza bianca e vuota. Non c’era temperatura, né odore, né consistenza, né sapore.

Di certo non è foschia, pensò Coraline, pur non sapendo bene cosa fosse. Per un istante ebbe il dubbio di essere diventata cieca. Ma no, riusciva benissimo a vedere se stessa, chiara come il giorno. Sotto i suoi piedi non c’era la terra, solo un biancore latteo e brumoso.

— Che cosa credi di fare? — disse una sagoma al suo fianco.

I suoi occhi ci misero un po’ per metterla a fuoco. Al principio pensò che fosse una specie di leone, a una certa distanza da lei; poi pensò che fosse un topo, vicino a lei. E poi capì di cosa si trattava.

— Sto esplorando — disse Coraline al gatto.

Il gatto aveva i peli dritti e gli occhi sgranati, e teneva la coda bassa, tra le zampe. Non sembrava un gatto felice.

— Brutto posto — disse il gatto. — Sempre che ti sembri il caso di chiamarlo posto; a me no. Che ci fai tu qui?

— Sto esplorando.

— Qui non c’è niente da trovare — disse il gatto. — Questo è solo il fuori, la parte che lei non si è presa il disturbo di creare.

— Lei?

— Quella che dice di essere la tua altra madre — disse il gatto.

— Che cos’è lei? — domandò Coraline,

Il gatto non rispose, si limitò a procedere lentamente al fianco di Coraline nella pallida foschia.

Qualcosa cominciò a delinearsi davanti a loro, qualcosa di alto e nero.

— Ti sbagliavi! — disse Coraline al gatto. — Qualcosa c’è!

E nella foschia prese subito forma una casa scura, che si stagliava davanti ai loro occhi nell’informe biancore.

— Ma quella… — disse Coraline.

— La casa da cui sei appena uscita — le confermò il gatto. — Precisamente.

— Forse ho semplicemente girato in tondo nella foschia — disse Coraline.

Il gatto arricciò la punta della coda formando un punto interrogativo, e inclinò la testa di lato. — Forse tu - disse. — Di certo non io.

— Ma come puoi allontanarti da qualcosa e poi ritrovartici davanti?

— Facile — disse il gatto. — Pensa a qualcuno che gira intorno al mondo. Si comincia allontanandosi da un punto al quale poi si finisce col ritornare.

— Piccolo il mondo! — disse Coraline.

— Abbastanza grande per lei — disse il gatto. — Le ragnatele devono essere sufficientemente grandi per catturare le mosche.

Coraline rabbrividì.

— Lui ha detto che sta sistemando tutti i cancelli e le porte — disse al gatto — per tenerti fuori.

— Che ci provi - disse il gatto con indifferenza. — Oh, sì. Che ci provi. — Adesso si trovavano accanto alla casa, sotto un gruppetto di alberi che sembravano molto più verosimili. — Ci sono vie d’entrata e vie d’uscita di cui lei nemmeno immagina l’esistenza.

— Questo posto l’ha fatto lei, allora? — chiese Coraline.

— Fatto, trovato, che differenza fa? — le domandò il gatto. — In un caso o nell’altro, lo possiede da tantissimo tempo. Aspetta un attimo… — e il gatto venne percorso da un fremito, quindi fece un salto, e prima che Coraline battesse ciglio, era di nuovo seduto e con una zampa bloccava un grosso ratto nero. — I ratti non mi piacciono comunque — disse il gatto in tono colloquiale, come se nulla fosse successo — ma in questo posto sono tutte spie al suo servizio. Lei li usa come fossero le sue mani e i suoi occhi… — e detto ciò, il gatto liberò la sua preda.

Il ratto corse per circa un metro e poi il gatto, con un sol balzo, gli fu sopra e lo colpì con gli artigli di una zampa, mentre con l’altra lo teneva fermo. — Adoro questa parte della faccenda — disse con tono soddisfatto. — Vuoi che te la mostri di nuovo?

— No — disse Coraline. — Perché lo fai? Così lo torturi.

— Mmm — fece il gatto. Quindi lasciò libero il ratto.

Quello incespicò, stordito, poi si mise a correre. Con un colpo di zampa, il gatto lo fece volare in aria, afferrandolo con la bocca mentre cadeva.

— Smettila! — gridò Coraline.

Il gatto fece cadere a terra il ratto, fra le sue zampe anteriori. — C’è chi afferma — disse il gatto con un sospiro e in tono eccessivamente soave — che i gatti abbiano la spietata tendenza a giocare con la propria preda; però, in fin dei conti, ci sono gatti che ogni tanto permettono al loro occasionale e simpatico spuntino di scappare. Tu con quale frequenza ti lasci sfuggire la cena?

Quindi prese in bocca il ratto e lo portò nel bosco, dietro un albero.

Coraline rientrò in casa.

Tutto era silenzioso, vuoto e deserto. Persino i suoi passi sulla moquette sembravano far rumore. I granelli di polvere erano sospesi in uno spiraglio di luce solare.

In fondo al corridoio c’era lo specchio. Coraline poteva vedere se stessa camminare verso di esso, e il suo riflesso le sembrava un po’ più coraggioso di quanto lei non si sentisse. Nello specchio non c’era altro. Solo una bambina in corridoio.

Una mano le toccò la spalla, e lei alzò lo sguardo. L’altra madre guardò Coraline dall’alto, con i suoi grossi e neri occhi-bottone.

— Coraline, tesoro mio — disse. — Pensavo che forse avremmo potuto fare qualche gioco insieme, ora che sei tornata dalla tua passeggiata. Campana? Monopoli? Carte?

— Tu nello specchio non c’eri — disse Coraline.

L’altra madre sorrise. — Degli specchi — disse — non bisogna mai fidarsi. Allora, a che gioco giochiamo?

Coraline scosse la testa. — Con te non ci voglio giocare — disse. — Io voglio tornare a casa e stare insieme ai miei veri genitori. Voglio che tu li lasci liberi. Che ci lasci liberi tutti.

L’altra madre scosse la testa, molto lentamente. — Più pungente del dente di una serpe — disse — è l’ingratitudine di una figlia. Tuttavia, l’amore può piegare anche l’animo più orgoglioso. — E le sue lunghe e bianche dita si mossero, accarezzando l’aria.

— Io non ho in programma di volerti bene — disse Coraline. — Sia quel che sia. Non puoi mica costringermi a volerti bene.

— Parliamone — disse l’altra madre, voltandosi ed entrando nel salotto. Coraline le andò dietro.

L’altra madre si sedette sul grande sofà. Prese una borsetta marrone che era posata di lato al divano e ne estrasse un bianco, frusciante sacchetto di carta.

Quindi tese il sacchetto verso Coraline. — Ne vuoi uno? — le domandò in tono cortese.

Aspettandosi di trovarci dei bonbon, Coraline guardò nel sacchetto, pieno a metà. Dentro c’erano grossi e lucidi scarafaggi, che strisciavano uno sopra l’altro nel tentativo di uscire.

— No — disse Coraline. — Non ne voglio nessuno.

— Contenta tu! — disse l’altra madre. Con molta attenzione, scelse uno scarafaggio particolarmente grosso e nero, gli strappò le zampe (che fece cadere ordinatamente in un grosso portacenere di vetro posato sul tavolinetto basso), e se lo mise in bocca. Quindi lo sgranocchiò felice.

— Squisito — disse. E ne prese un altro.

— Tu sei matta — disse Coraline. — Matta, cattiva e strampalata.

— È così che ti rivolgi a tua madre? — le domandò l’altra madre con la bocca piena di scarafaggi.

— Tu non sei mia madre — ribatté Coraline.

L’altra madre ignorò questo commento. — Credo che tu ti sia un po’ sovreccitata, Coraline. Oggi pomeriggio potremmo ricamare un po’, oppure dipingere qualche acquerello. Poi ceneremo e dopo, se avrai fatto la brava, potrai giocare con i ratti prima di andare a letto. E io ti leggerò una storia e ti rimboccherò le coperte, e ti darò il bacio della buonanotte. — Le sue lunghe e bianche dita fluttuavano delicatamente, come una farfalla stanca, e Coraline rabbrividì.

— No — disse.

L’altra madre sedeva sul divano. La sua bocca disegnava una linea retta, interrotta da una smorfia. Si infilò tra le labbra un altro scarafaggio e poi un altro ancora, come se tenesse in mano un sacchetto di uva passa ricoperta di cioccolato. I suoi grossi e neri occhi-bottone guardavano dritto negli occhi nocciola di Coraline. I capelli neri e lucidi le svolazzavano sul collo e sulle spalle, come se stesse soffiando un vento che Coraline non poteva né sentire né percepire.

Si fissarono negli occhi per oltre un minuto. Poi, l’altra madre disse: — Educazione! — Richiuse il sacchetto di carta bianca con molta cura, in modo che nessuno scarafaggio potesse scappare, e lo rimise nella borsa. Quindi si tirò su, e su, e su: sembrava più alta di quanto Coraline ricordasse. Infilò una mano nella tasca del grembiule e ne estrasse la chiave nera, che guardò con aria aggrondata e poi gettò nella borsetta, quindi tirò fuori una minuscola chiave argentata e la sollevò con fare trionfante. — Ecco qua — disse. — Questa è per te, Coraline. Per il tuo stesso bene. Perché io ti voglio bene. Per insegnarti le buone maniere. È l’educazione che distingue l’uomo, in fin dei conti.

Ricondusse Coraline nel corridoio, avanzando verso lo specchio che era in fondo. Quindi infilò la minuscola chiave nell’intelaiatura dello specchio e girò.

Lo specchio si aprì come una porta, rivelando uno spazio buio. — Potrai uscire di qua solo quando avrai imparato un po’ di buone maniere — le disse l’altra madre. — E quando sarai pronta a diventare una figlia adorabile.

Tirò su Coraline e la spinse nell’oscuro spazio dietro lo specchio. Un frammento di scarafaggio pendeva dal labbro inferiore dell’altra madre, e i suoi neri occhi-bottone erano del tutto inespressivi.

Quindi richiuse la porta-specchio, lasciando Coraline al buio.

VII

Coraline sentiva che un pianto disperato stava sgorgando da qualche parte dentro di lei. Ma riuscì a frenarsi in tempo. Inspirò profondamente e poi espirò. Tese le mani per calcolare lo spazio in cui si trovava prigioniera. Era grande quanto un ripostiglio per le scope: sufficientemente alto per starci in piedi oppure seduta, ma non abbastanza largo o profondo da potercisi sdraiare.

Una parete era di vetro, e al tatto si rivelò gelida.

Perlustrò lo stanzino una seconda volta, passando le mani su ogni superficie raggiungibile, alla ricerca di maniglie o interruttori o chiavistelli camuffati — una possibile via d’uscita — ma non trovò nulla.

Poi la sua mano sfiorò qualcosa che assomigliava alla guancia o alle labbra di qualcuno, piccole e fredde, e una voce le sussurrò nell’orecchio: — Shh! Taci. Non dire una parola, la megera potrebbe sentire!

Coraline non fiatò.

Sentì una mano fredda sul viso, dita che le correvano sulla pelle come il battito delicato delle ali di una falena.

Un’altra voce, titubante e così flebile che Coraline si domandò se non la stesse immaginando, disse: — Tu sei… tu sei viva?

— Sì — sussurrò Coraline.

— Povera bambina — disse la prima voce.

— Chi siete? — domandò Coraline con un bisbiglio.

— Nomi, nomi, nomi — disse un’altra voce lontana. — I nomi sono la prima cosa che se ne va, dopo il respiro, dopo il battito del cuore. Noi conserviamo i ricordi più a lungo dei nostri nomi. Ancora rivedo le immagini della mia governante in certe mattine di maggio, mentre portava il mio cerchio e la mia bacchetta, e il sole del mattino dietro di lei, e i tulipani che dondolavano al vento. Ma il nome della mia governante l’ho dimenticato, e anche quello dei tulipani.

— Non credo che i tulipani abbiano un nome — disse Coraline. — Sono tulipani e basta.

— Può darsi — disse mestamente quella voce. — Ma io ho sempre creduto che un nome dovessero averlo. Erano rossi, e rossi e arancio, e rossi e arancio e gialli, come i tizzoni del focolare di una stanza dei bambini in una sera d’inverno. Io me li ricordo.

Quella voce sembrava così triste che Coraline tese una mano verso il punto da cui sembrava provenire, e trovò una mano fredda, che strinse forte.

I suoi occhi cominciavano ad abituarsi al buio. Adesso Coraline vedeva, o immaginava di vedere, tre sagome indistinte e pallide come la luna nel cielo diurno. Erano le sagome di bambini più o meno della sua statura. Quella gelida mano ricambiò la stretta. — Grazie — disse la voce.

— Sei una femmina: — … domandò Coraline. — O un maschio?

Ci fu un silenzio. — Da piccolo portavo le gonne e avevo i capelli lunghi e i boccoli — disse con tono dubbioso. — Ma adesso che me lo chiedi, mi sembra che un giorno mi abbiano tolto le gonne per mettermi i pantaloni alla zuava, e mi abbiano tagliato i capelli.

— Non è una cosa a cui pensiamo, di solito — disse la prima voce.

— Un maschio, forse — continuò la voce legata alla mano che stava tenendo. — Credo di essere stato un maschio, un tempo. — E nel buio dello stanzino dietro lo specchio ci fu un po’ più di luce.

— Che è successo a tutti voi? — domandò Coraline. — Come siete arrivati qui?

— È stata lei a lasciarci qui — disse una delle voci. — Ci ha rubato il cuore, l’anima, la vita, e ci ha lasciati qui, dimenticandosi di noi nel buio.

— Poverini — disse Coraline. — Da quant’è che siete qui?

— Da tantissimo tempo — disse una voce.

— Io sono passato dalla porta del retrocucina — disse la voce di quello che in passato credeva di essere stato un maschio — e mi sono ritrovato in salotto. Però lei era lì ad aspettarmi. Mi ha detto di essere la mia altra mamma, ma la mia vera mamma non l’ho più rivista.

— Fuggi! — disse la voce che aveva parlato per prima — un’altra femmina, immaginò Coraline. — Fuggi, finché hai aria nei polmoni e sangue nelle vene e possiedi ancora la tua mente e la tua anima.

— Io non scappo — disse Coraline. — I miei genitori ce li ha lei. E io sono venuta a riprendermeli.

— Ah, ma lei ti terrà qui finché i giorni non diventeranno polvere, le foglie cadranno e gli anni passeranno uno dopo l’altro come il tic-tac tic-tac di un orologio.

— No — disse Coraline. — Non lo farà.

A quel punto, nella stanza dietro lo specchio cadde il silenzio.

— Se per caso — disse una voce nel buio — riuscirai a riprenderti la tua mamma e il tuo papà, potrai anche liberare le nostre anime.

— Le ha prese lei? — domandò Coraline, sconvolta.

— Sì. E le ha nascoste.

— Ecco perché non siamo potuti andare via di qui, quando siamo morti. Lei ci ha trattenuti e si è nutrita di noi finché non c’è rimasto niente, solo pelli di serpente e carcasse di ragno. Ritrova i nostri cuori segreti, giovane signora.

— E a voi cosa succederà, se ci riuscirò? — domandò Coraline.

Le voci non dissero nulla.

— E lei cosa mi farà? — aggiunse Coraline.

Le pallide figure pulsavano debolmente; Coraline immaginò che fossero solo immagini residue, come il bagliore che ti lascia negli occhi una luce sfolgorante, subito dopo che le luci si sono spente.

— Non fa male — sussurrò una flebile voce.

— Lei ti prenderà la vita, tutto quello che sei e tutto quello a cui tieni, e ti lascerà solo nebbia e foschia. Ti porterà via la gioia. E un giorno ti sveglierai e anche il tuo cuore e la tua anima non ci saranno più. Sarai solo un involucro, un fuscello, della consistenza di un sogno al risveglio, o del ricordo di qualcosa di dimenticato.

— Vuota — sussurrò la terza voce. — Vuota, vuota, vuota, vuota, vuota.

— Devi fuggire — sospirò una voce, debolmente.

— Non ci penso proprio — disse Coraline. — Ci ho provato a scappare, ma non ha funzionato. Lei si è presa i miei genitori. Mi potete dire come si fa a uscire da questo stanzino?

— Se lo sapessimo, te lo diremmo.

— Poverini — disse Coraline fra sé e sé.

Quindi si sedette. Si tolse il maglione, lo arrotolò e se lo mise dietro la testa, come cuscino. — Non mi terrà al buio per sempre — disse. — Mi ha portato qui perché giochi con lei. «Giochi e sfide» mi ha detto il gatto. Qui dentro, al buio, non sono un granché come sfida. — Cercò di mettersi comoda, contorcendosi per entrare meglio in quello spazio angusto. Il suo stomaco brontolava. Mangiò l’ultima mela a piccolissimi morsi, facendola durare il più a lungo possibile. Quando l’ebbe finita, aveva ancora fame. A quel punto le venne un’idea, e bisbigliò: — Quando lei verrà per farmi uscire, perché voi tre non venite con me?

— Magari fosse possibile — le risposero con un sospiro le voci appena percettibili. — Ma lei ha i nostri cuori. Adesso apparteniamo al buio e ai luoghi vuoti. La luce ci farebbe avvizzire, ci brucerebbe.

— Oh — esclamò Coraline.

Poi chiuse gli occhi, cosa che fece diventare l’oscurità ancora più scura, appoggiò la testa sul maglione arrotolato e cercò di addormentarsi. Mentre prendeva sonno, ebbe la sensazione di avvertire un tenero bacio fantasma sulla guancia, e una vocina che le sussurrava nell’orecchio, una voce talmente debole che era come se non ci fosse, un delicato e lieve nulla di voce, così sommesso che Coraline poteva quasi giurare di averlo immaginato.

— Guarda attraverso il sassolino — le disse la voce. E lei si addormentò.

VIII

L’altra madre sembrava più in forma che mai: aveva un lieve rossore sulle guance, e i capelli si muovevano come pigri serpenti in una giornata tiepida. I neri occhi-bottone sembravano lucidati di fresco.

Attraversò lo specchio come se non fosse più solido dell’acqua e abbasso lo sguardo su Coraline. Poi aprì la porta con la chiavetta d’argento. Prese in braccio Coralme, proprio come faceva la sua vera mamma quando lei era molto più piccola, cullando la bambina semiaddormentata come se fosse un bebè.

L’altra madre portò Coralme in cucina e la mise giù, molto delicatamente, sul ripiano.

Coraline fece fatica a risvegliarsi, cosciente solo per un istante di essere stata abbracciata e amata, ma non del tutto soddisfatta; poi capì dove si trovava, e in compagnia di chi.

— Ecco la mia dolce Coraline — disse la sua altra madre. — Sono venuta a tirarti fuori dall’armadio. Avevi bisogno di una bella lezione, ma qui noi stemperiamo la giustizia con la misericordia, amiamo il peccatore e odiamo il peccato. Ora, se tu sarai una brava bambina che vuole bene alla sua mamma, se sarai obbediente e non mi risponderai male, io e te ci capiremo alla perfezione e altrettanto alla perfezione ci vorremo bene.

Coraline si stropicciò gli occhi assonnati.

— Là dentro c’erano altri bambini — disse. — Vecchi, di tanto tempo fa.

— Ah, c’erano? — disse l’altra madre. Era indaffarata tra le pentole e il frigo, e stava tirando fuori uova e formaggi, burro e un pezzo di bacon rosa affettato.

— Sì — disse Coraline. — C’erano. Credo che tu avessi in mente di ridurmi come loro. Un guscio morto.

L’altra madre sorrise affettuosamente. Con una mano rompeva le uova nella terrina, con l’altra le sbatteva. Poi mise in una padella una noce di burro che sibilò e sfrigolò, mentre lei affettava dei pezzettini di formaggio. Versò poi sul burro fuso il formaggio e l’uovo sbattuto, e riprese a mescolare il composto.

— Credo che tu stia dicendo una sciocchezza, tesoro — disse l’altra madre. — Io ti voglio bene. E te ne vorrò sempre. E nessuno che sia minimamente ragionevole crede ai fantasmi. Sono tutti dei gran bugiardi. Senti che buon profumo ha la splendida colazione che sto preparando per te. — Versò il composto giallo in una padella. — Omelette al formaggio. La tua preferita.

A Coraline venne l’acquolina in bocca. — A te piacciono i giochi — le disse. — È così che mi hanno detto.

I neri occhi dell’altra madre brillarono. — A tutti piacciono i giochi — fu tutto ciò che disse.

— Eh già — disse Coraline. Scese giù dal ripiano e si sedette al tavolo della cucina.

Il bacon crepitava e sfrigolava sulla piastra. L’odore era fantastico.

— Non saresti contenta di batterti onestamente, rispettando le regole? — le domandò Coraline.

— Può darsi — replicò l’altra madre. La sua espressione sembrava indifferente, ma le dita si contorcevano e tamburellavano, e lei si leccava le labbra con quella sua lingua scarlatta. — Cosa mi stai offrendo, per la precisione?

— Me — disse Coraline, afferrandosi le ginocchia che le tremavano sotto il tavolo. — Se perdo, resterò qui per sempre e ti concederò di volermi bene. E sarò la più rispettosa e ubbidiente delle figlie. Mangerò quello che mi preparerai e giocherò a carte. E ti permetterò di cucirmi i bottoni sugli occhi.

L’altra madre la guardò fissamente, con i neri bottoni che non battevano ciglio. — Mi sembra ottimo — disse. — E se non perdi?

— Allora mi lascerai andare. Lascerai andare tutti: i miei veri genitori, i bambini morti, tutti quelli che tieni qui in trappola.

L’altra madre tolse il bacon dalla piastra e lo mise su un piatto. Quindi fece scivolare le uova dalla padella nel piatto, facendole saltare e dando al composto la forma perfetta di una omelette.

Mise la colazione davanti a Coraline, insieme a un bicchiere di spremuta d’arancia appena fatta e a una tazza di spumosa cioccolata calda.

— Sì — disse. — Credo che questo gioco mi piaccia. Ma come funziona? Saranno indovinelli? Una prova di conoscenza? O di abilità?

— Un gioco di esplorazione — suggerì Coraline. — Un gioco trova-tutto.

— E cosa credi di trovare in questo gioco a nascondino, Coraline Jones?

Coraline esitò. — I miei genitori — disse poi. — E le anime dei bambini che sono dietro io specchio.

A queste parole l’altra madre sorrise, trionfante, e Coraline si domandò se avesse fatto la scelta giusta. In ogni caso, ormai era troppo tardi per cambiare idea.

— Affare fatto — disse l’altra madre. — Adesso fa’ colazione, dolcezza mia. Tranquilla, non ti farà male.

Coraline guardò la colazione, odiandosi per aver ceduto tanto facilmente, però stava morendo di fame.

— E chi mi dice che poi manterrai la parola? — domandò Coraline.

— Te lo giuro — le disse l’altra madre. — Te lo giuro sulla tomba di mia madre.

— Ha una tomba? — domandò Coraline,

— Oh, sì — le rispose l’altra madre. — Ce l’ho seppellita io stessa. E quando ho scoperto che stava cercando di sgattaiolare fuori, ce l’ho rimessa.

— Giura su qualcos’altro. Così potrò essere sicura che manterrai la parola.

— Sulla mia mano destra — disse l’altra madre, alzando la mano. Agitò lentamente le lunghe dita, rivelandone delle unghie adunche come artigli. — Giuro su questa.

Coraline fece spallucce. — D’accordo — disse. — Affare fatto. — Mangiò la colazione, e non dovette sforzarsi per farla sparire in fretta. Aveva più fame di quanto avesse immaginato.

Mentre mangiava, l’altra madre continuava a guardarla. Era difficile leggere in quei neri occhi-bottone, ma secondo Coraline, anche l’altra madre doveva aver fame.

Bevve il succo d’arancia e, anche se sapeva che le sarebbe piaciuta, non ebbe il coraggio di assaggiare la cioccolata calda.

— Da dove comincio a cercare? — domandò Coraline.

— Da dove vuoi — rispose l’altra madre, come se non gliene importasse niente.

Coraline la guardò, Coraline si concentrò. Era inutile, decise, esplorare il giardino e i campi: non esistevano, non erano reali. Non c’era nessun campo da tennis abbandonato, nel mondo dell’altra madre, nessun pozzo senza fondo. L’unica cosa reale era la casa.

Diede un’occhiata circolare alla cucina. Aprì il forno, sbirciò nel freezer, infilò le mani nello scomparto dell’insalata nel frigorifero. L’altra madre la seguiva passo passo, guardandola con un ghigno costante sulle labbra.

— E comunque, quanto sono grandi le anime? — domandò Coraline.

L’altra madre si sedette al tavolo della cucina e con la schiena si appoggiò al muro, senza dire una sola parola. Si stuzzicò i denti con una lunga unghia smaltata di cremisi, poi cominciò a tamburellare delicatamente, tap-tap-tap, sulla superficie lucida e nera dei suoi neri occhi-bottone.

— Bene — disse Coraline. — Non dirmelo. Non me ne importa niente. Non importa se mi aiuti oppure no. Lo sanno tutti che un’anima è della stessa grandezza di una palla da spiaggia.

Sperava che l’altra madre dicesse qualcosa del tipo: "Sciocchezze, le anime sono grandi quanto una cipolla matura — o una valigia, o l’orologio del nonno" ma lei si limitò a sorridere, mentre il tap-tap-tap dell’unghia sull’occhio si faceva costante e incessante come la goccia di un rubinetto che perde. Ma poi Coraline si rese conto che era semplicemente il rumore dell’acqua; in quella stanza non c’era che lei.

Rabbrividì. Preferiva che l’altra madre fosse in un posto preciso: se non era da nessuna parte, allora poteva essere dovunque. Ed era sempre più facile avere paura di qualcosa che non si poteva vedere. Si mise la mano in tasca e strinse le dita intorno alla sagoma rassicurante del sassolino con il buco in mezzo. Lo tirò fuori, se lo mise davanti agli occhi come se stesse impugnando una pistola, e uscì nel corridoio.

Non si sentiva altro rumore che il tap-tap dell’acqua che gocciolava nel lavandino di metallo.

Lanciò un’occhiata allo specchio in fondo al corridoio. Per un istante si appannò, e Coraline ebbe la sensazione che sul vetro fluttuassero delle facce, indistinte e senza forma; poi le facce scomparvero, e nello specchio rimase solo una ragazzina che però era troppo piccola per avere la sua stessa età. Teneva in mano una cosa che emanava una luce delicata, simile a un carbone verde.

Sorpresa, Coraline abbassò lo sguardo su ciò che stringevano le sue dita: non era che un sassolino con un buco, un comunissimo sasso marrone. Poi tornò a guardare nello specchio, dove il sasso brillava come uno smeraldo. Il sasso nello specchio emanava una scia di fuoco verde, che si muoveva verso la stanza di Coraline.

— Mmm — disse lei.

Arrivò in camera sua. Quando entrò, i giocattoli cominciarono a muoversi eccitati, come se fossero contenti di vederla, e il piccolo carro armato usci dalla scatola dei giochi per salutarla, passando con i cingoli sopra a diversi altri balocchi. Finì sul pavimento, rovesciandosi nella caduta e restando sulla moquette come uno scarafaggio sulla schiena, brontolando e stridendo prima che Coraline lo raccogliesse e lo rimettesse dritto. Il carro armato sfrecciò sotto il letto per la vergogna.

Coraline si guardò intorno.

Guardò negli armadi e nei cassetti. Quindi afferrò la scatola dei giocattoli e li rovesciò tutti sulla moquette, dove brontolarono, si stiracchiarono, si dimenarono, liberandosi goffamente l’uno dall’altro. Una biglia grigia rotolò sul pavimento e andò a sbattere contro la parete. Nessuno di quei giocattoli aveva l’aria di essere un’anima, pensò Coraline. Prese in mano un braccialetto portafortuna d’argento, al quale erano appesi minuscoli amuleti a forma di animale che si inseguivano lungo tutta la circonferenza, e lo esamino: la volpe non catturava mai il coniglio, l’orso non raggiungeva mai la volpe.

Coraline aprì la mano e guardò il sassolino con il buco, sperando invano di trovarci un indizio. La gran parte dei giocattoli erano strisciati a nascondersi sotto il letto, e quei pochi rimasti (un soldatino di plastica verde, la biglia, uno yo-yo rosa shocking, e roba simile) erano proprio quel genere di cose che nel mondo reale si trovano appunto sul fondo di una scatola di giocattoli: oggetti dimenticati, abbandonati o non amati.

Stava per uscire dalla stanza e andare a cercare altrove. Ma poi si ricordò di una delle voci del buio, una dolce voce sussurrante, e di ciò che le aveva detto di fare. Sollevò il sasso e lo tenne fermo davanti all’occhio destro. Chiuse l’occhio sinistro e guardò la stanza attraverso il buco.

Visto così il mondo era grigio e incolore, come un disegno fatto a matita. Tutto era grigio… no, non proprio tutto. Qualcosa scintillava sul pavimento, qualcosa che aveva il colore di un tizzone nel caminetto di una nursery, il colore di un tulipano scarlatto-e-arancio che annuiva sotto il sole di maggio. Coraline tese la mano sinistra, temendo che se avesse tolto l’occhio dal sasso tutto sarebbe scomparso, e cercò di prendere l’oggetto che ardeva.

Le sue dita si strinsero intorno a qualcosa di liscio e freddo, e lo raccolsero in tutta fretta. Quindi abbassò il sassolino e guardò giù. Nella palma rosea della sua mano c’era la grigia, opaca biglia di vetro che poco prima si trovava in fondo alla scatola dei giocattoli. Portò il sassolino all’occhio, e attraverso il foro guardò di nuovo la biglia. E di nuovo la biglia tornò ad ardere e tremolare, colorata di rosso fuoco.

Una voce le sussurrò nella mente: — Infatti, signora, adesso mi sovviene che ero un maschio, a pensarci bene. Oh, ma devi fare in fretta. Te ne restano altre due da trovare, e la megera ce l’ha già con te perché sei riuscita a trovarmi.

Se devo farlo, pensò Coraline, non lo farò di certo con i suoi vestiti addosso. Si rimise il suo pigiama, la vestaglia e le pantofole, lasciando il maglione grigio e i jeans neri ben piegati sul letto, e gli stivali arancione sul pavimento accanto alla scatola dei giocattoli.

Mise la biglia nella tasca della vestaglia e uscì in corridoio.

Qualcosa le punse il viso e le mani, come la sabbia che soffia sulla spiaggia in una giornata ventosa. Si coprì gli occhi e continuò ad avanzare.

Le punture peggiorarono e camminare diventò sempre più difficile, come se stesse procedendo controvento in una giornata di tramontana particolarmente impetuosa. Era un vento violento, e gelido.

Fece un passo indietro, verso il punto di partenza.

— Oh, va’ avanti — le sussurrò una voce spettrale nell’orecchio. — Perché la megera è arrabbiata.

Avanzò nel corridoio, affrontando un’altra folata di vento che le ferì le guance e il viso con una sabbia invisibile, pungente come spilli, tagliente come vetro.

— Gioca senza barare — gridò Coraline nel vento.

Non ci fu nessuna risposta, ma il vento capriccioso la sferzò ancora una volta, e poi diminuì e cessò del tutto. Passando davanti alla cucina, Coraline riuscì a sentire, nell’improvviso silenzio, l’acqua che continuava a gocciolare dal rubinetto che perdeva, o forse le lunghe unghie dell’altra madre che battevano impazienti sul tavole. Ma resistette alla tentazione di guardare.

Con due lunghe falcate, raggiunse la porta di casa e uscì fuori.

Scese le scale e girò intorno all’edificio finché non si trovò davanti alla porta delle altre Miss Spink e Miss Forcible. Le lampadine ormai si accendevano e spegnevano quasi a casaccio, componendo parole che Coraline non riusciva a decifrare. La porta era chiusa. Le venne il timore che fosse chiusa a chiave, così la spinse con tutta la forza che aveva in corpo. Al principio sembrava bloccata, poi di colpo cedette e, con uno scatto, Coraline incespicò nella stanza buia, oltre la soglia.

Strinse una mano intorno al sassolino con il buco e avanzo nell’oscurità. Si aspettava di trovare un’anticamera preceduta da una tenda, ma non c’era assolutamente niente. La stanza era buia. Il teatro era vuoto. Avanzò guardinga. Sentì un fruscio sopra di se. Alzo lo sguardo verso il buio pesto e inciampò in qualcosa. Si chinò, raccolse una torcia, la accese e fece oscillare il fascio di luce per la stanza.

Il teatro era fatiscente e in stato di abbandono. Le poltrone giacevano rotte sul pavimento e antiche e polverose ragnatele formavano drappeggi sulle pareti, pendendo dal legno marcio e dalla tappezzeria di velluto in decomposizione.

Sentì un altro fruscio. Indirizzò il fascio di luce verso l’alto, verso il soffitto. Lassù c’erano delle cose prive di peli e gelatinose. Pensò che forse un tempo avevano posseduto una faccia, che un tempo erano state dei cani; ma nessun cane aveva ali da pipistrello, o poteva restare appeso a testa in giù come i ragni, come i pipistrelli.

La luce spavento quelle creature e una di loro spiccò il volo, con un pesante frullo d’ali nella polvere. Coralme chinò la testa mentre le passava vicino. Andò a posarsi su una parete lontana e cominciò ad arrampicarsi di nuovo, sempre a testa in giù, verso il nido dei cani-pipistrello sul soffitto.

Coraline si portò il sassolino all’occhio e scandagliò la stanza attraverso il buco, alla ricerca di qualcosa che brillasse o scintillasse, un segno rivelatore che da qualche parte vi fosse un’altra anima nascosta. Accompagnò la ricerca con il fascio di luce della torcia, e la fitta polvere sospesa nell’aria sembrava quasi solida. Sulla parete in fondo al palcoscenico in rovina c’era qualcosa. Era di un bianco-grigiastro, grande il doppio di Coraline, appiccicata sul muro come una lumaca. La bambina fece un respiro profondo. Io non ho paura, si disse. Assolutamente no. Non ci credeva affatto, ma si arrampicò fin sopra il vecchio palcoscenico, le dita che affondavano nel legno marcio mentre cercava di issarsi.

Quando fu più vicina alla cosa sulla parete, vide che era una specie di sacca, come il guscio di un uovo di ragno. La cosa si contorse alla luce della torcia. All’interno della sacca c’era qualcosa che assomigliava a una persona, ma con due teste e il doppio delle braccia e delle gambe che avrebbe dovuto avere.

La creatura sembrava spaventosamente informe e incompleta, come se due figure di plastilina fossero state lavorate insieme e compresse in un’unica forma.

Coraline esitò. Non voleva avvicinarsi a quella cosa. I cani-pipistrello si staccarono dal soffitto a uno a uno e cominciarono a volteggiare in cerchio nella stanza, avvicinandosi a lei, ma senza mai sfiorarla.

Forse qui non ci sono anime nascoste, pensò. Forse potrei andarmene e provare da un’altra parte. Guardò per l’ultima volta attraverso il buco nel sassolino: il teatro abbandonato era ancora d’un tetro grigio, ma adesso c’era un bagliore marrone, intenso e luminoso come legno di ciliegio lucidato, che veniva dall’interno della sacca. Di qualunque cosa si trattasse, l’oggetto luminoso era stretto in una delle mani della figura con due teste.

Coraline attraversò lentamente il palcoscenico umido, mettendocela tutta per tare il minor rumore possibile, nel timore che, se avesse disturbato la cosa nella sacca, questa avrebbe aperto gli occhi, l’avrebbe vista e a quel punto…

Ma non le veniva in mente nulla che fosse più spaventoso di quella cosa che la guardava. Il cuore le batteva fortissimo nel petto. Fece un altro passo in avanti.

Non aveva mai avuto tanta paura, tuttavia continuò ad avanzare finché raggiunse la sacca. Quindi infilò la mano in quel biancore appiccicoso aggrappato al muro, che crepitò appena appena, come un focherello, e le si appiccicò sulla pelle e sui vestiti come una ragnatela, come candido zucchero filato. Affondò la mano fino a toccare dita gelide, che, lo sentiva benissimo, erano chiuse intorno a una biglia di vetro. La pelle della creatura era viscida, come ricoperta di gelatina. Coraline tirò forte la biglia.

All’inizio non accadde nulla; l’oggetto rimase ben saldo nella presa della creatura. Poi, un dito alla volta, la presa si allentò e la biglia scivolò nella mano di Coraline, che ritrasse il braccio liberandolo dalla membrana appiccicosa, sollevata dal fatto che la creatura non aveva aperto gli occhi. Puntò la luce della torcia sulle due facce: assomigliavano, pensò, a due versioni giovanili di Miss Spink e Miss Forcible, ma distorte e spiaccicate, come due grumi di cera che si fossero sciolti e fusi insieme, in un unico ripugnante oggetto.

Senza preavviso, una delle mani della creatura tentò di agguantare il braccio di Coraline. Le unghie le graffiarono la pelle, ma era troppo scivolosa per poter fare presa, e la bambina riuscì a ritrarsi in tempo. E poi gli occhi si aprirono — quattro bottoni neri che brillavano guardandola dall’alto — e due voci diverse da qualsiasi voce Coraline avesse mai sentito cominciarono a parlare. Una gemeva e sussurrava, l’altra ronzava come un grasso e arrabbiato moscone sul vetro di una finestra. E le voci dissero, come se fossero una sola: — Ladra! Restituiscila! Falla finita! Ladra!

L’aria venne smossa dai cani-pipistrello. Coraline cominciò a indietreggiare. Ormai si era resa conto che, per quanto quella cosa sulla parete (la cosa che una volta era stata le altre Miss Spink e Miss Forcible) fosse terrificante, era attaccata al muro tramite la tela, incapsulata nel suo bozzolo. Non poteva seguirla.

I cani-pipistrello battevano le ali e fluttuavano intorno a lei, ma non tentarono di farle del male. Lei scese giù dal palcoscenico e alla luce della torcia ispezionò il vecchio teatro, alla ricerca dell’uscita.

— Fuggi, signorina — disse la voce lamentosa di una ragazzina nella sua testa. — Fuggi, adesso. Hai trovato due di noi. Fuggi da questo luogo fintantoché il sangue ti scorre ancora nelle vene.

Coraline fece cadere la biglia nella sua tasca, accanto all’altra. Localizzò la porta, corse verso di essa e la tirò finché non si aprì.

IX

Fuori di lì, il mondo era diventato un’informe, vorticosa foschia senza sagome né ombre, mentre la casa sembrava essersi contratta e allungata. Coraline ebbe la sensazione che si fosse acquattata e la stesse guardando, come se non fosse veramente un edificio, ma solo l’idea di una casa… e la persona che aveva avuto quest’idea, ne era certa, non era affatto buona. Sul suo braccio era ancora attaccata una specie di tela appiccicaticcia, che cercò di togliere come meglio poté. Le finestre grigie della casa erano stranamente inclinate.

L’altra madre la stava aspettando, in piedi sull’erba e a braccia conserte. I neri occhi-bottone erano inespressivi, ma le labbra serrate rivelavano una furia gelida.

Quando vide Coraline, tese una lunga mano bianca e piegò un dito. Coraline andò verso di lei. L’altra madre non disse nulla.

— Ne ho trovate due — disse Coraline. — Mi manca ancora un’anima.

L’espressione dell’altra madre non cambiò minimamente. Forse non aveva sentito quel che la bambina le aveva detto.

— Be’, pensavo che volessi saperlo — disse Coraline.

— Grazie, Coraline — disse l’altra madre in tono freddo, con una voce che non proveniva dalla sua bocca. Arrivava invece dalla foschia, dalla nebbia, dalla casa e dal cielo. E poi aggiunse: — Tu sai che ti voglio bene.

E, suo malgrado, Coraline fece segno di sì con la testa.

Era vero: l’altra madre le voleva bene. Però la amava come un avaro ama il denaro, o un drago ama l’oro. Negli occhi-bottone dell’altra madre, Coraline vide che lei era una sua proprietà, niente di più. Un animaletto il cui comportamento non la divertiva più.

— Non voglio il tuo amore — disse Coraline. — Da te non voglio proprio niente.

— Nemmeno una mano? — le domandò l’altra madre. — In fin dei conti, te la stai cavando alla grande. Credevo che volessi un piccolo indizio, per aiutarti nell’ultima parte della caccia al tesoro.

— Me la cavo benissimo da sola — disse Coraline.

— Sì — disse l’altra madre. — Ma se mai volessi entrare nell’appartamento che dà sul davanti — quello vuoto — per dare un’occhiata in giro, troveresti la porta chiusa a chiave, e a quel punto che faresti?

— Oh. — Coraline ci rifletté su per un momento. Poi disse: — C’è una chiave?

L’altra madre rimase impassibile, nella nebbia grigiastra di quel mondo che rendeva piatta ogni cosa. I capelli neri le svolazzavano intorno alla testa, come se fossero dotati di mente e volontà autonome. Fece un colpo di tosse, improvviso e profondo, e solo dopo aprì la bocca.

L’altra madre alzò una mano e si tolse dalla lingua una piccola chiave di ottone.

— Tieni — le disse. — Per entrare avrai bisogno di questa.

E, con un gesto indifferente, lanciò la chiave a Coraline, che la afferrò con una sola mano, prima ancora di decidere se la volesse oppure no. La chiave era ancora leggermente bagnata.

Un vento gelido soffiò su di loro. A Coraline vennero i brividi e distolse lo sguardo. Quando tornò a guardare, era rimasta sola.

Dubbiosa, girò intorno alla casa finché raggiunse la facciata e si fermò di fronte alla porta dell’appartamento vuoto. Come tutte le altre porte, era dipinta d’un verde brillante.

— Non è affatto in buona fede, quella — le sussurrò una voce spettrale nell’orecchio. — Secondo noi non ti aiuterà. È solo un trucco.

Coraline disse: — Sì, avete ragione. È quello che mi aspetto anch’io. — Quindi infilò la chiave nella serratura e girò.

Senza cigolare, la porta si spalancò e Coraline varcò la soglia, in silenzio.

Le pareti dell’appartamento erano colore del latte vecchio. Le assi di legno del pavimento erano prive di moquette e polverose, con i segni e i motivi dei vecchi tappeti e delle vecchie moquette che c’erano state in passato.

Non c’era nemmeno un mobile, ma si distinguevano i punti un tempo occupati dai mobili. Alle pareti non c’erano decorazioni, solo rettangoli sbiaditi là dove una volta erano stati appesi quadri e fotografie. C’era un tale silenzio che Coraline ebbe l’impressione di sentire il rumore che facevano i granelli di polvere scivolando nell’aria.

Ed ebbe paura che qualcosa sbucasse fuori all’improvviso e la aggredisse, così si mise a fischiare. Pensò che, fischiando, avrebbe reso più difficile un’aggressione.

Per prima cosa ispezionò la cucina vuota. Poi passò in rassegna il bagno vuoto, che conteneva solo una vasca di ghisa e un ragno morto, grosso quanto un gattino. L’ultimo locale che perlustrò doveva essere stato una stanza da letto; si immaginò che quell’ombra di polvere rettangolare sulle assi del pavimento corrispondesse al letto che c’era stato una volta. Poi vide qualcosa e sorrise, torvamente. Incastrato fra le assi del pavimento c’era un grosso anello di metallo. Si inginocchiò e afferrò il gelido anello con le mani, quindi lo tirò verso l’alto, con tutta la forza che aveva.

Con incredibile lentezza, rigidità e pesantezza, una porzione quadrata di pavimento, dotata di cardini, si sollevò: era una botola. Si sollevò e attraverso l’apertura Coraline non vide altro che buio. Si chinò e con la mano trovò un interruttore freddo al tatto. Ne spinse il pulsante, senza sperare troppo che avrebbe funzionato, ma da qualche parte sotto di lei si accese una lampadina, e una debole luce gialla si diffuse dal buco nel pavimento. Vide dei gradini che scendevano, ma nient’altro.

Coraline si mise la mano in tasca e tirò fuori il sassolino. Guardò la cantina attraverso il buco ma non vide nulla. Si rimise il sasso in tasca.

Dalla botola nel pavimento arrivava l’odore dell’argilla fresca e di qualcos’altro, un sentore intenso e acre, come di aceto.

Coraline si infilò nella botola, guardando nervosamente il coperchio. Era così pesante che, se fosse caduto giù, lei sarebbe rimasta intrappolata al buio per sempre. Alzò una mano e lo toccò, ma vide che restava ben fermo dov’era. Quindi si voltò verso il buio sotto di lei e scese i gradini. Incastonato nel muro ai piedi delle scale c’era un altro interruttore, di metallo arrugginito. Lo azionò finché non ne sentì lo scatto, e una disadorna lampadina appesa al basso soffitto si accese. Tuttavia non emanava abbastanza luce perché Coraline riuscisse a distinguere i dipinti sui muri scrostati della cantina. C’erano degli occhi, quello riusciva a vederlo, e cose che avrebbero potuto essere grappoli d’uva. E sotto i grappoli, altre cose ancora. Coraline non poteva stabilire con certezza se ci fossero raffigurate delle persone.

In un angolo della stanza c’era una montagna di robaccia: scatoloni pieni di carte ammuffite e tende rovinate ammucchiate lì accanto.

Le pantofole di Coraline scricchiolavano sul pavimento di cemento. La puzza era diventata più forte. Era pronta a girare sui tacchi e tornare indietro, quando vide il piede che sbucava fuori da sotto il cumulo di tende.

Fece un bel respiro (l’odore dell’aceto e del pane ammuffito le riempì la testa) e tirò via un panno umido per scoprire qualcosa più o meno della taglia e della forma di una persona.

In quella scarsa penombra, le ci vollero parecchi secondi per riconoscere ciò che era: una cosa pallida e gonfia, come un baco, con braccine sottili come stecchi e i piedi. Il volto, gonfio come la pasta del pane lievitata, era quasi privo di lineamenti.

La cosa aveva due grossi bottoni neri al posto degli occhi.

A Coraline sfuggì un suono di orrore e repulsione, e la cosa, come se avesse sentito e si fosse risvegliata, cominciò a tirarsi su per mettersi seduta. Coraline, pietrificata, non si era mossa di un millimetro. La cosa girò la testa fino a puntare i neri occhi-bottone su Coraline. Su quel volto senza bocca si aprì una fessura dalla quale spuntavano ciuffi di roba pallida, e una voce che non somigliava più nemmeno lontanamente a quella di suo padre sussurrò: — Coraline.

— Be’ — disse Coraline alla cosa che un tempo era stato l’altro padre — almeno non mi sei saltato addosso.

Le mani della creatura, simili a ramoscelli, si mossero verso la faccia e cominciarono a modellarla, dando forma a qualcosa che sembrava un naso. Non disse una sola parola.

— Sto cercando i miei genitori — disse Coraline. — Oppure l’anima rubata a uno degli altri bambini. Sono quaggiù?

— Quaggiù non c’è nulla — rispose con voce indistinta la cosa pallida. — Null’altro che polvere, umidità e oblio. — La cosa era bianca, enorme, gonfia. Mostruosa, pensò Coraline, ma anche infelice. Si portò il sassolino bucato all’occhio e ci guardò attraverso. Nulla. La pallida cosa le stava dicendo la verità.

— Poverino — disse. — Scommetto che è stata lei a spedirti quaggiù, come punizione per aver detto troppo.

La cosa esitò, quindi annuì. Coraline si domandò come avesse potuto mai immaginare che questa specie di larva assomigliasse a suo padre.

— Mi dispiace — disse lei.

— Non è affatto contenta — disse la cosa che un tempo era stata l’altro padre. — Nient’affatto contenta. L’hai proprio messa di cattivo umore. E quando è di cattivo umore, se la prende con tutti. È fatta così.

Coraline batté la mano su quella testa pelata. La pelle era attaccaticcia come la pasta del pane tiepida. — Poverino — disse. — Non sei altro che una cosa che lei ha fatto e che poi ha buttato via.

La cosa annuì energicamente e, mentre annuiva, l’occhio sinistro si staccò e rotolò rumorosamente sul pavimento di cemento. La cosa si guardò intorno con un solo occhio, perché non vedeva più Coraline. Finalmente la ritrovò e, a fatica, aprì la bocca ancora una volta e disse, con voce umida e pressante: — Scappa, figliola. Abbandona questo posto. Vuole che io ti faccia del male, che ti tenga qui per sempre, così non potrai mai finire questo gioco, e vincerà lei. Vuole obbligarmi a farti del male. E io non posso ribellarmi.

— Sì che puoi - disse Coraline. — Sii coraggioso.

Coraline si guardò intorno: la cosa che un tempo era stata l’altro padre si trovava fra lei e le scale che portavano fuori dalla cantina. Cominciò a muoversi lungo il muro, in direzione dei gradini. La cosa si contorse, flaccida, finché il suo unico occhio non si trovò davanti a lei. Adesso sembrava sempre più grossa, e più sveglia. — Ahimè — disse. — Non posso.

E con uno scatto si scagliò verso di lei, la bocca sdentata spalancata al massimo.

Per reagire, Coraline ebbe il tempo di un battito del cuore. E le vennero in mente solo due cose. Poteva gridare, provare a scappare e farsi inseguire da quella specie di larva per tutta la cantina male illuminata. Farsi inseguire fino a farsi acciuffare. Oppure poteva fare un’altra cosa.

E la fece.

Quando la cosa stava per raggiungerla, Coraline tese la mano e la chiuse intorno all’unico bottone rimasto sulla faccia bianca, poi tirò con tutta la forza che aveva in corpo.

Per un istante non accadde nulla. Poi il bottone si staccò e le volò via dalla mano, andando a sbattere contro il muro prima di cadere sul pavimento.

La cosa rimase paralizzata. Ciecamente, gettò indietro la pallida testa e spalancò orribilmente la bocca, quindi emise un ruggito di rabbia e frustrazione. Poi, rapidissima, si precipitò verso il punto in cui prima si trovava Coraline.

Ma lei non era più li. Senza fare rumore e in punta di piedi stava già risalendo i gradini che l’avrebbero portata fuori dalla cantina buia, con quei rozzi dipinti sui muri.

Tuttavia non riusciva a staccare gli occhi dal pavimento sotto di sé, dove la pallida cosa si dimenava e si contorceva, a caccia di lei. Poi, come se le avessero detto cosa fare, la creatura smise di muoversi e la sua testa senza occhi si piegò di lato.

Cerca di sentire dove sono, pensò Coraline. Non devo fare il minimo rumore. Salì un altro gradino ma le scivolò il piede, e la cosa la sentì.

Volse la testa verso di lei. Per un istante oscillò come per riprendere il controllo di sé. Poi, con la velocità di un serpente, scivolò verso i gradini e iniziò a fluire verso l’alto. Coraline si voltò, fece l’ultima mezza dozzina di gradini come un fulmine e si issò fuori dalla botola, sul pavimento della polverosa camera da letto. Senza fermarsi, tirò giù il pesante coperchio della botola, richiudendolo con un tonfo tale che pareva fosse finito contro qualcosa di grosso. Il coperchio della botola tremò e cigolò, ma rimase dov’era.

Coraline fece un respiro profondo. Se nell’appartamento ci fossero stati dei mobili, o almeno una sedia, ce l’avrebbe messa sopra, ma non c’era niente.

Uscì dall’appartamento a tutta velocità, ma senza correre, e richiuse a chiave la porta dietro di sé. Lasciò la chiave sotto lo zerbino. Quindi si incamminò lungo il vialetto d’accesso.

Coraline aveva una mezza idea che lì avrebbe trovato l’altra madre ad aspettarla, ma il mondo intorno a lei era vuoto e silenzioso.

Coraline voleva andare a casa.

Si strinse le braccia attorno al corpo, si disse che era stata coraggiosa e quasi ci credette, e poi girò intorno alla casa, in quella foschia grigia che non era foschia, e andò verso le scale, per salire di sopra.

X

Coraline salì le scale esterne dell’edificio fino all’appartamento dell’ultimo piano dove, nel suo mondo, viveva il vecchio pazzo.

Ci era già stata una volta, lassù, con la sua vera madre che stava facendo una colletta di beneficenza. Erano rimaste ferme sulla porta aperta, in attesa che il vecchio pazzo dai grossi baffi trovasse la busta che la madre di Coraline gli aveva lasciato, e l’appartamento puzzava di cibi strani e di tabacco da pipa e di qualcosa di penetrante e formaggioso a cui lei non sapeva dare un nome. Non aveva voluto spingersi oltre la soglia.

— Sono un’esploratrice — disse Coraline a voce alta, ma le sue parole sembravano attutite e morte in quell’atmosfera nebbiosa. Era riuscita a svignarsela dalla cantina, no?

Non c’erano dubbi. Ma se c’era una cosa di cui era certa, era che questo appartamento sarebbe stato peggiore.

Arrivò in cima alle scale. L’appartamento dell’ultimo piano era stato la soffitta della casa, molto tempo prima.

Coraline bussò alla porta dipinta di verde. La porta si aprì e lei entrò.

Abbiamo occhi e abbiamo nervi
Abbiamo code, abbiamo denti,
E tu avrai quel che ti meriti
Quando emergeremo da laggiù.

sussurrarono una dozzina o più di piccole voci nell’appartamento buio, il cui soffitto era così basso, nel punto in cui si incontrava con le pareti, che allungando le braccia Coraline riusciva quasi a toccarlo.

Occhi rossi la fissavano. E, mentre si avvicinava, zampine rosa sgambettarono via. Ombre più scure penetrarono nelle ombre ai margini della stanza.

La puzza era ancora più terribile di quella che c’era nel vero appartamento del vecchio pazzo. Là si sentiva puzza di cibo (cibo sgradevole, secondo Coraline, ma sapeva che era una questione di gusti: a lei non piacevano le spezie, le erbe aromatiche o le cose esotiche). Qui, invece, la puzza faceva pensare che tutte le schifezze del mondo fossero state lasciate in giro per casa, a marcire.

— Ragazzina — disse una voce frusciante in fondo alla stanza.

— Sì — disse Coraline. Non ho paura, disse a se stessa, e capì che era proprio così. Lì non c’era assolutamente nulla che potesse spaventarla. Queste cose — persino la cosa bianca giù in cantina — erano semplici illusioni create dall’altra madre, spaventose parodie della gente vera e dei veri oggetti dall’altra parte del corridoio. Quella, in realtà, non aveva il potere di far niente, decise Coraline. Lei poteva solo deformare, copiare, distorcere le cose che esistevano già.

E poi si ritrovò a chiedersi perché l’altra madre avesse collocato un globo con la neve sulla mensola del caminetto del salotto; un punto che, nel suo mondo, era del tutto spoglio.

E una volta che si pose la domanda, seppe subito la risposta.

Poi risentì la voce, e la scia dei suoi pensieri si dissolse.

— Vieni qui, ragazzina. So che lo vuoi, ragazzina. — Era una voce frusciante, rasposa e secca, che a Coraline fece venire in mente una specie di enorme insetto morto. Il che era una sciocchezza, lo sapeva bene. Come poteva una cosa morta, in questo caso un insetto, avere una voce?

Attraversò diverse stanze con il soffitto basso e spiovente finché non si ritrovò nell’ultima. Era una camera da letto, e l’altro vecchio pazzo del piano di sopra sedeva nell’angolo più lontano, nella semioscurità, infagottato nel cappotto e con il cappello in testa. Quando Coraline mise piede nella stanza, lui cominciò a parlare. — Nulla è cambiato, ragazzina — disse con una voce che assomigliava al fruscio delle foglie secche che rotolano su un marciapiede. — E se tu facessi tutto ciò che hai giurato di fare? Eh? Nulla è cambiato. Tornerai a casa tua. E ti annoierai. E ti ignoreranno. Nessuno ti darà retta, nessuno ti darà ascolto. Tu sei troppo intelligente e troppo taciturna perché possano capirti. Continuano a sbagliare il tuo nome.

— Resta qui con noi — continuò la voce che proveniva dalla figura in fondo alla stanza. — Noi ti presteremo ascolto, giocheremo con te e rideremo con te. La tua altra madre costruirà mondi interi da farti esplorare, e quando l’avrai fatto, lei li demolirà ogni sera. E ogni giorno sarà più bello e più luminoso del precedente. Ricordi la scatola dei giocattoli? Potrà mai un mondo essere migliore di quello? E sarà tutto tuo.

— E ci saranno giornate grigie e piovose in cui non saprò che fare, e non ci sarà niente da leggere o da guardare e nessun posto dove andare, e le giornate si trascineranno lunghe e senza fine? — domandò Coraline.

Dalle ombre, l’uomo rispose: — Mai.

— E ci saranno pasti orrendi, preparati da mio padre seguendo le sue ricette, con aglio, dragoncello e fave? — domandò Coraline.

— Ogni pasto sarà una gioia — sussurrò la voce da sotto il cappello del vecchio. — Nulla che non sia una vera delizia sfiorerà mai le tue labbra.

— E potrò avere guanti verde brillante, e stivali di gomma gialli a forma di rana? — domandò Coraline.

— Rana, anatra, rinoceronte, piovra — qualunque cosa tu desideri. Ogni mattina un mondo nuovo verrà creato apposta per te. Se resterai qui, potrai avere tutto ciò che desideri.

Coraline sospirò. — Tu proprio non capisci, vero? — disse. — Io non voglio tutto ciò che desidero. Nessuno lo vuole. Non veramente. Che divertimento sarebbe, se potessi avere tutto ciò che desidero, senza problemi? Non avrebbe nessun valore. E poi che succederebbe?

— Non capisco — disse la voce bisbigliante.

— Certo che non capisci — replicò Coraline portandosi il sassolino bucato all’occhio. — Tu sei solo la brutta copia del vecchio dell’ultimo piano, una copia fatta da lei.

Dall’impermeabile dell’uomo veniva una luminescenza più o meno all’altezza del petto. Attraverso il buco del sassolino, la luminescenza tremolava e brillava, biancazzurra come una stella. Coraline avrebbe tanto voluto avere un bastone con sé, o qualcosa con cui pungolare l’uomo; non aveva nessuna intenzione di avvicinarsi a quella creatura d’ombra in fondo alla stanza.

— Nemmeno più quello — disse la voce morta e bisbigliante.

Coraline fece un passo verso l’uomo, e lui andò in pezzi. Dalle maniche, da sotto il cappotto e dal cappello cominciarono a schizzare fuori ratti neri, una ventina o forse più, con gli occhi rossi che scintillavano al buio. E mentre scappavano era tutto uno squittio. Il cappotto svolazzò e poi ricadde pesantemente sul pavimento. Il cappello rotolò in un angolo della stanza.

Coraline allungò la mano e afferrò il cappotto. Era vuoto, ma untuoso al tatto. E dentro non c’era traccia dell’ultima biglia di vetro. Scandagliò la stanza, con l’occhio davanti al buco del sassolino, e vide qualcosa che tremolava e brillava come una stella, a livello del pavimento, vicino alla porta. Il più grosso dei ratti neri la teneva con le zampette anteriori. Mentre lei lo guardava, il topo schizzò via.

Dall’angolo della stanza, gli altri ratti rimasero a guardare mentre Coraline gli correva dietro.

I ratti corrono più veloci delle persone, soprattutto sulle brevi distanze. Ma un grosso ratto nero che tiene un biglia fra le zampette anteriori non è un avversario per una ragazzina decisa (anche se piccolina per la sua età) che si metta a correre. I ratti più piccoli correvano avanti e indietro tagliandole la strada, cercando di distrarla, ma lei li ignorava, tenendo gli occhi fissi su quello con la biglia, che si stava dirigendo fuori dell’appartamento, verso la porta di casa.

Entrambi raggiunsero le scale esterne dell’edificio.

Anche mentre correva giù per le scale, Coraline ebbe il tempo di notare che la casa continuava a cambiare, facendosi sempre più indistinta, appiattendosi. Adesso pareva più la fotografia di una casa che non una casa vera. E poi si ritrovò a correre disordinatamente giù per le scale all’inseguimento del ratto, senza pensare a nient’altro, sicura che l’avrebbe raggiunto. Correva veloce, troppo veloce, se ne accorse quando arrivò in fondo alla rampa di scale e il piede le scivolò, prese una storta e lei crollò sul pianerottolo di cemento.

Il ginocchio sinistro era graffiato e sbucciato, il palmo della mano che aveva teso in avanti per proteggersi dalla caduta era un impiastro di graffi e brecciolina. Le faceva un po’ male e presto, Coraline lo sapeva, gliene avrebbe fatto molto di più. Si tolse la brecciolina dal palmo e si rimise in piedi, poi a tutta velocità, sapendo che tanto aveva perso e che ormai era troppo tardi, scese l’ultima rampa fino al piano terra.

Si guardò intorno alla ricerca del ratto, ma era sparito, e con lui anche la biglia.

La mano le bruciava nei punti in cui si era scorticata, mentre dal ginocchio, attraverso la gamba del pigiama strappato, le colava un rivolo di sangue. Era la stessa terribile situazione di quell’estate in cui la sua vera madre le aveva tolto le rotelle dalla bicicletta; allora, però, nonostante i tagli e i graffi (le sue ginocchia erano fatte di strati e strati di croste), Coraline aveva provato la sensazione di avere raggiunto un traguardo. Stava imparando a fare qualcosa, qualcosa che prima non sapeva fare. Adesso, invece, non provava altro che una sensazione di gelida sconfitta. Aveva tradito i bambini-fantasma. Aveva tradito i suoi genitori. Aveva tradito se stessa, tradito tutto.

Chiuse gli occhi e si augurò che la terra la inghiottisse.

Si sentì un colpo di tosse.

Riaprì gli occhi e vide il ratto. Era disteso sul vialetto pavimentato di mattoni in fondo alle scale, con un’espressione di sorpresa sul muso, che ormai si trovava a svariati centimetri di distanza dal resto del corpo. I baffi erano rigidi, gli occhi sbarrati, i denti in mostra, gialli e aguzzi. Un colletto di sangue caldo gli scintillava intorno al collo.

Accanto al ratto decapitato, con un’espressione saccente, c’era il gatto nero. Con una zampa teneva ferma la grigia biglia di vetro.

— Credo di avertelo già detto — esordi il gatto — i ratti non mi piacciono. Mi era sembrato, comunque, che questa ti servisse. Spero che non ti dispiaccia se mi sono intromesso.

— Credo — disse Coraiine, cercando di riprendere fiato — credo che… una cosa del genere… sì… tu possa averla detta.

Il gatto tolse la zampa dalla biglia, che rotolò verso Coraiine. Lei la raccolse. Nella sua mente un’ultima voce le sussurrò, pressante: — Lei ti ha mentito. Adesso che ti ha in pugno, non ti lascerà mai più andare. Non cambierà mai, non lascerà libero nessuno di noi. — A Coraline venne la pelle d’oca sulla nuca e capì che quella voce di ragazzina le stava dicendo la verità. Mise la biglia nella tasca della vestaglia, insieme alle altre.

Adesso le aveva tutte e tre.

Non le restava che trovare i suoi genitori.

E si rese conto che era facile. Sapeva esattamente dove si trovavano. Se solo si fosse fermata a riflettere, l’avrebbe capito sin dall’inizio. L’altra madre non poteva creare. Poteva solo trasformare, deformare, cambiare.

E la mensola del caminetto, nel salotto della sua vera casa, era praticamente vuota. Ma appena lo capì si rese conto anche di qualcos’altro.

— L’altra madre. Non ha nessuna intenzione di mantenere la parola. Non ci lascerà liberi — disse Coraline.

— Non mi meraviglia — ammise il gatto. — Come ho già detto, non c’è garanzia che lei giochi pulito. — Quindi alzò la testa. — Ehi, sveglia… ma hai visto?

— Cosa?

— Guarda dietro di te — disse il gatto.

La casa si era appiattita ancora di più. Non sembrava più una fotografia, ma un disegno, anzi il rozzo scarabocchio di una casa, tracciato a carboncino su un foglio di carta grigia.

— Qualunque cosa stia succedendo — disse Coraline — grazie per avermi aiutata. Credo di essere quasi alla fine, no? Perciò tu va’ pure nella foschia o dovunque sia il tuo posto, e io, be’, spero di rivedere casa mia. Se mai lei mi permetterà di tornarci.

Il gatto aveva il pelo dritto e la coda alzata come la spazzola di uno spazzacamino.

— Che problema c’è? — domandò Coraline.

— Sono sparite — rispose il gatto. — Non ci sono più. Le entrate e le uscite di questo posto. Si sono annullate.

— È un male?

Il gatto abbassò la coda, facendola oscillare furiosamente da parte a parte. Si senti una specie di brontolio sommesso provenire dalla sua gola. Poi si mise a camminare in circolo, andando a strofinarsi sulla gamba di Coraline. Lei abbassò una mano per accarezzarlo, e sentì quanto forte gli batteva il cuore. E tremava come una foglia morta al vento.

— Non ti succederà niente — disse Coraline. — Si sistemerà ogni cosa. E io ti porterò a casa.

Il gatto non disse nulla.

— Andiamo, gatto — disse Coraline. E fece un passo indietro verso le scale, ma il gatto non si mosse, con l’aria affranta. Sembrava molto più piccolo.

— Se l’unico modo per andarsene è quello di passare davanti a lei — disse Coraline — allora è da quella parte che passeremo. — Tornò dal gatto, si chinò e lo prese in braccio. Lui non oppose resistenza. Continuò semplicemente a tremare. Coraline gli mise una mano sotto le zampe posteriori e gli fece appoggiare quelle anteriori sulla sua spalla. Il gatto era pesante, ma non tanto da non poterlo trasportare. Lui le leccò il palmo della mano, nel punto in cui le usciva il sangue dalla ferita. Coraline salì le scale una alla volta, diretta al proprio appartamento. Sentiva le biglie tintinnare in tasca, sentiva il sasso con il buco, sentiva il gatto che le si stringeva addosso.

Arrivata davanti alla porta di casa — ormai ridotta allo scarabocchio di una porta disegnata da un bambino — spinse con una mano, aspettandosi quasi di trapassarla e di trovarci dietro nient’altro che il buio e una manciata di stelle.

Ma la porta si aprì e Coraline entrò.

XI

Una volta dentro, nel suo appartamento, o meglio, nell’appartamento che non era suo, Coraline fu contenta di vedere che non si era trasformato in un disegno vuoto, come il resto della casa. L’appartamento aveva ombre e profondità, e fra le ombre c’era qualcuno in piedi ad aspettare il suo ritorno.

— Allora sei tornata — le disse l’altra madre. Dal tono non sembrava affatto contenta. — E sei venuta con un parassita.

— No — disse Coraline. — Sono venuta con un amico. — Sentì il gatto irrigidirsi, come se fosse ansioso di andarsene da lì. Coraline avrebbe voluto stringerlo a sé come un orsacchiotto, come qualcosa di rassicurante, ma sapeva che il gatto odiava essere stretto, e immaginò che i gatti spaventati avessero la tendenza a mordere e graffiare se provocati, anche se stavano dalla tua parte.

— Sai che ti voglio bene — disse l’altra madre in un tono di voce inespressivo.

— Bel modo di dimostrarlo — ribatté Coraline. Si incamminò lungo il corridoio, poi entrò in salotto, a passo costante, fingendo di non avvertire gli occhi neri e inespressivi dell’altra madre puntati sulla sua schiena. I mobili solenni di sua nonna erano ancora lì, e anche il dipinto con quella strana frutta sulla parete (ma adesso la frutta era stata mangiata, e tutto ciò che restava nella fruttiera era il torsolo marrone di una mela, alcune prugne, il nocciolo di una pesca, il raspo di quello che era stato un grappolo d’uva). Il tavolo con i piedi di leone dominava la moquette con le sue zampe di legno artigliate, come se fosse impaziente per qualcosa. In fondo alla stanza, nell’angolo, c’era la porta di legno, che prima, in un altro luogo, aveva aperto su un nudo muro di mattoni. Coraline cercò di non guardarla. Dalla finestra non si vedeva altro che nebbia.

Ci siamo, pensò. Ecco il momento della verità. Il tempo della rivelazione.

L’altra madre l’aveva seguita e si era fermata al centro della stanza, tra Coraline e la mensola del caminetto, con i neri occhi-bottone puntati sulla bambina. Che buffo, pensò Coraline. Non assomigliava nemmeno un po’ alla sua vera madre. Si domandò come avesse fatto a lasciarsi ingannare e a trovarci una somiglianza. L’altra madre era altissima — sfiorava quasi il soffitto con la testa — e molto pallida, il colore del ventre di un ragno. I capelli erano un groviglio, e i denti affilati come coltelli…

— Ebbene? — disse pungente l’altra madre. — Loro dove sono?

Coraline si appoggiò a una poltrona, sistemò il gatto con la mano sinistra, mise in tasca la mano destra ed estrasse le tre biglie di vetro. Erano di un grigio opaco e le tintinnavano nel palmo della mano. L’altra madre tese le lunghe dita verso di esse, ma Coraline se le fece ricadere in tasca. A quel punto, capì che era vero. L’altra madre non aveva nessuna intenzione di lasciarla andare, né di mantenere la promessa fatta. Per lei si era trattato di un semplice passatempo, niente di più. — Aspetta — disse. — Non abbiamo ancora finito, vero?

L’altra madre la guardò con occhi di fuoco, ma le sorrise dolcemente. — No — disse. — Immagino di no. Del resto, devi ancora trovare i tuoi genitori, vero?

— Sì — rispose Coraline. Non devo guardare la mensola del caminetto, pensò. Non devo nemmeno pensarci.

— Ebbene? — disse l’altra madre. — Tirali fuori. Vuoi dare un’altra occhiata giù in cantina? Sai, là sotto ci tengo nascoste altre cose interessanti.

— No — disse Coraline. — Lo so già dove sono i miei genitori. — Il gatto cominciava a pesarle fra le braccia. Fece un passo avanti, liberando la spalla dagli artigli dell’animale.

— Dove?

— È evidente — disse Coraline. — Ho guardato in tutti i posti possibili. Loro non sono in casa.

L’altra madre rimase immobile, senza lasciar trapelare nulla, con le labbra strette. Avrebbe potuto essere una statua di cera. Persino i suoi capelli avevano smesso di fluttuare.

— Allora — proseguì Coraline, con entrambe le mani saldamente allacciate intorno al gatto. — So dove li tieni. Li hai nascosti nella porta che collega le case, vero? Sono dietro quella porta. — E con la testa indicò la porta nell’angolo.

L’altra madre rimase immobile come una statua, ma un mezzo sorriso le affiorò sulle labbra.

— Oh, ma davvero?

— Perché non la apri? — disse Coraline. — Saranno sicuramente lì.

Era l’unica strada per arrivare a casa, ne era certa. Ma tutto dipendeva da quanto l’altra madre avesse bisogno di gongolare, non solo di vincere ma di esibire la propria vittoria.

L’altra madre infilò lentamente la mano nella tasca del grembiule da cucina e ne estrasse la chiave di ferro nera. Il gatto si agitava perché stava scomodo tra le braccia di Coraline, e voleva scendere a terra. Resta così ancora per qualche minuto, gli disse con il pensiero, domandandosi se lui potesse sentirla. Torneremo a casa insieme. Ho detto che l’avremmo fatto. L’ho promesso. Sentì il gatto rilassarsi fra le sue braccia. L’altra madre andò verso la porta e infilò la chiave nella serratura.

La girò.

Coraline sentì il meccanismo della serratura sferragliare sonoramente.

E cominciò, il più silenziosamente possibile, a piccoli passi, a muoversi verso la mensola del caminetto.

L’altra madre abbassò la maniglia e aprì la porta, rivelando il corridoio che c’era dietro, buio e vuoto. — Ecco — disse indicando il corridoio. L’espressione di delizia sul suo volto era davvero orrenda a vedersi. — Hai torto! Tu non sai dove sono i tuoi genitori, vero? Lì non ci sono. — Si voltò a guardare in faccia Coraline. — E adesso — disse — rimarrai qui per sempre.

— No — disse Coraline. — E no. — E con tutta la forza che aveva, scaraventò il gatto nero contro l’altra madre. Il gatto miagolò e le atterrò sulla testa, lavorando di artigli, mostrando i denti, furioso e feroce. Con il pelo dritto, sembrava di nuovo il doppio della sua stazza.

Senza aspettare di vedere cosa sarebbe successo, Coraline si protese verso la mensola del caminetto, afferrò il globo con la neve e se lo cacciò con forza nella tasca della vestaglia.

Il gatto emise un profondo miagolio, a mo’ di ululato, e affondò i denti nella guancia dell’altra madre. Lei cercò di sbarazzarsene agitando le mani. Il sangue le usciva dai tagli sul candido viso, ma non era sangue rosso, piuttosto una sostanza nera e catramosa. Coraline corse verso la porta.

Tirò fuori la chiave dalla serratura.

— Mollala! Avanti! — gridò Coraline. Il gatto sibilò e con slancio selvaggio piantò gli artigli affilati come scalpelli nel viso dell’altra madre, mentre una melma nera le usciva a fiotti dai numerosi squarci sul naso. Poi si precipitò da Coraline, e insieme varcarono la soglia del nero corridoio.

Nel corridoio faceva freddo; era come scendere in cantina in una giornata calda. Il gatto esitò un istante, accorgendosi che l’altra madre stava andando verso di loro, poi corse da Coraline e si fermò vicino alle sue gambe.

Coraline cercava di chiudere la porta.

Era più pesante di quanto avesse immaginato, e le sembrava di dover lottare con un vento fortissimo che le soffiava contro. Poi sentì qualcosa che cominciava a tirare insieme a lei.

Chiuditi! pensò. E poi, ad alta voce, disse: — Su, per favore. — E sentì che la porta cominciava a muoversi, a chiudersi, a cedere a quel vento spettrale.

All’improvviso, si rese conto che lì nel corridoio c’erano altre persone. Non poteva girare la testa per guardarle, ma sapeva chi erano anche senza vedere. — Aiutatemi, per favore — disse. — Tutti voi.

Le altre persone nel corridoio — tre bambini e due adulti — erano in un certo senso troppo inconsistenti per toccare la porta. Ma le loro mani si chiusero sulla sua, mentre lei cercava di tirare a sé quella grossa maniglia di ferro, e di colpo Coraline ritrovò la forza.

— Non mollare, signorina! Tieni duro! Tieni duro! — sussurrò una voce dentro la sua mente.

— Tira, ragazzina, tira — sussurrò un’altra voce.

E poi una voce che assomigliava a quella di sua madre, la sua vera, meravigliosa, esasperante, irritante, splendida madre, disse: — Bravissima, Coraline. — E bastò quello.

La porta cominciò a chiudersi con estrema facilità.

— No! — gridò una voce che veniva da dietro la porta e che non somigliava più, nemmeno lontanamente, a una voce umana.

Qualcosa ghermì Coraline, attraverso lo spiraglio ancora aperto fra la porta e lo stipite. Lei tirò indietro la testa di scatto, ma la porta cominciò ad aprirsi.

— Noi torneremo a casa — disse Coraline. — È vero. Aiutatemi. — E schivò quelle dita avide.

Esse si muovevano su di lei, e poi le mani fantasma le diedero in prestito l’energia che non aveva più. Ci fu un ultimo attimo di resistenza, come se qualcosa fosse rimasto incastrato fra la porta e lo stipite, e poi la porta di legno si chiuse con un colpo secco.

Qualcosa cadde a terra, dall’altezza della testa di Coraline. E atterrò con una sorta di tonfo.

— Avanti! — disse il gatto. — Questo non è un posto in cui restare. Alla svelta!

Coraline diede la schiena alla porta e cominciò a correre, a tutta velocità, attraverso il corridoio buio, sfiorando il muro con una mano per essere sicura di non andare a sbattere contro qualcosa o di tornare indietro senza accorgersene.

Era una corsa in salita, e le sembrò infinita, una distanza più lunga di qualsiasi distanza reale. Il muro che toccava era caldo e cedevole, e si rese conto che sembrava coperto di una bella pelliccia lanuginosa. E il muro si mosse, come per riprendere fiato. Coraline tolse immediatamente la mano.

I venti fischiavano nel buio.

Coraline temeva di andare a sbattere, così appoggiò di nuovo la mano sul muro. Questa volta sentì qualcosa di caldo e bagnato, come se avesse infilato la mano nella bocca di qualcuno, e con un piccolo gemito la ritrasse.

I suoi occhi si abituarono all’oscurità. Riusciva a scorgere, come chiazze vagamente luminescenti dinanzi a sé, due adulti, tre bambini. E sentiva anche il gatto, che camminava al buio davanti a lei.

E c’era anche un’altra cosa, che all’improvviso le sgambettò tra i piedi, e per poco non la mandò gambe all’aria. Coraline riuscì a riconquistare l’equilibrio e a evitare la caduta, sfruttando quello slancio per continuare ad avanzare. Sapeva che se fosse caduta in quel corridoio, forse non si sarebbe mai più rialzata. Qualunque cosa fosse stato quel corridoio, era sicuramente molto più vecchio dell’altra madre. Era fondo, lento, e consapevole della presenza di Coraline…

Poi apparve la luce del giorno, e lei corse verso quel bagliore, ansimante e con il fiato corto. — Ci siamo quasi — fu il suo grido incoraggiante, ma nella luce scoprì che gli spiriti erano spariti e che era di nuovo sola. Ma non aveva il tempo di fermarsi a indagare su cosa ne fosse stato di loro. Cercando di riprendere fiato, incespicò sulla soglia e si sbatté la porta alle spalle, con il botto più sonoro e piacevole che si possa mai immaginare.

Coraline chiuse la porta con la chiave, che poi ripose in tasca.

Il gatto nero era raggomitolato nell’angolo più remoto della stanza, mostrava la punta rosa della lingua e aveva gli occhi sbarrati. Coraline gli si avvicinò e si accovacciò accanto a lui.

— Mi dispiace — gli disse. — Mi dispiace di averti lanciato contro di lei. Ma era l’unico modo possibile per distrarla e uscire da lì. Non avrebbe mai mantenuto la parola, eh?

Il gatto alzò lo sguardo su di lei, poi le appoggiò la testa su una mano, leccandole le dita con la lingua rasposa. Quindi, cominciò a fare le fusa.

— Allora siamo amici? — disse Coraline.

Si sedette su una delle scomode poltrone di sua nonna, e il gatto le saltò subito sulle ginocchia, mettendosi comodo. La luce che entrava dalla finestra era quella del giorno, la luce di un vero e dorato tardo pomeriggio, non una bianca luce nebbiosa. Il cielo era azzurro come le uova di un pettirosso e Coraline vedeva gli alberi e, dietro gli alberi, le verdi colline che svanivano all’orizzonte fra il viola e il grigio. Il cielo non le era mai apparso tanto cielo, il mondo non era mai apparso tanto mondo.

Coraline guardò le foglie sugli alberi e i motivi che la luce e l’ombra disegnavano sulla corteccia screpolata del tronco del faggio davanti alla finestra, poi si guardò le ginocchia, guardò il modo in cui la piena luce solare accarezzava ogni pelo sulla testa del gatto, trasformando ogni singolo baffo bianco in oro.

Nulla, pensò, era mai stato tanto interessante.

E, rapita da tutti quegli interessanti aspetti del mondo, Coraline nemmeno si accorse di essersi rannicchiata come un gatto nella scomoda poltrona di sua nonna, e nemmeno si accorse di essersi addormentata e di essere sprofondata in un sonno profondo e senza sogni.

XII

Sua madre la svegliò scuotendola delicatamente.

— Coraline? — disse. — Tesoro, che strano posto per addormentarti. È proprio vero che questa è una stanza per le occasioni speciali. Ti abbiamo cercata in ogni angolo della casa.

Coraline si stirò e batté le palpebre. — Mi dispiace — disse. — Mi sono addormentata.

— Lo vedo — disse sua madre. — E questo gatto da dove arriva? Quando sono tornata era seduto dietro alla porta di casa. E quando ho aperto la porta, è uscito come un razzo.

— Forse doveva fare qualcosa — disse Coraline. Poi abbracciò sua madre, così forte che cominciarono a farle male le braccia. La madre ricambiò l’abbraccio.

— Si cena tra quindici minuti — disse. — Non dimenticare di lavarti le mani. E guardati i pantaloni del pigiama. Cosa ti sei fatta a quel povero ginocchio?

— Sono inciampata — disse Coraline. Andò nel bagno, si lavò le mani e si ripulì il ginocchio dal sangue. Si mise una pomata sui tagli e sulle abrasioni.

Poi andò in camera sua: la sua vera camera, la sua camera reale. Affondò le mani nelle tasche della vestaglia e tirò fuori tre biglie, un sasso con un buco in mezzo, la chiave nera e un globo con la neve, vuoto.

Agitò il globo e osservò la neve scintillante vorticare nell’acqua e riempire quel mondo vuoto. Lo posò e osservò la neve depositarsi sul fondo, coprendo il punto in cui un tempo c’era stata la minuscola coppia.

Coraline prese un pezzo di spago dalla scatola dei giocattoli e ci legò la chiave nera. Quindi ci fece un nodo e se lo appese al collo.

— Ecco — disse. Si mise qualcosa addosso e nascose la chiave sotto la T-shirt. Era fredda sulla pelle. Il sasso, invece, tornò in tasca.

Coraline attraversò il corridoio fino allo studio di suo padre. Lui le dava le spalle, ma lei sapeva che i suoi occhi, quando si fosse voltato, sarebbero stati quelli grigi e buoni di suo papà; gli si avvicinò di soppiatto e gli diede un bacio dietro la testa pelata.

— Ciao, Coraline — disse lui. Poi si voltò e le fece un sorriso. — Come mai questo bacio?

— Così — rispose Coraline. — Certe volte mi manchi. Tutto qua.

— Oh, bene — disse lui. Mosse il mouse del computer e cliccò su "sleep" quindi si alzò e, senza motivo, prese in braccio la figlia, cosa che non faceva da tantissimo tempo, da quando aveva cominciato a farle notare che era diventata troppo grande per farsi portare in braccio, e andarono in cucina.

Quella sera per cena c’era la pizza, e anche se era fatta in casa da suo padre (in certi punti la crosta era spessa, molle e cruda, in altri troppo sottile e bruciatai, e anche se lui l’aveva farcita con fettine di peperone verde, polpettine e, soprattutto, pezzetti d’ananas, Coraline mangiò l’intera fetta che le avevano messo nel piatto.

Be’, mangiò tutto tranne i pezzettini d’ananas.

E subito dopo fu ora di andare a letto.

Coraline tenne la chiave al collo, ma mise le biglie sotto il cuscino. E quella notte, a letto, fece un sogno.

Si trovava a un picnic, sotto una vecchia quercia, su un prato verde. Il sole era alto nel cielo e, anche se all’orizzonte si profilavano soffici nubi bianche, il cielo sopra la sua testa era di un azzurro calmo e profondo.

Sull’erba era disteso un bianco telo di cotone, con scodelle stracolme di cibo — riusciva a vedere insalate e tramezzini, noci e frutta, caraffe di limonata, d’acqua e di denso latte e cacao. Coraline sedeva da un lato della tovaglia mentre tre ragazzini occupavano gli altri. Erano vestiti in modo assai bizzarro.

Il più piccolo, seduto alla sinistra di Coraline, era una maschietto con i pantaloni alla zuava di velluto rosso e una camicetta bianca tutta volant. Aveva la faccia sporca e si stava riempiendo il piatto di patate lesse e di quello che sembrava un’intera trota fredda. — Che bellissimo picnic, signora — le disse.

— Sì — rispose Coraline. — È vero. Chissà chi l’avrà organizzato.

— Be’, credo che sia stata proprio tu, signorina — disse la ragazzina alta seduta di fronte a lei. Indossava un vestito marrone quasi privo di forma, e in testa portava una cuffia marrone annodata sotto il mento. — E noi siamo pieni di gratitudine, anche se le parole non riescono a esprimerla. — Mangiava fette di pane con la marmellata: con un lungo coltello e grande agilità di mano affettava una grossa pagnotta dalla crosta dorata, e con un cucchiaio di legno ci metteva sopra della marmellata viola. Aveva la bocca tutta sporca di marmellata.

— Sì. Sono secoli che non mangio cose così buone — disse la ragazzina seduta alla destra di Coraline. Era una bambina molto pallida, vestita con una sorta di ragnatela e un cerchietto d’argento che le brillava fra i capelli biondi. Coraline ci avrebbe messo la mano sul fuoco: quella ragazzina doveva avere un paio d’ali opache e argentate come quelle di una farfalla che le spuntavano dalla schiena. Sul piatto della bambina bionda torreggiava una montagna di fiori. Lei sorrise a Coraline, come se non sorridesse da un’infinità di tempo e non sapesse quasi più come si fa. Coraline provò subito una grande simpatia nei suoi confronti.

E poi, come succede nei sogni, il picnic era finito e loro stavano giocando sul prato; correvano, gridavano, si lanciavano una palla sfavillante. A quel punto Coraline capì che era un sogno, perche nessuno di loro si stancava mai, né si affannava o restava a corto di fiato. Lei non sudava nemmeno. Ma ridevano e correvano, giocando a un gioco a metà tra l’acchiapparella, la palla prigioniera e una gran confusione.

Tre di loro correvano tutt’intorno, mentre la ragazzina pallida svolazzava di poco sopra le loro teste, scendendo in picchiata con le sue ali di farfalla per acchiappare la palla, e oscillando di nuovo verso l’alto prima di rilanciarla a uno degli altri bambini.

E poi, senza che nessuno lo avesse deciso, il gioco terminò e tutti e quattro tornarono alla tovaglia del picnic, sgombra ormai del pranzo, ma con quattro ciotole pronte per loro, tre con il gelato, una piena di caprifoglio.

Mangiarono tutti con gusto.

— Grazie per essere venuti alla mia festa — disse Coraline. — Ammesso che sia la mia.

— Il piacere è tutto nostro, Coraline Jones — disse la ragazzina con le ali, mordicchiando un altro bocciolo di caprifoglio. — Se ci fosse qualcosa che possiamo fare per te, per ringraziarti e ricompensarti.

— Sì — disse il ragazzino con i pantaloni di velluto rosso e il muso sporco. Tese la mano e prese quella di Coraline nella sua. Adesso era calda.

— È stato molto bello quello che hai fatto per noi, signorina — disse la ragazzina alta. Aveva uno sbaffo di gelato al cioccolato sulle labbra.

— Sono felice che sia tutto finito — disse Coraline.

Se lo era immaginato, o un’ombra aveva offuscato il viso degli altri bambini al picnic?

La ragazzina con le ali e il cerchietto nei capelli che brillava come una stella, posò per un istante le dita sul dorso della mano di Coraline. — È tutto finito, per noi - disse. — Per quel che ci riguarda questa è solo una sosta. Da qui, noi tre partiremo per terre sconosciute, e quello che succederà dopo nessuna persona vivente può dirlo… — Smise di parlare.

— C’è un ma, vero? — disse Coraline. — Me lo sento. Come una nube di pioggia.

Il ragazzino alla sua sinistra si fece coraggio e cercò di sorridere, ma il labbro inferiore cominciò a tremargli e lui se lo morse con gli incisivi superiori, senza dire nulla. La ragazzina con la cuffietta marrone spostava il peso da un piede all’altro, chiaramente a disagio. Poi disse: — Sì, signorina.

— Però sono riuscita a portarvi tutti e tre indietro — disse Coraline. — Ho riportato indietro mamma e papà. Ho chiuso la porta. L’ho chiusa a chiave. Che altro ancora dovevo fare?

Il ragazzino le strinse la mano nella sua. E Coraline si ricordò di quando era toccato a lei rassicurarlo, quando lui era poco più di un freddo ricordo nel buio.

— Be’, non potete darmi un indizio? — domandò Coraline. — Non c’è qualcosa che possiate dirmi?

— La megera ha giurato sulla sua mano destra — disse la ragazzina alta — ma ha mentito.

— La m-mia governante — disse il ragazzino — diceva che nessuno dovrebbe accollarsi un peso superiore a quello che può sopportare. — Nel dirlo si strinse nelle spalle, come se ancora non avesse deciso se fosse vero oppure no.

— Ti auguriamo buona fortuna — disse la ragazzina con le ali. — Buona fortuna, saggezza e coraggio, anche se già hai dimostrato di possedere tutte e tre queste benedizioni, e in abbondanza.

— Lei ti odia — sbottò il ragazzino. — È tantissimo tempo che non perde. Sii saggia. Sii coraggiosa. Sii astuta.

— Ma non è giusto - disse Coraline arrabbiata in sogno. — Non è per niente giusto. Dovrebbe essere tutto finito.

Il bambino con la faccia sporca si alzò in piedi e la abbracciò forte. — Consolati con questo — sussurrò. — Tu sei viva. Tu vivi.

E, continuando a sognare, Coraline vide che il sole era tramontato e le stelle brillavano nel cielo scuro.

Ferma in mezzo al prato, osservò i tre bambini (due camminavano, una volava) allontanarsi da lei sull’erba inargentata, sotto la luce della grande luna.

I tre giunsero a un piccolo ponte di legno che attraversava un ruscello. Lì si fermarono, si voltarono e salutarono con la mano, e Coraline rispose al loro saluto.

E dopo fu buio.

Coraline si svegliò alle prime ore del mattino, convinta di aver sentito qualcosa muoversi, ma incerta su cosa fosse.

Attese.

Sentì un fruscio davanti alla porta della sua stanza. Si domandò se fosse un ratto. Poi la porta scricchiolò. Coraline scese dal letto.

— Vattene — disse bruscamente. — Vattene o te ne pentirai.

Seguì una pausa, poi la cosa se la filò in fondo al corridoio. I suoi passi avevano un che di strano e irregolare, sempre che di passi si trattasse. Coraline si domandò se non potesse trattarsi di un topo con una zampa in più…

— Non è finita, vero? — disse fra sé e sé.

Poi aprì la porta della sua stanza. La grigia luce che precedeva l’alba le rivelò per intero il corridoio, completamente deserto.

Andò verso la porta d’ingresso, gettando un frettoloso sguardo allo specchio appeso sulla parete all’estremità opposta del corridoio, dove vide soltanto il proprio pallido viso, serio e assonnato, che le restituiva lo sguardo. Dalla stanza dei suoi genitori proveniva un lieve e rassicurante russare, ma la porta era chiusa. Tutte le porte del corridoio erano chiuse. Qualunque cosa fosse stata a muoversi, doveva per forza essere lì da qualche parte.

Coraline aprì la porta di casa e guardò il cielo grigio. Si domandò fra quanto sarebbe spuntato il sole e se il suo sogno fosse stato reale, sapendo in cuor suo che lo era. Qualcosa che aveva preso per l’ombra sotto il divanetto dell’ingresso uscì allo scoperto e attaccò una corsa sfrenata e folle sulle lunghe zampe bianche, in direzione della porta di casa.

Per lo spavento, Coraline rimase a bocca spalancata e si fece da parte, mentre la cosa le passava rumorosamente accanto e usciva fuori, correndo come un granchio sui troppi piedini rumorosi e scalpitanti.

Coraline sapeva cos’era. Negli ultimi giorni l’aveva vista fin troppe volte, mentre si protendeva, afferrava e infilava obbediente gli scarafaggi nella bocca dell’altra madre. Cinque piedi, unghie rosse, pallore d’osso.

Era la mano destra dell’altra madre.

Che rivoleva indietro la chiave nera.

XIII

Sembrava che i genitori di Coraline non ricordassero assolutamente nulla del tempo trascorso nel globo di neve. O, quanto meno, non ne facevano mai parola, e Coraline dal canto suo evitava di parlarne.

Certe volte, però, si domandava se si fossero mai resi conto di aver perso due giorni nel mondo reale, e alla fine decise di no. Ma del resto ci sono persone che tengono il conto preciso di ogni giorno e di ogni ora che passa, e ce ne sono altre che non lo fanno, e indubbiamente i genitori di Coraline appartenevano alla seconda categoria.

Coraline aveva messo le biglie sotto il cuscino prima di addormentarsi, in quella prima notte trascorsa di nuovo nella sua vera stanza. Dopo aver visto la mano dell’altra madre tornò a letto, anche se non c’era più tanto tempo per dormire, e appoggiò di nuovo la testa sul cuscino.

E mentre lo faceva, qualcosa scricchiolò delicatamente.

Si tirò su a sedere e sollevò il cuscino. I frammenti delle biglie sembravano i resti dei gusci d’uovo che si trovano sotto gli alberi a primavera: come le uova vuote e rotte dei pettirossi, o persino più delicate. Come quelle degli scriccioli, forse.

Qualunque cosa ci fosse stata dentro quelle sfere di vetro, ora non c’era più. Coraline pensò ai tre bambini che le facevano ciao con la mano al chiaro di luna, salutandola prima di attraversare il ruscello argentato.

Facendo molta attenzione, raccolse i sottili frammenti e li ripose nella scatoletta azzurra del braccialetto che sua nonna le aveva regalato quando era piccola. Il braccialetto era andato perduto da chissà quanto tempo, ma la scatoletta era rimasta.

Miss Spink e Miss Forcible, che erano state a trovare la nipote di Miss Spink, erano tornate, così Coraline scese da loro per il tè. Era un lunedì. Mercoledì Coraline sarebbe tornata a scuola: cominciava un nuovo anno scolastico.

Miss Forcible insistette per leggerle le foglie di tè.

— Bene, sembrerebbe che quasi tutto sia in perfetto ordine e con ampie schiarite all’orizzonte, carina — disse Miss Forcible.

— Come, scusi? — disse Coraline.

— Tutto andrà nel migliore dei modi — disse Miss Forcible. — Be’, quasi tutto. Non sono sicura di cosa sia quello. - E indicò un mucchietto di foglie di tè appiccicato di lato alla tazza.

Miss Spink pronunciò un ohibò e prese in mano la tazza. — Seriamente, Miriam, dammi qua. Lasciami vedere… — Batté le palpebre dietro le spesse lenti degli occhiali. — Oddio. No, non ho proprio idea di cosa possa significare. Sembrerebbe quasi una mano.

Coraline guardò anche lei. Quell’ammasso di foglioline sembrava veramente una mano, tesa verso qualcosa.

Hamish, il terrier scozzese, si era nascosto sotto la sedia di Miss Forcible e non voleva venire fuori.

— Credo che sia rimasto coinvolto in una baruffa — disse Miss Spink. — Ha una ferita profonda sul fianco. Oggi pomeriggio lo portiamo dal veterinario. Vorrei tanto sapere cosa gliel’ha provocata.

Coraline capì che bisognava agire. In quell’ultima settimana di vacanza il tempo fu splendido, come se l’estate stesse cercando di rimediare al tempo orrendo che c’era stato fino ad allora, regalando delle magnifiche giornate di sole prima di concludersi.

Il vecchio pazzo dell’ultimo piano chiamò Coraline, quando la vide uscire dall’appartamento di Miss Spink e Miss Forcible.

— Ehi! Tu! Ciao! Caroline! — gridò dal parapetto.

— Mi chiamo Coraline — disse lei. — Come stanno i topi?

— Qualcosa li ha spaventati — rispose l’uomo grattandosi i baffi. — Credo che ci sia una donnola in casa. Gira qualcosa. L’ho sentito stanotte. Nel mio paese avremmo messo subito una tagliola con un po’ di carne o un hamburger, e quando la bestia si avvicina per banchettare, allora — bam! - presa e finita. I topi sono talmente spaventati che nemmeno prendono più in mano i loro piccoli strumenti musicali.

— Io non credo che voglia la carne — disse Coraline. Alzò una mano e toccò la chiave nera che portava al collo. Poi entrò in casa.

Si fece il bagno, senza mai togliersi la chiave di dosso. Non se la tolse più.

Dopo che si fu messa a letto sentì grattare sul vetro della finestra. Era quasi addormentata, ma scese e aprì le tende. Una mano bianca dalle unghie rosse saltò dal davanzale alla grondaia e scomparve immediatamente dalla vista. Dall’altra parte del vetro c’erano profonde scanalature.

Quella notte Coraline dormì sonni agitati, svegliandosi di continuo per tramare, programmare, ponderare, e ogni volta che si riaddormentava non era mai sicura di dove finisse il ponderare e iniziasse il sognare, con un orecchio sempre all’erta per sentire se qualcosa grattasse sul vetro della finestra.

Al mattino, Coraline disse a sua madre: — Oggi farò un picnic con le mie bambole. Posso prendere un lenzuolo — uno vecchio, uno che non ti serve più — da usare come tovaglia?

— Non credo di averne uno — disse sua madre. Aprì il cassetto della cucina dove teneva tovaglie e tovaglioli e si mise a frugare. — Aspetta. Questa ti può andar bene?

Si trattava di una tovaglia di carta usa e getta, con dei fiori rossi, rimasta dall’ultimo picnic che avevano fatto diversi anni prima.

— È perfetta — disse Coraline.

— Pensavo che avessi smesso di giocare con le bambole — disse la signora Jones.

— Invece no — ammise Coraline. — È che si mimetizzano.

— Be’, cerca di tornare per l’ora di pranzo — le disse sua madre. — E divertiti!

Coraline riempì una scatola di cartone con le sue bambole e diverse tazzine da tè di plastica. Riempì anche una caraffa d’acqua.

Quindi uscì. S’incamminò lungo la strada, come se stesse andando verso i negozi. Prima di raggiungere il supermercato, superò una staccionata e si ritrovò in un terreno abbandonato, percorse una vecchia strada carrozzabile e strisciò poi sotto una siepe. Dovette fare due viaggi sotto la siepe, per non rovesciare l’acqua nella caraffa.

Fu un viaggio lungo e tortuoso, ma alla fine fu felice che nessuno l’avesse seguita.

Sbucò dietro il malconcio campo da tennis. Lo attraversò e raggiunse il prato dove ondeggiava l’erba alta. Trovò le tavole ai margini del prato. Erano incredibilmente pesanti, quasi troppo pesanti perché una ragazzina, pur facendo ricorso a tutta la forza che aveva, ce la facesse a sollevarle. Ma Coraline ce la fece. Non aveva altra scelta. Tolse di mezzo le tavole, una alla volta, sbuffando e sudando per la fatica, e mise in luce un buco nel terreno, fondo e tondo, delimitato da un muricciolo di mattoni. Puzzava di umidità e di buio. I mattoni erano verdognoli e limacciosi.

Coraline distese la tovaglia e la sistemò con cura in cima al pozzo. Quindi dispose le leggere tazze da tè giocattolo a una ventina di centimetri di distanza l’una dall’altra, ai margini del pozzo, e appesantì ogni tazza riempiendola d’acqua.

Poi, sull’erba, vicino a ogni tazza, mise seduta una bambola. Quindi, tornò sui suoi passi: di nuovo sotto la siepe, lungo la polverosa strada gialla, dietro i negozi, dentro casa.

Si portò una mano al collo e staccò la chiave. La fece dondolare, come se fosse solo qualcosa con cui le piaceva giocherellare. Poi andò a bussare alla porta di Miss Spink e Miss Forcible.

Andò ad aprirle Miss Spink.

— Salve, tesoro — le disse.

— Non entro — disse Coralme. — Volevo solo sapere come sta Hamish.

Miss Spink sospirò. — Il veterinario dice che Hamish è un bravo soldatino — disse. — Per fortuna, pare che la ferita non abbia fatto infezione. Non riusciamo a capire cosa gli sia capitato. Secondo il veterinario è stato un animale, ma non ha idea di quale. Il signor Bobo dice che secondo lui, potrebbe essere stata una donnola.

— Il signor Bobo?

— L’uomo dell’ultimo piano. Il signor Bobo. Antica e rinomata famiglia circense, credo. Romena o slovena o lituana, uno di quei paesi lì. Benedetta me, non riesco più a ricordarmeli.

Coraline si rese conto che non le era mai venuto in mente che il vecchio pazzo del piano di sopra potesse avere un nome. Se avesse saputo che si chiamava signor Bobo, non avrebbe perso occasione per chiamarlo così. Quante volte ti può capitare di dire a voce alta un nome come "signor Bobo"?

— Oh — disse Coraline a Miss Spink. — Il signor Bobo. Giusto. Be’ — disse con voce leggermente più alta — adesso vado a giocare con le mie bambole, giù in fondo, vicino al campo da tennis.

— Tesoro, che bello! — disse Miss Spink. E poi aggiunse, in tono confidenziale: — Fa’ attenzione al vecchio pozzo. Il signor Lovat, che era qui prima di te, diceva che secondo lui era profondo anche più di mezzo miglio.

Coraline sperò che la mano non avesse sentito quest’ultima osservazione, quindi cambiò subito argomento. — Questa chiave? — disse a voce alta. — Oh, è solo una vecchia chiave di casa nostra. Mi serve per giocare. È per questo che me la porto dietro, attaccata a uno spago. Be’, arrivederci.

— Che bambina eccezionale — disse Miss Spink fra sé e sé, mentre chiudeva la porta.

Lentamente Coraline attraversò il prato in direzione del vecchio campo da tennis, dondolando la chiave nera appesa allo spago.

Più volte ebbe la sensazione di aver visto qualcosa color osso nel sottobosco. Si teneva a una decina di metri di distanza e teneva il suo passo.

Coraline provò a fischiare, ma non funzionò, così si mise a cantare forte una canzone che aveva inventato suo padre quando lei era piccolissima, e che l’aveva sempre fatta ridere. Diceva così:

Oh… Streghettina mia,
la più bella che ci sia,
ti darò pane tostato,
ti darò tanto gelato.
Ti darò baci e bacetti
e poi tanti abbracci stretti;
mai e poi mai farai un assaggio
di un panin con scarafaggio.

Questa era la canzone che cantava mentre camminava senza fretta in mezzo al bosco, con la voce che non le tremava quasi per niente.

Le bambole che prendevano il tè erano rimaste dove le aveva lasciate. Si sentì sollevata dal fatto che non fosse una giornata di vento, perché tutto era rimasto esattamente al suo posto, con ogni tazza di plastica piena d’acqua a tenere ferma la tovaglia di carta, proprio come doveva essere. Coraline si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo.

Adesso arrivava la parte più difficile.

— Salve, bambole — disse in tono allegro. — È l’ora del tè!

E si avvicinò alla tovaglia. — Ho portato la chiave della fortuna — disse alle bambole. — Per essere certa che il nostro sarà un bel picnic.

E poi, con estrema delicatezza, si chinò e posò dolcemente la chiave sulla tovaglia. Senza mai mollare lo spago. Trattenne il fiato, sperando che le tazze con l’acqua tenessero ferma la tovaglia e non la lasciassero sprofondare nel pozzo, nonostante il peso della chiave.

La chiave era al centro della tovaglia. Coraline lasciò lo spago e fece un passo indietro. Adesso toccava alla mano.

Poi si rivolse alle bambole.

— Gradite una fetta di torta alle ciliegie? — domandò. — Jemima? Pinky? Primrose? — e, chiacchierando allegramente, servì a ogni bambola una fetta di torta invisibile su un piattino invisibile.

Con la coda dell’occhio vide qualcosa di bianco saltellare da un tronco all’altro, avvicinandosi sempre di più. Si sforzò di non guardare.

— Jemima! — disse Coraline. — Che bambina cattiva! Hai fatto cadere la torta! Adesso mi toccherà andare a prenderne un’altra fetta! — Fece il giro della tovaglia fino a trovarsi dall’altra parte, a portata della mano. Finse di pulire via la torta rovesciata e poi ne diede un’altra fetta a Jemima.

Poi, con uno sgambettare veloce e stridente, eccola arrivare: la mano, in corsa sulla punta delle dita, a tentoni attraverso l’erba alta e sopra una ceppaia. Per un istante si fermò lì, come un granchio che saggia l’aria, e poi, con uno schiocco di unghie, fece un salto trionfante al centro della tovaglia.

Per Coraline il tempo rallentò. Le bianche dita si richiusero intorno alla chiave…

Poi il peso e lo slancio della mano mandarono all’aria le tazze di plastica, e la tovaglia di carta, la chiave e la mano destra dell’altra madre ruzzolarono nel buio del pozzo.

Coraline contò lentamente, sottovoce. Dovette arrivare a quaranta prima di sentire un tonfo attutito che veniva da là sotto, in profondità.

Una volta, qualcuno le aveva detto che se guardi in su dal fondo del pozzo di una miniera, anche se è una giornata molto luminosa, si possono vedere il cielo notturno e le stelle. Coraline si domandò se la mano potesse vedere le stelle, da dove si trovava adesso.

Scaraventò di nuovo le pesanti tavole sul pozzo, coprendolo con molta cura. Voleva che non ci cadesse dentro nulla. Né voleva che nulla potesse venirne fuori. Poi rimise bambole e tazze nella scatola di cartone per portarle via. Mentre stava facendo questo, qualcosa richiamò la sua attenzione, e si tirò su in tempo per vedere il gatto nero che avanzava verso di lei, con la coda dritta e arricciata come un punto interrogativo. Era la prima volta che lo rivedeva dopo diversi giorni, da quando erano tornati dalla casa dell’altra madre.

Il gatto le si avvicinò e saltò sulle tavole che coprivano il pozzo. Poi, lentamente, le fece l’occhiolino.

Fece un salto nell’erba alta davanti a Coraline e si rotolò sulla schiena, dimenandosi come se fosse in estasi.

Lei gli grattò e solleticò il soffice pelo della pancia, e il gatto fece le fusa soddisfatto. Quando ne ebbe abbastanza, l’animale si rimise sulle zampe e se ne tornò verso il campo da tennis, come un minuscolo brandello di mezzanotte nel sole di mezzogiorno.

Coraline tornò a casa.

Il signor Bobo la stava aspettando nel vialetto d’accesso e le batté una mano sulla spalla.

— I topi mi dicono che è tutto a posto — disse. — Dicono che sei la nostra salvatrice, Caroline.

— È Coraline, signor Bobo — disse Coraline. — Non Caroline. Coraline.

— Coraline — disse il signor Bobo, ripetendo quel nome con meraviglia e rispetto. — Molto bene, Coraline. I topi dicono che non appena saranno pronti a esibirsi in pubblico, dovrai essere la prima spettatrice in assoluto del loro concerto. Suoneranno umpah umpah e tudle udle, e danzeranno e faranno mille numeri. Dicono proprio così.

— Molto volentieri — disse Coraline. — Quando saranno pronti.

Bussò poi alla porta di Miss Spink e Miss Forcible. Miss Spink la fece accomodare e Coraline entrò nel loro salottino. Depositò la scatola con le bambole sul pavimento. Poi si mise una mano in tasca e ne estrasse il sassolino con il buco.

— Ecco a voi — disse. — A me non serve più. Ve ne sono molto grata. Credo che mi abbia salvato la vita, e che abbia salvato altra gente dalla morte.

Abbracciò entrambe, nonostante non riuscisse a circondare interamente con le braccia l’ampia Miss Spink, mentre Miss Forcible aveva addosso l’odore dell’aglio crudo che stava sminuzzando. Poi Coraline prese la sua scatola di bambole e andò via.

— Che bambina eccezionale — disse Miss Spink. Nessuno l’aveva più abbracciata in quel modo, da quando aveva lasciato il teatro.

Quella notte Coraline giaceva nel suo letto, dopo essersi fatta il bagno e lavata i denti, con gli occhi aperti a fissare il soffitto.

Faceva abbastanza caldo e, ora che la mano non c’era più, aveva completamente spalancato la finestra della sua stanza. Aveva insistito con suo padre perché non le chiudesse del tutto le tende.

I nuovi vestiti che avrebbe indossato l’indomani per andare a scuola erano ordinatamente disposti sulla sedia.

Di solito, la notte prima dell’inizio del trimestre, Coraline era apprensiva e nervosa. Ma, si rese conto, a scuola non c’era più nulla che potesse farle paura.

Immaginò di sentire una dolce musica portata dall’aria della notte: il genere di musica che poteva essere eseguita solamente da minuscole trombe e minuscoli tromboni e fagotti, da ottavini e tube così piccole e delicate che i tasti potevano essere premuti solo dalle minuscole dita rosee dei topolini bianchi.

Coraline immaginò di sprofondare di nuovo nel suo sogno, con le due ragazzine e il ragazzino sotto la quercia in mezzo al prato, e sorrise.

Quando spuntarono le prime stelle, finalmente lasciò che il sonno prendesse il sopravvento, mentre la dolce musica che proveniva dal circo dei topi del piano di sopra inondava la tiepida aria della sera, raccontando al mondo che l’estate era quasi finita.

FINE