Questa volta, il compito della cacciatrice di taglie Stephanie Plum non sembrerebbe dei più difficili: deve rintracciare un anziano concittadino di Trenton, nel New Jersey, Eddie DeChooch. Nonostante la cataratta e l’età avanzata, Eddie — che è accusato di contrabbando di sigarette e non si è presentato in tribunale — continua a sfuggire ai tentativi di arresto da parte di Stephanie e dei suoi maldestri aiutanti, Dougie e Luna. In più, nel suo giardino è stato trovato il cadavere di un’anziana vedova. Dopo un crescendo di inseguimenti, rivelazioni, agguati, rapimenti e risate, Stephanie Plum riuscirà a risolvere il caso.

Janet Evanovich

Colpo al cuore

Grazie ad Amy Lehmkuhl e a Vicky Picha per avermi suggerito il titolo di questo libro.

Prologo

Da bambina, le mie aspirazioni professionali erano modeste: volevo diventare una principessa intergalattica. Non che mi importasse granché di comandare eserciti di alieni. Quello che volevo, più che altro, era indossare la mantella e gli stivali sexy e avere con me un’arma strafiga.

Si dà il caso che la faccenda della principessa non sia andata a buon fine e così mi sono iscritta al college e, una volta diplomata, sono andata a lavorare come addetta agli acquisti per una catena di negozi di biancheria intima. Ma poi neanche quel lavoro è andato a buon fine e così ho messo mio cugino, che si occupa di garanzie per cauzioni, con le spalle al muro e l’ho costretto a darmi un lavoro come cacciatrice di taglie. Ma quando si dice il destino: non ho mai avuto né mantella né stivali sexy, però adesso una specie di arma strafiga ce l’ho. Okay, è una piccola calibro .38 e la tengo nel barattolo dei biscotti, ma è pur sempre una pistola, giusto?

Ai tempi in cui facevo ancora le prove per diventare principessa, ogni tanto mi capitava di litigare con il ragazzaccio del quartiere. Aveva due anni più di me. Si chiamava Joe Morelli. Ed era sinonimo di guai.

Litigo ancora con Morelli. E lui continua a essere sinonimo di guai… anche se ora sono il genere di guai per cui le donne vanno pazze.

È uno sbirro, ha una pistola più grande della mia, e non la tiene nel barattolo dei biscotti.

In un accesso di libidine, due settimane fa, mi ha chiesto di sposarlo. Mi ha slacciato i jeans, ha arpionato un dito nella cintura e mi ha tirato a sé. «A proposito di quella proposta, dolcezza…» ha detto.

«Di che proposta stiamo parlando?»

«Della proposta di matrimonio.»

«Dici sul serio?»

«Sono un uomo disperato.»

Su quello non c’erano dubbi.

La verità è che anch’io ero disperata. Cominciavo ad avere pensieri romantici in cui il protagonista era il mio spazzolino da denti elettrico. Il problema era che non sapevo se ero veramente pronta per il matrimonio. Il matrimonio è roba che fa paura. Devi dividere lo stesso bagno. Cosa c’è di male, direte voi. E le fantasie? E se riaffiora la principessa intergalattica che è in me e devo partire per una missione?

Morelli ha scosso la testa. «Ecco, finalmente ricominci a pensare.»

«Ci sono molte cose da considerare.»

«Avresti un sacco di vantaggi… torta nuziale, sesso orale, e accesso alla mia carta di credito.»

«Mi piace l’idea della torta nuziale.»

«Ti piacciono anche le altre cose» ha detto Morelli.

«Ho bisogno di tempo per pensarci.»

«Certo» ha detto Morelli «prenditi tutto il tempo che vuoi. Che ne dici di pensarci di sopra, in camera da letto?»

Aveva il dito ancora arpionato ai miei jeans e laggiù la temperatura stava salendo. Senza volerlo ho alzato gli occhi verso le scale.

Morelli ha fatto un mezzo sorriso e mi ha tirato ancora più vicino a sé. «Stai pensando alla torta nuziale?»

«No» gli ho risposto. «E neanche alla carta di credito.»

Capitolo 1

Capii che c’era qualcosa di brutto nell’aria quando Vinnie mi chiamò a rapporto nel suo ufficio privato. Vinnie è il mio capo nonché mio cugino. Una volta, nella porta di un gabinetto, ho letto che Vinnie si incurva come un furetto. Non so bene cosa voglia dire, ma mi sembra abbia senso visto che Vinnie assomiglia effettivamente a un furetto. Il suo anello con rubino mi ricorda i regali che si vincevano nelle macchinette della sala giochi di Seaside Park. Portava una camicia nera con cravatta nera, i capelli neri sempre più radi erano lisciati all’indietro, in stile boss del gioco d’azzardo. In faccia gli si leggeva l’espressione non sono felice.

Guardai verso di lui, oltre la scrivania, e cercai di rimanere impassibile. «Che c’è?»

«Ho un lavoro per te» disse Vinnie. «Voglio che trovi quel verme schifoso di Eddie DeChooch e voglio che trascini qui quel suo culo pelle e ossa. L’hanno beccato mentre trasferiva un carico di sigarette di contrabbando dalla Virginia e non si è presentato in tribunale in tribunale il giorno dell’udienza.»

Roteai gli occhi così in alto che quasi riuscii a vedermi crescere i capelli. «Non mi va di correre dietro a Eddie DeChooch. È vecchio e ammazza la gente, e poi esce con mia nonna.»

«Non uccide quasi più nessuno ormai» rispose Vinnie. «Ha la cataratta. L’ultima volta che ha provato a sparare a qualcuno ha svuotato un intero caricatore contro un asse da stiro.»

Vinnie è presidente e proprietario dell’agenzia Vincent Plum — Garanzie per cauzioni, a Trenton, nel New Jersey. Quando qualcuno viene accusato di un crimine, Vinnie paga al tribunale una cauzione in contanti, il tribunale rilascia l’imputato fino al giorno del processo, e Vinnie prega Iddio che l’imputato si presentì per l’udienza. Se l’imputato decide di rinunciare al piacere di avere un’udienza tutta sua, Vinnie ci rimette un sacco di soldi, a meno che io non riesca a trovare l’imputato e a riportarlo all’ovile. Mi chiamo Stephanie Plum e sono un’agente di custodia per gli inquisiti… altrimenti nota come cacciatrice di taglie. Ho iniziato questo lavoro in tempi magri e neanche il fatto di essermi diplomata con i voti più alti della mia classe è servito a farmi trovare un lavoro migliore. La situazione economica è migliorata e non ci sono validi motivi perché io debba continuare a dare la caccia ai cattivi, a parte il fatto che a mia madre dà fastidio e che non sono costretta a portare i collant quando lavoro.

«Darei l’incarico a Ranger, ma è fuori» disse Vinnie. «Quindi rimani tu.»

Ranger è una specie di soldato di ventura che ogni tanto lavora anche come cacciatore di taglie. È molto bravo… in tutto. E mette una paura da farsela sotto. «Come mai Ranger è fuori? E cosa intendi per fuori? Asia? Sud America? Miami?»

«Sta recuperando qualcuno per me a Portorico.» Vinnie fece scivolare una cartellina di documenti sulla scrivania. «Qui c’è il contratto di cauzione su DeChooch e la tua autorizzazione alla cattura. Vale cinquantamila dollari per me… cinquemila per te. Vai a casa di DeChooch e scopri perché ieri non si è presentato all’udienza. Connie ha telefonato ma non ha risposto nessuno. Cristo, potrebbe essere morto stecchito sul pavimento della cucina. Uscire con tua nonna farebbe morire stecchito chiunque.»

L’ufficio di Vinnie è sulla Hamilton, a prima vista non è il posto migliore per un ufficio di garanzie su cauzioni. La maggior parte di questo tipo di agenzie hanno la loro sede nelle vicinanze del carcere. Il fatto è che molte delle persone che Vinnie fa rilasciare su cauzione sono parenti oppure vicini di casa che abitano in traverse della Hamilton, nel Burg. Io sono cresciuta nel Burg e i miei genitori ci vivono ancora. È un quartiere davvero molto tranquillo, infatti i delinquenti del Burg stanno bene attenti a compiere i loro crimini altrove. Sì, okay, una volta Jimmy il Sipario ha fatto uscire di casa Garibaldi il Monco in pigiama e lo ha portato in macchina fino alla discarica… a ogni modo il pestaggio vero e proprio non è avvenuto al Burg. E i tipi che hanno trovato sepolti nel seminterrato del negozio di caramelle di Ferris Street non erano gente del Burg, quindi non contano ai fini statistici.

Connie Rosolli alzò gli occhi quando uscii dall’ufficio di Vinnie. Connie è la capoufficio. Amministra l’agenzia quando Vinnie è occupato a far rilasciare furfanti e/o a fornicare con animali da cortile.

Connie aveva una cotonatura che le faceva una testa tre volte tanto. Portava un maglioncino rosa con collo a V che le fasciava un paio di tette adatte a una donna molto più grossa e una gonna corta di maglina nera che invece sarebbe andata bene a una donna molto più piccola.

Connie lavora con Vinnie da quando ha aperto l’agenzia. Ha tenuto duro tutto questo tempo perché, pur avendo ben poca pazienza, quando ci sono delle vere giornatacce si paga da sola una sorta di «indennità di guerra» prendendola dalla cassa per le piccole spese.

Raggrinzì il viso quando vide che avevo in mano una cartellina di documenti. «Non avrai intenzione di andare a cercare Eddie DeChooch, vero?»

«Spero che sia morto.»

Lula era spaparanzata nel divano in similpelle che era stato addossato al muro e serviva da vasca di contenimento per i tizi usciti su cauzione e i loro poveri parenti. Lula e il divano erano più o meno della stessa tonalità di marrone, a eccezione dei capelli di Lula, quel giorno di un bel rosso ciliegia.

Mi sento sempre un po’ anemica quando sono accanto a Lula. Sono un’americana di terza generazione con antenati italo-ungheresi. Da mia madre ho preso la carnagione chiara, gli occhi azzurri e un buon metabolismo, grazie al quale posso mangiare la torta di compleanno e chiudere (quasi sempre) l’ultimo bottone dei miei Levi’s. Dalla famiglia paterna ho ereditato un cespuglio ingestibile di capelli castani e un debole per i gestacci. Se sono sola, con l’aiuto di una tonnellata di mascara e dieci centimetri di tacco, posso attirare un po’ d’attenzione. Ma accanto a Lula sembro invisibile.

«Ti darei una mano a trascinarlo di nuovo in galera» disse Lula. «Probabilmente ti farebbe comodo l’aiuto di una taglia forte come me. Peccato però che non mi piacciano i morti. I morti mi fanno accapponare la pelle.»

«Be’, a dire il vero non so ancora se è morto» dissi.

«Per me va bene, allora» disse Lula. «Sono con te. Se è vivo ho l’occasione di prendere a calci in culo un poveraccio, se invece è morto… me la filo.»

Lula fa la dura a parole, ma la verità è che siamo tutte e due piuttosto imbranate quando si tratta di prendere veramente qualcuno a calci nel sedere. Nella sua vita precedente, Lula faceva la prostituta e ora si occupa dell’archivio di Vinnie. Lula era brava a battere quanto lo è ad archiviare… e non è che archivi poi così bene.

«Forse dovremmo indossare il giubbotto antiproiettile» dissi.

Lula prese la borsa dall’ultimo cassetto dell’archivio. «Tu fa’ come vuoi, io di certo non metto nessun giubbotto di kevlar. Non ne abbiamo uno grande abbastanza e comunque mi rovinerebbe il look.»

Io portavo un paio di jeans e una T-shirt e non avevo nessun look da rovinare, quindi presi un giubbotto antiproiettile dal ripostiglio.

«Aspetta un attimo» fece Lula quando fummo sul marciapiede «cos’è questa?»

«Ho comprato un’auto nuova.»

«Be’ accidenti, ragazza, bel colpo. Questa sì che è una signora macchina.»

Era una Honda CR-V nera, e le rate per pagarla mi stavano uccidendo. Avevo dovuto scegliere tra mangiare e avere un look decente. Avevo rinunciato al look decente. Che diamine, tutto ha un prezzo, no?

«Dove siamo dirette?» chiese Lula, sistemandosi accanto a me. «Dove abita questo tizio?»

«Andiamo al Burg. Eddie DeChooch abita a tre isolati da casa dei miei.»

«Esce davvero con tua nonna?»

«L’ha incontrato due settimane fa a una veglia da Stiva, l’impresa di pompe funebri, dopodiché sono andati a mangiare una pizza insieme.»

«Pensi che abbiano fatto delle porcherie?»

Per poco non finii con l’auto sul marciapiede. «No! Che schifo!»

«Non si può mai dire» disse Lula.

DeChooch abita in una piccola bifamiliare in mattoni. Angela Margucci, settantenne, e la madre nonagenaria vivono in una metà della casa, mentre DeChooch abita nell’altra. Parcheggiai davanti alla metà di DeChooch, e insieme a Lula ci dirigemmo alla porta principale. Io avevo il giubbotto antiproiettile mentre Lula indossava una maglietta elasticizzata con stampa leopardata e dei pantacollant. Lula è una donna prosperosa e cerca sempre di mettere alla prova la resistenza della lycra.

«Vai avanti tu e vedi se è morto» disse Lula. «Se non è morto, fammi un fischio e io vengo a dargli un calcio in culo.»

«Certo, come no.»

«Uh» fece, sporgendo in fuori il labbro inferiore. «Pensi che non riuscirei a prenderlo a calci in culo?»

«Sarà meglio che rimani a lato della porta» suggerii. «Non si sa mai.»

«Buona idea» disse Lula, facendosi da parte. «Non ho paura di niente, ma mi dispiacerebbe proprio se mi si macchiasse di sangue la maglietta.»

Suonai il campanello e rimasi in attesa di risposta. Suonai un’altra volta. «Signor DeChooch?» gridai.

Angela Margucci fece capolino dalla porta di casa sua. Era più bassa di me di una quindicina di centimetri, con i capelli bianchi e un’ossatura da uccellino, una sigaretta ficcata tra le labbra sottili e occhi semichiusi per il fumo e l’età. «Cos’è tutto questo chiasso?»

«Sto cercando Eddie.»

Mi guardò più da vicino e quando mi riconobbe sembrò tornarle il buon umore. «Stephanie Plum. Santo cielo, non ti vedo da un bel po’. Si diceva che fossi stata messa incinta da quello sbirro, Joe Morelli.»

«Una malignità.»

«Che mi dice di DeChooch?» chiese Lula ad Angela. «Si è visto in giro?»

«È a casa sua» rispose Angela. «Ormai non va più da nessuna parte. È depresso. Non parla.»

«Non risponde alla porta.»

«Non risponde neanche al telefono. Entrate pure da sole. Non chiude la porta a chiave. Dice che aspetta che qualcuno venga a sparargli e a dargli il colpo di grazia.»

«Be’, non siamo quel qualcuno» commentò Lula. «È anche vero che se fosse disposto a pagare potrei conoscere qualcuno che…»

Aprii con cautela la porta di casa di Eddie ed entrai nell’atrio. «Signor DeChooch?»

«Andate via.»

La voce proveniva dal soggiorno sulla mia destra. Le tende erano tirate e la stanza era buia. Strizzai gli occhi in direzione della voce.

«Sono Stephanie Plum, signor DeChooch. Non si è presentato in tribunale. Vinnie è preoccupato per lei.»

«Non ci vado in tribunale» rispose DeChooch. «Non vado da nessuna parte.»

Feci qualche altro passo avanti nella stanza e vidi che era seduto su una sedia in un angolo. Era un ometto asciutto con i capelli bianchi e arruffati. Indossava una maglietta intima, un paio di boxer e calzini neri con scarpe nere.

«Perché ha su le scarpe?» chiese Lula.

DeChooch guardò giù. «Sentivo freddo ai piedi.»

«Che ne dice di finire di vestirsi e poi la accompagniamo a fissare un’altra udienza?» dissi.

«Cos’è, sei sorda? Ti ho detto che non vado da nessuna parte. Guardami. Sono in depressione.»

«Forse è in depressione perché non ha addosso i pantaloni» disse Lula. «Io mi sentirei di sicuro meglio se non fossi costretta a vedere il suo coso che le penzola dai boxer.»

«Voi non sapete un bel niente» disse DeChooch. «Non sapete come ci si sente a essere vecchi e a non poter fare più niente.»

«Già, non potrei proprio saperlo» rispose Lula.

Quello in cui Lula e io eravamo esperte, invece, era sentirsi giovani e fare tutto per il verso sbagliato. Lula e io non facevamo mai niente per il verso giusto.

«Cos’hai addosso?» mi chiese DeChooch. «Cristo, è un giubbotto antiproiettile? Adesso sì che mi offendo, cazzo. È come dire che non sono abbastanza bravo da spararti in testa.»

«Ha solo pensato che visto che lei ha fatto fuori quell’asse da stiro, magari non sarebbe stata una cattiva idea prendere qualche precauzione in più» disse Lula.

«L’asse da stiro! Non si parla che di questo. Uno fa uno sbaglio ed ecco che tutti sanno solo parlare di questo.» Scacciò quel pensiero con la mano. «Al diavolo, chi voglio prendere in giro. Sono un uomo finito. Sapete per cosa mi hanno arrestato? Mi hanno arrestato per contrabbando di sigarette dalla Virginia. Non sono neanche più capace di contrabbandare sigarette.» Abbassò gli occhi. «Sono un perdente. Un fottutissimo perdente. Dovrei spararmi.»

«Forse ha solo avuto un po’ di sfortuna» disse Lula. «Scommetto che la prossima volta che cercherà di contrabbandare qualcosa andrà tutto bene.»

«La prostata mi ha giocato un brutto scherzo» disse DeChooch. «Mi sono dovuto fermare per pisciare. È là che mi hanno beccato… nella piazzola di sosta.»

«Non è giusto» commentò Lula.

«La vita non è giusta. Non c’è niente di giusto nella vita. Ho sempre lavorato sodo e ho raggiunto tanti… traguardi. E adesso che sono vecchio cosa succede? Succede che mi arrestano mentre piscio. È maledettamente imbarazzante.»

La casa era arredata senza uno stile preciso. Probabilmente era stata ammobiliata nel corso degli anni con pezzi rubacchiali qua e là. Non c’era nessuna signora DeChooch. Era morta da anni. Per quel che ne sapevo non c’erano mai stati dei piccoli DeChooch.

«Forse dovrebbe vestirsi» dissi. «Dobbiamo davvero andare giù in città.»

«Perché no?» replicò DeChooch. «Non fa differenza dove sto seduto. Posso stare qui come giù in città.» Si alzò, fece un sospiro avvilito e si trascinò con le spalle incurvate fino alle scale. Si girò per guardarci. «Datemi un minuto.»

La casa assomigliava molto a quella dei miei genitori. Soggiorno sul davanti, sala da pranzo al centro e cucina affacciata sul cortiletto sul retro. Sopra dovevano esserci tre piccole camere da letto e un bagno.

Lula e io rimanemmo sedute nel buio silenzioso della casa ad ascoltare DeChooch che girava per la camera da letto al piano superiore.

«Avrebbe dovuto contrabbandare del Prozac al posto delle sigarette» disse Lula. «Non gli avrebbe fatto male buttarne giù qualche pasticca.»

«Dovrebbe sistemarsi la vista» dissi. «Mia zia Rose si è operata di cataratta e ora ci vede di nuovo.»

«Già, così se gli tornasse la vista sparerebbe a un sacco di altra gente. Scommetto che questo lo tirerebbe su di morale.»

Okay, forse non avrebbe dovuto sistemarsi la vista.

Lula guardò verso le scale. «Che sta combinando lassù? Quanto gli ci vuole a mettersi un paio di pantaloni?»

«Magari non li trova.»

«Credi che sia cieco fino a questo punto?»

Alzai le spalle.

«Ora che ci penso, non lo sento più camminare» osservò Lula. «Forse si è addormentato. Ai vecchi capita spesso.»

Andai vicino alle scale e gridai: «Signor DeChooch? Va tutto bene?».

Nessuna risposta.

Gridai un’altra volta.

«Oh porca miseria» disse Lula.

Salii le scale due gradini alla volta. La porta della camera da letto di DeChooch era chiusa e così bussai forte. «Signor DeChooch?»

Ancora nessuna risposta.

Aprii la porta e diedi un’occhiata all’interno. La stanza era vuota. E così anche il bagno e le altre due camere da letto. Di DeChooch nessuna traccia.

Merda.

«Che succede?» gridò Lula dal piano di sotto.

«DeChooch non c’è.»

«Cosa?»

Lula e io perquisimmo la casa. Cercammo sotto i letti e negli armadi, in cantina e in garage. Gli armadi di DeChooch erano pieni di vestiti. Lo spazzolino da denti era ancora in bagno. L’auto se ne stava tranquilla in garage.

«È troppo strano» disse Lula. «Come è possibile che se ne sia andato senza farsi vedere? Eravamo sedute proprio vicino all’ingresso. L’avremmo visto mentre sgattaiolava via.»

Eravamo nel cortiletto sul retro e mi cadde l’occhio sul secondo piano. La finestra del bagno si affacciava sul tetto piatto sopra la porta del retro, quella che dalla cucina portava al cortile. Proprio come a casa dei miei. Quando andavo al liceo scavalcavo di nascosto quella finestra la sera tardi per poter uscire con gli amici. Mia sorella Valerie, la figlia perfetta, non si sognava neanche di fare una cosa del genere.

«Potrebbe essere uscito dalla finestra» dissi. «Non è un salto troppo alto con quei due bidoni della spazzatura che ha addossato alla casa.»

«Be’, ha una bella faccia tosta a presentarsi come un povero vecchio, debole e depresso e poi, appena voltiamo le spalle, salta fuori dalla finestra. Da’ retta a me, non ci si può fidare più di nessuno.»

«Ci ha fregato.»

«Maledetto latitante.»

Rientrai in casa, curiosai in cucina e, senza neanche dover cercare troppo, trovai un mazzo di chiavi. Ne provai una sulla porta principale. Perfetto. Chiusi la porta e mi infilai le chiavi in tasca. Per mia esperienza, prima o poi tutti tornano a casa. E quando toccherà a DeChooch tornare a casa, forse si deciderà a chiudere a chiave come si deve.

Bussai alla porta di Angela e le chiesi se per caso non stesse nascondendo Eddie DeChooch in casa sua. Disse che non l’aveva visto quel giorno, così le lasciai il mio biglietto da visita e le dissi di chiamarmi nel caso il suo vicino si fosse fatto vivo.

Lula e io salimmo sulla CR-V, misi in moto ed ecco materializzarsi nell’anticamera del mio cervello l’immagine del mazzo di chiavi di DeChooch. Chiave di casa, chiave dell’auto… e una terza chiave. Tirai fuori dalla borsa il mazzo e lo esaminai.

«A cosa credi che serva questa terza chiave?» domandai a Lula.

«È per uno di quei lucchetti Yale che si usano per gli armadietti delle palestre, i capanni degli attrezzi e roba simile.»

«Ti ricordi di aver visto un capanno degli attrezzi?»

«Non so. Non ci ho fatto caso. Pensi che potrebbe essersi nascosto in un capanno in compagnia di tosaerba e tagliasiepe?»

Spensi il motore e scendemmo dall’auto dirette al cortile.

«Non vedo nessun capanno» disse Lula. «Vedo solo un paio di bidoni della spazzatura e un garage.»

Sbirciammo nel garage semibuio per la seconda volta.

«Non c’è niente qui, a parte la macchina» disse Lula.

Aggirammo il garage e sul retro trovammo il capanno.

«Ma è chiuso a chiave» disse Lula. «Dovrebbe essere Houdini per entrare e poi chiudere a chiave dall’esterno. Oltretutto qui puzza da far schifo.»

Infilai la chiave nella serratura e con uno scatto il lucchetto si aprì.

«Aspetta» disse Lula. «Voto per lasciare chiuso questo capanno. Non voglio sapere cos’è che puzza così tanto.»

Tirai forte la maniglia, la porta del capanno si spalancò e ci ritrovammo davanti Loretta Ricci che ci fissava a bocca aperta con occhi che ormai non potevano più vedere e cinque fori di proiettile sul petto. Era seduta sul pavimento sporco, con la schiena appoggiata contro la parete di lamiera ondulata. Malgrado la calce che le aveva sbiancato i capelli, il disfacimento che segue alla morte non si era arrestato.

«Merda, questa non è un asse da stiro» disse Lula.

Con un colpo forte chiusi la porta, rimisi a posto il lucchetto e mi allontanai il più possibile dal capanno. Dissi a me stessa che non avrei vomitato e feci una serie di respiri profondi. «Avevi ragione» ammisi. «Non avrei dovuto aprire quella porta.»

«Non mi dai mai ascolto. Adesso guarda con cosa ci ritroviamo. E tutto perché hai voluto fare la ficcanaso. E non solo, ma io so già cosa succederà adesso. Chiamerai la polizia e rimarremo incastrate tutto il giorno. Se avessi un po’ di buon senso faresti finta di non aver visto niente e ce ne andremmo a comprare patatine fritte e Coca-Cola. Non ci starebbero per niente male un po’ di patatine e una Coca.»

Le consegnai le chiavi della mia auto. «Vai a prenderti qualcosa da mangiare, ma fai in modo di tornare qui tra mezz’ora. Giuro che se mi lasci da sola ti mando a cercare dalla polizia.»

«Cavolo, questa non me la merito. Quando mai ti ho abbandonato?»

«Mi abbandoni in continuazione!»

«Uh» fece Lula.

Presi il cellulare e chiamai la polizia. Nel giro di pochi minuti l’auto di pattuglia parcheggiò davanti alla casa. Erano Carl Costanza e il suo compagno, soprannominato il Cagnone.

«Quando è arrivata la chiamata, me lo sentivo che eri tu» mi disse Carl. «È passato quasi un mese dall’ultima volta che hai trovato un cadavere. Ormai era ora.»

«Non trovo così tanti cadaveri!»

«Ehi» disse Cagnone «è un giubbotto di kevlar quello che porti?»

«E pure nuovo di zecca» rispose Costanza. «Non ha neanche un buco di proiettile.»

I piedipiatti di Trenton sono gente di prima scelta ma il loro budget non è esattamente quello di Beverly Hills. Se sei uno sbirro di Trenton speri che Babbo Natale ti porti un giubbotto antiproiettile, perché si tratta di un articolo che viene acquistato principalmente con i soldi di donazioni e sovvenzioni varie, e non viene consegnato automaticamente insieme al distintivo.

Avevo tolto la chiave di casa dal portachiavi di DeChooch e me l’ero messa al sicuro in tasca. Consegnai le altre due chiavi a Costanza. «Loretta Ricci è nel capanno degli attrezzi. E non ha una bella cera.»

Conoscevo Loretta Ricci solo di vista. Viveva al Burg ed era vedova. Credo avesse circa sessantacinque anni. L’avevo vista qualche volta alla macelleria Giovichinni ordinare carne pressata.

Vinnie si allungò in avanti sulla sedia e guardò me e Lula strizzando gli occhi. «Come sarebbe a dire che avete perso DeChooch?»

«Non è stata colpa nostra» si giustificò Lula. «Ha giocato sporco.»

«Be’, che diamine» disse Vinnie «non posso certo pretendere che siate capaci di acciuffare uno che gioca sporco.»

«Mmm» fece Lula. «Senti, senti.»

«Dieci a uno che lo trovate al circolo sociale» suggerì Vinnie.

Una volta c’erano molti circoli sociali potenti al Burg. Erano potenti perché era lì che venivano organizzate le lotterie clandestine. Poi lo Stato del New Jersey ha legalizzato il gioco d’azzardo e in breve tempo l’industria locale delle lotterie è andata a gambe all’aria. Adesso sono rimasti pochi circoli sociali al Burg, e i loro soci se ne stanno tutti tranquillamente seduti a leggere «Modern Maturity», la rivista dell’Associazione dei pensionati, e a confrontarsi i pacemaker.

«Non credo che DeChooch sia al circolo sociale» dissi a Vinnie. «Abbiamo trovato Loretta Ricci morta nel suo capanno degli attrezzi e credo che il nostro uomo sia già in viaggio per Rio de Janeiro.»

In mancanza di qualcosa di meglio da fare, me ne andai a casa. Il cielo era coperto e aveva cominciato a piovigginare. Era pomeriggio inoltrato e vedere Loretta Ricci mi aveva scosso non poco. Lasciai l’auto nel parcheggio, aprii con una spinta la doppia porta a vetri che conduceva nel piccolo ingresso e presi l’ascensore fino al secondo piano.

Entrai nel mio appartamento e puntai dritta alla luce rossa intermittente della segreteria telefonica.

Il primo messaggio era di Joe Morelli. «Chiamami.» Il tono non era amichevole.

Il secondo messaggio era del mio amico il Luna. «Ehi, piccola» diceva «sono il Luna.» Tutto qui. Fine del messaggio.

Il terzo messaggio era di mia madre. «Perché proprio a me?» chiedeva. «Perché devo avere una figlia che trova cadaveri? Dove ho sbagliato? La figlia di Emily Beeber non trova mai cadaveri. La figlia di Joanne Malinoski non trova mai cadaveri. Perché proprio a me!»

Le notizie corrono veloci al Burg.

Il quarto e ultimo messaggio era di nuovo di mia madre. «Sto preparando un bel pollo per cena e per dolce c’è la torta rovesciata di ananas. Metto un piatto in più se non hai altri programmi.»

Con la torta di ananas mia madre mi stava mettendo con le spalle al muro.

Il mio criceto, Rex, dormiva nella sua lattina di zuppa, dentro la gabbietta sul piano della cucina. Diedi un paio di colpetti sul lato della gabbietta e gli dissi ciao, ma Rex non si mosse. Probabilmente stava recuperando il sonno dopo una dura nottata passata a correre sulla ruota.

Mi chiesi se fosse il caso di chiamare Morelli e decisi di no. L’ultima volta che gli avevo parlato era finita a suon di urli. Dopo aver passato il pomeriggio con la signora Ricci non avevo la forza di urlare a Morelli.

Mi trascinai in camera e mi lasciai cadere sul letto a ragionare. Ragionare assomiglia molto spesso a dormicchiare, anche se l’intento è diverso. Ero nel bel mezzo di uno di questi profondi ragionamenti quando squillò il telefono. Quando finalmente riuscii a emergere da quelle serie riflessioni non c’era più nessuno all’altro capo del telefono, solo un nuovo messaggio da parte del Luna.

«Uffa» diceva. Tutto lì. Nient’altro.

È risaputo che il Luna fa esperimenti con sostanze farmaceutiche che generalmente non portano a niente di buono. Di norma, la cosa migliore è ignorarlo.

Infilai la testa nel frigorifero e trovai un barattolo di olive, qualche foglia di lattuga mezza marcia, una bottìglia di birra sola soletta e un’arancia con una muffa bluastra. Niente torta rovesciata di ananas.

Ce n’era una che mi aspettava a pochi chilometri da lì, a casa dei miei. Controllai la cinta dei miei Levi’s. Non c’era spazio. Forse non avevo poi così bisogno della torta.

Bevvi la birra e mangiai qualche oliva. Niente male, ma non era il dolce di mia madre. Feci un sospiro di rassegnazione. Stavo per capitolare. Volevo la torta.

Mia madre e mia nonna erano sulla soglia quando accostai al marciapiede davanti a casa loro. Nonna Mazur si era trasferita dai miei subito dopo che nonno Mazur era salito con il suo barattolo di monetine a giocare con la grande slot-machine del buon Dio. Il mese scorso la nonna ha finalmente superato l’esame per la patente di guida e si è comprata una Corvette rossa. Le sono bastati cinque giorni per mettere insieme un numero di multe per eccesso di velocità sufficiente a farle ritirare la patente.

«Il pollo è in tavola» annunciò mia madre. «Stavamo giusto per sederci.»

«Ti è andata bene che si è fatto un po’ tardi per cena» disse la nonna. «Tutta colpa del telefono che non ha smesso di squillare un minuto. Loretta Ricci fa notizia.» Si mise seduta e spiegò il tovagliolo. «Non che mi sorprenda. Me lo sentivo già da molto tempo che Loretta cercava guai. Era davvero arrapata, quella. Si è scatenata dopo la morte di Dominic. Maniaca di uomini.»

Mio padre sedeva a capotavola e aveva l’espressione di uno che vuole spararsi.

«Saltava da un uomo all’altro al circolo degli anziani» disse la nonna. «E si dice che fosse davvero una che non si faceva troppi problemi.»

La carne veniva sempre messa davanti a mio padre, quindi fu lui a servirsi per primo. L’idea di mia madre era che se il marito fosse rimasto occupato a mangiare forse non gli sarebbe venuta voglia di saltare addosso a mia nonna e strangolarla.

«Com’è il pollo?» domandò mia madre. «Vi sembra che si sia asciugato troppo?»

No, dicemmo tutti, il pollo non si era asciugato. Il pollo andava benissimo.

«Ho visto un programma in TV l’altra settimana su una donna come lei» disse la nonna. «Era una donna molto provocante e si è scoperto che uno degli uomini con cui aveva una relazione era un alieno venuto dallo spazio. L’alieno ha preso questa donna, l’ha portata nella sua navicella spaziale e le ha fatto tutta una serie di cose.»

Mio padre si curvò ancora di più sul cibo che aveva davanti e bofonchiò qualcosa che non riuscii a capire, tranne le parole vecchia strega pazza.

«Che ne sai di Loretta ed Eddie DeChooch?» chiesi. «Credi che avessero una relazione?»

«Non che io sappia» rispose la nonna. «Da quel che mi risulta, a Loretta piacevano gli uomini focosi, e a Eddie DeChooch non si drizza. Sono uscita con lui un paio di volte e ti assicuro che il suo coso è insensibile come il pomello di una porta. Ho provato di tutto, ma non è successo niente.»

Mio padre alzò gli occhi per guardare la nonna e gli cadde un pezzo di carne dalla bocca.

Mia madre, all’altro capo della tavola, era arrossita. Inspirò e si fece il segno della croce. «Madre di Dio» disse.

Mi misi a giocherellare con la forchetta. «Se me ne andassi ora immagino che non ci sarebbe nessuna torta rovesciata di ananas per me, vero?»

«Mai più per il resto della tua vita» rispose mia madre.

«Che aspetto aveva?» domandò la nonna. «Come era vestita Loretta? Che acconciatura aveva? Doris Szuch ha detto di averla vista al negozio di alimentari ieri pomeriggio, quindi immagino che Loretta non fosse già decomposta e piena di vermi.»

Mio padre si allungò a prendere il coltello per tagliare la carne e mia madre lo fulminò con uno sguardo d’acciaio che diceva non pensarci nemmeno.

Mio padre è un pensionato delle poste. Fa il taxista part time, compra solo auto americane, e fuma sigari dietro al garage quando mia madre non è in casa. Non credo che sarebbe davvero capace di dare una coltellata a nonna Mazur. Comunque, se lei si strozzasse con un osso di pollo non penso che gli dispiacerebbe poi tanto.

«Sto cercando Eddie DeChooch» dissi alla nonna. «È un MC, Mancata Comparizione. Hai idea di dove potrebbe nascondersi?»

«È amico di Ziggy Garvey e Benny Colucci. E poi c’è suo nipote Ronald.»

«Pensi che lascerebbe il Paese?»

«Potrebbe essere stato lui a sforacchiare Loretta? Non credo. È già stato accusato di omicidio in passato e non ha mai lasciato il Paese. Almeno non che io sappia.»

«Non lo sopporto» disse mia madre. «Non sopporto di avere una figlia che va in cerca di assassini. Cos’è successo di tanto grave con Vinnie da meritarti questo incarico?» Guardò mio padre di traverso. «Frank, è un parente della tua famiglia. Devi parlargli. E tu, perché non puoi assomigliare un po’ di più a tua sorella Valerie?» mi chiese mia madre. «È felicemente sposata e ha due bellissime bambine. Non va in giro a dare la caccia agli assassini e a stanare cadaveri.»

«Stephanie è quasi felicemente sposata» osservò la nonna. «Si è fidanzata il mese scorso.»

«Vedete qualche anello al dito?» domandò mia madre.

Tutti mi guardarono l’anulare senza anelli.

«Non mi va di parlarne» dissi.

«Credo che Stephanie si sia presa una cotta per un altro» disse la nonna. «Credo che abbia un debole per un certo Ranger.»

Mio padre si fermò con la forchetta infilata in una montagnetta di patate. «Chi, il cacciatore di taglie? Quel tipo nero?»

Mio padre era un fervente sostenitore delle pari opportunità. Non andava in giro a disegnare svastiche nelle chiese, e non faceva discriminazioni con le minoranze. Era solo che, fatta forse eccezione per mia madre, se non eri italiano non eri all’altezza.

«È cubano-americano» spiegai.

Mia madre si fece un altro segno della croce.

Capitolo 2

Era buio quando me ne andai da casa dei miei genitori. Non mi aspettavo che Eddie DeChooch fosse rientrato, ma passai comunque con l’auto davanti a casa sua. Nella metà della famiglia Margucci le luci erano tutte accese. La metà di DeChooch, invece, era inanimata. Con la coda dell’occhio vidi nel cortile sul retro una striscia del nastro giallo usato dalla polizia per delimitare la scena del delitto.

Avrei voluto fare delle domande alla signora Margucci, ma le tenni per me. Non mi andava di disturbarla quella sera. Aveva già avuto una brutta giornata. Sarei andata da lei l’indomani e prima mi sarei fermata in ufficio a prendere l’indirizzo di Garvey e Colucci.

Feci un giro intorno all’isolato e poi mi diressi verso la Hamilton Avenue.

Il palazzo dove si trova il mio appartamento dista due, tre chilometri dal Burg. È un massiccio edificio di mattoni a tre piani, costruito negli anni Settanta puntando al risparmio. Non offre molti comfort, ma c’è un bravo custode disposto a fare di tutto per una confezione di birra da sei, l’ascensore funziona quasi sempre, e l’affitto è ragionevole.

Lasciai l’auto nel parcheggio e guardai in su, verso il mio appartamento. Le luci erano accese. C’era qualcuno in casa e quel qualcuno non ero io. Probabilmente si trattava di Morelli. Aveva la chiave. Il solo pensiero di vederlo mi provocò un’ondata di eccitazione, seguita rapidamente da un senso di vuoto alla bocca dello stomaco. Io e Morelli ci conosciamo da quando eravamo bambini e le cose non sono mai state facili tra noi.

Salii le scale cercando di capire come mi sentivo e optai per il «relativamente felice». La verità è che Morelli e io siamo praticamente sicuri di amarci. Quello di cui non siamo sicuri è di riuscire a vivere insieme per il resto della nostra vita. L’idea di sposare un piedipiatti non mi entusiasma. Morelli non vuole sposare una cacciatrice di taglie. E poi c’è Ranger.

Aprii la porta di casa e trovai due uomini anziani seduti sul divano che guardavano una partita in TV. Nessuna traccia di Morelli. Si alzarono in piedi e mi accolsero con un sorriso.

«Tu devi essere Stephanie Plum» disse uno dei due. «Passiamo alle presentazioni: io sono Benny Colucci e questo è il mio amico e collega Ziggy Garvey.»

«Come siete entrati nel mio appartamento?»

«La porta era aperta.»

«Non è vero.»

Il sorriso si fece ancora più ampio. «È stato Ziggy. Ci sa fare con le serrature.»

Ziggy si illuminò in viso e agitò le dita. «Sono un vecchio scemo, ma le dita mi funzionano ancora.»

«L’idea che la gente mi entri in casa quando non ci sono non mi entusiasma» dissi.

Benny annuì serio. «Capisco, ma abbiamo pensato che in questa particolare circostanza si potesse fare, considerato che abbiamo qualcosa di molto importante da discutere.»

«E di urgente» aggiunse Ziggy. «Qualcosa di molto urgente.»

Si scambiarono un’occhiata complice. Era urgente.

«E un’altra cosa» disse Ziggy. «Hai dei vicini ficcanaso. Ti stavamo aspettando nell’atrio, ma c’era una signora che continuava ad aprire la porta e a guardarci. Ci ha messo a disagio.»

«Credo che fosse interessata a noi, sai cosa intendo. Ma noi non facciamo quel genere di cose. Siamo uomini sposati.»

«Forse quando eravamo più giovani» disse Ziggy con un sorriso malizioso.

«Cosa c’è dunque di tanto urgente?»

«Si dà il caso che io e Ziggy siamo ottimi amici di Eddie DeChooch» disse Benny. «Ziggy, Eddie e io ci conosciamo da una vita. Io e Ziggy siamo preoccupati per l’improvvisa scomparsa di Eddie. Non vorremmo che si fosse messo nei guai.»

«Perché ha ucciso Loretta Ricci?»

«No, non è quello il problema. La gente non fa che accusare Eddie di aver ucciso qualcuno.»

Ziggy si allungò in avanti con aria cospiratrice e sussurrò: «Calunnie, nient’altro che calunnie».

Ovviamente.

«Siamo preoccupati perché pensiamo che Eddie possa non essere lucido» disse Benny. «È in depressione. Quando lo andiamo a trovare non ci rivolge la parola. Non è mai stato così.»

«Non è normale» disse Ziggy.

«A ogni modo, sappiamo che lo stai cercando e non vogliamo che gli succeda niente, capisci?»

«Non volete che gli spari.»

«Esatto.»

«Non sparo quasi mai alle persone.»

«Qualche volta può succedere, ma Dio non voglia che tocchi a Choochy» disse Benny. «Vogliamo evitare che tocchi a Choochy.»

«Ehi» dissi «non sarò certo io a sparargli.»

«E poi c’è dell’altro» disse Benny. «Stiamo cercando di trovare Choochy perché vogliamo aiutarlo.»

Ziggy annuì. «Pensiamo che forse dovrebbe farsi vedere da un medico. Magari da uno psichiatra. E così abbiamo pensato che potremmo collaborare, visto che anche tu lo stai cercando.»

«Certo» dissi «se lo trovo vi faccio un fischio.» Non prima di averlo portato davanti al tribunale e averlo fatto rinchiudere in galera.

«E ci stavamo chiedendo se per caso tu non stia già seguendo qualche pista.»

«No. Nessuna.»

«Cavolo, contavamo su di te. Abbiamo sentito dire che sei piuttosto brava.»

«A dire il vero non sono poi così brava… direi più fortunata.»

Altro scambio di occhiate.

«E adesso ti sentì, come dire, fortunata?» domandò Benny.

Difficile sentirsi fortunata quando ti sei appena lasciata sfuggire un anziano depresso, hai trovato una donna morta nel suo capanno degli attrezzi e sei reduce da una cena con i tuoi genitori. «Be’, è un po’ presto per dirlo.»

Ci fu un po’ di movimento sul pianerottolo, poi la porta si spalancò e il Luna entrò come se fosse la cosa più normale del mondo. Indossava una tuta elasticizzata color porpora con una grossa L d’argento cucita sul petto.

«Ehi, piccola» disse il Luna. «Ho provato a chiamarti ma non eri mai a casa. Volevo farti vedere il mio nuovo costume da Super Luna.»

«Perdinci» disse Benny «sembri proprio una fottutissima checca.»

«Sono un supereroe, amico» disse il Luna.

«A me sembri più un Super Finocchio. Giri sempre con quel costume?»

«Certo che no, amico. Questo è il mio costume segreto. Di solito lo metto solo quando sono impegnato in una super azione, ma volevo che la mia piccola amica mi vedesse in tutto il mio splendore, così mi sono cambiato nell’atrio.»

«Sai volare come Superman?» chiese Benny al Luna.

«No, ma so volare con la mente, amico. Mi libro col pensiero.»

«Oh, porca miseria» commentò Benny.

Ziggy guardò l’orologio. «Dobbiamo andare. Se scopri qualcosa su Choochy ci fai sapere, d’accordo?»

«Certo.» Forse.

Li guardai andare via. Erano come Stanlio e Ollio. Benny era in sovrappeso di una venticinquina di chili e i doppi menti gli strabordavano dal colletto. Ziggy assomigliava alla carcassa di un tacchino. Immaginavo che vivessero entrambi al Burg e che fossero membri del circolo di Chooch, ma non lo sapevo per certo. Immaginavo anche che fossero schedati come ex latitanti di Vincent Plum dato che non si erano preoccupati di lasciarmi i loro numeri di telefono.

«Allora che ne dici del costume?» mi chiese il Luna quando Benny e Ziggy se ne furono andati. «Io e Dougie ne abbiamo trovato uno scatolone intero. Credo che siano per nuotatori, podisti o roba del genere. Io e Dougie non conosciamo nessun nuotatore che potrebbe usarli, ma abbiamo pensato che si potrebbe trasformarli in Super Costumi. Vedi, li puoi indossare sotto i vestiti e poi, quando devi fare il supereroe, non devi far altro che spogliarti. L’unico problema è che non abbiamo mantelle. Ecco perché probabilmente il vecchio non ha capito che ero un supereroe. Perché mi manca la mantella.»

«Non credi seriamente di essere un supereroe, vero?»

«Intendi nella vita reale?»

«Esatto.»

Il Luna fece un’espressione stupita. «I supereroi sono personaggi di fantasia. Non te l’ha mai detto nessuno?»

«Volevo solo una conferma.»

Walter «Luna» Dunphy e Dougie «il Commerciante» Kruper erano stati miei compagni di liceo.

Il Luna abita con altri due ragazzi in una casetta a schiera su Grant Street. Insieme formano la Legione dei Perdenti. Sono tutti fumatori di marijuana sbalestrati, che passano da un lavoretto all’altro, vivendo alla giornata. Ma sono anche tranquilli, innocui e assolutamente adottabili. Non che io frequenti il Luna regolarmente. Direi piuttosto che ci teniamo in contatto, e quando le nostre strade si incrociano mi suscita sempre sentimenti materni. Il Luna è come un povero gattino randagio che si fa vivo di tanto in tanto per una ciotola di croccantini.

Dougie abita diversi caseggiati più giù nella stessa fila di case a schiera. Al liceo Dougie era quello che portava sfigatissime camicie coi bottoni quando tutti gli altri indossavano le T-shirt. Dougie non prendeva voti alti, non faceva sport, non suonava uno strumento, e non aveva una bella macchina. L’unica cosa che sapeva fare bene era succhiare bibite dalla cannuccia con il naso.

Girava voce che dopo il diploma Dougie si fosse trasferito in Arkansas e fosse morto. Ma poi qualche mese fa Dougie è ricomparso, vivo e vegeto, al Burg. E il mese scorso è stato arrestato dalla polizia per ricettazione di refurtiva fuori casa sua. Al momento dell’arresto la sua attività commerciale era sembrata più un servizio alla comunità che un crimine vero e proprio in quanto era diventato il fornitore ufficiale di Metamucil a prezzo scontato, e per la prima volta dopo tanti anni i vecchi del Burg andavano di corpo con regolarità.

«Credevo che Dougie avesse chiuso la sua attività» dissi al Luna.

«Guarda che questi costumi li abbiamo veramente trovati. Erano in uno scatolone in soffitta. Stavamo pulendo casa e ci sono capitati fra le mani.»

Ero quasi sicura di credergli.

«Che ne pensi, allora?» mi chiese. «Grandioso, eh?»

Il costume era in lycra leggera e vestiva perfettamente la sua corporatura da spilungone, senza fare una piega… nemmeno nella zona del suo cosino. Davvero non lasciava molto all’immaginazione e se l’avesse indossato Ranger non mi sarei lamentata, ma così il Luna metteva in mostra più di quanto ero disposta a vedere.

«Il costume è eccezionale.»

«Visto che io e Dougie abbiamo questi bellissimi costumi, abbiamo deciso di dedicarci alla lotta contro il crimine… come Batman.»

Barman mi sembrava una buona alternativa. Di solito il Luna e Dougie impersonavano il Capitano Kirk e il Dottor Spock.

Il Luna si tirò via il cappuccio di lycra e lasciò liberi i lunghi capelli castani. «Dovevamo iniziare a combattere il crimine questa notte. L’unico problema è che Dougie se ne è andato.»

«Andato? Che significa andato?»

«Scomparso, piccola. Mi ha chiamato martedì per dirmi che aveva delle cose da fare ma che ieri sarei comunque potuto andare da lui a vedere l’incontro di wrestling. Dovevamo guardarlo sulla TV a grande schermo di Dougie. Una cosa grandiosa, piccola. In ogni modo, Dougie non si è fatto vedere. Non si sarebbe perso il wrestling se non fosse successo qualcosa di brutto. Ha addosso quattro cercapersone ma non è raggiungibile in nessuno. Non so cosa pensare.»

«Sei andato in giro a cercarlo? Non potrebbe essere a casa di un amico?»

«Credimi, non è da lui perdersi un incontro di wrestling» rispose il Luna. «Nessuno si perderebbe un incontro di wrestling, piccola. Era tutto eccitato all’idea. Credo che sia successo qualcosa di brutto.»

«Tipo?»

«Non so. Ma ho una pessima sensazione.»

Tirammo tutti e due il fiato quando il telefono squillò, come se per il solo fatto di averla immaginata, la catastrofe si fosse davvero compiuta.

«È qui» disse la nonna all’altro capo del telefono.

«Chi? Dove?»

«Eddie DeChooch! Dopo che te ne sei andata, Mabel è venuta a prendermi per andare a porgere l’estremo saluto ad Anthony Varga. È stato sistemato per la veglia da Stiva, che ha fatto un ottimo lavoro. Non so come faccia. Era da ventìcinque anni che non vedevo Anthony Varga così in forma. Avrebbe dovuto rivolgersi a Stiva quando era ancora vivo. In ogni modo, siamo ancora qui ed Eddie DeChooch è appena entrato nella sala.»

«Arrivo immediatamente.»

Non importava se soffrivi di depressione o eri ricercato per omicidio: al Burg si andava comunque a porgere l’estremo saluto.

Presi la borsa a tracolla dal piano della cucina e spinsi il Luna fuori dalla porta. «Devo correre via. Faccio qualche telefonata e poi ti richiamo. Nel frattempo tu vai a casa e chissà, forse Dougie si farà vivo.»

«In quale casa dovrei andare, piccola? A casa di Dougie o a casa mia?»

«A casa tua. E dai una controllata a casa di Dougie ogni tanto.»

Il fatto che il Luna fosse preoccupato per Dougie mi disturbava, ma non sembrava una cosa grave. Però Dougie si era perso l’incontro di wrestling. E il Luna aveva ragione… nessuno si perde il wrestling. Almeno non nel New Jersey.

Attraversai di corsa il corridoio e poi le scale. Sfrecciai nell’atrio, uscii dal portone e salii in macchina. L’impresa di pompe funebri di Stiva era a circa tre chilometri sulla Hamilton Avenue. Mentalmente feci un inventario del mio equipaggiamento. Spray urticante e manette nella borsa. Probabilmente c’era anche la scacciacani, ma non era detto che fosse carica. La calibro .38 era a casa, nel barattolo dei biscotti. E avevo una limetta per unghie, in caso di corpo a corpo.

L’impresa di pompe funebri di Stiva si trova in un edificio bianco che una volta era una casa privata. Per venire incontro alle esigenze dell’attività sono stati aggiunti dei garage dove alloggiare i carri funebri e delle salette dove ospitare i vari defunti e i loro parenti e amici in visita. C’è anche un piccolo parcheggio. Le finestre hanno persiane nere e l’ampia veranda sul davanti ha un bel tappeto verde di quelli che vanno bene sia per gli interni sia per l’esterno.

Lasciai la macchina nel parcheggio e andai a grandi passi verso la porta principale. In veranda si era raccolto un gruppetto di uomini che fumavano e si raccontavano storielle. Erano semplici lavoratori, vestiti con abiti qualunque e con giri vita e stempiature che tradivano il passare degli anni. Li oltrepassai e mi diressi nell’atrio. La salma di Anthony Varga era composta nella Sala dell’Eterno Riposo numero uno. Caroline Borchek era nella Sala dell’Eterno Riposo numero due. Nonna Mazur era nascosta dietro un ficus finto nell’ingresso.

«È dentro con Anthony» disse la nonna. «Sta parlando con la vedova. Probabilmente la sta studiando, magari per farne la prossima vittima da ammazzare e nascondere nel capanno.»

C’erano una ventina di persone nella saletta che ospitava il corpo di Varga. Erano quasi tutti seduti. Alcuni stavano in piedi accanto alla bara. Eddie DeChooch era fra questi. Potevo entrare, avvicinarmi pian piano a lui e ammanettarlo. Probabilmente sarebbe stato il modo più facile di portare a termine il lavoro. Sfortunatamente si sarebbe creato un casino che avrebbe disturbato le persone in lutto per il defunto. Per di più, la vedova Varga avrebbe chiamato mia madre per riferirle lo spiacevole episodio. Le altre alternative erano avvicinarlo e chiedergli di seguirmi fuori, oppure aspettare che uscisse e incastrarlo nel parcheggio o nella veranda.

«Che si fa ora?» voleva sapere la nonna. «Entriamo e lo acciuffiamo?»

Sentii qualcuno respirarmi forte dietro le spalle. Era la sorella di Loretta Ricci, Madeline. Era appena arrivata e aveva visto DeChooch.

«Assassino!» gli gridò. «Hai ucciso mia sorella.»

DeChooch sbiancò in viso e barcollò all’indietro perdendo l’equilibrio e finendo addosso alla vedova Varga. Si aggrapparono entrambi alla bara per non cadere, ma la bara si inclinò pericolosamente sul carrello ornato da una balza e tutti rimasero con il fiato sospeso quando Anthony Varga scivolò di scatto su un lato, sbattendo la testa contro l’imbottitura di raso.

Madeline infilò la mano nella borsetta, qualcuno urlò che stava cercando la pistola e ci fu il fuggi fuggi. Alcuni si buttarono faccia a terra sul pavimento, altri scattarono lungo il corridoio verso l’ingresso.

L’assistente di Stiva, Harold Barrone, si lanciò su Madeline e la bloccò alle ginocchia facendola cadere sulla nonna e me. Rovinammo tutti a terra l’uno addosso all’altro.

«Non spari» urlò Harold a Madeline. «Si controlli!»

«Stavo solo prendendo un fazzolettino, imbecille» disse Madeline. «E si alzi, mi sta schiacciando.»

«E sta schiacciando anche me» disse la nonna. «Sono vecchia. Le ossa mi si potrebbero spezzare come ramoscelli secchi.»

Mi misi in piedi e diedi un’occhiata in giro. Niente Eddie DeChooch. Uscii sulla veranda dove erano gli uomini. «Qualcuno di voi ha visto Eddie DeChooch?»

«Sì» rispose uno di loro. «Eddie se ne è appena andato.»

«Da che parte è andato?»

«Verso il parcheggio.»

Scesi di corsa le scale e arrivai al parcheggio proprio mentre DeChooch si stava allontanando su una Cadillac bianca. Dissi qualche parolaccia a mo’ di conforto e partii subito all’inseguimento. Mi precedeva di circa un isolato, guidava lungo la linea di mezzeria e passava con il rosso. Prese per il Burg e pensai che forse stava andando a casa. Lo seguii lungo la Roebling Avenue, superò la strada che conduceva a casa sua. Le nostre erano le uniche auto sulla Roebling e capii che si era accorto di me. DeChooch non era tanto cieco da non vedere le luci nello specchietto retrovisore.

Continuò a zigzagare per il Burg, prendendo la Washington e la Liberty, per poi tornare indietro sulla Division. Immaginai che avrei continuato a inseguire DeChooch finché uno dei due non avrebbe finito la benzina. E poi? Non avevo né la pistola né il giubbotto antiproiettile. E non avevo nessuno che mi facesse da rinforzo. Avrei dovuto affidarmi alle mie capacità di persuasione.

DeChooch si fermò all’angolo tra la Division e la Emory e io feci lo stesso qualche metro dietro a lui. Era un angolo buio, senza illuminazione stradale, ma l’auto di DeChooch era bene in vista. DeChooch aprì la portiera, scese dall’auto malfermo sulle ginocchia e si chinò. Mi guardò un momento schermando con le mani la luce dei miei abbaglianti. Poi, come se niente fosse, alzò il braccio e sparò tre colpi. Pum. Pum. Pum. Due andarono a finire contro il marciapiede accanto alla mia macchina e uno colpì con un fischio metallico il paraurti anteriore.

Alla faccia della persuasione. Inserii la retromarcia e via a tavoletta. Voltai in Morris Street su due ruote, inchiodai con uno stridore di freni a uno stop, ingranai la prima e me ne andai via dal Burg come un razzo.

Avevo quasi smesso di tremare quando parcheggiai nel cortile sotto casa. Avevo appurato di non essermela fatta addosso e quindi, tutto sommato, ero quasi fiera di me stessa. C’era un brutto squarcio nel paraurti. Sarebbe potuta andare peggio, mi dissi. Lo squarcio avrebbe potuto essere nella mia testa. Stavo cercando di essere tollerante con Eddie DeChooch perché era vecchio e depresso, ma la verità era che cominciava a non piacermi.

I vestiti del Luna erano ancora nel corridoio quando uscii dall’ascensore, così li raccolsi mentre andavo nel mio appartamento. Mi fermai dietro la porta di casa e rimasi ad ascoltare. La TV era accesa. Sembrava sintonizzata su un incontro di boxe. Ero quasi sicura di averla spenta. Appoggiai la fronte sulla porta. Cos’altro mi aspettava?

Me ne stavo ancora lì in piedi con la fronte schiacciata contro la porta quando questa si aprì e Morelli mi salutò con un bel sorriso.

«Giornataccia, eh?»

Mi guardai intorno. «Sei solo?»

«Chi pensavi che ci fosse?»

«Barman, il fantasma di Natale, Jack lo Squartatore.» Buttai i vestiti del Luna sul pavimento dell’ingresso. «Sono un po’ stravolta. Ho appena avuto una sparatoria con DeChooch. Peccato che solo lui avesse la pistola.»

Raccontai a Morelli i dettagli scioccanti della vicenda e quando stavo per dirgli che non me l’ero fatta sotto, il telefono squillò.

«Stai bene?» voleva sapere mia madre. «Tua nonna è appena tornata a casa e ha detto che sei partita all’inseguimento di Eddie DeChooch.»

«Sto bene, ma ho perso DeChooch.»

«Myra Szilagy mi ha detto che stanno assumendo personale alla fabbrica di bottoni. E pagano anche i contributi. Probabilmente riusciresti ad avere un buon lavoro alla catena di montaggio. O magari anche in ufficio.»

Morelli era stravaccato sul divano e si era messo di nuovo a guardare la boxe quando riattaccai. Indossava una T-shirt nera e un pullover a maglia rasata color panna con un paio di jeans. Era asciutto, aveva muscoli sodi e il fascino misterioso dell’uomo mediterraneo. Era un bravo piedipiatti. Bastava che mi guardasse per farmi inturgidire i capezzoli. Ed era tifoso dei New York Rangers. Il che lo rendeva quasi perfetto… a parte il fatto di essere un piedipiatti.

Il cane Bob era sul divano accanto a Morelli. Bob è un incrocio tra un Golden Retriever e Chewbacca di Guerre Stellari. All’inizio era venuto a vivere con me ma poi ha deciso che la casa di Morelli gli piace di più. Cose di uomini, suppongo. E così Bob adesso vive perlopiù con lui. A me sta bene, considerato che Bob mangia tutto. Se lo lasci solo, Bob è capace di ridurre un’intera casa a nient’altro che una manciata di chiodi e qualche piastrella. E siccome Bob spesso butta dentro grosse quantità di robaccia tipo mobili, scarpe e piante d’appartamento, altrettanto spesso butta fuori montagne di popò di cane.

Bob mi sorrise scodinzolando, poi tornò a guardare la televisione.

«Immagino che tu conosca il tizio che si è spogliato fuori nel corridoio» disse Morelli.

«Il Luna. Voleva farmi vedere cosa aveva sotto.»

«Mi sembra logico.»

«Dice che Dougie è scomparso. Che è uscito ieri mattina e non è più tornato.»

Morelli si distolse suo malgrado dalla boxe. «Dougie non ha un’udienza imminente?»

«Sì, ma il Luna non pensa che Dougie se la sia svignata. Il Luna pensa che ci sia qualcosa che non va.»

«Il cervello del Luna probabilmente è molto simile a un uovo fritto. Se fossi in te non darei molto peso a quello che pensa.»

Passai il telefono a Morelli. «Forse potresti fare qualche telefonata. Sì, insomma, potresti chiamare gli ospedali.» E l’obitorio. In qualità di sbirro, Morelli aveva accesso più facilmente di me.

Quindici minuti dopo Joe aveva esaurito la lista. Nessuno che corrispondesse alla descrizione di Dougie era stato ricoverato al St. Francis, all’Helen Fuld, né era arrivato all’obitorio. Chiamai il Luna e gli riferii quello che avevamo scoperto.

«Ehi» fece il Luna «qui la cosa si fa seria. Non è solo Dougie. Ora sono scomparsi anche i miei vestiti.»

«Non ti preoccupare per i vestiti. Ce li ho io.»

«Cavolo, tu sì che sei brava» disse il Luna. «Sei davvero brava.»

Mentalmente alzai gli occhi al cielo e riagganciai.

Morelli mi fece segno di sedermi accanto a lui. «Vieni qui e parliamo di Eddie DeChooch.»

«Cosa mi vuoi dire di DeChooch?»

«Non è una brava persona.»

Dalle labbra mi lasciai sfuggire un sospiro.

Morelli finse di non averlo sentito. «Costanza mi ha detto che sei riuscita a parlare con DeChooch prima che prendesse il volo.»

«DeChooch è depresso.»

«Immagino che non ti abbia parlato di Loretta Ricci?»

«No, neanche una parola. Ho trovato Loretta per conto mio.»

«Tom Bell ha in consegna il caso. L’ho incontrato dopo il lavoro e mi ha detto che la Ricci era già morta quando le hanno sparato.»

«Cosa?»

«Non può accertare la causa della morte finché non viene fatta l’autopsia.»

«Perché uno dovrebbe sparare a un cadavere?»

Morelli alzò le mani in segno di resa.

Magnifico. «Hai altro da offrirmi?»

Morelli mi guardò e fece un gran sorriso.

«A parte quello» dissi.

Stavo dormendo e nel sonno ebbi la sensazione di soffocare. Avevo un peso incredibile sul petto che non mi faceva respirare. Di solito non faccio sogni in cui soffoco. Sogno ascensori che saltano via dai tetti dei palazzi con me intrappolata dentro. Sogno tori che mi rincorrono infuriati per strada. E faccio anche sogni in cui mi dimentico di vestirmi e vado al centro commerciale completamente nuda. Ma non avevo mai fatto sogni in cui soffoco. Fino ad allora. Mi svegliai a fatica e aprii gli occhi. Bob mi dormiva accanto, col suo testone da cane e le zampe anteriori appoggiate sul mio petto. L’altra metà del letto era vuota. Morelli se ne era andato. Era uscito in punta di piedi alle prime luci dell’alba e mi aveva lasciato Bob.

«Okay, ragazzone» dissi «se ti togli di dosso ti do da mangiare.»

Bob forse non capirà tutte le parole, ma coglie quasi sempre il senso di quello che dico quando si tratta di cibo. Drizzò le orecchie, gli si illuminarono gli occhi e saltò via dal letto in un istante, scodinzolandomi intorno tutto felice.

Gli versai una quantità industriale di biscotti per cani e cercai invano del cibo per umani. Niente merendine, niente ciambelle, niente fiocchi d’avena ai frutti di bosco. Mia madre mi rispedisce sempre a casa con una busta di avanzi, ma quando ero uscita da casa dei miei avevo la mente occupata da Loretta Ricci e avevo dimenticato la busta degli avanzi sul tavolo della cucina.

«Guardami» dissi a Bob. «Sono un fallimento di casalinga.»

Bob ricambiò con un’occhiata che sembrava dire: Ehi bambola, mi hai dato da mangiare, non puoi essere così male!

Infilai un paio di Levi’s e gli stivali, indossai una giacca di denim sopra la maglia del pigiama e agganciai Bob al guinzaglio. Poi trascinai il cane giù per le scale e quindi in macchina: l’avrei portato a fare la cacca a casa della mia acerrima nemica Joyce Barnhardt. In questo modo non avrei dovuto portarmi dietro sacchetto e palettina e poi la cosa mi dava una certa soddisfazione. Anni addietro avevo sorpreso Joyce mentre scopava con mio marito (ora il mio ex marito) sul tavolo della sala da pranzo, e di tanto in tanto mi piace ripagarla di tanta gentilezza.

Joyce abita solo a qualche centinaio di metri da casa mia, eppure è tutto un altro mondo. Joyce ha ottenuto delle gran belle liquidazioni dai suoi ex mariti. Anzi, il marito numero tre era così impaziente di togliersela di torno che le ha ceduto la casa dove abitavano senza battere ciglio. È una grande casa costruita su un piccolo lotto in un quartiere di professionisti perennemente in carriera. È di mattoni rossi, con raffinate colonnine bianche a sostenere il tettuccio che ripara la porta principale. Un incrocio tra il Partenone e la casetta di Gimmi dei tre porcellini. Il vicinato si è dotato di regole piuttosto severe in materia di cacca di cane e relativa pulizia, quindi io e Bob facciamo visita a Joyce solo col favore dell’oscurità. Oppure, come in questo caso, la mattina presto prima che la strada si risvegli.

Parcheggiai a mezzo isolato dall’abitazione di Joyce. Bob e io ci dirigemmo in tutta tranquillità verso il giardino sul davanti, Bob fece quello che doveva fare, rientrammo altrettanto tranquillamente in macchina e via al McDonald’s. Non c’è buona azione che non meriti una ricompensa. Presi un uovo McMuffin e un caffè per me, e un uovo McMuffin e un frappè alla vaniglia per Bob.

Eravamo esausti dopo tutto questo gran daffare, così tornammo nel mio appartamento e mentre Bob schiacciava un sonnellino io feci la doccia. Mi passai un po’ di gel sui capelli e li stropicciai per arricciarli. Poi diedi una passata di mascara e di eye-liner e per finire un velo di lucidalabbra. Forse non avrei risolto nessun problema quel giorno, ma non ero niente male.

Mezz’ora dopo Bob e io partimmo diretti all’ufficio di Vinnie, pronti per un’altra giornata di lavoro.

«Oh-oh» fece Lula «c’è anche il nostro Bob.» Si chinò per dargli una grattatina sulla testa. «Ehi Bob, come va?»

«Stiamo ancora cercando Eddie DeChooch» dissi. «Qualcuno sa dove vive suo nipote Ronald?»

Connie scrisse un paio di indirizzi su un foglio di carta e me lo consegnò. «Ronald ha una casa su Cherry Street, ma hai più probabilità di trovarlo al lavoro a quest’ora. Ha una ditta di pavimentazioni stradali, la Ace Pavers, a Front Street, lungo il fiume.»

Infilai in tasca gli indirizzi, mi avvicinai a Connie e abbassai la voce. «Si dice niente in giro a proposito di Dougie Kruper?»

«Tipo cosa?» domandò Connie.

«Tipo che è scomparso.»

La porta dell’ufficio di Vinnie si spalancò improvvisamente e Vinnie mise fuori la testa. «Cosa significa che è scomparso?»

Alzai lo sguardo su Vinnie. «Come hai fatto a sentire? Stavo bisbigliando e avevi la porta chiusa.»

«Ho le orecchie anche sul culo» rispose Vinnie. «Sento tutto.»

Connie passò le dita lungo i bordi della scrivania. «Accidenti a te» disse Connie «hai di nuovo piazzato una cimice.» Svuotò la tazza piena di matite, frugò nei cassetti, svuotò la borsetta sulla scrivania. «Dov’è, brutto verme schifoso?»

«Non c’è nessuna cimice» disse Vinnie. «Ho solo delle ottime orecchie. Una specie di radar.»

Connie trovò la cimice sotto il telefono. La staccò e la schiacciò con il calcio della pistola. Poi mise nuovamente la pistola nella borsa e buttò la cimice nella spazzatura.

«Ehi» fece Vinnie «era di proprietà della ditta!»

«Che problema c’è con Dougie?» chiese Lula. «Non vuole presentarsi in tribunale?»

«Il Luna ha detto che lui e Dougie dovevano guardare il wrestling sulla TV a grande schermo di Dougie, ma Dougie non è mai arrivato. Pensa che gli sia capitato qualcosa di brutto.»

«Io non mi perderei di certo l’occasione di vedere quei lottatori di wrestling con i loro minislip elasticizzati su una TV a grande schermo» commentò Lula.

Io e Connie la pensavamo allo stesso modo. Bisognava essere matte per perdersi tutto quel ben di Dio su una TV a grande schermo.

«Non ho sentito niente a proposito di Dougie» disse Connie «ma chiederò in giro.»

La porta dell’ufficio si spalancò con uno schianto e Joyce Barnhardt entrò come una furia. Si era cotonata i capelli rossi al massimo dell’estensione. Indossava pantaloni del tipo usato dalle squadre speciali anti-terrorismo e camicia. I pantaloni le fasciavano il sedere e la camicia sbottonata fino a metà sterno lasciava intravedere un reggiseno nero e un bel po’ di scollatura. Dietro la camicia, in lettere bianche, era scritto RISCOSSIONE GARANZIE. Aveva gli occhi truccati di nero e le ciglia coperte da uno spesso strato di mascara.

Bob si nascose dietro la scrivania di Connie e Vinnie si rintanò nell’ufficio chiudendo la porta a chiave. Tempo addietro, dopo una breve consultazione con il suo pene, Vinnie aveva acconsentito ad assumere Joyce come agente per gli arresti. Il suo uccello era ancora soddisfatto della decisione presa, ma il resto di Vinnie non sapeva bene come comportarsi con Joyce.

«Vinnie, brutto pisello moscio, ti ho visto sgattaiolare in ufficio. Esci fuori di lì, accidenti a te» urlò Joyce.

«È un piacere vederti di così buon umore» disse Lula a Joyce.

«Un cane mi ha di nuovo cagato in giardino. È la seconda volta questa settimana.»

«Non c’è da stupirsi se continui a fartela con gli ospiti dei canili» disse Lula.

«Non mi provocare, grassona.»

Lula strizzò gli occhi. «Grassona a chi? Dillo un’altra volta e ti cambio i connotati…»

«Grassona, culona, barile di lardo, cicciona…»

Lula si scagliò contro Joyce e le due finirono a terra in un turbinio di graffi e pugni. Bob non si spostò da sotto la scrivania. Connie rimase a girare intorno a loro aspettando il momento giusto, poi stordì Joyce puntandole la scacciacani sul sedere. Joyce fece un verso stridulo e poi si immobilizzò.

«È la prima volta che uso uno di questi aggeggi» disse Connie. «Niente male.»

Bob sbucò da sotto la scrivania per dare un’occhiata a Joyce.

«Da quando ti prendi cura di Bob?» chiese Lula, rimettendosi in piedi.

«Ha dormito da me questa notte.»

«Pensi che la cagata nel giardino di Joyce fosse grande come quelle di Bob?»

«Tutto è possibile.»

«Quanto possibile? Al dieci per cento? Al quindici per cento?»

Abbassammo gli occhi su Joyce. Stava cominciando a muoversi, così Connie la stordì di nuovo con la scacciacani.

«È solo che non sopporto di usare la paletta…» dissi.

«Ah ah!» fece Lula con una grassa risata. «Lo sapevo!»

Connie diede a Bob una ciambella dalla scatola che teneva sulla scrivania.

«E bravo il nostro ragazzo!»

Capitolo 3

«Visto che Bob è stato così bravo e che sono di buon umore, ti aiuterò a trovare Eddie DeChooch» disse Lula.

Aveva i capelli tirati in su nel punto dove Joyce glieli aveva afferrati e le era saltato un bottone della camicetta. Portarla con me sarebbe stata probabilmente una garanzia per la mia incolumità dato che aveva l’aspetto di una persona assolutamente folle e pericolosa.

Joyce era ancora a terra, ma aveva un occhio aperto e muoveva le dita. Meglio per Lula, Bob e me uscire prima che Joyce aprisse anche l’altro.

«Che ne pensi, allora?» mi chiese Lula quando fummo saliti tutti e tre in macchina diretti a Front Street. «Credi che io sia grassa?»

Lula non dava l’impressione di avere molto grasso addosso. Era compatta. Compatta come un wurstel. Ma un wurstel di quelli belli grossi.

«Non proprio grassa» dissi. «Direi più grossa.»

«E non ho neanche un filo di cellulite.»

Era vero. I wurstel non hanno la cellulite.

Mi diressi a ovest sulla Hamilton, verso il fiume e quindi verso Front Street. Lula stava davanti, sul sedile del passeggero, e Bob era dietro con la testa fuori dal finestrino, gli occhi a fessura e le orecchie che sventolavano. C’era il sole e l’aria era quasi primaverile. Se non fosse stato per Loretta Ricci avrei accantonato la ricerca di Eddie DeChooch e sarei andata in spiaggia. Il fatto che avessi una rata della macchina da pagare fu l’incentivo che mi spinse a puntare la mia CR-V in direzione della Ace Pavers.

La Ace Pavers si occupava di manutenzione del manto stradale e fu facile trovarla. L’ufficio era piccolo, il garage grande. In uno spazio recintato annesso al garage troneggiava un’enorme asfaltatrice insieme a un assortimento di macchinari neri di catrame.

Parcheggiai in strada, chiusi Bob dentro la macchina e insieme a Lula mi diressi a grandi passi verso l’edificio. Mi aspettavo di trovare un capoufficio. Trovai invece Ronald DeChooch che giocava a carte con altri tre tipi. Erano tutti sui quaranta, vestiti con pantaloni sportivi e polo. Non avevano esattamente l’aspetto di dirigenti d’azienda né di operai. Sembravano quegli intelligentoni che si vedono in certi programmi TV. E per fortuna che c’è la televisione, altrimenti gli abitanti del New Jersey non saprebbero come vestirsi.

Giocavano a carte su un tavolinetto traballante e sedevano su sedie pieghevoli di metallo. C’era una pila di soldi sul tavolo e nessuno sembrò felice di vedere me e Lula.

Ronald DeChooch era la versione più giovane e più alta dello zio con una trentina di chili in più distribuiti un po’ dappertutto. Mise le carte a faccia in giù sul tavolo e si alzò. «Cosa posso fare per voi, signore?»

Mi presentai e gli dissi che stavo cercando Eddie.

Gli uomini al tavolo sorrisero.

«Quel DeChooch è proprio un bel tipo» disse uno di loro. «Ho sentito dire che vi ha lasciato comodamente sedute in soggiorno mentre lui saltava giù dalla finestra della camera da letto.»

La frase provocò un’esplosione di risate.

«Se conoscessi meglio Choochy dovresti sapere che con lui bisogna tenere d’occhio le finestre» disse Ronald. «Ha scavalcato un bel po’ di finestre quando era giovane. Una volta fu sorpreso nella camera da letto di Florence Selzer. Il marito di Flo, Joey il Parrucchino, tornò a casa e beccò Choochy che usciva dalla finestra e gli sparò sul… come si dice, gluteus maximus

Un omone con una pancia enorme inclinò la sedia all’indietro. «Joey non si è più fatto vedere da quella volta.»

«Oh davvero?» disse Lula. «Che gli è successo?»

Il tipo alzò le mani. «Nessuno lo sa. Una di quelle cose strane.»

Giusto. Probabilmente si era volatilizzato nel nulla, stile Jimmy Hoffa. «Allora, qualcuno di voi ha visto Choochy? Qualcuno sa dove potrebbe essere?»

«Potreste provare al circolo sociale» disse Ronald.

Sapevamo tutti benissimo che non sarebbe andato al circolo sociale.

Misi il mio biglietto da visita sul tavolo. «Nel caso vi venga in mente qualcosa.»

Ronald sorrise. «Mi sta già venendo in mente qualcosa.»

Uh!

«Quel Ronald è viscido» disse Lula quando entrammo in macchina. «E poi ti guardava come se ti volesse mangiare» aggiunse.

Rabbrividii senza volerlo e partii. Forse mia madre e Morelli hanno ragione. Forse dovrei cercare un altro lavoro. O forse nessun lavoro. Forse dovrei sposare Morelli e fare la casalinga come la mia sorella perfetta, Valerie. Potrei avere un paio di figli e passare le giornate a colorare quaderni e a leggere favole di orsetti e trenini a vapore.

«Potrebbe essere divertente» dissi a Lula. «Mi piacciono i trenini.»

«Come no» rispose Lula. «Di che accidenti parli?»

«Libri per bambini. Ti ricordi quella storia del trenino a vapore?»

«Non avevo libri da bambina. E anche se ne avessi avuto uno non sarebbe certo stato un libro di trenini… sarebbe stato un libro di cucchiaini per il crack.»

Attraversai Broad Street e tornai indietro verso il Burg. Volevo parlare con Angela Margucci e magari dare un’occhiata alla casa di Eddie. Di solito potevo contare sugli amici o sui parenti del latitante per farmi dare una mano con le ricerche. Nel caso di DeChooch, avevo la sensazione che non sarebbe andata così. Gli amici e i parenti di Eddie non sembravano tipi da fare gli informatori.

Parcheggiai davanti a casa di Angela e dissi a Bob che ci avrei messo solo un minuto. Io e Lula avevamo fatto solo pochi passi che già il cane si era messo ad abbaiare in macchina. A Bob non piace essere lasciato solo. E sapeva che quella di tornare dopo un minuto era una bugia.

«Cavolo, quel Bob sì che sa abbaiare forte» disse Lula. «Mi ha già fatto venire il mal di testa.»

Angela sbucò dalla porta di casa. «Cos’è tutto questo rumore?»

«È Bob» disse Lula. «Non gli piace essere lasciato solo in macchina.»

Il viso di Angela si illuminò. «Un cane! Che carino. Adoro i cani.»

Lula aprì la portiera dell’auto e Bob saltò fuori. Corse incontro ad Angela, le mise le zampe sul petto e la fece cadere sul sedere.

«Non si è rotta niente, spero» disse Lula, aiutando Angela ad alzarsi.

«Credo di no» disse Angela. «Ho il pacemaker e anche le ginocchia di acciaio inossidabile e Teflon. Devo solo stare attenta ai fulmini e a non finire dentro un forno a microonde.»

L’idea di Angela dentro un microonde mi fece pensare a Hänsel e Gretel, destinati a una fine più o meno altrettanto tragica. Il che mi fece riflettere sull’inaffidabilità delle briciole di pane come indizi di una pista. Così giunsi alla deprimente conclusione che mi trovavo in una situazione peggiore di quella di Hänsel e Gretel, perché Eddie DeChooch non si era neanche lasciato dietro delle briciole.

«Immagino che non abbia visto Eddie» dissi ad Angela. «Non è tornato a casa, vero? E non l’ha chiamata per chiederle di badare alle sue piante?»

«Macché. Eddie non si è fatto sentire. Probabilmente è l’unico in tutto il quartiere a non essersi fatto vivo. Il telefono non ha smesso di squillare. Tutti vogliono sapere della povera Loretta.»

«Eddie riceveva molte visite?»

«Aveva degli amici. Ziggy Garvey e Benny Colucci. E pochi altri.»

«Per caso qualcuno aveva una Cadillac bianca?»

«Eddie guida una Cadillac bianca. La sua macchina è guasta e così si è fatto prestare da qualcuno la Cadillac. Non so da chi. La teneva parcheggiata nel vialetto dietro il garage.»

«Loretta gli faceva visita spesso?»

«A quanto ne so quella era la prima volta che andava a trovare Eddie. Loretta era una volontaria del servizio di pasti a domicilio per anziani. L’ho vista entrare in casa con una scatola verso l’ora di cena. Qualcuno deve averle detto che Eddie era depresso e che non mangiava bene. O forse Eddie aveva esplicitamente richiesto il servizio. Anche se non ce lo vedo a fare una cosa del genere.»

«Ha visto Loretta andare via?»

«Non l’ho proprio vista andare via, ma ho notato che l’auto non c’era più. Deve essere rimasta dentro per circa un’ora.»

«E che mi dice dei colpi di pistola?» chiese Lula. «Non ha sentito la colluttazione? Non l’ha sentita urlare?»

«No, non ho sentito urlare nessuno» rispose Angela. «Mamma è sorda come una campana. E quando accende la televisione non si sente più niente qui dentro. E la televisione è accesa dalle sei alle undici. Vi va un po’ di dolce? Ho preso una bella ciambella alle mandorle dal panettiere.»

Ringraziai Angela per il dolce ma le dissi che Lula, Bob e io avevamo ancora parecchio lavoro da fare.

Uscimmo da casa Margucci e ci trasferimmo nella metà casa adiacente, quella di DeChooch. Ovviamente tutta l’area era zona vietata, delimitata dal nastro giallo della polizia in quanto l’inchiesta era ancora in corso. Non c’erano poliziotti a controllare che nessuno si avvicinasse alla casa o al capanno, quindi pensai che dovevano aver lavorato sodo il giorno prima per completare la raccolta delle prove.

«Probabilmente non dovremmo entrare, visto che il nastro non è stato tolto» disse Lula.

Ero d’accordo con lei. «Alla polizia non piacerebbe.»

«Però c’eravamo anche ieri. Probabilmente abbiamo lasciato le nostre impronte dappertutto.»

«E così pensi che non importa se entriamo anche oggi?»

«Be’, non sarebbe un problema se nessuno lo venisse a sapere» disse Lula.

«E poi ho la chiave, quindi non si tratta di una vera e propria violazione di domicilio con scasso.» Il problema è che quella chiave l’avevo, come dire, rubata.

In qualità di cacciatrice di taglie ho anche il diritto di introdurmi in casa del latitante se ho motivo di sospettare che lui si trovi lì. E in caso di necessità sono sicura che saprei trovare un buon motivo. Forse non ho proprio tutti i numeri per fare la cacciatrice di taglie, ma in quanto a bugie non mi batte nessuno.

«Forse dovresti verificare che si tratti effettivamente della chiave di casa di Eddie» disse Lula. «Sì, insomma, dovresti provarla.»

Inserii la chiave nella serratura e la porta si spalancò.

«Maledizione» disse Lula. «Guarda cos’è successo. La porta si è aperta.»

Ci spostammo in fretta nell’ingresso buio e chiusi la porta a chiave dietro di noi.

«Tu fai il palo» dissi a Lula. «Non voglio essere colta di sorpresa dalla polizia o da Eddie.»

«Conta pure su di me» rispose. «“Palo” è il mio secondo nome.»

Iniziai la perlustrazione dalla cucina, passando in rassegna tutti i pensili e i cassetti e sfogliando le carte sul piano di lavoro. Mi stavo comportando come Hànsel e Grete,l, stavo cercando una briciola di pane che mi mettesse sulla pista giusta. Speravo di trovare un numero di telefono scarabocchiato su un fazzolettino di carta, o magari una cartina con una grossa freccia arancione che indicasse un motel della zona. Invece trovai le solite cianfrusaglie che si ammucchiano in ogni cucina. Eddie aveva coltelli, forchette, piatti e tazze che erano stati acquistati dalla signora DeChooch ed erano stati usati per tutta la durata del suo matrimonio. Non c’erano piatti sporchi sul piano di lavoro. Tutto era stato ordinatamente riposto nei pensili. Non c’era molto cibo nel frigorifero, ma era sempre più fornito del mio. Una confezione di latte, delle fette di arrosto di tacchino comprato alla macelleria Giovichinni, uova, un panetto di burro, condimenti vari.

Perlustrai quatta quatta il piano di sotto, dove c’erano una toilette, il soggiorno e la sala da pranzo. Sbirciai nel guardaroba e controllai nelle tasche degli indumenti mentre Lula teneva d’occhio la strada da dietro le tende del soggiorno.

Salii le scale e passai in rassegna le camere da letto, sperando ancora di trovare quella famosa briciola. I letti erano tutti perfettamente rifatti. C’era una rivista di parole crociate sul comodino della camera da letto principale. Nessuna briciola. Passai nel bagno. Lavandino pulito. Vasca pulita. Armadietto dei medicinali pieno fino a scoppiare di Darvon, aspirine, diciassette tipi diversi di antiacidi, sonniferi, un barattolo di Vicks, un prodotto per la pulizia della dentiera e una pomata per le emorroidi.

La finestra sopra la vasca era aperta. Entrai nella vasca e guardai fuori. La fuga di DeChooch sembrava possibile. Uscii dalla vasca e quindi dal bagno. Rimasi nel corridoio e pensai a Loretta Ricci. Non c’erano segni della sua presenza in quella casa. Nessuna macchia di sangue. Nessun segno di colluttazione. La casa era stranamente pulita e ordinata. L’avevo notato anche il giorno prima, quando ero passata di stanza in stanza a cercare DeChooch.

Nessun messaggio appuntato sul bloc-notes accanto al telefono. Nessuna scatola di fiammiferi di qualche ristorante lasciata sul piano della cucina. Niente calzini per terra. Niente panni da lavare nel cesto della biancheria in bagno. Ehi, chissà? Forse gli anziani depressi sviluppano un’ossessione per l’ordine. O forse DeChooch aveva passato tutta la notte a togliere le macchie di sangue dal pavimento e a fare il bucato. La morale della favola era: niente briciole.

Tornai in soggiorno e mi sforzai di non fare una smorfia. C’era rimasto solo un posto da controllare. La cantina. Puah! Le cantine di quel genere di casa erano sempre buie e sinistre, con rumorosi bruciatori a nafta e travi coperte di ragnatele.

«Be’, suppongo che ora dovrei guardare in cantina» dissi a Lula.

«Okay» fece Lula. «Ancora nessuno in vista.»

Aprii la porta della cantina e schiacciai l’interruttore della luce. Scala di legno graffiata, pavimento grigio di cemento, travi coperte di ragnatele, e sinistri rumori. Tutto come da copione.

«C’è qualcosa che non va?» chiese Lula.

«Fa venire i brividi.»

«Oh-oh.»

«Non voglio scendere laggiù.»

«È solo una cantina» disse Lula.

«E se ci andassi tu?»

«Io no. Io odio le cantine. Fanno paura.»

«Hai una pistola?»

«C’è da chiederlo?»

Presi in prestito la pistola di Lula e scesi cautamente le scale. Non so cosa avessi intenzione di fare con la pistola. Sparare a un ragno, forse.

In cantina c’erano una lavatrice e un’asciugatrice. Una tavola a cui erano appesi arnesi vari… cacciaviti, chiavi, martelli. Un banco da lavoro con sopra una morsa. Nessuno degli utensili sembrava essere stato usato di recente. In un angolo erano impilati degli scatoloni di cartone. Erano chiusi ma non più sigillati. Il nastro adesivo era sul pavimento. Ficcai il naso in qualche scatolone. Decorazioni natalizie, libri, stampi per torte e casseruole. Niente briciole.

Salii le scale e chiusi la porta della cantina. Lula stava ancora guardando fuori dalla finestra.

«Oh-oh» fece Lula.

«Oh-oh cosa?» Odio gli oh-oh!

«Si è appena fermata un’auto della polizia.»

«Merdai»

Afferrai il guinzaglio di Bob e insieme a Lula ci dirigemmo di corsa alla porta sul retro. Uscimmo e ci spostammo sul terrazzino che fungeva da veranda della casa di Angela. Lula aprì con forza la porta ed entrammo subito in casa.

Angela e sua madre erano sedute al piccolo tavolo della cucina e stavano prendendo del caffè e del dolce.

«Aiuto! Polizia!» urlò la donna più anziana quando irrompemmo nella stanza.

«Questa è Stephanie» gridò Angela a sua madre. «Ti ricordi di Stephanie?»

«Chi?»

«Stephanie!»

«Che cosa vuole?»

«Abbiamo cambiato idea riguardo al dolce» dissi scostando una sedia e mettendomi a sedere.

«Come?» urlò la madre di Angela. «Come?»

«Dolce» le rispose Angela, sempre gridando. «Vogliono del dolce.»

«Be’ per l’amor di Dio, daglielo prima che ci sparino.»

Io e Lula guardammo la pistola che avevo in mano.

«Forse dovresti metterla via» suggerì Lula. «Non vorrei che succedesse qualcosa alle mutande della vecchia signora.»

Consegnai la pistola a Lula e presi un pezzo di dolce.

«Non si preoccupi!» gridai. «È una pistola giocattolo.»

«A me sembra vera» rispose la madre di Angela, sempre gridando. «Sembra una Glock calibro .40, quelle da quattordici colpi. Si può fare un bel buco in testa a qualcuno, con una di quelle. Ne avevo una anch’io, ma poi sono passata al fucile quando ho cominciato a perdere la vista.»

Carl Costanza bussò alla porta sul retro e facemmo tutte un salto.

«Stiamo facendo un pattugliamento di sicurezza e ho visto la tua macchina fuori» disse Costanza mentre si prendeva il pezzo di dolce che avevo in mano. «Volevo accertarmi che non avessi in mente di fare niente di illegale… come per esempio violare la scena del crimine.»

«Chi, io?»

Costanza mi sorrise e se ne andò con la mia fetta di dolce.

Spostammo l’attenzione sul tavolo e ci accorgemmo che il piatto del dolce era vuoto.

«Santo cielo» disse Angela «c’era una torta intera, prima. Cosa può essere mai successo?»

Lula e io ci scambiammo un’occhiata. Bob aveva un pezzo di glassa bianca che gli pendeva da un labbro.

«Ce ne saremmo andate comunque» dissi, trascinando Bob alla porta d’ingresso. «Mi faccia sapere se ha notizie di Eddie.»

«Non ci è servito a molto» disse Lula quando eravamo già per strada. «Non abbiamo scoperto niente su Eddie DeChooch.»

«Compra petto di tacchino arrosto da Giovichinni» dissi.

«E con questo cosa vuoi dire? Che dovremmo usare come esca al nostro amo un po’ di petto di tacchino?»

«No. Dico che il nostro uomo ha passato tutta la sua vita al Burg e non andrà da nessun’altra parte. È proprio qui, e se ne va in giro con una Cadillac bianca. Dovrei essere in grado di trovarlo.» Sarebbe stato più facile se fossi riuscita a sapere il numero di targa della Cadillac. Avevo chiesto alla mia amica Norma di fare una ricerca all’Ufficio immatricolazione veicoli sulle targhe delle Cadillac bianche, ma ce n’erano troppe da controllare.

Scaricai Lula in ufficio e andai a cercare il Luna. Lui e Dougie trascorrono le giornate perlopiù a guardare la TV e a mangiare palline al formaggio, vivendo dei soldi ricavati da una vincita semi-illegale che hanno fatto insieme. Ho il sospetto che uno di questi giorni la vincita se ne andrà in fumo, in tutti i sensi, e allora Dougie e il Luna dovranno rinunciare a qualche comfort.

Parcheggiai davanti a casa del Luna e insieme a Bob avanzai decisa fino alla veranda e bussai alla porta. Mi venne ad aprire Huey Kosa, tutto sorridente. Huey Kosa e Zero Bartha sono i due coinquilini del Luna. Bravi ragazzi ma, come il Luna, gente che vive in un’altra dimensione.

«Piccola» mi disse Huey.

«Sto cercando il Luna.»

«È a casa di Dougie. Mi sa che doveva fare il bucato e il vecchio Dougie ha la lavatrice. Il vecchio Dougie ha tutto.»

Percorsi in macchina la breve distanza fino a casa di Dougie e parcheggiai. Sarei potuta andare a piedi, ma non sarebbe stato un tipico comportamento da New Jersey.

«Ehi, piccola» disse il Luna quando bussai alla porta di Dougie. «Sono contento di vedere te e Bob. Mi casa su casa. Be’, a dire il vero è casa del vecchio Dougie, ma non so come si dice.»

Aveva un altro di quei super costumi. Questa volta era verde e senza la L cucita sul petto. Assomigliava più all’Uomo Cetriolo che all’Uomo della Luna.

«Stai salvando il mondo?» gli chiesi.

«No. Sto facendo il bucato.»

«Hai notizie di Dougie?»

«Niente, piccola. Niente di niente.»

La porta d’ingresso si apriva su un soggiorno ammobiliato in modo piuttosto spartano con un divano, una sedia, una piantana e un televisore a grande schermo. Alla TV c’era Bob Newhart in un episodio dell’omonima serie.

«È una retrospettiva su Bob Newhart» spiegò il Luna. «Ritrasmettono tutti i classici. Un vero lusso.»

«Dunque» dissi guardandomi in giro «Dougie non è mai scomparso prima d’ora?»

«Non da quando lo conosco.»

«Dougie ha una ragazza?»

Il Luna fece un’espressione allibita. Come se fosse una domanda troppo difficile da comprendere.

«Una ragazza» disse dopo un po’. «Però, non avevo mai pensato al vecchio Dougie insieme a una ragazza. Cioè, non l’ho mai visto con una ragazza.»

«E con un ragazzo?»

«No, credo che non abbia neanche un ragazzo. Direi che il vecchio Dougie è più… sì, insomma, autosufficiente.»

«Okay, proviamo qualcos’altro. Dove stava andando Dougie quando è scomparso?»

«Non l’ha detto.»

«Ha preso la macchina?»

«Sì, la Batmobile.»

«Tanto per sapere, come è fatta una Batmobile?»

«Esternamente è come una Corvette nera. Ho fatto un giro per cercarla, ma non l’ho vista da nessuna parte.»

«Forse dovresti sporgere denuncia alla polizia.»

«Neanche per sogno! Il vecchio Dougie si ritroverebbe nei guai con la garanzia di cauzione.»

Non so perché, ma avevo un brutto presentimento. Il Luna era nervoso e considerata la sua personalità era un caso raro. Il Luna era di solito la tranquillità fatta persona.

«C’è sotto qualcos’altro» dissi. «Cosa mi stai nascondendo?»

«Ehi, niente, piccola. Te lo giuro.»

Sarò scema, ma Dougie mi piace. Lui sarà anche un sempliciotto e un intrallazzatore, ma almeno è uno di quelli innocui. E adesso era scomparso e io avevo una brutta sensazione allo stomaco.

«Che mi dici della famiglia di Dougie? Hai parlato con qualcuno?» gli chiesi.

«No, piccola, sono tutti da qualche parte in Arkansas. Il vecchio Dougie non parlava molto di loro.»

«Dougie ha un elenco del telefono?»

«Non ne ho mai visto uno. Ma chissà, può darsi che sia in camera sua.»

«Tu stai qui con Bob e controlla che non mangi niente. Faccio un salto in camera di Dougie.»

Al piano di sopra c’erano tre camere da letto. Ero già stata a casa sua e quindi sapevo quale era quella di Dougie. E sapevo anche cosa aspettarmi in quanto ad arredamento. Dougie non era uno che perdeva tempo con le minuzie dei lavori domestici. Il pavimento della camera era un tappeto di vestiti sparsi dovunque, il letto era sfatto, sul cassettone c’era una montagna di pezzi di carta, un modellino della navicella spaziale Enterprise, riviste con donnine nude, piatti e tazze sporchi.

C’era un telefono sul comodino ma niente elenco telefonico. Vicino al letto, sul pavimento, c’era un pezzo di carta gialla per appunti. Sopra vi erano scritti una serie di nomi e di numeri alla rinfusa, alcuni semicancellati da una macchia di caffè. Diedi una rapida scorsa alla pagina e scoprii che diversi Kruper avevano numeri telefonici dell’Arkansas. Nessuno nel New Jersey. Mi feci largo tra il casino sopra il cassettone e tanto per non lasciare nulla di intentato misi il naso nell’armadio.

Nessun indizio.

Non avevo alcun buon motivo per controllare le altre camere, ma sono ficcanaso di natura. La seconda camera, scarsamente ammobiliata, era destinata agli ospiti. Il letto era stropicciato e pensai che probabilmente il Luna ci dormiva di tanto in tanto. La terza camera era piena fino al soffitto di varia merce rubata. Scatole di tostapane, telefoni, sveglie, montagne di T-shirt e Dio solo sa cos’altro. Dougie era tornato in attività.

«Luna!» gridai. «Vieni su! Subito!»

«Accidenti» esclamò il Luna quando mi vide sulla soglia della terza camera. «Da dove viene tutta quella roba?»

«Credevo che Dougie avesse smesso di trafficare.»

«Non è riuscito a trattenersi, piccola. Ti giuro che ci ha provato, ma ce l’ha nel sangue, capisci? È nato per fare il commerciante.»

Ora capivo meglio il perché del nervosismo del Luna. Dougie aveva ancora a che fare con dei brutti ceffi. I brutti ceffi non sono un problema finché va tutto bene. Ma cominciano a diventare una preoccupazione quando viene fuori che il tuo amico è scomparso.

«Sai da dove vengono questi scatoloni? Sai con chi lavorava Dougie?»

«Mi trovi, per così dire, impreparato. Ha risposto a una telefonata e poi è spuntato un camion sul vialetto con tutto questo magazzino di roba. Non sono stato molto attento. In TV c’erano Rocky and Bullwinkle, e sai quant’è difficile resistere al vecchio Rocky.»

«Dougie doveva dei soldi a qualcuno? C’era qualcosa che non andava nei suoi traffici?»

«Non credo. Sembrava fosse proprio contento. Diceva che la roba che aveva preso andava via come il pane. Tranne per i tostapane. Ehi, ne vuoi uno?»

«Quanto vuoi?»

«Dieci verdoni.»

«Affare fatto.»

Feci una breve sosta da Giovichinni per comprare qualche genere di prima necessità, poi io e Bob ci fiondammo a casa per il pranzo. Tenevo il tostapane sotto un braccio e la borsa della spesa nell’altro quando scesi dall’auto.

Benny e Ziggy si materializzarono improvvisamente dal nulla.

«Lascia che ti aiuti con quella borsa» disse Ziggy. «Una signora come te non dovrebbe portare la spesa da sola.»

«E questo cos’è? Un tostapane» disse Benny, mentre me lo toglieva da sotto il braccio e guardava la scatola. «Ed è pure uno di quelli buoni. Ha delle aperture più grandi del normale, così se vuoi ci puoi scaldare anche le focacce.»

«Non c’è bisogno» dissi, ma si erano già presi borsa e tostapane e mi precedettero all’ingresso del mio palazzo.

«Abbiamo pensato di fermarci per vedere come andavano le cose» disse Benny mentre schiacciava il pulsante dell’ascensore. «Novità su Eddie?»

«L’ho visto da Stiva, ma mi è scappato.»

«Sì, lo sappiamo. Che peccato.»

Aprii la porta di casa, mi restituirono borsa e tostapane e sbirciarono dentro l’appartamento.

«Non è che stai nascondendo Eddie a casa tua?» chiese Ziggy.

«No!»

Ziggy scrollò le spalle. «È stata un’ipotesi azzardata.»

«Tentar non nuoce» disse Benny.

E se ne andarono.

«Non è necessario superare una prova di intelligenza per entrare nella malavita» dissi a Bob.

Inserii la spina del mio tostapane nuovo e ci infilai due fette di pane. Preparai un panino al burro di arachidi per Bob e un toast al burro di arachidi per me e mangiammo in piedi in cucina, godendoci quel momento.

«Fare la casalinga non è poi così difficile» dissi a Bob «se hai un po’ di pane e del burro di arachidi.»

Chiamai la mia amica Norma all’Ufficio immatricolazione veicoli e mi feci dare il numero di targa della Corvette di Dougie. Poi chiamai Morelli per vedere se aveva sentito qualcosa in giro.

«Il referto dell’autopsia di Loretta Ricci non è ancora pronto» disse Morelli. «Nessuno è riuscito ad acciuffare DeChooch, e Kruper non è ancora venuto a galla. Tocca a te fare la prossima mossa, dolcezza.»

Perfetto.

«Allora ci vediamo stasera» disse Morelli. «Vengo a prendere te e Bob alle cinque e mezzo.»

«Va bene. Hai in mente qualcosa di speciale?»

Silenzio all’altro capo del telefono. «Credevo che fossimo invitati a casa dei tuoi per cena.»

«Oh accidenti! Maledizione. Merda.»

«Ti eri dimenticata, eh?»

«Ci sono già andata ieri.»

«Vuoi dire che non dobbiamo andarci per forza?»

«Se solo fosse così semplice.»

«Vengo a prenderti alle cinque e mezzo» disse Morelli, e riagganciò.

I miei genitori mi piacciono, davvero. È solo che mi fanno uscire di testa. Prima di tutto c’è la mia sorella perfetta, Valerie, con le sue due figlie perfette. Per fortuna vive a Los Angeles e quindi la loro perfezione è mitigata dalla distanza. Poi c’è il mio preoccupante stato civile, che mia madre si sente in obbligo di regolarizzare. Per non parlare poi del lavoro, di come mi vesto, di quello che mangio, della frequentazione della chiesa (o meglio della non frequentazione).

«Okay, Bob» dissi «è ora di tornare al lavoro. Mettiamoci in moto.»

Avrei passato il pomeriggio a cercare auto. Dovevo trovare una Cadillac bianca e una Batmobile. Decisi di iniziare dal Burg per poi allargare l’area di ricerca. Mi ero fatta mentalmente una lista dei ristoranti e dei posti dove servivano pasti a prezzi scontati per gli anziani. Quelli li avrei lasciati per ultimi, magari avrei trovato la Cadillac bianca prima.

Lasciai un pezzo di pane nella gabbietta di Rex e gli dissi che sarei tornata a casa per le cinque. Avevo in mano il guinzaglio di Bob e stavo per uscire quando qualcuno bussò alla porta. Era un fattorino della StateLine Florist.

«Buon compleanno» disse il ragazzo. Mi porse un vaso di fiori e se ne andò.

Era un po’ strano, considerato che il mio compleanno è in ottobre ed eravamo in aprile. Sistemai i fiori sul piano della cucina e lessi il biglietto.

Le rose sono rosse, blu sono le pansé, mi è venuto duro pensando a te.

Era firmato Ronald DeChooch. Non solo mi aveva fatto rivoltare lo stomaco alla Ace Pavers, adesso mi mandava anche dei fiori.

Capitolo 4

«Puah! Che schifo!» Afferrai i fiori e feci per buttarli via, ma non ci riuscii. Mi è già difficile buttare via i fiori quando sono secchi, figuriamoci se sono freschi e belli. Buttai il biglietto sul pavimento e lo calpestai più volte. Poi lo feci a pezzettini e lo gettai nella spazzatura. I fiori erano ancora sul piano della cucina, in tutta la loro gaiezza e allegria di colori, ma mi facevano rivoltare lo stomaco. Li presi e li sistemai con cura fuori dalla porta di casa. Poi rientrai nell’appartamento e chiusi la porta. Rimasi lì un istante a riflettere.

«Okay, posso conviverci» dissi a Bob.

A Bob non sembrava importare granché di quel che era successo.

Presi una giacca dall’attaccapanni nell’ingresso. Bob e io lasciammo l’appartamento, oltrepassammo svelti i fiori nel corridoio e poi, lentamente, scendemmo le scale e salimmo in macchina.

Dopo una mezz’ora passata a vagare per il Burg, decisi che cercare la Cadillac era un’idea cretina. Parcheggiai sulla Roebling e chiamai Connie dal cellulare.

«Novità?» chiesi. Connie era imparentata con metà dei criminali del New Jersey.

«Dodie Carmine si è rifatta le tette.»

Era una notizia bomba, ma non quello che serviva a me. «Nient’altro?»

«Non sei l’unica a cercare DeChooch. Ho ricevuto una telefonata da mio zio Bingo, che mi ha chiesto se stavamo seguendo qualche pista. Dopodiché ho parlato con mia zia Flo la quale mi ha detto che è successo qualcosa a Richmond quando DeChooch è andato là per quella storia delle sigarette. Ma non ha saputo dirmi altro.»

«Sul foglio di arresto c’è scritto che DeChooch era da solo quando l’hanno beccato. Mi sembra strano che non avesse un complice.»

«A quanto ne so era da solo. Aveva organizzato l’affare, affittato un camion ed era andato a Richmond.»

«Quel vecchio cieco ha guidato fino a Richmond per racimolare qualche sigaretta?»

«Così sembra.»

Avevo i Metallica in sottofondo. Bob era seduto accanto a me sul sedile anteriore, e sembrava apprezzare gli assolo di batteria di Lars. Dietro le porte chiuse del Burg si conducevano affari. E improvvisamente mi venne un’idea inquietante.

«DeChooch è stato arrestato tra qui e New York?»

«Sì, alla piazzola di sosta di Edison.»

«Pensi che potrebbe aver mollato un po’ del carico da qualche parte qui nel Burg?»

Ci fu un momento di silenzio. «Stai pensando a Dougie Kruper» disse Connie.

Chiusi il cellulare, inserii la marcia e mi diressi a casa di Dougie. Una volta arrivata non persi neanche tempo a bussare. Io e Bob facemmo semplicemente irruzione.

«Ehi» fece il Luna, uscendo lentamente dalla cucina con un cucchiaio in una mano e una scatoletta aperta nell’altra «stavo pranzando. Vuoi un po’ di succo d’arancia e di questa roba scura in scatola? Ne ho in abbondanza. Allo Shop Bag c’era una promozione prendi tre paghi due per le scatolette senza etichetta.»

Avevo già fatto metà delle scale. «No, grazie. Voglio solo dare un’altra occhiata al magazzino di Dougie. C’è dell’altro oltre a quell’ultimo carico?»

«Sì, un vecchio ha lasciato qui qualche scatolone un paio di giorni fa. Niente di che, però. Solo un paio di scatoloni.»

«Sai per caso che c’è in quegli scatoloni?»

«Sigarette di prima qualità. Ne vuoi qualcuna?»

Mi feci largo tra le merci varie della terza camera da letto e trovai le sigarette. Maledizione.

«Non è una bella cosa» dissi al Luna.

«Lo so. Ti uccidono, piccola. Molto meglio l’erba.»

«I supereroi non si fanno le canne» gli dissi.

«Neanche per sogno!»

«È vero. Non puoi essere un supereroe se ti droghi.»

«Tra un po’ mi dirai che non bevono neanche la birra.»

Difficile saperlo. «Sulla birra non ho informazioni.»

«Accidenti.»

Provai a pensare a come poteva essere il Luna quando non era fatto, ma non riuscivo a immaginarmelo. Avrebbe iniziato a vestirsi con abiti eleganti? Avrebbe votato per il partito repubblicano?

«Devi sbarazzarti di questa roba» gli dissi.

«Vuoi dire che devo venderla?»

«No. Devi sbarazzartene. Se viene la polizia ti accuseranno di appropriazione indebita di merce rubata.»

«La polizia è di casa qui, piccola. Sono fra i migliori clienti di Dougie.»

«Voglio dire se viene in veste ufficiale. Per esempio se stanno investigando sulla scomparsa di Dougie.»

«Ahhh» fece il Luna.

Bob adocchiò la scatoletta che il Luna aveva in mano. Il contenuto assomigliava molto a cibo per cani. Ovviamente, quando hai un cane come Bob, tutto diventa cibo per cani. Spinsi Bob fuori dalla porta e scendemmo tutti di sotto.

«Devo fare qualche telefonata» dissi al Luna. «Se viene fuori qualcosa ti faccio sapere.»

«Sì, ma io?» chiese il Luna. «Cosa dovrei fare? Dovrei… collaborare.»

«Liberati della roba che sta nella terza camera da letto!»

I fiori erano ancora davanti alla porta di casa quando io e Bob uscimmo dall’ascensore. Bob li annusò e mangiò una rosa. Lo trascinai nell’appartamento e, come prima cosa, controllai se ci fossero messaggi nella segreteria telefonica. Ne aveva lasciati due Ronald. «Spero che i fiori ti piacciano» diceva il primo «mi sono costati un bel paio di verdoni.» Nel secondo messaggio proponeva che ci incontrassimo perché, a suo parere, tra noi c’era qualcosa.

Blah!

Mi preparai un altro panino al burro di arachidi per togliermi Ronald dalla testa. Poi ne preparai uno anche a Bob. Portai il telefono sul tavolo della sala da pranzo e chiamai tutti i Kruper che avevo trovato sul pezzo di carta gialla. Dissi che ero un’amica di Dougie e che lo stavo cercando. Quando qualcuno mi diede l’indirizzo di Dougie nel Burg finsi di essere sorpresa del suo ritorno nel New Jersey. Non c’era bisogno di mettere in allarme i parenti di Dougie.

«Abbiamo totalizzato un bello zero spaccato con le telefonate» dissi a Bob. «E adesso?»

Avrei potuto prendere una fotografia di Dougie e farla vedere in giro, ma le possibilità che qualcuno si ricordasse di lui erano minime, per non dire nulle. Avevo io stessa delle difficoltà a ricordarmelo, persino quando ce l’avevo davanti. Feci una telefonata per controllare la sua situazione bancaria e scoprii che Dougie aveva una MasterCard. Oltre a questo, non c’erano altre informazioni.

Okay, stavo per muovermi in un territorio per niente promettente. Avevo eliminato amici, parenti e rendiconti finanziali. Il che esauriva più o meno le mie munizioni. E quel che era peggio, avevo una sensazione di vuoto e di schifo allo stomaco. Era quella che provavo quando qualcosa andava storto. Non volevo davvero che Dougie fosse morto, ma non riuscivo a trovare prove che mi confermassero che era vivo.

Be’, è da stupidi, dissi tra me e me. Dougie è un babbeo. Dio solo sa cosa sta combinando in questo momento. Potrebbe essere in pellegrinaggio verso Graceland. Oppure giocare a blackjack ad Atlantic City. O magari sta perdendo la verginità con la cassiera del turno di notte del 7-Eleven del quartiere.

E forse quella sensazione di vuoto e di schifo che ho nello stomaco è solo fame. Ma certo! Per fortuna avevo fatto un po’ di spesa da Giovichinni. Pescai dalla borsa le merendine e ne diedi a Bob una farcita al cocco. Io mangiai il pacchetto di biscotti al burro.

«Che te ne pare?» chiesi a Bob. «Va meglio adesso?»

Io mi sentivo meglio. I dolci mi fanno sempre sentire meglio. In realtà mi sentivo così bene che decisi di uscire e mettermi di nuovo a cercare Eddie DeChooch. Questa volta avrei scelto un’altra zona. Quella dove abitava Ronald. Sapere che Ronald non era in casa rappresentava un valido incentivo.

Bob e io attraversammo la città diretti a Cherry Street. Cherry Street fa parte di una zona residenziale nel quadrante nord-est di Trenton. È una zona perlopiù di villette bifamiliari costruite su piccoli lotti edificabili e assomiglia un po’ al Burg. Era il tardo pomeriggio. La scuola era finita. Nei soggiorni e nelle cucine erano accese le TV. Le pentole erano sul fuoco.

Oltrepassai l’abitazione di Ronald senza dare troppo nell’occhio, cercando la Cadillac bianca ed Eddie DeChooch. La casa di Ronald era una unifamiliare con una facciata in mattoni rossi. Non pretenziosa quanto quella di Joyce con le sue colonnine, ma nemmeno troppo raffinata. La porta del garage era chiusa. Nel vialetto era parcheggiato un furgoncino. Il giardinetto sul davanti era ben tenuto, con tanto di aiuole attorno a una statua bianca e blu, alta circa un metro, della Vergine Maria. Aveva un’espressione composta e serena nel suo involucro di gesso. Sicuramente più di me nell’involucro in fibra di vetro della mia Honda.

Io e Bob avanzammo lentamente lungo la strada, sbirciando nei vialetti, allungando il collo per vedere le ombre che si muovevano dietro le tendine trasparenti. Percorremmo Cherry Street due volte e poi cominciammo a cercare nel resto del vicinato, andando per settori. C’erano molte vecchie auto di grossa cilindrata, ma nessuna Cadillac bianca. E nessun Eddie DeChooch.

«Non lasciamo nulla di intentato» dissi a Bob, cercando di giustificare quello spreco di tempo.

Bob mi diede un’occhiata che diceva sarà come dici tu. Teneva la testa fuori dal finestrino, in cerca di barboncine carine.

Presi la Olden Avenue e mi diressi verso casa. Stavo per attraversare la Greenwood quando Eddie DeChooch mi sfrecciò accanto a bordo della Cadillac bianca, procedendo in direzione opposta alla mia.

Feci un’inversione a U nel bel mezzo di un incrocio. Si stava avvicinando l’ora di punta e c’era un discreto traffico. Almeno una dozzina di persone si attaccarono al clacson e mi fecero gestacci con le mani. Mi reinserii nel flusso del traffico e cercai di non perdere di vista Eddie. Tra me e lui c’erano una decina di auto. Vidi che aveva preso State Street, diretto al centro. Quando finalmente riuscii a girare l’avevo già perso.

Entrai in casa dieci minuti prima che Joe arrivasse.

«Cosa sono quei fiori fuori dalla porta?» mi domandò.

«Li ha mandati Ronald DeChooch. E non mi va di parlarne.»

Morelli mi fissò per un istante. «Devo sparargli?»

«Si illude che tra noi sia nata un’attrazione.»

«Molte persone si fanno questo genere di illusioni.»

Bob galoppò incontro a Morelli e gli si buttò addosso per richiamare la sua attenzione. Joe gli diede un abbraccio e una bella strapazzata. Che cane fortunato.

«Oggi ho visto Eddie DeChooch» dissi.

«E allora?»

«L’ho perso un’altra volta.»

Morelli sorrise. «Famosa cacciatrice di taglie perde anziano… due volte.» A dire il vero erano tre volte!

Morelli si avvicinò e fece scivolare le braccia intorno a me. «Vuoi essere consolata?»

«Cosa avevi in mente?»

«Quanto tempo abbiamo?»

Sospirai. «Non abbastanza.» Guai se avessi ritardato cinque minuti per cena. Gli spaghetti si sarebbero scotti. L’arrosto si sarebbe asciugato. E sarebbe stata tutta colpa mia. Avrei rovinato la cena. Un’altra volta. E, cosa ancora peggiore, la mia sorella perfetta Valerie non ha mai rovinato una cena. Mia sorella ha avuto il buon senso di trasferirsi a migliaia di chilometri di distanza. Questo vi dà la misura di quanto è perfetta.

Mia madre venne ad aprire la porta a me e a Joe. Bob balzò in casa, con le orecchie svolazzanti e gli occhi lucidi.

«Quant’è carino» disse la nonna. «È una cannonata.»

«Sposta la torta sopra il frigorifero» disse mia madre. «E dov’è l’arrosto? Non farlo avvicinare all’arrosto.»

Mio padre era già a tavola a tenere d’occhio l’arrosto e a sorvegliare la fetta finale di manzo.

«A che punto siamo con il matrimonio?» chiese la nonna quando eravamo tutti a tavola a divorare la cena. «Al salone di bellezza le ragazze mi hanno chiesto quando sarà. E volevano anche sapere se avevamo affittato una sala. Marilyn Biaggi ha cercato di farsi dare il deposito dei vigili del fuoco per il ricevimento della figlia Carolyn, ma era già prenotata per tutto l’anno.»

Mia madre lanciò un’occhiata al mio anulare. Niente anelli al dito. Proprio come il giorno prima. Serrò le labbra e tagliuzzò la carne in tanti piccoli pezzettini.

«Stiamo pensando a una data» dissi «ma non abbiamo ancora deciso nulla.» Mamma mia, mamma mia, come è brutta la bugia! Non abbiamo mai parlato di una data. Abbiamo evitato di parlare di date come la peste.

Morelli mi cinse le spalle con un braccio. «Steph ha proposto di lasciar perdere il matrimonio e cominciare a convivere, ma non so se è una buona idea.» Joe se la cavava egregiamente quando si trattava di dire bugie, e qualche volta aveva un fastidioso senso dell’umorismo.

Mia madre prese fiato e infilò il coltello nella carne con tanta forza che la forchetta andò a stridere rumorosamente contro il piatto.

«A quanto pare è così che si usa al giorno d’oggi» disse la nonna. «Io non ci vedo niente di male. Se volessi vivere insieme a un uomo, lo farei senza troppi problemi. Cosa mai può voler dire uno stupido pezzo di carta? A dire il vero sarei andata a vivere con Eddie DeChooch, ma il pene non gli funziona.»

«Cristo santo» disse mio padre.

«Non che di un uomo mi interessi solo il pene» aggiunse la nonna. «È che tra me ed Eddie c’era solo un’attrazione fisica. Quando si trattava di parlare non avevamo granché da dirci.»

Mia madre stava facendo dei movimenti che assomigliavano molto a un tentativo di pugnalarsi il petto. «Perché non mi ammazzate» disse. «Sarebbe tutto più facile.»

«È la menopausa» bisbigliò la nonna rivolta a Joe e a me.

«Non è la menopausa» strillò mia madre. «Sei tu! Mi mandi al manicomio!» Puntò il dito contro mio padre. «Tu mi mandi al manicomio! E anche tu» disse, fulminandomi con lo sguardo. «Mi mandate tutti al manicomio. Per una volta mi piacerebbe cenare senza dover parlare di parti intime, alieni e sparatorie. E voglio dei nipoti intorno a questa tavola. Li voglio qui l’anno prossimo, e che siano legittimi. Pensate che durerò in eterno? Presto sarò nella tomba e allora vi dispiacerà.»

Rimanemmo seduti a bocca aperta, paralizzati. Nessuno disse una parola per almeno sessanta secondi.

«Ci sposiamo ad agosto» mi lasciai sfuggire. «La terza settimana di agosto. Volevamo che fosse una sorpresa.»

Il viso di mia madre si illuminò. «Davvero? La terza settimana di agosto?»

No. Era un’invenzione coi fiocchi. Non so da dove mi uscì quella frase. Semplicemente scappata di bocca. La verità è che il mio era un fidanzamento senza impegno, dato che la proposta di matrimonio risaliva a un periodo quando era difficile distinguere tra il desiderio di passare il resto della nostra vita insieme e quello di fare sesso con una certa regolarità. Visto che la voglia di sesso di Morelli fa sembrare la mia del tutto insignificante, di solito è lui quello più propenso al matrimonio. Forse sarebbe più corretto dire che siamo degli eterni fidanzati. Ma è una situazione in cui ci sentiamo a nostro agio perché è abbastanza vaga da risparmiarci le serie discussioni coniugali. Le serie discussioni coniugali finiscono sempre tra grida e porte che sbattono.

«Hai iniziato a guardare qualche vestito?» domandò la nonna. «Agosto arriva presto. Ti serve un abito lungo. E poi ci sono i fiori e il ricevimento. E devi anche prenotare la chiesa. Hai già chiesto per la chiesa?» La nonna saltò via dalla sedia. «Devo chiamare Betty Szajack e Marjorie Swit per dirgli le novità.»

«No, aspetta!» esclamai. «Non è ancora ufficiale.»

«Cosa significa… non è ancora ufficiale?» domandò mia madre.

«Non lo sanno in molti.» Neanche Joe.

«E la nonna di Joe?» domandò la nonna. «Lei lo sa? Non vorrei proprio che la nonna di Joe si offendesse. Lei è una che fa il malocchio.»

«Nessuno può fare il malocchio» disse mia madre. «Il malocchio non esiste.» Persino mentre lo diceva si capiva che si stava sforzando di non fare il segno della croce.

«E poi» dissi «non voglio un matrimonio con il vestito lungo e tutto il resto. Voglio un… barbecue.»

Quasi non credevo a ciò che stavo dicendo. Non solo avevo annunciato la data del mio matrimonio, ora sembrava che avessi già programmato tutto. Un barbecue! Diamine! Era come se avessi perso il controllo della bocca.

Guardai Morelli e mossi le labbra a invocare un silenzioso aiuto!

Joe mi avvolse le spalle con un braccio e sorrise. La sua risposta, altrettanto silenziosa, fu: tesoro, questa volta devi cavartela da sola.

«Be’, sarà un sollievo vedervi felicemente sposati» disse mia madre. «Le mie due figlie… felicemente sposate.»

«Ora che ci penso» disse la nonna a mia madre. «Valerie ha telefonato ieri sera mentre tu eri a fare la spesa. Ha parlato di un viaggio, ma non ho capito bene quello che ha detto perché c’era un gran urlare in sottofondo.»

«Chi urlava?»

«Credo fosse la televisione. Valerie e Steven non urlano mai. Quei due sono proprio la coppia perfetta. E le bimbe sono due perfette signorine.»

Mi veniva voglia di vomitare.

«Ti ha detto se dovevo richiamarla?» chiese mia madre.

«Non me l’ha detto… È successo qualcosa e la comunicazione si è interrotta.»

La nonna si risistemò più diritta sulla sedia. Da dove si trovava vedeva chiaramente oltre il soggiorno e in strada, e qualcosa catturò la sua attenzione.

«C’è un taxi fermo davanti a casa nostra» disse.

Tutti allungarono il collo per vedere il taxi. Nel Burg, un taxi che si ferma davanti a una casa è uno spettacolo da non lasciarsi sfuggire.

«Per amor del cielo!» disse la nonna. «Non ci crederete, ma è Valerie quella che sta scendendo dal taxi.»

Saltammo tutti in piedi e corremmo alla porta. Subito dopo, mia sorella e le sue bambine entrarono di corsa in casa.

Valerie è due anni più grande di me e due centimetri più bassa. Entrambe abbiamo capelli castani e ricci, ma Valerie se li è tagliati e si è fatta bionda, come Meg Ryan. A quanto pare i capelli vanno così in California.

Da bambine, Valerie era tutta budini alla vaniglia, bei voti e mutandine immacolate. Io ero torte al cioccolato, il cane mi ha mangiato i compiti e ginocchia sbucciate.

Valerie si è sposata appena finito il college ed è rimasta subito incinta. La verità è che sono invidiosa. Io mi sono sposata e ho subito divorziato. Ovviamente io ho sposato un donnaiolo idiota mentre Valerie ha sposato un bravissimo ragazzo. A Valerie l’onore di trovare Mr. Perfezione.

Le mie nipotine assomigliano molto a Valerie prima che si tagliasse i capelli alla Meg Ryan. Capelli castani e ricci, grandi occhi nocciola, carnagione un po’ più mediterranea della mia. Nel patrimonio genetico di Valerie non c’è molto di ungherese. E ce n’è meno ancora nelle sue due figlie, Angie e Mary Alice. Angie ha nove anni, ma si comporta come se ne avesse quaranta. E Mary Alice si crede un cavallo.

Mia madre aveva il viso arrossato e gli occhi lucidi, gli ormoni in subbuglio mentre abbracciava le bambine e baciava Valerie. «Non ci posso credere» continuava a dire. «Non ci posso credere! Che sorpresa. Non immaginavo che saresti venuta a trovarci.»

«Ho telefonato» disse Valerie. «La nonna non te l’ha detto?»

«Non sono riuscita a sentire bene» si giustificò la nonna. «C’era una tale confusione, e poi è caduta la linea.»

«Be’, eccomi qua» fece Valerie.

«Giusto in tempo per la cena» disse mia madre. «Ho un bell’arrosto e una torta per dolce.»

Ci mettemmo tutti in moto per aggiungere sedie, piatti e bicchieri. Poi ci sedemmo e cominciammo a passare l’arrosto, le patate e i fagiolini. La cena si rallegrò e la casa si riempì di un’aria di festa.

«Quanto tempo ti trattieni?» domandò mia madre.

«Finché non risparmio abbastanza per comprarmi una casa» rispose Valerie.

Mio padre impallidì.

Mia madre era al settimo cielo. «Tornate a vivere in New Jersey?»

Valerie scelse un pezzo magro di manzo. «Ci è sembrata la cosa più giusta da fare.»

«Steve ha avuto il trasferimento?» chiese mia madre.

«Steve non viene.» Valerie eliminò con precisione chirurgica l’unica punta di grasso dal suo pezzo di carne. «Steve mi ha lasciato.»

Alla faccia della festa.

Morelli fu l’unico a non far cadere la forchetta. Lo guardai e capii che ce la stava mettendo tutta per non scoppiare a ridere.

«Bella roba» commentò la nonna.

«Ti ha lasciato» ripeté mia madre. «Cosa significa, ti ha lasciato? Tu e Steve siete perfetti insieme.»

«Lo credevo anch’io. Non so cosa sia andato storto. Credevo che tra noi funzionasse tutto a meraviglia e poi voilà, se ne è andato.»

«Voilà?» disse la nonna.

«All’improvviso» rispose Valerie. «Voilà.» Si morse il labbro per non farlo tremare.

Quel labbro tremolante gettò mia madre, mio padre, mia nonna e me nel panico. Non eravamo abituati a quel tipo di manifestazione emotiva. A casa nostra si esprimevano soltanto rabbia e sarcasmo. Tutto ciò che andava oltre questi due atteggiamenti apparteneva a un territorio inesplorato. E di certo non eravamo preparati a un comportamento del genere da parte di Valerie. Valerie è la regina del gelo. Per non parlare poi del fatto che la vita di Valerie è sempre stata perfetta. Questo non è proprio il genere di cose che può succedere a una come lei.

Gli occhi di Valerie diventarono rossi e si gonfiarono di lacrime. «Mi passi la salsa, per favore?» chiese a nonna Mazur.

Mia madre saltò via dalla sedia. «Ti vado a prendere quella calda in cucina.»

La porta della cucina si chiuse energicamente alle spalle di mia madre. Ci fu un grido e un rumore di piatti che si infrangevano contro la parete. Cercai automaticamente Bob, il quale dormiva sotto il tavolo. La porta della cucina si spalancò e mia madre uscì placidamente con la salsa.

«Sono sicura che si tratta di una cosa temporanea» disse. «Sono sicura che Steve tornerà in sé.»

«Credevo che il nostro fosse un buon matrimonio. Cucinavo bene. E tenevo bene la casa. Andavo in palestra per rimanere attraente. Mi sono anche tagliata i capelli come Meg Ryan. Non capisco cosa sia andato storto.»

Valerie è sempre stata la più capace della famiglia. Sempre padrona di sé. Gli amici la chiamavano Santa Valerie perché aveva sempre un’espressione placida… come la statua della Vergine Maria nel giardino di Ronald DeChooch. Ma ora il mondo le stava crollando addosso e non era esattamente placida, ma neanche furibonda, se è per questo. Sembrava più che altro triste e confusa.

A me pareva un po’ strano dato che, quando il mio matrimonio era andato in fumo, le urla si erano sentite per un raggio di diversi chilometri. E quando io e Dickie andammo in tribunale mi dissero che a un certo punto la testa mi si era messa a girare come a quella ragazzina del film L’esorcista. Il matrimonio tra me e Dickie non fu un granché, ma sfruttammo il divorzio al massimo.

Rimasi assorta nei ricordi e lanciai a Morelli un’occhiata della serie gli uomini sono tutti bastardi.

Gli occhi di Morelli si scurirono e le labbra si atteggiarono in una smorfia che sembrava un sorriso. Mi sfregò la nuca con la punta del dito e un’ondata di calore mi percorse lo stomaco e poi scese più in basso. «Gesù» dissi.

Il suo sorriso si fece più ampio.

«Almeno finanziariamente dovresti essere a posto» osservai. «Secondo le leggi della California non ti spetta la metà di tutto?»

«La metà di niente è niente» rispose Valerie. «La casa è ipotecata oltre il suo valore. E non abbiamo niente nel conto in banca perché Steve ha trasferito tutti i nostri soldi alle Isole Cayman. È un così bravo uomo d’affari. Lo dicono tutti. È una delle cose che mi affascinavano di più in lui.» Tirò un bel respiro e tagliò la carne nel piatto di Angie, Poi la tagliò anche per Mary Alice.

«Mantenimento dei figli» dissi. «Che mi dici del mantenimento dei figli?»

«In teoria, suppongo che dovrebbe aiutarmi con le bambine ma si dà il caso che Steve sia scomparso. Potrebbe essere alle Cayman con i nostri soldi.»

«Ma è terribile!»

«La verità è che Steve è fuggito con la nostra baby sitter.»

Rimanemmo tutti a bocca aperta.

«Ha compiuto diciotto anni il mese scorso» disse Valerie. «Le ho regalato un peluche per il compleanno.»

Mary Alice cominciò a nitrire. «Voglio un po’ di fieno. I cavalli non mangiano la carne. I cavalli devono mangiare il fieno.»

«Che carina» disse la nonna. «Mary Alice crede ancora di essere una cavallina.»

«Sono un cavallo maschio» disse Mary Alice.

«Non essere un cavallo maschio, tesoro» disse Valerie. «I maschi sono gentaccia.»

«Alcuni maschi non sono male» disse la nonna.

«Tutti i maschi sono gentaccia» ripeté Valerie. «Tranne papà, s’intende.»

Nessun riferimento a Joe nell’esclusione dalla categoria «gentaccia».

«I cavalli maschi galoppano più veloci delle cavalle» disse Mary Alice mentre con il cucchiaio lanciava il purè a sua sorella. Il purè sfiorò Angie di lato e finì per terra. Bob si lanciò da sotto il tavolo e lo leccò.

Valerie lanciò un’occhiataccia a Mary Alice. «Non è educato lanciare il purè.»

«Giusto» aggiunse la nonna. «Le signorine non lanciano il purè alle sorelline.»

«Non sono una signorina» rispose Mary Alice. «Quante volte ve lo devo dire. Sono un cavallo!» E così dicendo lanciò un mucchietto di purè alla nonna.

La nonna socchiuse gli occhi e fece saltare un fagiolino sulla testa di Mary Alice.

«Nonna mi ha tirato un fagiolino!» gridò Mary Alice. «Mi ha tirato un fagiolino! Ditele di smetterla.»

Alla faccia delle perfette signorine.

Bob ingurgitò immediatamente il fagiolino.

«Basta dare da mangiare al cane» disse mio padre.

«Spero che non vi dispiaccia che sia tornata a casa senza preavviso» disse Valerie. «Starò solo finché non trovo un lavoro.»

«Abbiamo un bagno solo» disse mio padre. «Voglio essere il primo ad andare al bagno la mattina. Alle sette tocca a me andare al bagno.»

«Sarà bellissimo averti qui in casa con le bambine» intervenne mia madre. «E ci puoi dare una mano con il matrimonio di Stephanie. Stephanie e Joe hanno appena fissato la data.»

Valerie quasi si strozzò e gli occhi le si arrossarono e gonfiarono di nuovo. «Congratulazioni» disse.

«La cerimonia nuziale della tribù tuzi dura sette giorni e finisce con la rituale lacerazione dell’imene» disse Angie. «Poi la sposa va a vivere con la famiglia del marito.»

«Ho visto uno speciale sugli alieni in TV» disse la nonna. «Loro non hanno l’imene. Non hanno proprio niente nelle parti basse.»

«I cavalli ce l’hanno l’imene?» domandò Mary Alice.

«I cavalli maschi no» rispose la nonna.

«È una bella cosa che abbiate deciso di sposarvi» disse Valerie. E poi scoppiò a piangere. E non erano lacrimucce tirate su col naso. Valerie singhiozzava di brutto, piangeva a dirotto, buttava dentro aria e urlava disperazione. Anche le due signorine cominciarono a piangere, a bocca aperta, come solo i bambini sanno fare. E poi si mise a piangere anche mia madre, cercando di soffocare i singhiozzi col tovagliolo. E Bob ululava. Auuuh. Auuuh!

«Non mi sposerò mai più» disse Valerie tra i singhiozzi. «Mai, mai, mai. Il matrimonio è opera del demonio. Gli uomini sono l’Anticristo. Voglio diventare lesbica.»

«Come si fa?» chiese la nonna. «Me lo sono sempre domandata. Si deve indossare un pene finto? Ho visto un programma in TV una volta e c’erano delle donne che portavano queste cose fatte di pelle nera e a forma di grosso…»

«Ammazzatemi» gridò mia madre. «Facciamola finita. Voglio morire.»

Mia sorella e Bob ripresero rispettivamente a piangere e a ululare. Mary Alice nitriva a pieni polmoni. E Angie si copriva le orecchie con le mani per non sentire, cantando «La, la, la, la».

Mio padre pulì il piatto e si guardò in giro. Che fine aveva fatto il suo caffè? E il suo pezzo di torta?

«Da questa sera hai un grosso debito con me» mi sussurrò Morelli in un orecchio. «Vale una notte di sesso sfrenato.»

«Mi sta venendo il mal di testa» disse la nonna. «Non ne posso più di questo casino. Qualcuno faccia qualcosa. Accendete la televisione. Tirate fuori gli alcolici. Fate qualcosa!»

Mi sollevai a fatica dalla sedia e andai in cucina a prendere la torta. Appena arrivò in tavola tutti smisero di piangere. Se c’è una cosa su cui non si discute a casa nostra… è il dolce.

Per tutto il percorso di ritorno a casa, Morelli, Bob e io restammo in silenzio, nessuno sapeva che cosa dire. Joe entrò nel parcheggio, spense il motore e si girò verso di me.

«Agosto?» domandò, con un tono di voce più acuto del solito, incapace di nascondere l’incredulità. «Vuoi sposarti ad agosto?»

«Mi è scappato di bocca! Tutta colpa di mia madre e della sua paura di morire.»

«In confronto alla tua, la mia sembra la famiglia Brady.»

«Stai scherzando? Tua nonna è pazza. Fa il malocchio.»

«È una cosa italiana.»

«È da pazzi.»

Un’auto arrivò nel parcheggio a tutta velocità, poi frenò di colpo, la portiera si aprì e il Luna rotolò fuori sul marciapiede. Io e Joe ci catapultammo fuori dalla macchina nello stesso momento. Quando gli fummo vicini, il Luna era già riuscito a mettersi seduto. Si teneva la testa e gli gocciolava del sangue tra le dita.

«Ehi, piccola» disse il Luna «mi sa che mi hanno sparato. Stavo guardando la TV quando ho sentito un rumore sulla veranda, così sono andato a dare un’occhiata e ho visto una faccia spaventosa che mi guardava da dietro il vetro. Era una vecchia spaventosa con degli occhi spaventosi. Era buio, ma sono riuscito a vederla lo stesso, nonostante il vetro scuro. Poi mi sono accorto che aveva in mano una pistola e mi ha sparato. E ha anche rotto la finestra di Dougie. Dovrebbe esserci una legge che proibisce questo genere di cose, piccola.»

Il Luna abitava a due isolati dall’ospedale St. Francis, ma invece di fermarsi là era venuto a chiedere aiuto a me. Perché proprio a me? mi chiesi e poi realizzai che sembravo mìa madre e mi diedi mentalmente una botta in testa.

Caricammo di nuovo il Luna nella sua macchina. Morelli lo portò in ospedale e io li seguii con il fuoristrada di Joe. Due ore dopo avevamo esplicato tutte le formalità dell’ospedale e della polizia e il Luna aveva un vistoso cerotto sulla fronte. Il proiettile l’aveva sfiorato vicino al sopracciglio e poi era rimbalzato sulla parete del soggiorno di Dougie.

Dall’interno del soggiorno di Dougie, analizzammo il buco nella finestra sul davanti.

«Avrei dovuto indossare il super costume» disse il Luna. «Li avrebbe confusi, piccola.»

Io e Morelli ci scambiammo un’occhiata. Confusi. Direi proprio di sì.

«Pensi che sia al sicuro in questa casa?» chiesi a Joe.

«Difficile dire cosa sia sicuro per il Luna» rispose.

«Amen» fece il Luna. «La sicurezza viaggia su ali di farfalla.»

«Non so che accidenti significhi» disse Morelli.

«Significa che la sicurezza è fuggevole, amico.»

Joe mi prese da una parte. «Forse dovremmo portarlo in un centro di riabilitazione.»

«Guarda che ti ho sentito. È un’idea assurda. Quelli che stanno al centro di riabilitazióne sono gente strana. Cioè, sono dei veri e propri depressi. Sono tutti un po’ drogati.»

«Be’, che diamine, non vogliamo di certo metterti insieme a un branco di drogati» disse Joe.

Il Luna annuì. «Ben detto, cazzo.»

«Potrebbe stare da me per un paio di giorni» proposi. Mentre lo dicevo… mi stavo già mordendo la lingua. Che accidenti mi succedeva, oggi? Era come se bocca e cervello fossero scollegati.

«Wow, faresti questo per il Luna? Non ho parole.» Il Luna mi abbracciò. «Non te ne pentirai. Sarò un coinquilino modello.»

Joe non era certo contento quanto il Luna. Aveva dei progetti per la serata. C’era stato quel commento a tavola a casa dei miei a proposito della notte di sesso sfrenato che gli dovevo. Forse aveva scherzato. O forse no. È difficile capire gli uomini. Forse era meglio rimanere con il Luna.

Alzai le spalle a Morelli come per dire: ehi, cosa deve fare una ragazza?

«Okay» disse Joe «chiudiamo e andiamocene di qui. Tu prendi il Luna e io prendo Bob.»

Io e il Luna eravamo davanti alla porta del mio appartamento. Il Luna aveva una piccola sacca di tela dove immaginavo tenesse un cambio e una gamma completa di stupefacenti.

«Okay» dissi «le cose stanno così. Puoi stare quanto vuoi, ma niente droghe in casa mia.» «Piccola» fece il Luna. «C’è della droga in quella borsa?» «Ehi, che faccia ho?» «La faccia di uno che si fa.» «Sì, va bene, ma è perché mi conosci.» «Svuota la borsa per terra.»

Il Luna mise il contenuto della borsa per terra. Infilai di nuovo i vestiti nella sacca e confiscai tutto il resto. Pipe e cartine e un assortimento di sostanze controllate. Entrammo in casa, buttai nello scarico del bagno il contenuto delle buste di plastilene e l’attrezzatura varia nella spazzatura.

«Finché stai qui niente droghe» dissi.

«Ehi, grandioso» fece il Luna. «Il Luna non ha veramente bisogno di farsi. Il Luna è un consumatore a scopo ricreativo.»

Ma va’.

Gli diedi un cuscino e un piumone e me ne andai a letto. Alle quattro fui svegliata dal suono della televisione a tutto volume nel soggiorno. Mi trascinai fuori dalla mia camera in T-shirt e pantaloncini di cotone e guardai il Luna di traverso.

«Che succede? Non dormi?»

«Di solito dormo come un sasso. Non so cosa mi succede. Forse è tutto un po’ troppo. Sono scoppiato, piccola. Capisci cosa voglio dire? Teso.»

«Già. Mi sa tanto che ti ci vuole una canna.»

«È terapeutica, piccola. In California l’erba si compra con la prescrizione medica.»

«Scordatelo.» Tomai in camera, chiusi la porta a chiave e mi misi il cuscino sopra la testa.

Quando cominciai a stiracchiarmi di nuovo erano ormai le sette, il Luna dormiva sul pavimento e in TV c’erano i cartoni animati del sabato mattina. Accesi la macchinetta del caffè, diedi a Rex un po’ d’acqua e qualcosa da mangiare e infilai una fetta di pane nel tostapane nuovo di zecca. Il profumo del caffè appena fatto fece svegliare il Luna.

«Ehilà» disse «che cosa c’è per colazione?»

«Caffè e pane tostato.»

«Tua nonna mi avrebbe preparato le frittelle.»

«Mia nonna non c’è.»

«Stai cercando di fare la dura con me, piccola. Probabilmente ti sei sbafata delle ciambelle mentre a me tocca un misero toast. Ho anch’io i miei diritti.» Non stava urlando, ma non parlava neanche sottovoce. «Sono un essere umano e ho i miei diritti.»

«Di che diritti parli? Il diritto di avere delle frittelle? Il diritto di avere delle ciambelle?»

«Non mi ricordo.»

Oh cavolo.

Crollò a sedere sul divano. «Questo appartamento è deprimente. Mi rende nervoso. Come fai a vivere qui dentro?»

«Lo vuoi questo caffè, o no?»

«Sì, voglio il caffè e lo voglio subito.» Il tono della voce si era un tantino alzato ora. Stava proprio urlando. «Non penserai mica che io rimanga qui ad aspettare il caffè in eterno!»

Sbattei una tazza sul piano della cucina, ci versai un po’ di caffè e la spinsi verso il Luna. Poi telefonai a Joe.

«Mi serve della roba» dissi a Morelli. «Devi trovarmi della roba.»

«Che genere di roba?»

«Marijuana. Ho buttato nel gabinetto tutte le droghe del Luna ieri sera, e adesso non lo sopporto più. Si comporta come se fosse in piena sindrome premestruale.»

«Credevo che volessi disintossicarlo.»

«Non ne vale la pena. Lo preferisco quando è fatto.»

«Rimani lì» disse Morelli. E riagganciò.

«Questo caffè è finto, piccola» si lagnò il Luna. «Voglio un cappuccino.»

«Bene! Andiamo a prendere questo maledetto cappuccino.» Presi la borsa e le chiavi e spinsi il Luna fuori dalla porta.

«Ehi, le scarpe» disse il Luna.

Strabuzzai gli occhi e tirai un sospirone mentre il Luna tornò borbottando nell’appartamento per prendere le scarpe. Benone. Non mi facevo, eppure mi sentivo anch’io in preda alla sindrome premestruale.

Capitolo 5

Starmene seduta al bar a sorseggiare un cappuccino come se niente fosse non rientrava nelle mie abitudini mattutine, così optai per il McDonald’s, il cui menù offriva cappuccini alla vaniglia e frittelle. Certo non erano all’altezza di quelle di mia nonna, ma non erano neanche così male, e più facili da avere.

Il cielo era coperto e minacciava pioggia. Niente di strano. La pioggia è di rigore nel New Jersey in aprile. Una pioggerellina grigia e costante che incoraggia in tutto lo Stato una mentalità del tipo «teniamoci i capelli sporchi e passiamo tutta la giornata stravaccati davanti alla TV». A scuola ci dicevano che gli acquazzoni di aprile facevano sbocciare i fiori a maggio. Gli acquazzoni di aprile causano anche maxitamponamenti di dieci e più macchine agli incroci e nasi chiusi e pieni di muco. Il lato buono della faccenda è che in New Jersey abbiamo spesso motivo di comprare un’auto nuova e ci riconoscono in tutto il mondo per il nostro accento nasale.

«Come va la testa?» chiesi al Luna mentre tornavamo a casa.

«Piena di cappuccino. Mi sento tutto ovattato, piccola.»

«Mi riferivo ai dodici punti che ti hanno messo sulla ferita.»

Il Luna si passò il dito sul cerotto. «Mi sembra che vada bene.» Rimase seduto per un momento a labbra leggermente socchiuse e con gli occhi che vagavano nei recessi del cervello in cerca di qualcosa. Poi gli si accese la lampadina. «Oh, sì» disse. «Quella vecchia spaventosa mi ha sparato.»

Questo è il lato positivo del fumare erba in continuazione… niente memoria a breve termine. Ti capita una cosa terribile e dopo dieci minuti neanche te ne ricordi.

Ovviamente fumare erba ha anche il suo lato negativo, perché quando succede qualcosa di brutto, per esempio ti scompare un amico, c’è la possibilità che messaggi e fatti importanti si perdano nell’annebbiamento mentale. E c’è anche la possibilità che le allucinazioni ti facciano vedere un viso alla finestra quando in realtà il colpo è stato sparato da un’auto in corsa.

Nel caso del Luna, la possibilità era una buona probabilità.

Sulla via del ritorno passammo davanti a casa di Dougie per controllare che non fosse andata a fuoco mentre dormivamo.

«Sembra tutto tranquillo» dissi.

«Sembra triste» osservò il Luna.

Quando tornammo nel mio appartamento, Ziggy Garvey e Benny Colucci erano in cucina. Avevano in mano una tazza di caffè e un pezzo di toast.

«Spero che non ti dispiaccia» disse Ziggy. «Eravamo curiosi di sapere come va il nuovo tostapane.»

Benny agitò la mano in cui teneva la fetta di pane. «Questo toast è ottimo. Vedi come è dorato uniformemente. Non è bruciacchiato ai bordi. Ed è bello croccante.»

«Dovresti metterci della marmellata» disse Ziggy. «Della marmellata di fragole ci starebbe proprio bene.»

«Siete entrati di nuovo in casa mia! È una cosa che non sopporto.»

«Non eri in casa» si giustificò Ziggy. «E non volevamo far vedere ai tuoi vicini che hai degli uomini che ti aspettano fuori dalla porta.»

«Già, non volevamo infangare il tuo nome» aggiunse Benny. «Secondo noi tu non sei quel genere di ragazza. Anche se da anni girano un sacco di voci su te e Morelli. Dovresti stare attenta con lui. Ha una pessima reputazione.»

«Ehi, guarda» disse Ziggy. «C’è il nostro piccolo finocchio. Dove hai lasciato la tua uniforme, ragazzo?»

«Già, e perché hai quel cerotto? Sei caduto dai tacchi alti?» chiese Benny.

Ziggy e Benny si diedero una gomitata e risero come se avessero detto qualcosa di molto spiritoso.

Mi saltò in mente un’idea. «Non è che per caso voi due sapete qualcosa sul perché il mio amico ha un cerotto in testa?»

«Io no» rispose Benny. «Ziggy, tu ne sai qualcosa?»

«Non ne so niente» disse Ziggy.

Mi appoggiai all’indietro contro il piano della cucina e incrociai le braccia. «Allora che ci fate qui?»

«Abbiamo pensato che dovevamo fare un salto» disse Ziggy. «È passato un po’ di tempo dall’ultima volta che ci siamo visti, e volevamo sapere se per caso è venuto fuori qualcosa.»

«Non sono passate neanche ventiquattro ore» gli feci notare.

«Già, proprio come abbiamo detto. È passato un po’ di tempo.»

«Non è venuto fuori niente.»

«Accidenti che peccato» disse Benny. «Ci eri stata consigliata tanto caldamente. Speravamo proprio che potessi aiutarci.»

Ziggy finì il caffè, sciacquò la tazza nel lavello e la sistemò nello scolapiatti. «È ora di andare.»

«Maiale» disse il Luna.

Ziggy e Benny si fermarono sulla soglia di casa.

«È una brutta parola» disse Ziggy. «Farò finta di non aver sentito solo perché sei un amico della signorina Plum.» Guardò Benny perché lo appoggiasse.

«Esatto» disse Benny. «Facciamo finta di niente, ma dovresti imparare un po’ di educazione. Non sta bene parlare così a dei signori anziani.»

«Mi avete dato del finocchio!» urlò il Luna.

Ziggy e Benny si guardarono perplessi.

«E allora?» fece Ziggy.

«La prossima volta rimanete pure tranquillamente fuori dalla porta» dissi. Una volta usciti, chiusi la porta a chiave. «Voglio che tu ti metta a pensare» dissi al Luna. «Hai idea di perché qualcuno ti ha sparato? Sei sicuro di aver visto la faccia di una donna alla finestra?»

«Non lo so, piccola. Mi riesce difficile pensare. Ho la mente, come dire, occupata.»

«Hai ricevuto strane telefonate?»

«Ce n’è stata una, ma non era poi così strana. Ha chiamato una donna quando ero da Dougie e ha detto che secondo lei avevo qualcosa che non era mio. E io… sì, insomma, tutto qui.»

«Ti ha detto qualcos’altro?»

«No. Le ho chiesto se voleva un tostapane o un costume da supereroe e lei ha riattaccato.»

«È tutta là la merce che ti è rimasta? Che ne è delle sigarette?»

«Me ne sono sbarazzato. Conosco un fumatore incallito…»

Era come se il Luna fosse rimasto impigliato in una curvatura del tempo. Me lo ricordavo ai tempi del liceo e non era cambiato di una virgola. Capelli castani, lunghi e sottili, con la riga in mezzo e legati a coda di cavallo. Carnagione chiara, costituzione snella, altezza nella media. Indossava una camicia hawaiana e un paio di jeans che probabilmente erano finiti a casa di Dougie con il favore del buio. Aveva passato gli anni di scuola superiore a galleggiare in un costante annebbiamento da fumo che gli dava un rilassato benessere, lo faceva parlare e ridacchiare durante la pausa pranzo, sonnecchiare alle lezioni di inglese. E ora eccolo qui… che continuava a vivere sospeso su una nuvola. Niente lavoro. Nessuna responsabilità. A pensarci bene, non era per niente male.

Di sabato, Connie lavorava generalmente la mattina. Chiamai in ufficio e aspettai che terminasse un’altra conversazione.

«Stavo parlando con la zia Flo» disse. «Ti ricordi quando ti ho detto che c’erano stati dei problemi a Richmond quando Eddie DeChooch era là? Secondo lei ha a che vedere con il fatto che Louie D ha tirato le cuoia.»

«Louie D. È un uomo d’affari, giusto?»

«Sì, e di quelli importanti. O almeno lo era. È morto di infarto mentre DeChooch stava facendo il suo lavoretto.»

«Forse è stato un proiettile a provocare l’infarto.»

«Non credo. Se Louie D fosse stato coinvolto in qualcosa ne avremmo sentito parlare. È il genere di notizie che viaggia veloce. Soprattutto visto che la sorella abita qui.»

«Chi è sua sorella? La conosco?»

«Estelle Colucci. La moglie di Benny Colucci.»

Porca miseria. «Quant’è piccolo il mondo.»

Riagganciai e mi chiamò mia madre.

«Dobbiamo andare a scegliere un abito per il matrimonio» disse.

«Non mi vesto in lungo.»

«Potresti almeno provare.»

«Okay, lo farò.» Neanche per sogno.

«Quando?»

«Non lo so. Al momento sono impegnata. Sto lavorando.»

«È sabato» protestò mia madre. «Com’è possibile che lavori anche di sabato? Devi rilassarti di più. Io e tua nonna siamo subito da te.»

«No!» Troppo tardi. Era già partita.

«Dobbiamo andarcene» dissi al Luna. «È un’emergenza. Dobbiamo andare via.»

«Che genere di emergenza? Non è che vogliono spararmi un’altra volta?»

Tolsi i piatti sporchi dal piano della cucina e li buttai nella lavastoviglie. Poi presi il piumone e il cuscino del Luna e li portai di corsa in camera. Mia nonna aveva abitato con me per un po’ ed ero quasi sicura che avesse ancora la chiave del mio appartamento. Guai se mia madre fosse entrata in casa mia e l’avesse trovata in disordine. Il letto era sfatto ma non volevo perdere tempo con quello. Raccolsi i vestiti e gli asciugamani sparsi qua e là e buttai tutto nel cesto della biancheria. Attraversai di corsa il soggiorno, poi tornai in cucina, presi la borsa e la giacca e gridai al Luna di darsi una mossa.

Incontrammo mia madre e mia nonna nell’atrio.

Maledizione!

«Non c’era bisogno che ci aspettassi di sotto» disse mia madre. «Saremmo salite.»

«Non vi stavo aspettando. Stavo uscendo. Mi dispiace, ma stamattina devo lavorare.»

«Che stai facendo?» domandò mia nonna. «Sei sulle tracce di qualche pazzo omicida?»

«Sto cercando Eddie DeChooch.»

«Ci avevo quasi azzeccato» disse la nonna.

«Eddie DeChooch puoi trovarlo un’altra volta» affermò mia madre. «Ti ho fissato un appuntamento alla boutique di abiti da sposa “Da Tina”.»

«Ti conviene cogliere l’occasione al volo» suggerì la nonna. «È stato possibile solo perché qualcuno ha disdetto all’ultimo minuto. E poi ci serviva una scusa per uscire di casa perché non se ne poteva più di cavalli al galoppo e nitriti.»

«Non voglio un abito da sposa» dissi. «Voglio un matrimonio in piccolo.» O nessun matrimonio.

«Sì, ma non costa nulla dare un’occhiata» insisté mia madre.

«La boutique “Da Tina” è uno sballo» commentò il Luna.

Mia madre si rivolse al Luna. «Ma questo è Walter Dunphy? Santo cielo, non ti vedo da una vita.»

«Piccola!» disse il Luna a mia madre.

Poi lui e nonna Mazur si esibirono in una di quelle complicate strette di mano che non riesco mai a ricordare.

«Sarà meglio che ci muoviamo» incalzò la nonna. «Non possiamo fare tardi.»

«Non voglio un abito!»

«Andiamo solo a dare un’occhiata» disse mia madre. «Staremo una mezz’oretta e poi te ne puoi andare.»

«Va bene! Mezz’ora. Non un minuto di più. E andiamo solo a dare un’occhiata.»

La boutique «Da Tina» è nel cuore del Burg. Occupa metà di una bifamiliare in mattoni rossi. Tina abita in un appartamentino al piano superiore mentre il negozio è nella parte bassa dell’edificio. L’altra metà della bifamiliare, sempre di proprietà di Tina, viene affittata. Tina è rinomata come padrona di casa superstronza e gli affittuari se ne vanno puntualmente allo scadere del contratto annuale. Ma dato che le proprietà in affitto sono mosche bianche nel Burg, Tina non ha mai difficoltà a trovare la vittima di turno.

«Sembra fatto apposta per te» disse Tina facendo un passo indietro e fissandomi intensamente. «È perfetto. Meraviglioso.»

Ero tutta agghindata in un abito di raso lungo fino ai piedi. Il corpetto era stato aggiustato con degli spilli per adattarlo alla mia taglia, la scollatura a U mostrava appena un po’ di décolleté e la gonna a mongolfiera aveva uno strascico di oltre un metro.

«È incantevole» esclamò mia madre.

«La prossima volta che mi sposo potrei comprarmi un vestito come questo» disse la nonna. «O magari potrei andare a Las Vegas e sposarmi in una di quelle chiese dedicate a Elvis.»

«Coraggio, piccola, vai così!» fece il Luna.

Mi girai appena per vedermi meglio nello specchio a tre ante. «Non vi sembra troppo… bianco?»

«Assolutamente no» rispose Tina. «Questo è panna. Il panna non è per niente uguale al bianco.»

L’abito mi stava davvero bene. Assomigliavo a Rossella O’Hara che faceva le prove per un matrimonio di lusso a Tara. Feci qualche passo, come se stessi ballando.

«Prova a saltare, così vediamo come va quando dovrai aprire le danze» disse la nonna.

«È carino, ma non voglio un abito lungo.»

«Posso ordinarne uno della tua taglia senza impegno» propose Tina.

«Senza impegno» ripeté la nonna. «Meglio di così.»

«Visto che è senza impegno» disse mia madre.

Mi serviva della cioccolata. Una montagna di cioccolata. «Oh diamine» esclamai «guardate che ora è. Devo andare.»

«Grandioso» fece il Luna. «Andiamo a combattere il crimine? Stavo pensando che mi serve una cintura multiuso per il mio super costume. Potrei metterci tutta la mia attrezzatura da lotta contro il crimine.»

«Di che attrezzatura parli?»

«Non ci ho ancora riflettuto bene, ma pensavo a qualcosa tipo calzini anti-gravità per poter camminare sui muri. E uno spray che mi renda invisibile.»

«Sei sicuro che non ci sia niente che non va dove ti hanno sparato? Per caso hai mal di testa o le vertigini?»

«No, sto benone. Ho un po’ fame, forse.»

Quando io e il Luna uscimmo dalla boutique di Tina stava piovigginando.

«Questa sì che è stata un’esperienza memorabile» disse il Luna. «Mi sono sentito una damigella d’onore.»

Quanto a me, non ero sicura di cosa mi sentivo. Provai a pensare a me stessa come a una sposa, ma mi resi conto che grassona tonta mi si addiceva molto di più. Non potevo credere di essermi fatta convincere da mia madre a provare degli abiti da sposa. Che cosa avevo in mente? Mi diedi una botta in fronte col palmo della mano e feci un grugnito di disapprovazione.

«Piccola» disse il Luna.

Basta con le stronzate. Girai la chiave dell’accensione e infilai un CD dei Godsmack nello stereo dell’auto. Non volevo pensare al fallimento del mio presunto matrimonio e non c’è niente di meglio dell’heavy metal per sgombrare la mente da tutto quello che assomiglia anche lontanamente a un ragionamento. Mi diressi verso casa del Luna e quando arrivammo sulla Roebling, io e il Luna stavamo già agitando furiosamente la testa su e giù a tempo di rock.

Stavamo mimando un assolo di chitarra elettrica con i capelli davanti agli occhi e ci mancò poco che mi lasciassi sfuggire la Cadillac bianca. Era parcheggiata davanti alla casa di padre Carolli, accanto alla chiesa. Padre Carolli è vecchio e ingrigito proprio come la facciata della chiesa e, per quel che mi ricordo, ha sempre vissuto nel Burg. Era più che probabile che lui ed Eddie DeChooch fossero amici e che DeChooch si fosse rivolto a lui per un consiglio.

Formulai una preghierina sperando che DeChooch si trovasse lì, così avrei potuto arrestarlo. In chiesa sarebbe stata tutta un’altra faccenda. In una chiesa ci si può rifugiare e chiedere asilo. E poi se mia madre avesse scoperto che avevo violato quel luogo sacro, sarebbero stati guai.

Andai alla porta di casa di Carolli e bussai. Nessuna risposta.

Il Luna si fece strada tra i cespugli e sbirciò da una finestra. «Non vedo nessuno qui dentro, piccola.»

Ci voltammo entrambi verso la chiesa.

Maledizione. Probabilmente DeChooch si stava confessando. Mi perdoni, padre, perché ho fatto fuori Loretta Ricci.

«Okay» dissi «proviamo in chiesa.»

«Forse dovrei andare a casa e mettermi il super costume.»

«Non credo che sia adatto per una chiesa.»

«Non è abbastanza elegante?»

Aprii la porta della chiesa e strizzai gli occhi per vedere qualcosa nell’oscurità dell’interno. Nelle giornate di sole la chiesa splendeva della luce che filtrava dalle vetrate colorate. Nei giorni di pioggia diventava tetra e senza vita. Oggi il solo calore che trasmetteva era quello delle poche candele votive accese davanti alla Vergine Maria.

La chiesa sembrava vuota. Non si sentiva alcun mormorio provenire dai confessionali. Non c’era nessuno in preghiera. Solo le fiammelle delle candele accese e l’odore dell’incenso.

Stavo per andarmene quando udii qualcuno ridacchiare. Il suono veniva dall’altare.

«Ehi» dissi. «C’è nessuno?»

«Solo noi due cacasotto.»

La voce sembrava quella di DeChooch.

Io e il Luna percorremmo cautamente la navata e sbirciammo intorno all’altare. DeChooch e Carolli erano seduti a terra, con la schiena appoggiata all’altare, e bevevano una bottiglia di vino rosso. Accanto a loro, sul pavimento, ce n’era un’altra, vuota.

Il Luna li salutò con il segno della pace. «Fratelli» disse.

Padre Carolli gli rispose con lo stesso gesto e ripeté il mantra. «Fratello.»

«Cosa vuoi?» domandò DeChooch. «Non vedi che sono in chiesa?» «State bevendo!» «È una medicina. Sono depresso.»

«Devi seguirmi in tribunale così vengono restituiti i soldi della garanzia» dissi a DeChooch.

DeChooch fece una lunga sorsata dalla bottiglia e si asciugò la bocca col dorso della mano. «Sono in chiesa. Non puoi arrestarmi in chiesa. Dio si arrabbierà. E tu marcirai all’inferno.»

«È un comandamento» disse Carolli.

Il Luna sorrise. «Questi due sono ubriachi fradici.»

Frugai nella borsa e tirai fuori le manette.

«Aiuto, le manette» esclamò DeChooch. «Che paura.»

Gli chiusi un bracciale sul polso sinistro e feci per afferrargli l’altra mano. DeChooch estrasse una 9 millimetri dalla tasca del cappotto, disse a Carolli di tenere ferma l’estremità libera della catenella e ci sparò sopra un colpo. Entrambi strillarono quando la catena si spezzò e le loro braccia ossute furono percorse dalle onde d’urto.

«Ehi» dissi «quelle manette mi sono costate sessanta dollari.»

DeChooch socchiuse gli occhi e fissò il Luna. «Ci conosciamo?»

«Sono il Luna, amico. Mi hai visto a casa di Dougie.» Il Luna alzò la mano tenendo due dita ben strette. «Io e Dougie siamo così. Siamo una squadra.»

«Mi pareva di averti visto!» esclamò DeChooch. «Vi odio, tu e il tuo schifosissimo ladro di un socio. Avrei dovuto immaginare che Kruper non era da solo.»

«Fratello» disse il Luna.

DeChooch puntò la pistola contro il Luna. «Vi credete intelligenti, vero? Pensate di potervi approfittare di un vecchio. Volete altri soldi… è a questo che mirate?»

Il Luna si tamburellò la testa con le nocche. «Qui non cresce mica l’erba.»

«Lo voglio subito» disse DeChooch.

«È un piacere fare affari con te» rispose il Luna. «Di cosa stiamo parlando, per l’esattezza? Tostapane o super costume?»

«Stronzo» fece DeChooch. E premette il grilletto con l’intenzione di sparare al ginocchio del Luna, invece lo mancò di una decina di centimetri e il proiettile schizzò sul pavimento.

«Diamine» disse Carolli, tenendosi le mani sulle orecchie «vuoi farmi diventare sordo. Metti via quella pistola.»

«La metterò via solo dopo che avrà parlato» affermò DeChooch. «Ha qualcosa che mi appartiene.» DeChooch puntò di nuovo la pistola e il Luna si catapultò via, lungo la navata.

Avrei voluto fare l’eroina e disarmare DeChooch. In realtà ero paralizzata. Basta che qualcuno mi sventoli una pistola sotto il naso e io me la faccio sotto.

Eddie sparò un altro colpo che passò accanto al Luna e andò a scheggiare il fonte battesimale.

Carolli colpì DeChooch dietro la nuca con il palmo della mano. «Finiscila!»

Eddie barcollò in avanti e dalla pistola partì inavvertitamente un colpo che andò a infilarsi nel dipinto della crocifissione appeso sulla parete opposta.

Restammo tutti a bocca aperta. E ci facemmo tutti il segno della croce.

«Porcaccia miseria» fece Carolli. «Hai sparato a Gesù. Ti ci vorranno un bel po’ di avemarie per questo.»

«È stato un incidente» disse DeChooch. Guardò il dipinto di traverso. «In che punto l’ho colpito?»

«Al ginocchio.»

«Meno male» commentò Eddie. «Almeno non era un colpo mortale.»

«Torniamo al fatto che devi presentarti in tribunale» dissi. «Mi faresti un enorme favore se venissi con me alla centrale di polizia per fissare una nuova udienza.»

«Accidenti, sei una vera rompipalle» disse DeChooch. «Quante volte te lo devo dire che… lascia perdere. Sono depresso. Non ci sto in prigione se sono depresso. Sei mai stata dentro?»

«Non proprio.»

«Be’, credimi, non è il posto ideale quando sei depresso. E comunque, devo fare una cosa.»

Stavo frugando nella mia borsa. Dovevo avere lo spray urticante da qualche parte. E probabilmente anche la scacciacani.

«E poi, ci sono delle persone che mi cercano, dei veri duri, non come te» disse DeChooch. «Se vengo rinchiuso in galera, trovarmi sarà una passeggiata.»

«Ma io sono una dura!»

«Sei solo una dilettante, bellezza» affermò Eddie.

Tirai fuori una bomboletta di lacca per capelli, ma non riuscivo a trovare lo spray urticante. Dovevo organizzarmi meglio. Forse avrei dovuto mettere spray e scacciacani nella tasca con lo zip, ma poi avrei dovuto trovare un’altra sistemazione per gomme da masticare e mentine.

«Me ne vado» disse DeChooch. «E non provare a seguirmi altrimenti sarò costretto a spararti.»

«Solo una domanda. Che cosa volevi dal Luna?»

«È una faccenda tra me e lui.»

DeChooch uscì da una porta laterale, e io e Carolli rimanemmo a fissarlo mentre se ne andava.

«Ha appena fatto scappare un assassino» dissi a Carolli. «Se ne stava qui a bere con un assassino!»

«Macché. Choochy non è un assassino. Ci conosciamo da tanto. È una brava persona.»

«Ha cercato di sparare al Luna.»

«Si è agitato. Da quando ha avuto l’ictus, gli capita di agitarsi così.»

«Ha avuto un ictus?»

«Sì, uno piccolo, quasi insignificante. Io ne ho avuti di peggiori.»

Oh cavolo.

Raggiunsi il Luna quando era a circa mezzo isolato da casa sua. Se la stava filando, un po’ di corsa e un po’ a passo svelto, guardandosi di tanto in tanto alle spalle, in una versione tutta personale del coniglio che scappa dai segugi. Quando parcheggiai, il Luna era già entrato in casa, aveva trovato una cicca di canna e se la stava accendendo.

«C’è gente che ti spara» dissi. «Non dovresti farti le canne. Le canne ti istupidiscono e invece devi rimanere lucido.»

«Piccola» rispose sbuffando il fumo.

Già.

Trascinai via il Luna e lo portai a casa di Dougie. C’era un nuovo sviluppo. DeChooch cercava qualcosa e pensava che ce l’avesse Dougie. Ora invece era convinto che ce l’avesse il Luna.

«Di cosa stava parlando DeChooch?» chiesi al Luna. «Cosa sta cercando?»

«Non lo so, piccola, ma non è un tostapane.»

Eravamo nel soggiorno di Dougie. Dougie non è la migliore delle casalinghe, d’accordo, ma la stanza sembrava più incasinata del solito. I cuscini erano tutti di traverso sul divano e la porta del guardaroba era aperta. Feci capolino in cucina e mi si presentò più o meno la stessa scena. Gli sportelli dei pensili e i cassetti erano aperti. Anche la porta della cantina era aperta, così come quella del gabinetto. Non mi sembrava che avessimo lasciato tutto così la sera prima.

Posai la borsa sopra il piccolo tavolo della cucina e ci infilai dentro una mano per prendere lo spray urticante e la scacciacani.

«C’è stato qualcuno» dissi al Luna.

«Sì, capita spesso.»

Mi voltai e lo fissai. «Spesso?»

«È la terza volta questa settimana. Credo che qualcuno stia cercando la nostra scorta di roba. E quel vecchio poi, cosa vuole? Prima era tutto gentile con Dougie, è persino venuto qui un’altra volta. E adesso invece ce l’ha con me. Non so cosa pensare, piccola.»

Rimasi lì a bocca aperta e con gli occhi leggermente fuori dalle orbite per qualche minuto. «Aspetta un momento, mi stai dicendo che DeChooch è tornato dopo aver consegnato le sigarette?»

«Sì. Però non sapevo che fosse DeChooch. Non sapevo come si chiamava. Io e Dougie lo chiamavamo semplicemente “il vecchio”. Ero qui quando ha consegnato le sigarette. Dougie mi ha chiamato per aiutarlo a scaricare il camion. E poi è tornato a far visita a Dougie un paio di giorni dopo. Non l’ho visto la seconda volta. Lo so solo perché me l’ha detto Dougie.» Il Luna fece un ultimo tiro dalla cicca. «Però, che coincidenza. Chi avrebbe mai pensato che stavi dando la caccia al vecchio.»

Mentalmente gli diedi una botta in testa.

«Vado a controllare il resto della casa. Tu rimani qui. Se mi senti urlare, chiama la polizia.»

Sono o non sono coraggiosa? A dire il vero, ero quasi sicura che non ci fosse nessuno in casa. Pioveva da almeno un’ora, forse più, e non c’erano tracce di impronte bagnate in giro. Con molta probabilità, la casa era stata messa a soqquadro la sera prima dopo che noi ce ne eravamo andati.

Accesi l’interruttore della luce della cantina e cominciai a scendere le scale. Era una casa piccola con una cantina piccola e non mi ci volle molto per accorgermi che era stata perlustrata da cima a fondo. Salii al piano superiore, dove trovai una situazione analoga. Gli scatoloni nella cantina e nella terza camera da letto erano stati aperti e svuotati sul pavimento.

Era chiaro che il Luna non aveva idea di cosa DeChooch stesse cercando. Il Luna non era abbastanza intelligente da fare il doppio gioco.

«Manca qualcosa?» gli chiesi. «Dougie si è mai accorto che mancasse qualcosa dopo che la casa era stata messa sotto sopra?»

«Un arrosto.»

«Come, scusa?»

«Giuro su Dio. C’era un arrosto nel freezer e qualcuno se l’è portato via. Era piccolo. Neanche un chilo e mezzo. Era rimasto da un pezzo di manzo che a Dougie era capitato fra le mani. Sai… trovato per strada. Ci era restato solo quello. L’avevamo tenuto per noi nel caso un giorno ci fosse venuta voglia di cucinare qualcosa.»

Tornai in cucina e controllai freezer e frigorifero. Nel freezer c’erano del gelato e una pizza congelata. Nel frigorifero c’erano della Coca-Cola e dei resti di pizza.

«È una vera tristezza» disse il Luna. «La casa non è la stessa senza il vecchio Dougie.»

Mi pesava doverlo ammettere, ma avevo bisogno di aiuto con DeChooch. La mia idea era che fosse lui la chiave della sparizione di Dougie, ma continuava a sfuggirmi.

Connie si stava preparando a chiudere l’ufficio quando io e il Luna entrammo. «Sono contenta che tu sia qui» disse. «Ho un MC per te. Roseanne Kreiner. Donna d’affari nel ramo prostituzione. Il suo ufficio è all’angolo tra la Stark e la Dodicesima. Accusata di aver picchiato a sangue uno dei suoi clienti. Immagino che non volesse pagare per la prestazione ricevuta. Non dovrebbe essere difficile trovarla. Forse non voleva sottrarre del tempo alla sua attività per presentarsi in tribunale.»

Presi la cartellina dalle mani di Connie e la infilai nella borsa. «Notizie di Ranger?»

«Ha consegnato il suo uomo stamattina.»

Hurrà. Ranger era tornato. Potevo chiedergli di darmi una mano.

Composi il suo numero di telefono, ma non mi rispose nessuno. Lasciai un messaggio e provai al cercapersone. Un attimo dopo il mio cellulare squillò e sentii una scarica di adrenalina salirmi dallo stomaco. Ranger.

«Ehilà» disse.

«Mi farebbe comodo il tuo aiuto per un MC.»

«Qual è il problema?»

«È vecchio e se gli sparo ci farò la figura della perdente.»

Sentii Ranger che rideva all’altro capo del telefono. «Cosa ha fatto?»

«Di tutto. È Eddie DeChooch.»

«Vuoi che gli parli?»

«No. Voglio che tu mi dia delle idee su come acciuffarlo senza doverlo ammazzare. Ho paura che se lo stordisco con la scacciacani potrebbe rimanere stecchito.»

«Fatti aiutare da Lula. Incastralo e mettigli le manette.»

«Tutte cose già fatte.»

«È riuscito a farla a te e Lula insieme? Ehi, bambina, avrà almeno ottant’anni. Non ci vede. Non ci sente. Gli ci vuole un’ora e mezzo per svuotare la vescica.»

«È stato complicato.»

«La prossima volta potresti provare a sparargli a un piede» disse Ranger. «Di solito funziona.» E chiuse la comunicazione.

Benone.

Allora chiamai Morelli.

«Ho delle novità per te» disse Joe. «Ho incontrato Costanza quando sono uscito a comprare il giornale. Ha detto che ha ricevuto il referto dell’autopsia su Loretta Ricci: è morta d’infarto.»

«E dopo le hanno sparato?»

«Indovinato, dolcezza.»

Troppo strano.

«So che è il tuo giorno libero, ma mi chiedevo se potessi farmi un favore» dissi a Morelli.

«Oh, cavolo.»

«Speravo che potessi fare da baby sitter al Luna. È invischiato in questa storia di DeChooch e non so se sia il caso di lasciarlo da solo a casa mia.»

«Io e Bob siamo pronti per guardare la partita. È tutta la settimana che aspettiamo questo momento.»

«Il Luna può guardare la partita insieme a voi. Lo porto lì da te.»

Riagganciai prima che Morelli potesse dire no.

Roseanne Kreiner se ne stava al suo angolo, sotto la pioggia, bagnata fradicia e visibilmente infuriata. Se fossi stata un uomo l’avrei tenuta bene alla larga dal mio uccello. Aveva un paio di stivali a tacco alto e addosso una busta nera della spazzatura. Difficile dire cosa indossasse sotto quella busta. Forse niente. Passeggiava avanti e indietro facendo segno alle auto che passavano, e quando non si fermavano salutava i conducenti alzando il dito medio. Sul foglio di arresto c’era scritto che aveva cinquantadue anni.

Accostai al marciapiede e abbassai il finestrino. «Vai anche con le donne?»

«Tesoro, io vado con i maiali, le vacche, le anatre, e anche con le donne. Basta pagare e io ci sto. Venti verdoni per un lavoretto con le mani. Per tutta la giornata mi devi pagare lo straordinario.»

Le mostrai una banconota da venti e lei salì in macchina. Feci scattare la chiusura automatica degli sportelli e partii diretta alla centrale di polizia.

«Va bene qualsiasi stradina laterale» disse.

«Devo confessarti una cosa.»

«Oh, merda. Sei una piedipiatti? Non dirmi che sei una piedipiatti.»

«No, non sono una piedipiatti. Sono una cacciatrice di latitanti. Non ti sei presentata in tribunale il giorno prestabilito e devi fissare un’altra udienza.»

«Posso tenermi i venti dollari?»

«Va bene, tieniti i venti dollari.»

«Vuoi che ti dia una toccatina?»

«No!»

«Diamine. Non c’è bisogno di urlare. È solo che non ti volevo fregare. Faccio sempre quello per cui i clienti mi pagano.»

«E che mi dici del tipo al quale le hai suonate?»

«Non voleva pagare. Pensi che me ne stia qua fuori perché mi fa bene alla salute? Mia madre è in una casa di cura. Se non pago la retta mensile viene a vivere da me.»

«E sarebbe così tragico?»

«Piuttosto mi scopo un rinoceronte.»

Lasciai l’auto nel parcheggio della polizia, feci per ammanettarla ma lei cominciò ad agitare le mani in aria.

«Non voglio che mi ammanetti» diceva. «Neanche per sogno.»

E poi, non so come, in quell’agitarsi e dimenarsi di mani la chiusura dello sportello si sbloccò e Roseanne saltò fuori dalla macchina e corse in strada. Aveva un certo vantaggio, ma portava i tacchi alti mentre io avevo un paio di scarpe da ginnastica e la riacciuffai dopo due isolati. Nessuna delle due era in forma. Lei fischiava a ogni respiro e io mi sentivo come se avessi avuto il fuoco nei polmoni. Le bloccai i polsi con le manette e lei si mise seduta.

«Non ti sedere» dissi.

«Non mi frega. Non vado da nessuna parte.»

Avevo lasciato la borsa in macchina e l’auto sembrava parecchio lontana. Se avessi fatto una corsa a prendere il mio cellulare Roseanne non sarebbe certo stata lì al mio ritorno. Lei se ne stava seduta a piagnucolare, io in piedi a imprecare.

Certi giorni non vale proprio la pena alzarsi dal letto.

Avevo una gran voglia di darle un bel calcio in un fianco, ma probabilmente le avrei lasciato il segno e allora avrebbe potuto citare Vinnie per comportamento violento della cacciatrice di taglie. Vinnie detestava quando questo succedeva.

Aveva cominciato a piovere più forte ed eravamo entrambe fradice. Avevo i capelli appiccicati sul viso e i Levi’s si erano inzuppati. Eravamo praticamente a un punto morto. Che finì quando ci passò davanti in auto Eddie Gazzara che andava a pranzo. Eddie è uno sbirro di Trenton ed è sposato con mia cugina Shirley la Piagnona.

Eddie abbassò il finestrino e scosse la testa facendo dei versi con aria di sufficienza.

«Ho un problema con un MC» gli dissi.

Eddie sorrise. «Lo vedo.»

«Che ne dici di aiutarmi a feria salire in macchina da te?»

«Piove! Mi bagnerà tutto.»

Lo guardai a occhi stretti.

«Ti costerà qualcosa» disse Gazzara.

«Non ho intenzione di fare la baby sitter.» I suoi figli erano carini, ma l’ultima volta che ero rimasta da loro mi ero addormentata e mi avevano tagliato venti centimetri di capelli.

Un altro verso di sufficienza. «Ehi, Roseanne» gridò. «Vuoi un passaggio?»

Roseanne si alzò e lo guardò. Stava decidendo.

«Se sali in macchina, Stephanie ti regala dieci verdoni» disse Gazzara.

«E invece no» urlai. «Gliene ho già dati venti.»

«Ti sei fatta dare una toccatina?» chiese Gazzara.

«No!»

Fece ancora un altro verso.

«Allora» disse Roseanne «che facciamo?»

Mi soffiai via i capelli dal viso. «Facciamo che ti do un calcio alle reni se non trascini le chiappe in quella macchina.»

Quando si mette veramente male… conviene sempre provare con una minaccia vana.

Capitolo 6

Parcheggiai la macchina sotto casa e arrancai verso l’appartamento, lasciandomi alle spalle una scia di pozzanghere. Benny e Ziggy mi aspettavano nell’ingresso.

«Ti abbiamo portato della confettura di fragole» disse Benny. «È di quella buona. Smucker, la marca migliore.»

Presi la marmellata e aprii la porta dell’appartamento. «Che cosa volete?»

«Abbiamo sentito dire che hai sorpreso Chooch mentre si faceva un cicchetto insieme a padre Carolli.»

Sorridevano, godendosi evidentemente la situazione.

«Quel Choochy è proprio un fenomeno» disse Ziggy. «È vero che ha sparato a Gesù?»

Sorrisi anch’io. Choochy era davvero un fenomeno. «Le notizie volano» commentai.

«Abbiamo, come dire, degli agganci» rispose Ziggy. «A ogni modo, voghamo solo sapere il tuo parere. Come ti è parso Choochy? Stava bene? Era lucido o no?»

«Ha sparato un paio di colpi al Luna, ma lo ha mancato. Carolli mi ha detto che Chooch è facilmente eccitabile da quando ha avuto l’ictus.»

«E non ci sente più neanche tanto bene» aggiunse Benny.

Al che si scambiarono un’occhiata. Questa volta senza sorridere.

I Levi’s che avevo addosso sgocciolavano e avevano formato un laghetto sul pavimento della cucina. Ziggy e Benny si erano debitamente allontanati.

«Dov’è il tuo amico imbranato?» chiese Benny. «Non viene più in giro con te?»

«Aveva delle cose da fare.»

Mi sfilai di dosso i vestiti non appena Benny e Ziggy se ne furono andati. Rex correva sulla sua ruota, fermandosi di tanto in tanto per guardarmi, incapace di afferrare il concetto di pioggia. A volte rimaneva seduto sotto la bottiglietta dell’acqua che gli gocciolava in testa, ma in generale la sua esperienza di tempo atmosferico era limitata.

Indossai una T-shirt nuova e un paio di Levi’s puliti e mi asciugai i capelli con il phon. Una volta finito, mi ritrovai con una chioma tutto volume e niente forma, così decisi di creare una sorta di diversivo applicando un eye-liner azzurro vivo sugli occhi.

Mi stavo infilando gli stivali quando squillò il telefono.

«Tua sorella sta venendo da te» disse mia madre. «Ha bisogno di parlare con qualcuno.»

Valerie doveva essere davvero disperata per scegliere di parlare con me. Andiamo abbastanza d’accordo, ma non siamo mai state molto affiatate. Troppe differenze sostanziali di carattere. E quando si è trasferita in California ci siamo allontanate ancora di più.

Strano come vanno le cose. Eravamo tutti convinti che il matrimonio di Valerie fosse perfetto.

Il telefono squillò di nuovo e questa volta era Morelli.

«Canticchia» disse. «Quando vieni a riprendertelo?»

«Canticchia?»

«Io e Bob stiamo cercando di guardare la partita ma questo qui non smette di canticchiare.»

«Forse è nervoso.»

«Eccome, cazzo. Fa bene a essere nervoso. Se non smette di canticchiare lo strangolo.»

«Prova a dargli qualcosa da mangiare.»

E riagganciai.

«Vorrei tanto sapere che cos’è che cercano tutti» dissi rivolta al criceto Rex. «So che ha a che fare con la scomparsa di Dougie.»

Qualcuno bussò alla porta ed ecco mia sorella, con il suo look da Meg Ryan, ma vispa e su di giri come Doris Day. Probabilmente sarebbe stata perfetta per la California, ma qui in New Jersey non siamo tanto briosi.

«Sei assolutamente su di giri» osservai. «Non ti ricordavo così.»

«Non sono su di giri… sono allegra. Non voglio più piangere, mai più. A nessuno piacciono i musi lunghi. Voglio voltare pagina e voglio essere felice. Sarò così felice che in confronto a me Mary Sunshine, la star del musical, sembrerà una sfigata.»

Accidenti!

«E sai perché posso essere felice? Posso essere felice perché sono una persona equilibrata.»

Per fortuna che Valerie era tornata in New Jersey. Avremmo sistemato tutto.

«Così questo è il tuo appartamento» disse guardandosi in giro. «Non c’ero mai stata.»

Mi guardai attorno anch’io e quello che vidi non mi fece una buona impressione. Ho un sacco di buone idee per il mio appartamento, ma non so perché non mi decido mai a comprare quei reggicandela di vetro che ho visto al negozio di lampadari o la fruttiera in ottone nel negozio di casalinghi. Alle finestre ho tende dozzinali. I mobili sono relativamente nuovi ma scelti senza uno stile preciso in mente.

Quello dove abito è uno dei tanti appartamenti tutti uguali e a poco prezzo costruiti negli anni Settanta. Un architetto elegante alla Martha Stewart inorridirebbe se lo vedesse.

«Diamine» dissi «mi dispiace davvero per Steve. Non sapevo che voi due aveste dei problemi.»

Valerie si abbandonò a sedere sul divano. «Non lo sapevo neanch’io. Mi ha preso alla sprovvista. Un giorno sono tornata dalla palestra e mi sono accorta che i vestiti di Steve non c’erano più. Poi ho trovato un biglietto sul piano della cucina in cui mi diceva che si sentiva in trappola e che doveva andarsene. Dopodiché ho ricevuto un avviso di pignoramento sulla casa.»

«Wow.»

«Sto pensando che forse potrebbe essere una buona cosa. Cioè, questa faccenda potrebbe aprirmi tutta una serie di nuove esperienze. Tanto per cominciare, devo trovarmi un lavoro.»

«Hai qualche idea?»

«Voglio diventare una cacciatrice di taglie.»

Ero senza parole. Valerie. Una cacciatrice di taglie.

«L’hai detto alla mamma?»

«No. Pensi che dovrei?»

«No!»

«Quando fai la cacciatrice di taglie, puoi organizzarti l’orario di lavoro come vuoi, giusto? Così potrei essere a casa quando le bambine tornano da scuola. E poi le cacciatrici di taglie sono gente tosta, ed è così che voglio che diventi la nuova Valerie… allegra ma tosta.»

Valerie indossava un cardigan rosso di Talbots, jeans firmati ben stirati e mocassini pitonati.

«Tosta» sembrava un po’ eccessivo.

«Non sono sicura che tu sia adatta per fare la cacciatrice di taglie» le dissi.

«Certo che sono adatta» rispose entusiasta. «Devo solo entrare nella mentalità giusta.» Si raddrizzò a sedere nel divano e cominciò a canticchiare. «Io punto in alto… punto in aaaalto!»

Fortunatamente la pistola era in cucina, perché mi era venuto un bisogno impellente di sparare a mia sorella. La sua allegria stava prendendo una piega che non mi piaceva per niente.

«La nonna ha detto che lavori a un caso importante e che forse ti potrei aiutare» disse.

«Non so… questo tipo è un assassino.»

«Ma è anziano, giusto?»

«Già. È un assassino anziano.»

«Mi pare che sia un buon modo per cominciare» annunciò Valerie saltando via dal divano. «Andiamo a prenderlo.»

«Non so precisamente dove trovarlo.»

«Probabilmente sarà al laghetto che dà da mangiare alle anatre. È questo che fanno normalmente gli anziani. Di notte guardano la TV e di giorno vanno a dar da mangiare alle anatre.»

«Sta piovendo. Non credo che se ne starebbe fuori a dar da mangiare alle anatre sotto la pioggia.»

Valerie diede un’occhiata alla finestra. «Giusta osservazione.»

Qualcuno bussò con decisione alla porta e poi cominciò ad armeggiare con la serratura come per vedere se fosse chiusa a chiave. Poi bussò di nuovo.

Morelli, pensai. Che mi restituisce il Luna.

Aprii la porta ed Eddie DeChooch entrò nell’ingresso. Teneva in mano la pistola e aveva un’espressione seria.

«Dov’è?» chiese. «So che sta qui da te. Dov’è quel bastardo schifoso?»

«Stai parlando del Luna?»

«Sto parlando di quell’inutile pezzo di merda che mi sta prendendo per il culo. Ha una cosa che mi appartiene e la rivoglio.»

«Come sai che ce l’ha il Luna?»

DeChooch mi scansò con una spinta e andò prima in camera da letto, poi nel bagno. «Il suo amico non ce l’ha. E non ce l’ho neanch’io. L’unico che rimane è quell’imbecille del Luna.» Aprì vari sportelli e li richiuse sbattendoli. «Dov’è? So che l’hai messo al sicuro da qualche parte.»

Alzai le spalle. «Mi ha detto che aveva delle commissioni da fare e da allora non l’ho più visto.»

Puntò la pistola alla tempia di Valerie. «Chi è questa bambolina?»

«È mia sorella Valerie.»

«Forse dovrei spararle.»

Valerie guardò la pistola di traverso. «È vera quella pistola?»

DeChooch spostò la pistola di una quindicina di centimetri a destra e lasciò partire un colpo. Il proiettile mancò il televisore di un millimetro e andò a conficcarsi nel muro.

Valerie sbiancò e fece un verso stridulo.

«Perdinci, squittisce come un topo» disse Eddie.

«Come la mettiamo con il muro?» gli chiesi. «La pallottola ci ha fatto un bel buco.»

«Puoi far vedere il buco al tuo amico. Puoi dirgli che si ritroverà con la testa come quel muro se non riga dritto.»

«Forse potrei aiutarti a recuperare questa cosa se mi dici di che si tratta.»

DeChooch uscì lentamente dalla porta di casa con la pistola puntata contro Valerie e me. «Non seguitemi» disse «o vi sparo.»

A Valerie cedettero le ginocchia e crollò con il sedere a terra.

Aspettai un paio di minuti prima di andare alla porta e guardare fuori, lungo il corridoio. Credevo a quello che DeChooch aveva detto a proposito di sparare. Ma quando mi affacciai al corridoio Eddie era già scomparso. Chiusi la porta a chiave e corsi alla finestra. Il mio appartamento guarda sul retro dell’edificio e le finestre danno sul parcheggio. Non è quella che si dice una vista panoramica, ma toma utile quando c’è da tenere d’occhio dei vecchi pazzi che vogliono fuggire.

Vidi DeChooch uscire dall’edificio e partire con la sua Cadillac bianca. La polizia lo stava cercando, io lo stavo cercando, e lui se ne andava in giro con la Cadillac bianca. Non quello che si dice un criminale invisibile. E allora perché nessuno riusciva a prenderlo? Per quanto mi riguardava, sapevo la risposta. Ero un’incompetente.

Valerie era ancora a terra e bianca in viso.

«Forse è il caso che ripensi a questa faccenda della cacciatrice di taglie» suggerii a Valerie. Forse dovevo ripensarci anch’io.

Valerie tornò a casa dei miei per prendersi una delle sue pasticche di Valium e io telefonai a Ranger.

«Mi chiamo fuori da questo caso» gli dissi. «Lo passo a te.»

«Di solito non ti tiri mai indietro» rispose. «Cosa c’è che non va?»

«DeChooch mi sta facendo passare per idiota.»

«E allora?»

«Dougie Kruper si è volatilizzato e credo che la sua scomparsa sia in qualche modo legata a DeChooch. La mia paura è che continuando a non concludere niente con DeChooch potrei mettere in pericolo Dougie.»

«Dougie Kruper è stato probabilmente rapito dagli alieni.»

«Vuoi prenderti questo caso, o no?»

«No, non lo voglio.»

«Bene. Va’ al diavolo.» Riattaccai e feci la linguaccia al telefono. Afferrai la borsa e l’impermeabile, uscii sul pianerottolo con passo pesante e imboccai le scale.

Nell’atrio c’era la signora DeGuzman. Viene dalle Filippine e non parla una parola di inglese.

«È un’umiliazione» dissi alla signora DeGuzman.

Lei mi sorrise e fece su e giù con la testa come quei cani che certa gente attacca sul lunotto posteriore.

Salii sulla CR-V e rimasi seduta per un momento a ripetermi cose del tipo: preparati a morire, DeChooch. E anche: basta con le buone, ora è la guerra. Ma poi non riuscii a pensare a un modo per trovarlo, così feci un salto dal fornaio.

Mancava poco alle cinque quando tornai nel mio appartamento. Aprii la porta e soffocai un grido. C’era un uomo nel mio soggiorno. Guardai meglio e vidi che era Ranger. Era seduto su una sedia, assolutamente rilassato, e mi guardava con attenzione.

«Mi hai riattaccato in faccia» disse. «Non ci provare mai più.»

La voce era calma, ma aveva il solito, inconfondibile tono autoritario. Portava un paio di pantaloni sportivi neri, una maglia nera in fibra ultraleggera a maniche lunghe tirate su fino al gomito e un paio di costosi mocassini neri. Aveva i capelli cortissimi. Ero abituata a vederlo col suo abbigliamento da squadra speciale e capelli lunghi e non l’avevo riconosciuto subito. Suppongo che il cambio di immagine puntasse proprio a questo.

«È un travestimento?» chiesi.

Mi guardò senza rispondere. «Cos’hai nella busta?»

«Un maritozzo d’emergenza. Che ci fai qui?»

«Ho pensato che potremmo fare un patto. Quanto è importante per te acciuffare DeChooch?»

Oh, cavolo. «Cosa hai in mente?»

«Tu trovi DeChooch. Se hai problemi a catturarlo mi chiami. Se io ci riesco, tu vieni a letto con me.»

Il cuore mi si fermò. Io e Ranger facevamo questo gioco da un po’, ormai, ma non eravamo mai stati così espliciti.

«Veramente sarei fidanzata con Morelli» dissi.

Ranger sorrise.

Merda.

Ci fu un rumore di chiave nella serratura e la porta di casa si spalancò. Morelli entrò con decisione e lui e Ranger si salutarono con un cenno del capo.

«È finita la partita?» chiesi a Joe.

Lui mi fulminò con un’occhiata. «La partita è finita e ho anche finito di fare il baby sitter. E non voglio vederlo mai più.»

«Dov’è?»

Morelli si girò a guardare. Nessuna traccia del Luna. «Cristo» disse Joe. Uscì e tornò trascinando in casa il Luna per il colletto della giacca e in quel momento mi fece pensare a una gatta che trascina il suo cucciolo scemo prendendolo in bocca dietro il collo.

«Piccola» disse il Luna.

Ranger si alzò e mi diede un biglietto con su scritto un nome e un indirizzo. «La proprietaria della Cadillac bianca» spiegò. Si infilò la giacca di pelle nera e se ne andò. Un campione di socievolezza.

Morelli depositò il Luna su una sedia davanti alla TV, gli puntò contro il dito e gli disse di non muoversi.

Rivolsi uno sguardo perplesso a Joe.

«Con Bob funziona» disse. Accese il televisore e mi fece segno di andare in camera da letto. «Dobbiamo parlare un po’.»

Un tempo l’idea di ritrovarmi in una camera da letto con Morelli mi spaventava a morte. Adesso mi fa perlopiù contrarre i capezzoli.

«Che c’è?» dissi, chiudendo la porta.

«Il Luna dice che oggi hai scelto un abito da sposa.»

Chiusi gli occhi e mi buttai all’indietro sul letto. «È vero! Mi sono lasciata trascinare.» Mugolai. «Mia madre e mia nonna si sono presentate qui da me e nel giro di pochi minuti mi sono ritrovata da Tina a provare abiti da sposa.»

«Me lo diresti se ci sposassimo, vero? Cioè, non sei il tipo che mi si presenta sulla porta di casa e mi dice che fra un’ora dobbiamo essere in chiesa.»

Mi misi seduta e lo guardai strizzando gli occhi. «Non c’è bisogno di impermalosirsi.»

«Gli uomini non si impermalosiscono» precisò Morelli. «Gli uomini si ubriacano. Le donne si impermalosiscono.»

Saltai su dal letto. «Questi commenti sessisti sono la tua specialità!»

«Calmati» disse. «Sono italiano. È normale che io faccia commenti sessisti.»

«Con me non funziona.»

«Dolcezza, sarà meglio che sistemi la faccenda prima che a tua madre arrivi l’addebito del vestito da sposa sulla Visa.»

«Be’, tu cosa vuoi fare? Ti vuoi sposare?»

«Certo. Sposiamoci subito.» Allungò dietro una mano e chiuse la porta della camera a chiave. «Spogliati.»

«Cosa?»

Morelli mi distese sul letto con una spinta e si piegò verso di me. «Il matrimonio è uno stato mentale.»

«Non a casa mia.»

Mi sollevò la maglietta per guardare sotto.

«Fermati! Aspetta un minuto!» dissi. «Non posso farlo con il Luna nell’altra stanza.»

«Sta guardando la televisione.»

Con la mano chiusa a coppa mi toccò l’osso pubico e con l’indice fece qualcosa di magico che mi fece brillare gli occhi e uscire un po’ di saliva dall’angolo della bocca. «La porta è chiusa, vero?»

«Sì, è chiusa» rispose. Mi aveva fatto scivolare le mutandine alle ginocchia.

«Forse dovresti controllare.»

«Controllare cosa?»

«Il Luna. Verificare che non stia origliando dietro la porta.»

«Non mi importa se è dietro la porta.»

«A me sì.»

Morelli fece un sospiro e rotolò via da sopra a me. «Mi sarei dovuto innamorare di Joyce Barnhardt. Lei avrebbe invitato il Luna a guardare.» Socchiuse la porta e guardò fuori. La aprì un po’ di più. «Oh, merda» disse.

Saltai in piedi con le mutandine di nuovo al loro posto. «Cosa? Cosa c’è?»

Joe era uscito dalla stanza, sì muoveva per casa aprendo e chiudendo le porte. «Il Luna se ne è andato.»

«Come è possibile?»

Morelli si fermò e mi guardò. «Ci importa?»

«Sì!»

Un altro sospiro. «Siamo stati in camera da letto un paio di minuti. Non può essere andato lontano. Vado a cercarlo.»

Attraversai la stanza fino alla finestra e guardai giù verso il parcheggio. Un’auto si stava allontanando. Era difficile vederla con la pioggia, ma sembrava quella di Ziggy e Benny. Scura, di fabbricazione americana, di media grandezza. Presi al volo la borsa, chiusi la porta di casa a chiave e mi precipitai lungo il corridoio. Raggiunsi Morelli nell’atrio. Uscimmo di corsa sul parcheggio e ci fermammo. Nessuna traccia del Luna. La berlina scura non era più in vista.

«Può darsi che sia con Ziggy e Benny» dissi.

«Dovremmo provare al loro circolo sociale.» Non riuscivo a immaginare dove altro potessero portare il Luna. Non mi sembrava verosimile che se lo fossero portato a casa con loro.

«Ziggy, Benny e Chooch sono soci del Domino su Mulberry Street» disse Morelli mentre salivamo sul suo fuoristrada. «Perché pensi che il Luna sia con Benny e Ziggy?»

«Mi è sembrato di vedere la loro macchina che si allontanava dal parcheggio. E ho la sensazione che Dougie, DeChooch, Benny e Ziggy siano tutti coinvolti in qualcosa che è cominciato con l’affare delle sigarette.»

Percorremmo le strade del Burg fino alla Mulberry e, come previsto, la berlina blu scuro di Benny era parcheggiata davanti al circolo sociale Domino. Scesi e misi una mano sul cofano. Caldo.

«Come vuoi procedere?» domandò Joe. «Vuoi che ti aspetti qui in macchina? O vuoi che ti apra la strada?»

«Il fatto che io sia una donna emancipata non significa che sia una cretina. Aprimi la strada.»

Andò a bussare e un vecchio socchiuse la porta tenendo inserita la catenella di sicurezza.

«Vorrei parlare con Benny» disse Morelli.

«Benny ha da fare.»

«Digli che lo vuole Joe Morelli.»

«Ha da fare ugualmente.»

«Digli che se non viene immediatamente alla porta gli do fuoco alla macchina.»

Il vecchio se ne andò e tornò dopo neanche un minuto. «Benny dice che se gli dai fuoco alla macchina gli toccherà ammazzarti. E poi farà la spia a tua nonna.»

«Di’ a Benny che è meglio per lui se Walter Dunphy non è qui, perché si dà il caso che Dunphy sia sotto la protezione di mia nonna. Se gli succede qualcosa, Benny si ritrova addosso il malocchio.»

Due minuti dopo la porta si aprì una terza volta e il Luna venne spinto fuori.

«Accidenti» dissi a Morelli. «Sono senza parole.»

«Piccola» salutò il Luna.

Facemmo salire il Luna nel fuoristrada e lo riportammo nel mio appartamento. Rise per tutto il tragitto e per me e Joe non fu difficile intuire il genere di esca che Benny aveva usato con lui.

«Sono stato proprio fortunato» disse il Luna, sorridente e intimorito. «Ho fatto un salto fuori per trovare un po’ di roba e quei due tipi erano là nel parcheggio. Ora gli piaccio.»

Da quando ho memoria, la domenica mattina mia madre e mia nonna vanno a messa. E tornando a casa si fermano dal fornaio per comprare una busta di ciambelle alla marmellata per mio padre, il peccatore. Calcolando bene i tempi, il Luna e io saremmo arrivati al massimo un paio di minuti dopo le ciambelle. Mia madre sarebbe stata contenta perché ero andata a trovarla, il Luna perché si sarebbe mangiato una ciambella. E io sarei stata contenta perché nonna Mazur mi avrebbe raccontato gli ultimissimi pettegolezzi su tutto e tutti, Eddie DeChooch compreso.

«Ho una notizia bomba» disse la nonna quando venne ad aprirci. «Stiva ha preso in consegna Loretta Ricci ieri e la prima veglia sarà questa sera alle sette. Si farà a bara chiusa, ma penso che valga comunque la pena andare. Forse si farà vedere anche Eddie. Metterò il vestito rosso nuovo. Ci sarà il tutto esaurito. Saranno tutti lì.»

Angie e Mary Alice erano in soggiorno davanti alla TV, che trasmetteva a un volume così alto da far vibrare i vetri alle finestre. Anche mio padre era in soggiorno, comodamente seduto nella sua poltrona preferita, e leggeva il giornale con uno sforzo tale da fargli diventare bianche le nocche delle dita.

«Tua sorella è a letto con l’emicrania» disse la nonna. «Credo che tutta quell’allegria sia stata troppo per lei. E tua madre sta preparando gli involtini di cavolo. In cucina ci sono le ciambelle, ma se non ti vanno ho una bottiglia in camera mia. Questo posto è un manicomio.»

Il Luna prese una ciambella e si trasferì in soggiorno a guardare la TV con le bambine. Io mi versai del caffè e mi sedetti al tavolo della cucina con la mia ciambella.

La nonna mi si sedette di fronte. «Che programmi hai per oggi?»

«Ho una pista su Eddie DeChooch. Se ne va in giro con una Cadillac bianca e ho appena avuto il nome della proprietaria. Mary Maggie Mason.» Tirai fuori il biglietto dalla tasca e lo guardai. «Perché questo nome non mi suona per niente nuovo?»

«Tutti conoscono Mary Maggie Mason» disse la nonna. «È una celebrità.»

«Non ne ho mai sentito parlare» intervenne mia madre.

«Certo, perché non vai mai da nessuna parte» fece la nonna. «Mary Maggie è una di quelle lottatrici nel fango che si esibiscono allo Snake Pit. È la più brava di tutte.»

Mia madre alzò gli occhi dal recipiente pieno di manzo, riso e pomodori. «E tu come fai a saperlo?»

«Io ed Elaine Barkolowski andiamo allo Snake Pit qualche volta dopo il bingo. Il giovedì c’è il wrestling maschile e i lottatori indossano solo dei costumini per coprirsi le parti intime. Niente a che vedere con The Rock, ma non sono neanche troppo male.»

«Che vergogna» commentò mia madre.

«Già» rispose la nonna. «L’ingresso costa cinque dollari, ma ne vale la pena.»

«Il lavoro mi chiama» dissi a mia madre. «Ti dispiace se lascio qui il Luna per un po’?»

«Non si droga più, vero?»

«No. È pulito.» Da ben dodici ore. «Magari, però, è meglio se metti via la colla e lo sciroppo per la tosse… non si sa mai.»

L’indirizzo di Mary Maggie Mason che Ranger mi aveva dato corrispondeva a un esclusivo condominio a torre affacciato sul fiume. Percorsi il parcheggio sotterraneo per dare un’occhiata alle auto. Nessuna Cadillac bianca, ma c’era una Porsche color argento sulla cui targa era scritto MMM-YUM.

Parcheggiai in uno degli spazi riservati agli ospiti e presi l’ascensore fino al settimo piano. Avevo jeans e stivali e una giacca di pelle nera sopra un maglione nero: non mi sentivo vestita in maniera adeguata per quell’edificio. Era un posto dove bisognava andare in seta grigia e tacchi alti, e con una pelle perfetta, appena uscita dalle mani esperte di un’estetista.

Mary Maggie Mason venne ad aprire al mio secondo colpo sulla porta. Indossava un paio di pantaloni felpati e i capelli castani erano legati a coda di cavallo. «Sì?» disse, scrutandomi da dietro le lenti degli occhiali in tartaruga, mentre in mano aveva un romanzo di Nora Roberts. Mary Maggie, la lottatrice di wrestling, legge romanzi d’amore. A dire il vero, da quel poco che riuscivo a vedere alle sue spalle, Mary Maggie leggeva di tutto. C’erano libri ovunque.

Le diedi il mio biglietto da visita e mi presentai. «Sto cercando Eddie DeChooch» dissi. «Corre voce che se ne vada in giro per la città guidando la sua auto.»

«La Cadillac bianca? Sì. A Eddie serviva una macchina e io non uso mai la Cadillac. L’ho ereditata quando mio zio Ted è morto. Probabilmente dovrei venderla, ma è un ricordo.»

«Come conosce Eddie?»

«È uno dei proprietari dello Snake Pit. Eddie, Pinwheel Soba e Dave Vincent. Perché lo sta cercando? Non lo vorrà mica arrestare? È un vecchietto dolcissimo.»

«Non si è presentato all’udienza in tribunale e deve fissarne un’altra. Sa dove posso trovarlo?»

«Mi spiace. Ha fatto un salto qui la settimana scorsa. Non ricordo che giorno fosse. Voleva prendere in prestito l’auto. La sua è un vero disastro. C’è sempre qualcosa che non funziona e così spesso gli presto la Cadillac. Gli piace guidarla perché è grande e bianca e di notte la trova facilmente nel parcheggio. Eddie non ci vede benissimo.»

Non che siano affari miei, ma non presterei la mia macchina a un cieco. «A quanto pare, lei legge molto.»

«Sono una libro-dipendente. Quando chiuderò con il wrestling voglio aprire una libreria di romanzi gialli.»

«Si riesce a vivere vendendo romanzi gialli?»

«No. Nessuno si guadagna da vivere vendendo romanzi gialli. I negozi sono tutti delle coperture per le attività di scommesse clandestine.»

Eravamo nell’ingresso e mi guardavo intorno per trovare indizi che mi dicessero che DeChooch si nascondeva da Mary Maggie.

«È un bellissimo condominio» dissi. «Non immaginavo che si facessero così tanti soldi con il wrestling.»

«A lottare nel fango non si guadagna niente. Vivo grazie a qualche pubblicità in cui faccio da testimonial. E poi ho un paio di sponsor.» Mary Maggie diede uno sguardo all’orologio. «Cavoli, guarda un po’ che ora si è fatta. Devo andare. Devo essere in palestra tra mezz’ora.»

Uscii dal parcheggio sotterraneo e mi fermai su una strada secondaria per fare qualche telefonata. La prima fu al cellulare di Ranger.

«Ehilà» rispose.

«Sai che DeChooch è proprietario di un terzo dello Snake Pit?»

«Sì, ha vinto la quota a dadi due anni fa. Pensavo lo sapessi.»

«No che non lo sapevo!»

Silenzio.

«Cos’altro sai che io non so?» gli chiesi.

«Quanto tempo abbiamo?»

Riattaccai e chiamai la nonna.

«Voglio che mi cerchi un paio di nomi sull’elenco telefonico» le dissi. «Ho bisogno di sapere dove abitano Pinwheel Soba e Dave Vincent.»

Sentii la nonna che sfogliava le pagine, poi tornò al telefono. «Nessuno dei due è sull’elenco.»

Cavolo. Morelli sarebbe riuscito a procurarmi gli indirizzi, ma non avrebbe lasciato che mi immischiassi con i proprietari dello Snake Pit. Mi avrebbe fatto la morale dicendomi di stare attenta, ci saremmo messi a urlare e litigare e alla fine avrei dovuto mangiare un bel po’ di dolci per calmarmi i nervi.

Feci un respiro profondo e chiamai di nuovo Ranger.

«Mi servono degli indirizzi» gli dissi.

«Provo a indovinare» fece lui. «Pinwheel Soba e Dave Vincent. Pinwheel vive a Miami. Si è trasferito l’anno scorso. Ha aperto un locale a South Beach. Vincent invece abita a Princeton. Pare che ci sia del rancore tra DeChooch e Vincent.» Mi diede l’indirizzo di Vincent e chiuse la comunicazione.

Con la coda dell’occhio intercettai un bagliore argentato e quando alzai lo sguardo vidi Mary Maggie che sfrecciava dietro l’angolo a bordo della sua Porsche. Misi in moto e la seguii. O meglio, le andai dietro tenendola a vista. Andavamo entrambe nella stessa direzione. A nord. Continuai a starle dietro e mi sembrò che la sua destinazione fosse un po’ troppo distante da casa per trattarsi della palestra. Superai la svolta che avrei dovuto prendere per andare a casa e la seguii attraverso tutto il centro della città fino all’estremità settentrionale di Trenton. Se fosse stata in allerta mi avrebbe individuato. È difficile fare un buon inseguimento con una sola macchina. Per fortuna, Mary Maggie non pensava proprio di essere seguita.

Smisi di starle dietro quando svoltò per Cherry Street. Parcheggiai all’angolo della casa di Ronald DeChooch e vidi Mary Maggie scendere dall’auto, dirigersi verso la porta principale e suonare il campanello. La porta si aprì e Mary Maggie entrò in casa. Dieci minuti dopo, la porta si aprì di nuovo e Mary Maggie Mason uscì. Rimase un paio di minuti a parlare con Ronald sulla veranda. Poi salì nuovamente in macchina e se ne andò. Questa volta era davvero diretta in palestra. Rimasi a guardarla mentre parcheggiava ed entrava nell’edificio, poi me ne andai.

Presi la Route 1 per Princeton, tirai fuori una cartina e individuai la strada dove si trovava la casa di Vincent. Princeton non fa precisamente parte del New Jersey. È un isolotto di ricchezza ed eccentricità intellettuale che galleggia nel Mare della Megalopoli Centrale. È una cittadina semplice in mezzo a un dilagare di centri commerciali. A Princeton la gente ha capigliature più ridotte, tacchi più bassi ed è più bacchettona.

Vincent abitava in un grosso edificio bianco e giallo in stile coloniale situato in un lotto ai margini della città. Separato dal corpo centrale, c’era un garage con due posti auto. Nessuna macchina lungo il vialetto. Nessuna bandiera issata a indicare che Eddie DeChooch era in casa. Parcheggiai una casa più indietro sul lato opposto della strada e rimasi a guardare l’edificio. Tutto molto noioso. Nessuna attività. Traffico zero. Non c’erano bambini che giocavano sul marciapiede. Non c’era il rimbombo della musica heavy metal che usciva da uno di quei grossi stereo portatili. Un baluardo di rispettabilità e decoro. Un po’ ostile. Pur sapendo che la casa era stata acquistata con i proventi dello Snake Pit non potevo non avvertire la tronfia ostentazione di una ricchezza tramandata da generazioni. Non credo che a Dave Vincent avrebbe fatto piacere se una cacciatrice di taglie sulle tracce di Eddie DeChooch avesse disturbato la sua quiete domenicale. E forse era solo un’opinione del tutto personale, ma dubitavo che la signora Vincent avrebbe voluto infangare la sua posizione sociale offrendo a uno come Choochy un posto dove nascondersi.

Dopo un’ora di inutile sorveglianza, si avvicinò lentamente un’auto della polizia e parcheggiò dietro di me. Ottimo. Stavano per mandarmi via a calci dal quartiere. Se al Burg qualcuno mi avesse vista seduta ad aspettare davanti a casa sua, avrebbe portato fuori il cane a pisciarmi sulla ruota della macchina. Il tutto sarebbe stato accompagnato da una serie di improperi e volgarità e mi avrebbero urlato di levarmi dalle scatole. A Princeton, invece, mandano un impeccabile ed educatìssimo agente di polizia a fare un accertamento. Questa sì che è classe.

Non mi sembrava ci fosse nulla da guadagnare a far arrabbiare Mr. Agente Perfetto, così scesi dalla macchina e gli andai incontro mentre controllava la mia targa. Gli porsi il mio biglietto da visita e il contratto che sanciva il mio diritto di arrestare Eddie DeChooch. Poi, come al solito, dovetti spiegargli che si trattava di una semplice sorveglianza.

A sua volta, lui mi spiegò che la brava gente di quel quartiere non era abituata a sentirsi sorvegliata e che probabilmente sarebbe stato meglio per me se avessi fatto il mio lavoro in maniera più discreta.

«Certo» dissi. E poi me ne andai. Se hai come amico uno sbirro, probabilmente è il migliore amico che si possa desiderare. D’altro canto, se non sei in confidenza con uno sbirro, ti conviene non farlo arrabbiare.

Rimanere a sorvegliare la casa di Vincent non sarebbe comunque servito a nulla. Se volevo parlare con lui era meglio andarlo a trovare al lavoro. E poi, non avrebbe guastato fare un salto allo Snake Pit. Non solo avrei potuto parlare con Vincent, ma avrei anche rivisto Mary Maggie Mason. Mi era sembrata una brava persona, ma chiaramente c’era sotto qualcos’altro.

Presi la Route 1 in direzione sud e per capriccio decisi di fermarmi di nuovo a casa di Mary Maggie per dare un’altra occhiata al garage.

Capitolo 7

Entrai lentamente nel garage e feci un giro in cerca della Cadillac. Percorsi avanti e indietro ogni settore, ma invano. E meno male, perché non avrei saputo cosa fare se avessi trovato Choochy. Non mi sentivo in grado di catturarlo da sola. E al solo pensiero di accettare il patto di Ranger avevo un orgasmo, seguito a ruota da un attacco di panico.

E se avessi passato la notte con Ranger? Che cosa sarebbe successo? Supponiamo che fosse stato tanto incredibile da far sembrare tutti gli altri uomini delle nullità. Supponiamo che a letto fosse stato meglio di Joe. Non che Joe fosse un pappamolle. Era semplicemente un essere umano, cosa che non ero sicura di poter dire a proposito di Ranger.

E il mio futuro? Avrei sposato Ranger? No. Ranger non era fatto per il matrimonio. Diavolo, se è per questo neanche Joe lo era.

E poi c’era da considerare l’altro lato della questione. Supponiamo che io non fossi stata all’altezza. Involontariamente strizzai gli occhi. Ah! Sarebbe stato terribile. Oltremodo imbarazzante.

Supponiamo che lui non fosse stato all’altezza. Addio fantasie. A che cosa avrei pensato allora quando eravamo soli io e il getto caldo della doccia che mi massaggiava il collo?

Scossi la testa per snebbiarmi il cervello. Non volevo prendere in considerazione l’idea di una notte con Ranger. Troppo complicato.

Era ora di cena quando tornai a casa dei miei. Valerie non era più a letto e ora se ne stava seduta al tavolo, con indosso un paio di occhiali scuri. Angie e il Luna stavano mangiando panini al burro di arachidi davanti alla televisione. Mary Alice galoppava per casa, sbuffando e strofinando gli zoccoli sulla moquette. La nonna si era vestita per la veglia. Mio padre stava a testa china sulla polpetta che aveva davanti. E mia madre era a capotavola, nel bel mezzo di una caldana coi fiocchi. Aveva il viso arrossato, i capelli umidi e appiccicati sulla fronte e lo sguardo si spostava freneticamente per la stanza, sfidando chiunque ad alludere che fosse in preda ai fastidi della menopausa.

La nonna ignorò mia madre e mi passò la salsa di mele. «Speravo proprio che venissi a cena. Mi farebbe comodo un passaggio per la veglia.»

«Certo» dissi. «Avevo intenzione di andarci anch’io.»

Mia madre mi guardò con un’espressione addolorata.

«Che c’è?» le domandai.

«Niente.»

«Cosa?»

«I vestiti. Se vai alla veglia della famiglia Ricci vestita così non farò altro che rispondere al telefono per tutta la settimana. Che dirò alla gente? Penseranno che non ti puoi permettere dei vestiti decenti.»

Abbassai lo sguardo sui jeans e gli stivali. A me sembravano decenti, ma non avevo intenzione di discutere con una donna in piena menopausa.

«Io ho dei vestiti che potresti mettere» disse Valerie. «Anzi, vengo con te e la nonna. Ci divertiremo! Da Stiva servono anche dei dolci?»

Deve esserci stato uno scambio in ospedale. Non è possibile che io abbia una sorella che pensa a una veglia funebre come a un posto dove ci si va a divertire.

Valerie saltò su dalla sedia e mi trascinò al piano di sopra tenendomi per mano. «Ho l’abbigliamento fatto apposta per te!»

Non c’è niente di peggio che indossare i vestiti di qualcun altro. Be’, forse una carestia mondiale o un’epidemia di tifo, ma a parte quello, i vestiti presi in prestito non stanno mai bene. Valerie è un paio di centimetri più bassa di me e pesa qualche chilo in meno. Portiamo lo stesso numero di scarpe, ma i nostri gusti in fatto di vestiti non potrebbero essere più diversi. Indossare gli abiti di Valerie alla veglia dei Ricci è un po’ come andare a una festa mascherata la notte di Halloween.

Valerie tirò fuori dal suo armadio una gonna. «Ta-daa!» fece. «Non è meravigliosa? È perfetta. E ho anche una camicetta che ci sta alla perfezione. E pure le scarpe perfette. È tutto un completo.»

Valerie è sempre stata la regina dei completi. Ha sempre scarpe e borse abbinate. Anche gonne e camicette sono sempre abbinate. E Valerie riesce perfino a indossare un foulard senza sembrare un’idiota.

Cinque minuti più tardi, Valerie mi aveva vestito dalla testa ai piedi. La gonna era color malva e verde limone, con un motivo a gigli rosa e gialli. Era di stoffa trasparente e arrivava a metà polpaccio. Probabilmente sarebbe stata benissimo a mia sorella a Los Angeles, ma io mi sentivo come una tenda per doccia anni Settanta. Il sopra era una camicetta bianca di cotone elasticizzato con maniche appena accennate e pizzo intorno al collo. Ai piedi avevo sandali rosa a strisce con sette centimetri di tacco.

Mai in vita mia avevo pensato di poter indossare delle scarpe rosa.

Mi guardai nello specchio a figura intera e trattenni una smorfia.

«Guardate un po’» disse la nonna quando arrivammo da Stiva. «C’è il pienone. Saremmo dovute arrivare prima. Tutti i primi posti davanti alla bara saranno già stati occupati.»

Eravamo nell’ingresso, e a malapena riuscivamo a muoverci tra il fiume di persone che entravano e uscivano dalle salette dove erano venute a porgere l’estremo saluto. Erano le sette in punto e se fossimo arrivate prima ci sarebbe toccato fare la fila come a un concerto rock.

«Non riesco a respirare» disse Valerie. «Mi schiacceranno come un insetto. Le mie bimbe rimarranno orfane.»

«Devi pestare i piedi e dare calci nei polpacci» disse la nonna «e poi vedi come si tengono alla larga.»

Benny e Ziggy erano appena oltre la porta della saletta numero uno. Se Eddie fosse passato di lì non se lo sarebbero fatto sfuggire. C’era anche Tom Bell, responsabile delle indagini del caso Ricci, oltre a metà della popolazione del Burg.

Sentii una mano sul sedere e quando mi girai di scatto mi ritrovai davanti il viso arrapato di Ronald DeChooch. «Ehi, ragazza» mi disse «mi piace questa gonnellina trasparente. Scommetto che non porti le mutandine.»

«Stammi a sentire, brutto sacco di merda senza uccello» gli dissi «se mi tocchi un’altra volta il sedere ti faccio sparare.»

«Ha fegato, la ragazza» commentò Ronald. «Mi piace.»

Nel frattempo, Valerie era scomparsa, risucchiata dalla folla che avanzava. E la nonna era davanti a me che si faceva strada verso la bara. Le bare chiuse sono una situazione pericolosa, perché pare che i coperchi si aprano automaticamente quando c’è la nonna in circolazione. Meglio rimanerle vicino e controllare che non tiri fuori una lima dalla borsetta per manomettere la chiusura.

Constantine Stiva, l’impresario di pompe funebri più gettonato del Burg, adocchiò la nonna e corse a mettersi di guardia, arrivando prima di lei davanti alla defunta.

«Edna» le disse, annuendo e mostrandole il tipico sorriso da impresario di pompe funebri «che piacere rivederti.»

Una volta a settimana la nonna creava il caos da Stiva, ma Stiva non aveva intenzione di giocarsi una futura cliente che non era più una giovincella e che per giunta aveva messo l’occhio, per il suo riposo eterno, su una bara tra le più costose, di mogano intagliato a mano.

«Mi sembrava giusto venire a porgere un saluto» disse la nonna. «Io e Loretta eravamo nello stesso gruppo.»

Stiva si era saggiamente frapposto tra la nonna e Loretta. «Certo. Molto gentile da parte tua.»

«Vedo che è un altro di quei funerali a bara chiusa» disse la nonna.

«Volontà della famiglia» rispose Stiva con voce vellutata come crema e un’espressione placida in viso.

«Immagino sia meglio così, visto che le hanno sparato e poi l’hanno fatta a pezzetti con l’autopsia.»

Stiva tradì una punta di nervosismo.

«Peccato che abbiano dovuto fare l’autopsia» continuò la nonna. «Loretta ha ricevuto cinque colpi al petto e avrebbe potuto avere un funerale a bara aperta se non fosse che nell’autopsia ti tirano fuori il cervello, il che immagino renda difficile fare una bella acconciatura.»

Le tre persone che erano nei paraggi trattennero il fiato e si affrettarono alla porta.

«Che aspetto aveva?» chiese la nonna a Stiva. «Avresti potuto fare qualcosa se non fosse stato per la faccenda del cervello?»

Stiva prese mia nonna per un gomito. «Perché non andiamo nell’ingresso dove c’è meno gente e possiamo mangiare qualcosa?»

«Buona idea. Un biscotto non mi dispiacerebbe. Tanto qui non c’è niente da vedere.»

Li seguii e mentre andavo mi fermai a parlare con Ziggy e Benny.

«Non si farà vedere» dissi. «Non è tanto pazzo.»

Ziggy e Benny risposero con una scrollata di spalle all’unisono.

«Non si sa mai» fece Ziggy.

«Cosa è successo ieri con il Luna?»

«Voleva vedere il circolo» disse Ziggy. «È uscito dal tuo appartamento per prendere una boccata d’aria, abbiamo cominciato a parlare e poi sai com’è, una cosa tira l’altra.»

«Già, non volevamo mica rapire il ragazzo» aggiunse Benny. «E non vogliamo che la vecchia della famiglia Morelli ci faccia il malocchio. Non che crediamo in quel genere di stregonerie, intendiamoci, ma meglio non rischiare.»

«Abbiamo sentito dire che ha fatto il malocchio a Carmine Scallari e che da quel momento, be’, non è più riuscito a farlo» mi informò Ziggy.

«Si dice che abbia anche provato con quella nuova medicina, ma non c’è stato niente da fare» disse Benny.

Benny e Ziggy rabbrividirono involontariamente. Non volevano ritrovarsi nella stessa brutta situazione di Carmine Scallari.

Guardai verso l’ingresso e scorsi Morelli. Se ne stava da un lato, schiena contro il muro, a passare in rassegna la folla. Aveva un paio di jeans, scarpe da tennis nere e T-shirt nera sotto una giacca sportiva in tweed. Così vestito aveva un aspetto asciutto e predatore. Gli uomini gli si avvicinavano per parlare del più e del meno e poi se ne andavano. Le donne lo guardavano da lontano, chiedendosi se fosse tanto pericoloso quanto sembrava, se meritasse la cattiva reputazione che aveva.

Incrociò il mio sguardo dall’altra parte della stanza e piegò il dito nel gesto universalmente usato per dire vieni qui. Quando gli fui vicino mi cinse le spalle con un braccio, come a voler significare un senso di possesso, e mi diede un bacio sul collo, appena sotto l’orecchio. «Dov’è il Luna?»

«Sta guardando la TV con le figlie di Valerie. Sei qui perché speri di prendere Eddie?»

«No. Sono qui perché spero di prendere te. Penso che dovresti lasciare il Luna a dormire dai tuoi e tu potresti venire a casa mia.»

«Proposta allettante, ma sono con la nonna e Valerie.»

«Sono appena arrivato» disse Joe. «Tua nonna è riuscita a scoperchiare la bara?»

«È stata intercettata da Stiva.»

Morelli seguì con il dito il pizzo lungo la cucitura della scollatura. «Mi piace questo pizzo.»

«Che mi dici della gonna?»

«La gonna sembra una tendina per la doccia. Ha un che di erotico. Mi sto domandando se indossi la biancheria intima.»

Oddio! «È la stessa, identica cosa che mi ha detto Ronald DeChooch.»

Morelli si guardò intorno. «Non l’ho visto quando sono entrato. Non sapevo che Ronald e Loretta facessero parte dello stesso giro.»

«Forse Ronald è qui per lo stesso motivo per cui sono qui Ziggy, Benny e Tom Bell.»

Ci si avvicinò tutta sorridente la signora Dugan. «Congratulazioni» disse. «Ho sentito che vi sposate. Sono emozionata per voi. Ed è una bella fortuna che l’Associazione nazionale dei polacchi vi abbia messo a disposizione la PNA Hall per il ricevimento. Tua nonna deve aver fatto carte false per accaparrarsela.»

La PNA Hall? Guardai Morelli e alzai gli occhi al cielo mentre lui scuoteva la testa in silenzio.

«Chiedo scusa» dissi alla signora Dugan «devo trovare nonna Mazur.»

Attraversai a testa bassa il mare di gente fino alla nonna. «La signora Dugan mi ha appena detto che abbiamo affittato la PNA Hall per il ricevimento» le bisbigliai all’orecchio. «È la verità?»

«Lucilie Stiller l’aveva prenotata per il cinquantesimo anniversario di matrimonio dei suoi genitori, ma la madre è morta ieri notte. Appena l’abbiamo saputo, non ci siamo lasciate sfuggire la sala. Non sono fortune che capitano tutti i giorni!»

«Non voglio un ricevimento alla PNA Hall.»

«Tutti vogliono un ricevimento alla PNA Hall» disse la nonna. «È il posto migliore del Burg.»

«Non voglio una cosa in grande. Voglio fare il ricevimento nel giardino sul retro.» Oppure faccio a meno del ricevimento. Non sono neanche sicura se ci sarà un matrimonio!

«E se piove? Dove mettiamo tutte le persone?»

«Non voglio molti invitati.»

«Ci saranno un centinaio di persone solo nella famiglia di Joe» fece la nonna.

Morelli era alle mie spalle. «Mi sta venendo un attacco di panico» gli dissi. «Non riesco a respirare. Mi si sta gonfiando la lingua. Soffoco.»

«Un bel soffocamento è proprio quello che ci vuole» rispose lui.

Guardai l’orologio. La veglia sarebbe andata avanti ancora per un’ora e mezzo. Con la mia solita fortuna, Eddie sarebbe arrivato non appena me ne fossi andata via.

«Ho bisogno di un po’ d’aria» dissi. «Vado fuori per un paio di minuti.»

«Ci sono delle persone con cui non ho ancora parlato» disse la nonna. «Ti raggiungo più tardi.»

Joe mi seguì fuori e restammo in veranda, a respirare l’aria che veniva dalla strada, felici di lasciarci alle spalle l’odore di garofani e inalare a pieni polmoni i gas di scarico delle auto. L’illuminazione era accesa e in strada c’era un flusso costante di traffico. Dall’impresa di pompe funebri dietro di noi arrivavano suoni festosi. Non era musica rock, ma un sottofondo costante di voci e risate. Ci sedemmo su un gradino a guardare il traffico, tenendoci compagnia in silenzio. Eravamo lì a rilassarci quando la Cadillac bianca ci passò davanti.

«Era Eddie DeChooch?» chiesi a Morelli.

«Mi è sembrato lui» rispose.

Nessuno dei due si mosse. Non potevamo fare molto se DeChooch ci passava davanti in macchina. Le nostre auto erano a due isolati da lì.

«Dovremmo fare qualcosa per arrestarlo» dissi.

«A cosa pensavi?»

«Be’, ormai è troppo tardi, ma avresti dovuto sparare a una gomma.»

«Me lo ricorderò per la prossima volta.»

Cinque minuti dopo eravamo ancora seduti lì e DeChooch ci passò davanti un’altra volta.

«Gesù» disse Joe. «Cos’ha questo tipo?»

«Forse sta cercando parcheggio.»

Morelli balzò in piedi. «Vado a prendere il fuoristrada. Tu entra e avvisa Tom Bell.»

Joe partì e io andai da Bell. Sulle scale incrociai Myron Birnbaum. Un momento. Myron Birnbaum se ne stava andando. Stava per liberare un posto macchina e DeChooch stava cercando parcheggio. E conoscendo Myron Birnbaum ero praticamente certa che avesse parcheggiato poco distante. Non dovevo fare altro che tenere il posto di Birnbaum finché DeChooch non fosse arrivato. DeChooch avrebbe parcheggiato e io lo avrei intrappolato. Maledizione, quanto ero intelligente.

Seguii Birnbaum e, proprio come pensavo, aveva parcheggiato all’angolo, a tre macchine di distanza dalle pompe funebri di Stiva, ben incastrato tra una Toyota e un SUV Ford. Aspettai che uscisse dal parcheggio e poi saltai nello spazio che si era liberato facendo segno di andarsene alle macchine che volevano occuparlo. Eddie DeChooch vedeva a malapena oltre il paraurti anteriore della sua auto e quindi non c’era pericolo che mi individuasse da lontano. Il mio piano era tenergli il posto e poi nascondermi dietro il SUV quando la Cadillac si fosse avvicinata.

Sentii un clop clop di tacchi sul marciapiede e quando mi girai vidi che Valerie stava venendo verso di me.

«Che succede?» chiese. «Stai tenendo il posto per qualcuno? Vuoi che ti aiuti?»

Un’anziana alla guida di una Oldsmobile vecchia dieci anni si fermò vicino al posto vuoto e mise la freccia destra.

«Mi dispiace» le dissi, facendole segno di spostarsi. «Questo posto è occupato.»

L’anziana mi gesticolò di togliermi di mezzo.

Feci no con la testa. «Provi al parcheggio.»

Valerie era di fianco a me e agitava le braccia indicando il parcheggio: in quel momento sembrava uno di quei tipi che dirigono gli aeroplani sulle piste. Era vestita quasi come me, ma con un diverso abbinamento di colori. Le sue scarpe erano color lavanda.

L’anziana suonò il clacson e cominciò a entrare lentamente nello spazio che stavo tenendo occupato. Valerie fece un salto all’indietro ma io misi le mani sui fianchi, fissai la donna e non mi spostai di un millimetro.

C’era un’altra anziana sul sedile del passeggero. Tirò giù il finestrino e mise fuori la testa. «Questo è il nostro parcheggio.»

«È un’operazione di polizia» spiegai. «Dovrà parcheggiare da qualche altra parte.»

«Sei un’agente di polizia?»

«Mi occupo di latitanti sotto cauzione.»

«Esatto» intervenne Valerie. «Questa è mia sorella e si occupa di latitanti sotto cauzione.»

«Non ha niente a che fare con la polizia» protestò l’anziana donna.

«La polizia sarà qui a minuti» le dissi.

«Io penso che tu sia una gran bugiarda e che stia tenendo il posto per il tuo fidanzato. Nessuno impegnato in un’operazione di polizia si vestirebbe come te.»

La Oldsmobile era già entrata per un terzo nel parcheggio e con la parte anteriore occupava metà della strada. Con la coda dell’occhio vidi muoversi qualcosa di bianco e prima che potessi reagire, DeChooch andò a sbattere contro la Oldsmobile. La Oldsmobile fu sbalzata in avanti e andò a sbattere contro il retro del SUV, mancandomi per un pelo. La Cadillac sbandò contro il quadrante posteriore sinistro della Oldsmobile e vidi che DeChooch si sforzava di mantenere il controllo. Si girò e mi guardò dritto in faccia, rimanemmo tutti sospesi nel tempo per un attimo, poi ripartì.

Maledizione!

Le due anziane forzarono le portiere della Oldsmobile e riuscirono faticosamente a scendere dall’auto.

«Guarda la mia macchina!» gridò la donna alla guida. «È da buttare!» Mi costrinse a girarmi. «È tutta colpa tua. Guarda cosa hai fatto. Ti odio.» E mi colpì la spalla con la borsetta.

«Ahi» esclamai «mi ha fatto male.»

Era più bassa di me di qualche centimetro ma aveva qualche chilo in più. I capelli erano corti e permanentati di fresco. Doveva avere sui sessant’anni. Sulle labbra aveva un rossetto rosso acceso, si era disegnata le sopracciglia con una matita marrone scuro e aveva due cerchi di fard rosa sulle guance. Sicuramente non era del Burg. Forse Hamilton Township.

«Avrei dovuto prenderti sotto quando ne avevo l’opportunità» disse.

Mi colpì di nuovo con la borsetta, ma questa volta la presi per la cinghia e gliela tolsi di mano con uno strattone.

Dietro di me sentii Valerie fare un piccolo verso di sorpresa.

«La mia borsa» gridò la donna. «Ladra! Aiuto. Mi ha preso la borsa!»

Intorno a noi aveva cominciato a radunarsi una piccola folla. Gente che passava di lì in auto e gente che era andata a far visita alla defunta. L’anziana prese uno degli uomini che stava sull’esterno dell’assembramento. «Vuole rubarmi la borsa. Ha provocato l’incidente e ora mi sta rubando la borsa. Chiami la polizia.»

Dal gruppo saltò fuori la nonna. «Che sta succedendo? Sono appena arrivata. Cos’è tutto questo casino?»

«Mi ha rubato la borsa» mentì la donna.

«Non è vero» risposi.

«E invece sì»

«E invece no!»

«Me l’hai rubata» ripeté e mi spinse indietro con una manata sulla spalla.

«Tenga giù le mani da mia nipote» disse la nonna.

«Sì. Da mia sorella» intervenne Valerie.

«Fatevi gli affari vostri» urlò la donna rivolta alla nonna e a Valerie.

La donna diede una spinta alla nonna la quale gliene restituì un’altra e fu così che cominciarono a prendersi a schiaffi mentre Valerie se ne stava da un lato a gridare.

Feci un passo avanti per dividerle e nella confusione di minacce e braccia che si agitavano qualcuno mi diede una botta sul naso. Mi si riempì il campo visivo di tante piccole lucciole e mi cedette un ginocchio. La nonna e l’anziana smisero di picchiarsi e mi offrirono fazzolettini uniti a consigli su come bloccare il sangue che mi colava dal naso.

«Qualcuno chiami un’ambulanza» gridò Valerie. «Chiamate il pronto soccorso. Un medico. Le pompe funebri.»

Arrivò Morelli e mi tirò in piedi. «Direi che possiamo cancellare la boxe dalla lista di possibili professioni alternative.»

«Ha cominciato la donna anziana.»

«A giudicare dal tuo naso direi che l’anziana ha anche concluso.»

«Ha avuto fortuna.»

«Ho incrociato DeChooch che andava a tutta velocità in direzione opposta» mi informò. «Non sono riuscito a girare in tempo per inseguirlo.»

«È la storia della mia vita.»

Quando il naso smise di sanguinare Morelli caricò me, la nonna e Valerie nella mia CR-V e ci seguì fino a casa dei miei. Dopodiché ci fece un bel saluto con la mano, preferendo non essere nei paraggi quando mia madre ci avrebbe visto. Avevo macchiato di sangue la gonna e la camicetta di Valerie. La gonna aveva anche un piccolo strappo. Mi ero sbucciata un ginocchio, ancora sanguinante. E avevo un principio di occhio nero. La nonna era più o meno nelle stesse condizioni, ma non aveva né l’occhio nero né la gonna strappata. In compenso le era successo qualcosa ai capelli che adesso le stavano diritti in testa, facendola assomigliare a Don King, il manager di Tyson.

Dato che al Burg le notizie viaggiano alla velocità della luce, quando arrivammo a casa mia madre aveva già risposto a sei telefonate sull’argomento e sapeva della rissa in ogni minimo dettaglio. Aveva la bocca serrata quando entrammo e andammo di corsa in cucina a prendere del ghiaccio per il mio occhio.

«Non è andata poi così male» disse Valerie a mia madre. «La polizia ha sistemato tutto. Quelli dell’ambulanza hanno detto che secondo loro il naso di Stephanie non è rotto. E comunque non c’è molto da fare con i nasi rotti, giusto Stephanie? Magari puoi metterci un cerotto.» Prese il ghiaccio dalle mani di mia madre e se lo mise in testa. «C’è qualcosa di alcolico in casa?»

Il Luna arrivò in tutta tranquillità dalla sua postazione davanti alla TV. «Piccola» disse. «Che succede?»

«Una scaramuccia per un parcheggio.»

Il Luna annuì. «È sempre una questione di file da rispettare, vero?» E così dicendo, se ne tornò davanti alla TV.

«Non avrai intenzione di lasciarlo qui, vero?» chiese mia madre. «Non viene a vivere qui anche lui, è così?»

«Credi che potrebbe funzionare?» domandai in tono speranzoso.

«No!»

«Allora immagino che non potrò lasciarlo.»

Angie distolse lo sguardo dalla TV. «È vero che sei stata colpita da una vecchietta?»

«È stato un incidente» le risposi.

«Quando si viene colpiti alla testa, il colpo fa gonfiare il cervello. Le cellule cerebrali muoiono e non si rigenerano.»

«Non è un po’ tardi per stare davanti alla televisione?»

«Non devo andare a letto perché domani non devo andare a scuola» disse Angie. «Non ci siamo iscritte alla nuova scuola. E poi siamo abituate a stare alzate fino a tardi. Mio padre era spesso a cena fuori per lavoro e potevamo stare su finché non tornava a casa.»

«Solo che adesso se ne è andato» intervenne Mary Alice. «Ci ha lasciato per andare a letto con la baby sitter. Una volta li ho visti che si baciavano e papà aveva una forchetta nei pantaloni che gli spuntava all’infuori.»

«Le forchette a volte fanno di questi scherzi» disse la nonna.

Presi le mie cose e il Luna e mi diressi verso casa. Se fossi stata più in forma sarei andata allo Snake Pit, ma per quello dovevo aspettare un altro giorno.

«Spiegami un po’ perché tutti stanno cercando questo Eddie DeChooch» disse il Luna.

«Io lo sto cercando perché non si è presentato in tribunale il giorno fissato per l’udienza. La polizia lo sta cercando perché pensano che sia coinvolto in un omicidio.»

«E lui crede che io abbia qualcosa di suo.»

«Già.» Mentre guidavo guardai il Luna, chiedendomi se avesse qualcosa fuori posto in testa, e se magari qualche informazione importante potesse riaffiorare in superficie.

«Allora che ne pensi?» chiese. «Pensi che Samantha di Vita da strega riesca a fare tutte quelle magie se non storce il naso?»

«No» dissi. «Penso che debba storcere il naso.»

Il Luna espresse il suo serio ragionamento: «È quello che credo anch’io».

Era lunedì mattina e mi sentivo come se mi avesse investito un camion. Sul ginocchio si era formata una crosticina e il naso mi faceva male. Mi trascinai fuori dal letto e zoppicai fino al bagno. Ah! Avevo tutti e due gli occhi neri. Uno era parecchio più nero dell’altro. Mi misi sotto la doccia e ci rimasi forse per un paio d’ore. Quando barcollai fuori, il naso mi faceva meno male, ma gli occhi erano peggio di prima.

Cosa importante da ricordare: due ore sotto la doccia sono da evitare nelle fasi iniziali di un occhio nero.

Mi asciugai i capelli con il phon e li raccolsi in una coda di cavallo. Indossai la mia solita uniforme di jeans e T-shirt elasticizzata e andai in cucina a racimolare la colazione. Da quando Valerie era tornata, mia madre aveva avuto troppo da fare per prepararmi la solita busta di cibo da portare a casa, e così non c’era traccia di torta rovesciata di ananas nel frigorifero. Mi versai un bicchiere di succo d’arancia e infilai una fetta di pane nel tostapane. Era tutto tranquillo nel mio appartamento. Sereno. Bello. Troppo bello. Troppo sereno. Uscii dalla cucina e mi guardai in giro. Tutto sembrava in ordine. Tranne che per il piumone stropicciato e il cuscino sul divano.

Oh, merda! Il Luna non c’era più. Maledizione, maledizione, maledizione.

Corsi alla porta. Era chiusa a chiave. La catenella di sicurezza della serratura era stata rimossa e penzolava. Aprii la porta e guardai fuori. Nessuno lungo il corridoio. Guardai dalla finestra del soggiorno verso il parcheggio. Niente Luna. Nessun soggetto losco né auto. Chiamai a casa del Luna. Nessuna risposta. Gli scrissi un messaggio dicendogli che sarei tornata presto e che avrebbe dovuto aspettarmi. Diavolo, tutti entrano a casa mia forzando la serratura. Fissai il biglietto sulla porta di casa con lo scotch e partii.

La prima tappa fu a casa del Luna. C’erano i suoi due coinquilini, ma lui no. Seconda tappa, casa di Dougie. Un buco nell’acqua. Passai davanti al circolo sociale, a casa di Eddie, e a casa di Ziggy. Tornai nel mio appartamento. Del Luna nessuna traccia.

Chiamai Morelli. «Se ne è andato» dissi. «Era già andato via quando mi sono alzata stamattina.»

«È così grave?»

«Sì, è grave.»

«Terrò gli occhi aperti.»

«Non ci sono stati, ehm…»

«Cadaveri riportati a riva dalle onde? Corpi ritrovati nella discarica? Arti smembrati infilati nella cassetta per le consegne notturne del negozio di video? No. Niente di tutto questo. È stato tutto tranquillo.»

Riagganciai e chiamai Ranger. «Aiuto» dissi.

«Ho sentito dire che ieri sera ti sei fatta malmenare di brutto da un’anziana» rispose. «È proprio arrivato il momento di prendere qualche lezione di autodifesa, bambina. La tua immagine non ci guadagna se ti fai prendere a botte da una vecchietta.»

«Ho problemi ben più gravi da risolvere. Facevo da baby sitter al Luna ed è scomparso.»

«Forse se l’è semplicemente svignata.»

«O forse no.»

«Ha preso la macchina?»

«La sua macchina è ancora nel parcheggio sotto casa mia» dissi.

Ranger rimase un attimo in silenzio. «Chiederò in giro e poi ti farò sapere.»

Chiamai mia madre. «Non hai visto il Luna, vero?» le domandai.

«Cosa?» urlò. «Cosa hai detto?»

In sottofondo sentivo Angie e Mary Alice che correvano per casa. Stavano urlando e sembrava che stessero battendo sulle pentole.

«Che cosa sta succedendo?» urlai al telefono.

«Tua sorella è uscita per un colloquio di lavoro, e le bambine stanno facendo una parata.»

«Sembra più la Terza guerra mondiale. Il Luna è capitato lì da voi stamattina?»

«No. Non lo vedo da ieri sera. È un tipo un po’ strano, vero? Sei sicura che non si droghi?»

Lasciai sulla porta il biglietto per il Luna e andai in ufficio. Connie e Lula erano sedute alla scrivania di Connie e fissavano la porta della tana privata di Vinnie.

Connie mi fece segno di rimanere zitta. «Joyce è dentro con Vinnie» sussurrò. «Sono dentro da dieci minuti ormai.»

«Dovevi essere qui all’inizio quando Vinnie faceva versi da mucca. Ho idea che Joyce lo stesse mungendo» disse Lula.

Dietro le porte chiuse si sentiva gemere e grugnire sommessamente. Poi i grugniti cessarono e Lula e Connie si sporsero in avanti speranzose.

«Questa è la parte che preferisco» disse Lula. «Qui è il momento in cui cominciano con le sculacciate e Joyce abbaia come un cane.»

Mi allungai in avanti con loro, ad ascoltare le sculacciate e sperando di sentire Joyce abbaiare come un cane, imbarazzata ma allo stesso tempo incapace di andarmene.

Mi sentii tirare indietro per la coda. Ranger era entrato alle mie spalle e mi aveva preso per i capelli. «Mi fa piacere vedere che ti ammazzi di lavoro per trovare il Luna.»

«Sssh. Voglio sentire Joyce che abbaia come un cane.»

Ranger mi schiacciò contro di sé e il calore del suo corpo cominciò a invadere il mio. «Non credo che valga la pena aspettare, bambina.»

Ci fu rumore di schiaffi e qualche grido, poi più niente.

«Be’, è stato divertente» disse Lula «ma ogni divertimento ha un prezzo. Joyce entra là dentro unicamente quando vuole qualcosa. E c’è solo un caso importante ancora in sospeso.»

Guardai Connie. «Eddie DeChooch? Vinnie non affiderebbe Eddie a Joyce, giusto?»

«Di solito si abbassa a tanto solo quando c’è di mezzo una bella cavalcata» disse Connie.

«Già, per la parte dello stallone è disposto a tutto» aggiunse Lula.

La porta si aprì e Joyce uscì con stizza dall’ufficio. «Mi servono i documenti su DeChooch» disse.

Feci per avventarmi contro di lei, ma Ranger mi teneva ancora per i capelli e così non andai molto lontano. «Vinnie» urlai «vieni subito qui!»

La porta dell’ufficio di Vinnie si chiuse fragorosamente e si sentì lo scatto della serratura.

Lula e Connie guardarono Joyce di traverso.

«Ci vorrà un po’ per mettere insieme tutte le carte» avvertì Connie. «Forse dei giorni.»

«Nessun problema» disse Joyce. «Tornerò.» Guardò verso di me. «Bello, quell’occhio. Molto attraente.»

Dovevo proprio portare Bob a fare un altro giro nel giardino di Joyce. Forse avrei potuto intrufolarmi in casa e fargli fare i suoi bisogni proprio sul letto.

Ranger mollò la presa sulla mia coda di cavallo ma continuò a tenermi una mano sul collo. Cercai di rimanere calma, ma la sensazione della sua mano sul mio corpo mi ronzava dentro fino alla punta dei piedi e da varie altre parti.

«Nessuno dei miei contatti ha visto qualcuno che corrisponda alla descrizione del Luna» disse Ranger. «Ho pensato che potremmo discutere dell’argomento con Dave Vincent.»

Lula e Connie guardarono verso di me. «Cosa è successo al Luna?»

«È scomparso» risposi. «Proprio come Dougie.»

Capitolo 8

Ranger era alla guida di una Mercedes nera che sembrava appena uscita dalla concessionaria. Le auto di Ranger erano sempre nere, sempre nuove e sempre di dubbia proprietà. Aveva un cercapersone e un cellulare fissati al parasole e sotto il cruscotto un’antenna radar per intercettare le comunicazioni radio della polizia. Sapevo anche, per esperienza passata, che nascosti da qualche parte nella macchina c’erano un fucile a canne mozze e un’arma d’assalto, e che portava una semiautomatica agganciata alla cintura. Ranger è uno dei pochi civili a Trenton con l’autorizzazione a portare armi nascoste. È proprietario di palazzi di uffici a Boston, ha una figlia in Florida — frutto di un matrimonio fallito — ha lavorato in tutto il mondo come mercenario e il suo codice di condotta non è esattamente in linea con il nostro sistema legale. Non ho idea di che accidenti di persona sia… ma mi piace.

Lo Snake Pit non aveva ancora aperto i battenti, ma nel piccolo parcheggio adiacente l’edificio c’erano già delle auto e la porta principale era socchiusa. Ranger parcheggiò accanto a una BMW nera, poi entrammo. Un gruppo di addetti alle pulizie stava lucidando il bancone del bar e lavando il pavimento. Da una parte c’erano tre ragazzi muscolosissimi che bevevano caffè e parlavano. Immaginai che fossero dei lottatori che ripassavano lo schema di combattimento. E capii anche perché la nonna usciva presto dal bingo per venire allo Snake Pit. La possibilità che a uno o più di quegli uomini che bevevano il caffè venissero strappate via le mutande in mezzo al fango esercitava una certa attrattiva. La verità è che mi fa un effetto un po’ strano guardare degli uomini nudi con quei loro aggeggi e pendagli in libertà. Però c’è sempre il fattore curiosità. Credo sia un po’ come quando ti trovi davanti a un incidente stradale: ti senti obbligato a guardare anche se sai che quello che stai per vedere ti spaventerà a morte.

C’erano due uomini seduti a un tavolo che rileggevano quello che sembrava un documento di contabilità. Avevano sui cinquant’anni e un fisico da frequentatori di palestra, con indosso pantaloni sportivi e maglie leggere. Alzarono lo sguardo quando io e Ranger entrammo. Uno di loro salutò Ranger.

«Dave Vincent e il suo commercialista» mi spiegò Ranger. «Vincent è quello con la maglia marrone chiaro. Quello che mi ha salutato.»

Un abbinamento perfetto con la casa di Princeton.

Vincent si alzò e ci venne incontro. Sorrise quando vide il mio occhio da vicino. «Tu devi essere Stephanie Plum.»

«Avrei potuto eliminarla» dissi. «Mi ha colto di sorpresa. Si è trattato di un incidente.»

«Stiamo cercando Eddie DeChooch» intervenne Ranger.

«Tutti stanno cercando Eddie DeChooch» rispose Vincent. «Il nostro amico è un matto.»

«Pensavamo che magari si tiene in contatto con i suoi soci in affari.»

Dave Vincent alzò le spalle. «Non l’ho visto.»

«Guida la macchina di Mary Maggie.»

Vincent lasciò intravedere un po’ d’impazienza. «Non mi immischio nelle vite private dei miei dipendenti. Se Mary Maggie vuole prestare la macchina a Chooch, sono affari suoi.»

«Ma se lo tiene nascosto diventano affari miei» affermò Ranger. Così dicendo, girammo i tacchi e ce ne andammo.

«Allora» dissi quando salimmo in macchina. «Mi sembra che sia andata bene.»

Ranger mi rispose con un sorriso. «Staremo a vedere.»

«E adesso che facciamo?»

«Benny e Ziggy. Saranno di sicuro al circolo.»

«Oh diamine» esclamò Benny quando venne alla porta. «Che c’è adesso?»

Ziggy si trovava un passo dietro di lui. «Non siamo stati noi a farlo.»

«A fare cosa?» domandai.

«Qualsiasi cosa» rispose Ziggy «Qualsiasi cosa sia, non siamo stati noi.»

Io e Ranger ci scambiammo un’occhiata.

«Dov’è?» chiesi a Ziggy.

«Dov’è chi?»

«Il Luna.»

«È una domanda a trabocchetto?»

«No. È una domanda assolutamente seria. Il Luna è scomparso.»

«Sei sicura?»

Io e Ranger lo guardammo fisso e in silenzio.

«Merda» disse infine Ziggy.

Lasciammo Benny e Ziggy senza aver potuto aggiungere altre informazioni a quelle che già avevamo. Ovvero nessuna. Per non parlare poi del fatto che mi sentivo come se avessi appena partecipato a un classico sketch di Stanlio e Ollio.

«Direi che è andata quasi bene quanto il nostro colloquio con Vincent» dissi a Ranger.

Con questa osservazione mi guadagnai un altro sorriso. «Sali in macchina. Ora facciamo una visita a Mary Maggie.»

Gli risposi con un saluto militare e salii a bordo. Non ero sicura che saremmo approdati a qualcosa ma era comunque piacevole andarsene in giro con Ranger. Avere lui accanto mi assolveva da ogni responsabilità. Io ero chiaramente la sua sottoposta. Ed ero protetta. Nessuno avrebbe osato spararmi finché fossi stata con lui. E se anche mi avessero sparato, ero sicurissima che non sarei morta.

Rimanemmo in silenzio fino al condominio di Mary Maggie, parcheggiammo una fila più in là dalla sua Porsche e prendemmo l’ascensore fino al settimo piano.

Dopo aver bussato un paio di volte, Mary Maggie venne ad aprirci. Quando ci vide le si mozzò il fiato e fece un passo indietro. Di norma una reazione del genere potrebbe essere interpretata come segno di paura o di colpevolezza. Nel caso specifico era la normale reazione che ogni donna ha nel trovarsi di fronte a Ranger. Bisognava però riconoscere a Mary Maggie che la vista di Ranger non l’aveva fatta né arrossire né balbettare. La sua attenzione si spostò da lui a me. «Di nuovo tu» disse.

La salutai con un gestaccio.

«Che ti è successo all’occhio?»

«Un litigio per un parcheggio.»

«A quanto pare non hai avuto la meglio.»

«Le apparenze ingannano» dissi. Non necessariamente in questo caso… ma qualche volta sì.

«DeChooch era in giro in macchina l’altra sera» intervenne Ranger. «Pensavamo che forse l’avevi visto.»

«No.»

«Guidava la tua auto ed è rimasto coinvolto in un incidente. Da pirata della strada.»

Dall’espressione che aveva dipinta in viso, era chiaro che Mary Maggie apprendeva dell’incidente solo in quel momento.

«Tutta colpa della vista. Non dovrebbe guidare di notte» commentò.

Verità sacrosanta. Per non parlare del cervello, che avrebbe dovuto proprio tenerlo lontano dalle strade. Quell’uomo era un pazzo.

«Qualcuno si è ferito?» chiese Mary Maggie.

Ranger scosse la testa.

«Ci chiami se lo vedi, non è vero?» dissi.

«Certo» rispose Mary Maggie.

«Non ci chiamerà» dissi a Ranger quando fumino nell’ascensore.

Lui si limitò a guardarmi.

«Cosa c’è?»

«Devi avere pazienza.»

Quando le porte dell’ascensore si aprirono sul parcheggio sotterraneo, saltai fuori. «Pazienza? Il Luna e Dougie sono scomparsi e ho il fiato di Joyce Barnhardt sul collo. Andiamo in giro a parlare con la gente, ma non otteniamo niente, non succede niente e nessuno sembra preoccuparsi.»

«Stiamo lasciando dei messaggi. Facciamo pressione. Se fai pressione nei punti giusti le cose cominciano a muoversi.»

«Mmm» feci, ancora con la sensazione che non avessimo ottenuto granché.

Ranger aprì l’auto con il telecomando. «Non mi piace il suono di questo tuo mmm.»

«Questa storia di fare pressione mi sembra un po’… oscura.»

Eravamo soli nel garage semibuio. Soltanto io e Ranger e due piani di macchine e cemento. Era la scena perfetta per un omicidio della malavita o per l’aggressione di un violentatore folle.

«Oscura» ripeté Ranger.

Mi prese per i risvolti della giacca e mi tirò a sé, baciandomi. Mi toccò la lingua con la sua e provai una sensazione che rasentava l’orgasmo. Fece scivolare le mani sotto la giacca e mi cinse la vita. Lo sentivo duro contro di me. E improvvisamente, l’unica cosa che mi importava era che Ranger mi facesse avere un orgasmo. Lo volevo. E subito. Al diavolo Eddie DeChooch. Un giorno o l’altro si sarebbe schiantato con la macchina contro la spalla di un ponte e sarebbe finita lì.

Sì, ma il matrimonio?, mi sussurrò una vocina dagli oscuri meandri del mio cervello.

Chiudi il becco, dissi alla vocina, ci penserò dopo.

E che mi dici delle gambe?, chiese la vocina. Ti sei depilata le gambe stamattina?

Cavolo, quasi mi mancava il fiato dal bisogno impellente di questo maledetto orgasmo e mi preoccupavo dei peli sulle gambe! C’è giustìzia a questo mondo? Perché proprio a me? Perché tocca a me preoccuparmi dei peli sulle gambe? Perché tocca sempre alla donna preoccuparsi di questi peli del cavolo?

«Scendi dalle nuvole, Steph» disse Ranger.

«Se lo facciamo adesso, vale come ringraziamento per la cattura di DeChooch?»

«Non lo facciamo adesso.»

«Perché no?»

«Perché siamo in un parcheggio. E quando saremo usciti di qui, tu avrai già cambiato idea.»

Lo guardai strizzando gli occhi. «Cosa significa?»

«Significa che è possibile demolire il sistema difensivo di una persona se si esercita la pressione giusta nel punto giusto.»

«Mi stai dicendo che si è trattato solo di una dimostrazione? Mi hai ridotto in questo… stato solo per dimostrare una teoria?»

Mi teneva ancora le mani sui fianchi, stretta a lui.

«È grave, questo tuo stato?» domandò.

Ancora un po’ più grave e ci sarebbe stato un caso di autocombustione. «Non è una cosa poi così grave» gli dissi.

«Bugiarda.»

«E quanto grave è il tuo stato?»

«Spaventosamente grave.»

«Mi stai complicando la vita.»

Mi aprì lo sportello della macchina. «Salta su. Ronald DeChooch è il prossimo della lista.»

L’anticamera degli uffici della ditta di pavimentazioni era deserta quando io e Ranger entrammo. Da dietro l’angolo fece capolino un giovane che ci chiese cosa volevamo. Gli rispondemmo che volevamo parlare con Ronald. Trenta secondi dopo Ronald arrivò tranquillamente da un qualche locale sul retro dell’edificio.

«Ho sentito dire che una vecchia ti ha beccato in un occhio, ma non credevo che avesse fatto un così buon lavoro» mi disse Ronald. «Hai un occhio nero da primo premio.»

«Hai visto tuo zio di recente?» gli chiese Ranger.

«No, ma ho sentito dire che è rimasto coinvolto in un incidente fuori dall’impresa di pompe funebri. Non dovrebbe guidare di notte.»

«L’auto che guidava appartiene a Mary Maggie Mason» dissi. «La conosci?»

«L’ho vista in giro.» Guardò Ranger. «Lavori anche tu a questo caso?»

Ranger rispose con un cenno affermativo appena percettibile del capo.

«Buono a sapersi» commentò Ronald.

«Cosa voleva dire?» chiesi a Ranger una volta fuori. «È come penso che sia? Quel coglione voleva dire che se ti occupi del caso anche tu, la faccenda è diversa? Voleva dire che ora prenderà sul serio questa storia della ricerca?»

«Andiamo a dare un’occhiata a casa di Dougie» suggerì Ranger.

La casa di Dougie non era cambiata dall’ultima volta che ci ero stata. Non c’erano segni di nuove perlustrazioni. Né di eventuali visite da parte di Dougie o del Luna. Io e Ranger passammo di stanza in stanza. Aggiornai Ranger sulle visite precedenti e sull’arrosto scomparso.

«Pensi che possa significare qualcosa il fatto che abbiano preso un arrosto?» gli domandai.

«Misteri della vita» rispose Ranger.

Percorremmo il perimetro della casa fino al retro e curiosammo nel garage.

Il cagnolino della casa accanto a quella di Dougie abbandonò la sua postazione nella veranda sul retro dei Belski e cominciò a saltellarci intorno abbaiando, tra guaiti e tentativi di morderci i pantaloni.

«Pensi che se gli sparassi qualcuno se ne accorgerebbe?» chiese Ranger.

«Credo che la signora Belski ti correrebbe dietro con un batticarne.»

«Hai parlato con la signora Belski riguardo alle visite a casa di Dougie?»

Mi diedi una botta in testa con il palmo della mano. Perché non mi era venuto in mente di andare a parlare con lei? «No.»

I Belski abitano nella loro casetta a schiera praticamente da sempre. Ormai sono sulla sessantina. Razza polacca, robusta e lavoratrice. Il signor Belski è in pensione da una ditta di ferramenta. La signora Belski ha tirato su sette figli. E ora hanno Dougie come vicino di casa. Altri avrebbero litigato con lui, ma i Belski hanno accettato il loro destino come una specie di volontà divina e ci convivono.

La porta sul retro di casa Belski si aprì e la signora Belski mise fuori la testa. «Spotty vi sta dando fastidio?»

«No» risposi. «Nessun problema con Spotty.»

«Si agita quando vede degli estranei» disse la signora attraversando il giardino per recuperare il cane.

«So che a casa di Dougie sono passati degli estranei.»

«Ci sono sempre degli estranei a casa di Dougie. C’eravate quando ha dato quella festa a tema su Star Trek?» Scosse la testa. «Certi movimenti strani!»

«E più di recente? Negli ultimi due giorni.»

La signora Belski prese Spotty in braccio e se lo tenne vicino. «Niente in confronto a quella festa Star Trek.»

Spiegai alla signora Belski che qualcuno si era introdotto furtivamente in casa di Dougie.

«No!» esclamò. «Ma è terribile.» Lanciò uno sguardo preoccupato alla porta sul retro della casa di Dougie. «Dougie e il suo amico Walter vanno un po’ fuori di testa qualche volta, ma in fondo in fondo sono dei gran bravi ragazzi. Sono sempre carini con Spotty.»

«Ha visto qualche tipo sospetto aggirarsi intorno alla casa?»

«Ci sono state due donne» riferì la signora Belski. «Una della mia età. Forse un po’ più vecchia. Sulla sessantina. L’altra un paio d’anni più giovane. Stavo tornando dalla passeggiata con Spotty e queste donne hanno parcheggiato la macchina e sono entrate da sole in casa di Dougie. Avevano la chiave. Ho pensato che fossero delle parenti. Credete che fossero delle ladre?»

«Si ricorda che macchina avevano?»

«Non proprio. A me le macchine sembrano tutte uguali.»

«Era una Cadillac bianca? Era una macchina sportiva?»

«No. Nessuna delle due. Me ne sarei ricordata se fosse stata una Cadillac o una macchina sportiva di quelle strane.»

«Nessun altro?»

«Si è fermato qualche volta un uomo anziano. Magro. Sui settanta. Ora che ci penso, forse aveva una Cadillac bianca. Dougie riceve un sacco di visite. Non ci faccio sempre attenzione. Non ho notato nessuno di sospetto, tranne che per le due donne che avevano la chiave. Me le ricordo perché la più vecchia mi ha guardato e c’era qualcosa di strano nei suoi occhi. Facevano paura. Aveva uno sguardo cattivo e folle.»

Ringraziai la signora Belski e le lasciai il mio biglietto da visita.

Quando fui sola in macchina con Ranger mi misi a pensare al viso che il Luna aveva visto sul vetro la notte che gli avevano sparato. Era sembrato così improbabile che non gli avevamo dato troppa importanza. Non era stato capace di identificare il volto o di descriverlo nei dettagli… a parte quello degli occhi spaventosi. E ora la signora Belski mi aveva parlato di una donna sulla sessantina con uno sguardo spaventoso. E poi c’era anche la donna che aveva telefonato al Luna e lo aveva accusato di avere qualcosa che le apparteneva. Forse si trattava della donna con la chiave. E come aveva avuto la chiave? Forse gliel’aveva data Dougie.

«E ora?» dissi a Ranger.

«Ora aspettiamo.»

«Non sono mai stata brava ad aspettare. Ho un’altra idea. Che ne dici di usarmi come esca? Che ne dici se chiamo Mary Maggie e le dico che ho quella cosa e che sono disposta a barattarla con il Luna? E poi le chiedo di farla avere a Eddie DeChooch…»

«Pensi che Mary Maggie sia il contatto?»

«È un salto nel buio.»

Morelli mi chiamò mezz’ora dopo che io e Ranger ci eravamo lasciati. «Cosa saresti tu?» urlò.

«Un’esca.»

«Gesù!»

«È una buona idea» dissi. «Gli faremo credere che ho quello che stanno cercando, qualunque cosa sia…»

«Faremo?»

«Io e Ranger.»

«Ranger.»

Mentalmente immaginai Morelli che serrava i denti.

«Non voglio che lavori con Ranger.»

«È il mio lavoro. Siamo cacciatori di taglie.»

«Non voglio neanche che tu faccia questo lavoro.»

«Be’, indovina un po’? L’idea che tu sia uno sbirro non mi fa impazzire.»

«Almeno il mio è un lavoro regolare» disse Morelli.

«Il mio lavoro è regolare quanto il tuo.»

«Non quando lavori con Ranger» ribatté. «È un tipo da manicomio. E non mi piace come ti guarda.»

«Come mi guarda?»

«Come ti guardo io.»

Mi accorsi di essere in iperventìlazione. Respira lentamente, mi dissi. Non farti prendere dal panico.

Mi liberai di Morelli, mi preparai un panino con burro di arachidi e olive e chiamai mia sorella.

«Questa faccenda del matrimonio mi preoccupa» le confessai. «Se non sei riuscita tu a rimanere sposata, quante possibilità può avere una come me?»

«Gli uomini non ragionano» sentenziò Valerie. «Ho fatto tutto quello che dovevo fare ed è andata male. Come è possibile?»

«Lo ami ancora?»

«Credo di no. Più che altro avrei voglia di prenderlo a pugni in faccia.»

«Okay» dissi. «Ora devo andare.» E riattaccai.

Mi misi a sfogliare le pagine dell’elenco telefonico ma non trovai nessuna Mary Maggie Mason. Non c’era da stupirsi. Chiamai Connie e le chiesi di procurarmi il numero. Connie sapeva come risalire ai numeri non riportati sull’elenco.

«Già che sei al telefono, ho un lavoretto veloce per te» disse Connie. «Melvin Baylor. Doveva presentarsi stamattina in tribunale ma non si è visto.»

Melvin Baylor abita a due isolati da casa dei miei. È un quarantenne, una bravissima persona, che si è rovinato a causa di un divorzio che lo ha praticamente lasciato in mutande. Come se non bastasse, due settimane dopo la sentenza di divorzio, Lois, la sua ex moglie, ha annunciato il suo fidanzamento con il vicino di casa, disoccupato.

La scorsa settimana la ex e il vicino si sono sposati. Il vicino è ancora disoccupato ma adesso guida una BMW nuova di zecca e guarda quiz televisivi su una bella TV a grande schermo. Melvin, invece, abita in un monolocale sopra il garage di Virgil Selig e guida una Nova marrone, vecchia dieci anni. La notte del matrimonio della sua ex, Melvin ha mandato giù la sua solita cena a base di cereali freddi e latte scremato e in preda alla depressione più cupa ha preso la sua Nova scoppiettante ed è andato al Casey’s Bar. Non essendo affatto abituato a bere, gli sono bastati due Martini per sbronzarsi. Poi è risalito in quel suo catorcio di macchina e, per la prima volta in vita sua, ha mostrato di avere un po’ di spina dorsale intrufolandosi al ricevimento di nozze della sua ex moglie e pisciando sulla torta, davanti a duecento persone. Si è così guadagnato l’applauso sincero di tutti gli uomini presentì in sala.

La madre di Lois, che aveva pagato ottantacinque dollari per quell’assurda torta a tre piani, ha fatto arrestare Melvin per oltraggio al pudore, condotta indecente, intrusione in una festa privata e distruzione di proprietà privata.

«Ci vado subito» dissi. «Preparami i documenti. Quando arrivo prendo anche il numero della Mason.»

Presi la borsa e gridai a Rex che non sarei stata via per molto. Feci il corridoio di corsa, scesi le scale e per poco non finii addosso a Joyce nell’ingresso.

«Mi hanno detto che è tutta la mattina che vai in giro a chiedere di DeChooch» disse. «DeChooch adesso è mio. Fatti da parte.»

«Come no.»

«E voglio tutti i documenti.»

«Li ho persi.»

«Vacca» disse.

«Stronza.»

«Culona.»

«Bastarda.»

Joyce fece dietrofront e uscì di corsa dall’edificio. Alla prossima cena a base di pollo a casa di mia madre, avrei preso l’osso della forcella ed espresso il desiderio di vedere Joyce con un bell’herpes.

Quando arrivai in ufficio era tutto tranquillo. La porta di Vinnie era chiusa. Lula dormiva sul divano. Connie aveva il numero di telefono di Mary Maggie e aveva preparato le carte dell’autorizzazione alla cattura di Melvin.

«A casa sua non risponde» mi informò Connie. «E ha telefonato al lavoro dicendo che era malato. Probabilmente è a casa che si nasconde sotto il letto, sperando che tutta questa faccenda sia solo un brutto sogno.»

Infilai nella borsa l’autorizzazione e chiamai Mary Maggie dal telefono di Connie.

«Ho deciso che voglio fare un accordo con Eddie» dissi alla Mason quando mi rispose. «Il problema è che non so come mettermi in contatto con lui. Ho pensato che visto che usa la tua macchina, magari potrebbe chiamarti, che so io, farti sapere che va tutto bene con l’auto.»

«Di che accordo si tratta?»

«Ho una cosa che Eddie sta cercando e voglio barattarla con il Luna.»

«Il Luna?»

«Eddie capirà.»

«Okay» disse la Mason. «Se passa di qui glielo riferirò, ma non ti garantisco che riuscirò a parlargli.»

«Certo» dissi. «Comunque non si sa mai.»

Lula aprì un occhio. «Oh-oh, stai dicendo di nuovo le bugie?»

«Faccio da esca» spiegai.

«Ma davvero.»

«Cosa sta cercando Chooch?» domandò Connie.

«Non lo so» ammisi. «Fa parte del problema.»

Solitamente la gente lascia il Burg quando divorzia. Melvin rappresentava un’eccezione. Penso che all’epoca del divorzio fosse semplicemente troppo sfinito e sopraffatto per poter minimamente cercare un posto dove andare.

Parcheggiai davanti a casa di Selig e girai intorno fino al garage. Era un garage sgangherato a due posti con sopra un alloggio decrepito di una sola stanza per un uomo solo. Salii le scale e bussai. Rimasi in ascolto alla porta. Niente. Bussai di nuovo, accostai l’orecchio al legno graffiato della porta e rimasi nuovamente in ascolto. Dentro qualcuno si muoveva.

«Ehi, Melvin» gridai. «Apri.»

«Vattene» disse lui da dietro la porta. «Non mi sento bene. Vattene.»

«Sono Stephanie Plum. Devo parlarti.»

La porta si aprì e Melvin mise fuori la testa. Era spettinato e aveva gli occhi iniettati di sangue.

«Questa mattina saresti dovuto andare in tribunale» gli ricordai.

«Non ce l’ho fatta. Sto male.»

«Avresti dovuto avvertire Vinnie.»

«Oops. Non ci ho pensato.»

Gli annusai il fiato. «Hai bevuto?»

Dondolò all’indietro sui tacchi e sul viso gli si allargò un sorriso da pazzoide. «Certo che no.»

«Hai un alito che sa di sciroppo per la tosse.»

«Grappa alla ciliegia. Me l’ha regalata qualcuno per Natale.»

Oh, cavolo. Non potevo prelevarlo in quello stato. «Melvin, dobbiamo farti passare la sbornia.»

«Sto bene. Tranne che non mi sento i piedi.» Abbassò lo sguardo. «Fino a un minuto fa li sentivo.»

Lo feci uscire di casa, chiusi la porta a chiave e scesi i gradini malandati rimanendo davanti a lui per evitare che si rompesse il collo. Lo caricai sulla mia CR-V e gli feci allacciare la cintura. Rimase appeso alla fettuccia della cintura, a bocca aperta e con gli occhi stralunati. Lo portai fino a casa dei miei e quasi dovetti trascinarlo dentro.

«Che bellezza, abbiamo visite» esclamò nonna Mazur aiutandomi a portare Melvin in cucina.

Mia madre stava stirando e canticchiava qualcosa.

«Non l’ho mai sentita cantare così» dissi alla nonna.

«È tutto il giorno che lo fa» rispose lei. «Sto cominciando a preoccuparmi. Ed è da un’ora che stira la stessa camicia.»

Feci sedere Melvin al tavolo e gli offrii un caffè e un panino al prosciutto.

«Mamma?» dissi. «Stai bene?»

«Sì, certo. Sto solo stirando, cara.»

Melvin girò gli occhi in direzione della nonna. «Lo sa cosa ho fatto? Ho uriiiiinato sulla torta di matrimonio della mia ex moglie. Ho pissssciato sulla glassa. Davanti a tutti.»

«Poteva andare peggio» rispose la nonna. «Pensa se avessi fatto la cacca sulla pista da ballo.»

«Lo sa cosa succede quando si piscia sulla glassa? Si rooovina. Si scioglie tutta.»

«E che mi dici degli sposini in cima alla torta?» chiese la nonna. «Hai pisciato anche su quelli?»

Melvin scosse la testa. «Non ci sono arrivato. Ho beccato solo il primo piano della torta.» Appoggiò la testa sul tavolo. «Non posso credere di aver fatto una cosa del genere.»

«Forse con un po’ di pratica, la prossima volta potresti arrivare fino all’ultimo piano della torta» commentò la nonna.

«Non andrò mai più a un matrimonio» disse Melvin. «Vorrei morire. Forse dovrei semplicemente uccidermi.»

Valerie entrò in cucina con il cesto della biancheria. «Che cosa succede?»

«Ho pisciato sulla torta» disse Melvin. «Ero ubriaco fradicio.» E poi svenne sul panino.

«Non posso portarlo in tribunale in questo stato» dissi.

«Può fare un pisolino sul divano» propose mia madre, riponendo il ferro da stiro. «Prendiamolo ognuno da una parte e trasciniamolo in soggiorno.»

Ziggy e Benny mi aspettavano nel parcheggio quando arrivai a casa.

«Abbiamo sentito che vuoi fare un accordo» esordì Ziggy.

«Esatto. Avete il Luna?»

«Non proprio.»

«Allora niente accordo.»

«Abbiamo passato in rassegna tutto il tuo appartamento e non abbiamo trovato niente» disse Ziggy.

«Infatti è da un’altra parte.»

«Dove?»

«Non dico niente se prima non mi fate vedere il Luna.»

«Potremmo farti molto male» minacciò Ziggy. «Potremmo costringerti a parlare.»

«La nonna del mio futuro marito non ne sarebbe affatto contenta.»

«Sai cosa penso?» disse Ziggy. «Penso che tu non abbia niente. Che tu stia raccontando balle.»

Alzai le spalle e mi voltai per entrare nel palazzo. «Quando trovate il Luna, chiamatemi e faremo l’accordo.»

Da quando sono diventata cacciatrice di taglie, diverse persone hanno fatto irruzione in casa mia. Compro le migliori serrature in commercio, ma non serve a niente. Entrano tutti. La cosa che mi fa più paura, è che mi ci sto abituando.

Ziggy e Benny non solo avevano lasciato tutto come avevano trovato… avevano persino sistemato. Mi avevano lavato i piatti e pulito il piano di lavoro. La cucina era linda e ordinata.

Squillò il telefono: era Eddie DeChooch.

«So che ce l’hai tu.»

«Esatto.»

«È a posto?»

«Sì.»

«Mando qualcuno a prenderlo.»

«Aspetta un minuto. E il Luna? L’accordo è che sono disposta a barattarlo con il Luna.»

DeChooch fece un verso di scherno. «Il Luna. Non capisco perché ti importi tanto di quel fallito. Il Luna non rientra nell’accordo. Ti darò dei soldi.»

«Non voglio soldi.»

«Tutti vogliono soldi. Okay, senti qua: che ne dici se ti rapisco e ti torturo fino a che non ti arrendi e me lo consegni?»

«La nonna del mio futuro marito ti farebbe certamente il malocchio.»

«Quella vecchia è matta da legare. Non credo a quelle stupidaggini.»

DeChooch riattaccò.

L’idea di fare da esca aveva smosso le acque, ma in quanto a recuperare il Luna non avevo fatto alcun progresso. Avevo un groppo in gola. Ero spaventata. Sembrava che nessuno avesse il Luna da barattare. Non volevo che Dougie o il Luna fossero morti. Peggio ancora, non volevo finire come Valerie, seduta al tavolo a piagnucolare a bocca aperta.

«Maledizione!» urlai. «Maledizione, maledizione, maledizione!»

Rex uscì dalla lattina di zuppa e mi guardò, fregandosi i baffi. Staccai un pezzo di merendina dall’angolo e glielo allungai. Rex ci si riempì le guance e poi ritornò alla sua lattina. Un criceto di poche pretese.

Chiamai Morelli e lo invitai per cena. «Però devi portarti la cena» dissi.

«Pollo fritto? Mega-sandwich con polpette? Cinese?» chiese.

«Vada per il cinese.»

Corsi in bagno, feci la doccia, mi depilai le gambe per evitare che quella stupida vocina che avevo in testa rovinasse tutto un’altra volta, e mi lavai i capelli con lo shampoo alle erbe. Frugai nel cassetto della biancheria finché non trovai il tanga di pizzo nero e reggiseno coordinato. Indossai la solita T-shirt e i jeans e diedi una ripassata di mascara e rossetto. Se anche mi avessero rapita e torturata, almeno prima mi sarei divertita un po’.

Bob e Morelli arrivarono proprio mentre mi stavo infilando i calzini.

«Ho preso involtini primavera, contorni, gamberetti, maiale, riso e della roba che credo fosse per qualcun altro ma è finita nella mia busta» disse Morelli. «E ho anche della birra.»

Posammo tutto sul tavolino basso in soggiorno e accendemmo la TV. Joe lanciò a Bob un involtino primavera. Il cane lo prese al volo e se lo mangiò in un solo boccone.

«Ne abbiamo parlato e Bob ha detto che mi farà da testimone» disse Morelli.

«Ci sarà un matrimonio, allora?»

«Credevo che ti fossi comprata un abito.»

Presi un po’ di gamberetti. «È in sospeso.»

«Qual è il problema?»

«Non voglio un matrimonio in grande. Mi sembra una stupidata. Ma mia madre e mia nonna non mollano e senza quasi accorgermene mi ritrovo addosso un abito da sposa. E hanno anche prenotato una sala. È come se qualcuno mi avesse aspirato il cervello dalla testa.»

«Forse dovremmo sposarci e basta.»

«Quando?»

«Non questa sera. Giocano i Rangers. Domani? Mercoledì?»

«Dici sul serio?»

«Certo. Lo mangi tu l’ultimo involtino?»

Il cuore mi smise di battere. Quando riprese mi sembrò che perdesse dei colpi. Sposata. Merda! Dovevo essere eccitata, no? Ecco perché mi sentivo sul punto di vomitare. Era per l’eccitazione. «Non dobbiamo fare analisi del sangue, chiedere permessi, o roba del genere?»

L’attenzione di Morelli fu catturata dalla mia T-shirt. «Carina.»

«La maglietta?»

Seguì con il dito il bordo di pizzo del mio reggiseno. «Anche questo è carino.» Fece scivolare le mani sotto la maglietta di cotone e improvvisamente me la ritrovai oltre la testa e poi per terra. «Forse dovresti farmi vedere cos’hai da offrire» disse. «Per convincermi che vale la pena sposarti.»

Sollevai un sopracciglio. «Forse sei tu che devi convincermi.»

Morelli mi fece scorrere lo zip dei jeans. «Dolcezza, prima che la serata sia finita mi supplicherai di sposarti.»

Sapevo per esperienza che era vero. Joe sapeva come far risvegliare una ragazza con un bel sorriso stampato sul viso. L’indomani, camminare sarebbe stato forse difficile, ma sorridere sarebbe stato facilissimo.

Capitolo 9

Il cercapersone di Morelli suonò alle cinque e mezzo di mattina. Joe guardò il display e tirò un sospiro. «Un informatore.»

Strizzai gli occhi nel buio mentre lui si muoveva nella stanza. «Devi proprio andare?»

«No, devo solo fare una telefonata.»

Andò in soggiorno. Ci fu un momento di silenzio. Poi riapparve sulla soglia della camera da letto. «Ti sei alzata stanotte per mettere via il cibo?»

«No.»

«Non c’è più niente sul tavolinetto.»

Bob.

Scesi a fatica dal letto, infilai la vestaglia e mi trascinai in soggiorno per vedere la carneficina.

«Ho trovato un paio di pezzi di fil di ferro» disse Morelli. «A quanto pare Bob si è mangiato sia il cibo che i contenitori.»

Bob faceva avanti e indietro sulla porta di casa. Aveva lo stomaco teso e sbavava.

Perfetto. «Tu fai la tua telefonata e io porto fuori Bob» dissi a Morelli.

Corsi in camera da letto, mi infilai jeans, felpa e gli stivali. Agganciai Bob al guinzaglio e presi le chiavi della macchina.

«Le chiavi della macchina?» chiese Morelli.

«Nel caso mi venisse voglia di una ciambella.»

Ciambella un corno. Bob stava per fare un’enorme cacca da cibo cinese. E l’avrebbe fatta nel giardino di Joyce. Forse sarei anche riuscita ad aizzarglielo contro.

Prendemmo l’ascensore perché non volevo che Bob si muovesse più del necessario. Salimmo di corsa in macchina e rombammo via dal parcheggio.

Bob aveva il muso appiccicato al finestrino. Ansimava e ruttava. Aveva lo stomaco così gonfio che era sul punto di scoppiare.

Schiacciai il pedale dell’acceleratore a tavoletta. «Tieni duro, bel cagnone» dissi. «Ci siamo quasi. Non manca molto.»

Mi fermai con uno stridore di freni davanti a casa di Joyce. Scesi dalla macchina e corsi sul lato passeggero, aprii lo sportello e Bob si catapultò fuori. Entrò come un razzo nel giardino di Joyce, si accucciò e fece una cacca che a occhio e croce poteva pesare due volte lui. Si fermò un secondo e poi vomitò una miscela di cartone e gamberetti in agrodolce.

«E bravo il nostro cagnone!» bisbigliai.

Bob si scrollò un po’ e poi si fiondò di nuovo in macchina. Chiusi bene lo sportello, saltai al posto di guida e ce ne andammo prima che il puzzo potesse arrivare ai nostri nasi. Un altro bel colpo messo a segno.

Morelli era alla macchina per il caffè quando entrai. «Niente ciambelle?» chiese.

«Mi sono dimenticata.»

«Non ti facevo il tipo che si dimentica delle ciambelle.»

«Avevo altro per la testa.»

«Tipo il matrimonio?»

«Sì, anche quello.»

Joe riempì due tazze di caffè e me ne porse una. «Ti sei mai accorta che il matrimonio sembra molto più importante la sera che il mattino?»

«Intendi dire che non ti vuoi più sposare?»

Morelli si appoggiò al piano della cucina e sorseggiò il caffè. «Non ti preoccupare, non ti libererai di me così facilmente.»

«Ci sono molte cose di cui non abbiamo mai parlato.»

«Tipo?»

«I bambini. Supponiamo che abbiamo dei bambini e poi scopriamo che non ci piacciono?»

«Se riusciamo a farci piacere Bob, allora ci può piacere tutto» disse Morelli.

Bob era nel soggiorno a leccare il laniccio della moquette.

Eddie DeChooch chiamò dieci minuti dopo che Morelli e Bob erano usciti per andare al lavoro.

«Come la mettiamo?» chiese. «Vuoi fare un accordo?»

«Voglio il Luna.»

«Quante volte devo dirti che non ce l’ho? E non so neanche dove sia. E non ce l’ha nessuno di quelli che conosco. Forse si è spaventato e se ne è andato.»

Non sapevo cosa dire perché anche quella era una possibilità.

«Lo stai tenendo al fresco, vero?» disse DeChooch. «Deve mantenersi bene. Sennò ci vado di mezzo io.»

«Tranquillo. È al fresco. Non immagini quanto si sia mantenuto bene. Trovami il Luna e lo vedrai coi tuoi occhi.» E riagganciai.

Di che accidenti parlava?

Telefonai a Connie ma non era ancora arrivata in ufficio. Le lasciai un messaggio chiedendole di richiamarmi e poi feci una doccia. Mentre ero sotto il getto d’acqua feci un breve resoconto della mia vita. Stavo dando la caccia a un anziano depresso che mi stava facendo passare per tonta. Due dei miei amici erano scomparsi senza lasciare tracce. A giudicare dalla mia faccia, dovevo essere reduce da un incontro con George Foreman. Avevo un abito da sposa che non intendevo indossare e una sala che non intendevo usare. Morelli voleva sposarmi. E Ranger voleva… Al diavolo, non volevo pensare a cosa Ranger aveva voglia di farmi. Oh sì, c’era anche Melvin Baylor, che per quel che ne sapevo era ancora sul divano dei miei.

Uscii dalla doccia, mi vestii, mi concentrai il minimo indispensabile sui capelli e Connie chiamò.

«Hai più sentito tua zia Flo o tuo zio Bingo?» le chiesi. «Devo sapere cosa è successo a Richmond. Devo capire cosa stanno cercando tutti quanti. È qualcosa che deve essere tenuto al fresco. Medicinali, forse.»

«Come sai che deve stare al fresco?»

«DeChooch.»

«Gli hai parlato?»

«Mi ha chiamato lui.» Certe volte la mia stessa vita mi sembra incredibile. Ho un MC che mi telefona. È o non è strano?

«Vedrò cosa posso scoprire» disse Connie.

Poi chiamai la nonna.

«Mi servono delle informazioni su Eddie DeChooch» dissi. «Magari potresti chiedere un po’ in giro.»

«Che cosa vuoi sapere?»

«Ha avuto un guaio a Richmond e adesso sta cercando qualcosa. Voglio sapere cos’è questo qualcosa.»

«Ci penso io!»

«Melvin Baylor è ancora là?»

«No. È tornato a casa.»

Salutai la nonna e qualcuno bussò alla porta. La socchiusi appena e guardai fuori. Era Valerie. Indossava una giacca nera di sartoria e dei pantaloni sportivi con una camicia bianca inamidata e una cravatta da uomo a righe rosse e nere. Le ciocche spettinate alla Meg Ryan erano tirate dietro le orecchie.

«Un nuovo look» dissi. «Qualche motivo particolare?»

«Oggi è il mio primo giorno da lesbica.»

«Sì, certo.»

«Dico sul serio. Mi sono detta, perché aspettare? Voglio ricominciare tutto da capo. Ho deciso di non perdere tempo. Voglio trovarmi un lavoro. E voglio trovarmi una ragazza. Non c’è motivo di rimanere a casa a piagnucolare per una relazione andata male.»

«Non credevo che dicessi sul serio l’altra sera. Hai mai avuto qualche… ehm, esperienza omosessuale?»

«No, ma quanto mai sarà difficile?»

«Non so se questa cosa mi piace» dissi. «Sono abituata a essere la pecora nera della famiglia. Questa faccenda potrebbe cambiare la mia posizione.»

«Non essere sciocca» ribatté Valerie. «Non importerà a nessuno se divento lesbica.»

Valerie era stata in California davvero troppo.

«A ogni modo» continuò «ho un colloquio di lavoro. Vado bene così? Voglio essere sincera riguardo al mio nuovo orientamento sessuale, ma non voglio neanche sembrare troppo mascolina.»

«Non vuoi un look esageratamente lesbico.»

«Esatto. Voglio un look lesbico ma chic al tempo stesso.»

Visti i miei limitati orizzonti alla voce relazioni lesbiche, non ero sicura di come fosse un look lesbico-chic. Le lesbiche che conoscevo le avevo viste perlopiù in televisione.

«Non mi convincono le scarpe» proseguì. «Le scarpe sono sempre così difficili.»

Portava dei graziosi sandali di vernice nera a tacco basso. Sulle unghie aveva uno smalto rosso vivo.

«Dipende da che tipo di scarpe decidi di mettere: da uomo o da donna» dissi. «Sei una lesbica donna o una lesbica uomo?»

«Ci sono due tipi di lesbiche?»

«Non lo so. Non ti sei informata in proposito?»

«No. Pensavo semplicemente che le lesbiche fossero unisex.»

Se aveva già dei problemi a essere lesbica quando aveva ancora addosso i vestiti, non osavo immaginare cosa sarebbe successo una volta che se li fosse tolti.

«Ho un colloquio per un lavoro al centro commerciale» disse Valerie. «E poi ne ho un altro in centro. Mi chiedevo se non potessimo fare cambio di macchina. Voglio fare buona impressione.»

«Che auto hai adesso?»

«La Buick del ’53 di zio Sandor.»

«Una macchina truccata» commentai. «Fa molto lesbica. Molto più della mia CR-V.»

«Non ci avevo mai pensato.»

Mi sentivo un po’ in colpa perché a dire il vero non sapevo se una Buick del ’53 fosse il genere di auto preferito dalle lesbiche. Era solo che non mi andava per niente di fare cambio. Odio quella Buick del ’53.

La salutai e le feci gli auguri mentre se ne andava ancheggiando. Rex era uscito dalla sua lattina e mi guardava. Le cose erano due: o pensava che fossi molto intelligente oppure che fossi uno schifo di sorella. Difficile dirlo con i criceti. È per questo che sono gli animali domestici ideali.

Presi la mia borsa nera di cuoio a tracolla, afferrai la giacca in denim e chiusi la porta a chiave. Era ora di tornare da Melvin Baylor. Mi sentivo un tantino nervosa. Eddie DeChooch era inquietante. Non mi piaceva la scioltezza con cui sparava alle persone da un momento all’altro. E ora che ero tra i minacciati mi piaceva ancora meno.

Scesi guardinga le scale e attraversai in fretta l’ingresso. Guardai oltre le porte a vetri, verso il parcheggio. Di DeChooch nemmeno l’ombra.

Dall’ascensore uscì il signor Morganstern.

«Salve, bellezza» disse. «Wow. A quanto pare sei finita contro una porta.»

«Fa parte del mio lavoro» gli risposi.

Il signor Morganstern era molto anziano. Probabilmente andava per i duecento.

«Ieri ho visto andar via il tuo amichetto. Sarà un po’ strambo, ma ha stile. Non si può non ammirare uno che ha stile» disse.

«Quale amichetto?»

«Quel Luna. L’unico che si veste da Superman e ha i capelli castani e lunghi.»

Il mio cuore perse un colpo. Non mi era venuto in mente che qualcuno dei miei vicini potesse sapere qualcosa del Luna. «Quando l’ha visto? A che ora?»

«Era mattina presto. Il forno qui vicino apre alle sei e ho fatto in tempo ad andare e tornare, quindi direi che erano le sette quando ho visto il tuo amico. Usciva proprio mentre io entravo. Era con una signora e sono saliti tutti e due su una grossa limousine nera. Non sono mai salito su una limousine. Dev’essere una bella esperienza.»

«Le ha detto qualcosa?»

«Mi ha detto: “Amico”…»

«Che aspetto aveva? Stava bene, sembrava preoccupato?»

«No. Aveva la faccia di sempre. Quella da scimunito, per capirci.»

«E com’era la donna?»

«Una bella donna. Non tanto alta, capelli castani. Giovane.»

«Quanto giovane?»

«Sulla sessantina, forse.»

«Per caso la limousine aveva qualche scritta? Il nome della ditta che le noleggia, per esempio.»

«Non mi pare. Era una semplice limousine nera.»

Feci dietrofront, risalii di sopra e cominciai a chiamare le varie ditte di noleggio limousine. Mi ci volle mezz’ora per telefonare a tutti i numeri in elenco. Solo due avevano noleggiato delle auto il mattino precedente. Si trattava di due Town, entrambe dirette all’aeroporto. Nessuna delle due era stata prenotata o prelevata da una donna.

Un altro buco nell’acqua.

Andai a casa di Melvin e bussai alla porta.

Melvin venne ad aprire con una busta di mais congelato in testa. «Sto morendo» disse, «Mi sta per esplodere la testa. Ho gli occhi in fiamme.»

Aveva una bruttissima cera. Peggio di quella del giorno prima, che era già pessima. «Ripasso più tardi» gli dissi. «Non bere più, d’accordo?»

Cinque minuti dopo ero in ufficio. «Ehi» fece Lula. «Guardate un po’. Oggi hai gli occhi tra il nero e il verde. Buon segno.»

«Joyce si è fatta vedere?»

«È arrivata un quarto d’ora fa» rispose Connie. «Era furiosa, farneticava di gamberetti in agrodolce.»

«Era impazzita» disse Lula. «Non si capiva niente. Non l’ho mai vista così fuori di sé. Immagino che tu non ne sappia niente di gamberetti in agrodolce…»

«No. Io no.»

«Come sta Bob? Lui ne sa qualcosa di gamberetti in agrodolce?»

«Bob sta bene. Ha avuto un problemino di digestione stamattina, ma ora è tutto risolto.»

Connie e Lula si scambiarono un cinque.

«Lo sapevo!» esclamò Lula.

«Sto facendo un giro per controllare delle case» dissi. «C’è qualcuno che vuole venire con me?»

«Oh-oh» fece Lula. «Quando cerchi compagnia è perché sei preoccupata che qualcuno ti stia dando la caccia.»

«Può darsi che Eddie DeChooch mi stia cercando.» Probabilmente mi stavano cercando anche altre persone, ma Eddie DeChooch sembrava il più pazzo e quello che avrebbe potuto spararmi con più probabilità. Anche se l’anziana con gli occhi spaventosi cominciava a fargli una discreta concorrenza.

«Dovremmo essere in grado di gestire Eddie DeChooch» disse Lula mentre tirava fuori la borsa dall’ultimo cassetto dell’archivio. «Dopo tutto è solo un povero vecchio pazzo e un po’ depresso.»

Che va in giro con una pistola.

Io e Lula ci fermammo come prima cosa dai coinquilini del Luna.

«Il Luna è qui?» domandai.

«No. Non si è visto. Forse è da Dougie. Ci va spesso.»

La tappa successiva fu a casa di Dougie. Avevo preso le chiavi di Dougie quando avevano sparato al Luna e non gliele avevo più restituite. Aprii la porta principale e insieme a Lula ci intrufolammo in casa. Sembrava tutto nella norma. Tornai in cucina e guardai dentro il frigorifero e il freezer.

«Che stai facendo?» chiese Lula.

«Niente, solo una controllatina.»

Uscite da casa di Dougie ci dirigemmo verso quella di Eddie DeChooch. Il nastro della polizia che delimitava la scena del delitto non c’era più e la metà casa di DeChooch era buia e sembrava disabitata.

Parcheggiai ed entrammo in casa. Anche qui, tutto nella norma. Giusto per curiosità diedi un’occhiata nel frigorifero e poi nel freezer. E fu lì che trovai un arrosto.

«Vedo che hai un debole per l’arrosto» disse Lula.

«Dougie ne aveva uno nel freezer e gli è stato rubato.»

«Oh-oh.»

«Potrebbe essere quello che è stato rubato.»

«Fammi capire bene. Pensi che Eddie DeChooch si sia intrufolato in casa di Dougie per rubare l’arrosto?»

A sentirlo suonava un po’ assurdo. «Potrebbe essere» dissi.

Andammo al circolo sociale e poi in chiesa, facemmo un giro nel parcheggio sotterraneo di Mary Maggie, un passaggio veloce alla Ace Pavers per finire con la casa di Ronald DeChooch nella zona nord di Trenton. Il nostro giro in macchina aveva coperto gran parte di Trenton e l’intero quartiere del Burg.

«Io ho chiuso» disse Lula. «Ho bisogno di un po’ di pollo fritto. Quello del Cluck in a Bucket, ultrapiccante e ultraunto. E voglio anche focacce e insalata russa e uno di quei frappè così densi che ti sembra di risucchiarti le budella quando provi a tirar su con la cannuccia.»

Il Cluck in a Bucket è ad appena un paio di isolati dall’ufficio. Hanno un enorme pollo girevole impalato su un’asta che spunta fuori dal parcheggio non asfaltato, e preparano degli ottimi cestini di pollo fritto.

Io e Lula ne prendemmo uno e ci sedemmo a un tavolo.

«Fammi capire bene, allora» disse Lula. «Eddie DeChooch va a Richmond per prelevare delle sigarette. Mentre DeChooch è a Richmond, Louie D tira le cuoia e qualcosa va storto. Non sappiamo cosa.»

Scelsi un pezzo di pollo e annuii.

«Choochy torna a Trenton con le sigarette, ne consegna un po’ a Dougie e poi si fa arrestare mentre cerca di portare il resto delle sigarette a New York.»

Annuii ancora.

«Poi Loretta Ricci muore e Chooch ci scappa.»

«Esatto. E poi Dougie scompare. Benny e Ziggy cercano Chooch. Chooch cerca qualcosa. Anche in questo caso, non sappiamo cosa. E qualcuno ruba l’arrosto di Dougie.»

«E adesso è scomparso anche il Luna» disse Lula. «DeChooch credeva che il Luna avesse quel qualcosa. Hai detto a Chooch che quel qualcosa l’avevi tu, e lui ti ha offerto dei soldi ma niente Luna.»

«Proprio così.»

«È la stronzata più grossa che abbia mai sentito» concluse Lula affondando i denti in una coscia di pollo. Smise di parlare e di masticare e spalancò gli occhi. «Uuh» fece. Poi cominciò ad agitare le braccia e a stringersi la gola.

«Stai bene?» le chiesi.

Si strinse ancora di più la gola.

«Battile dietro la schiena» consigliò qualcuno seduto a un altro tavolo.

«Non funziona» intervenne qualcun altro. «Bisognerebbe fare la manovra di Heimlich.»

Corsi alle spalle di Lula e provai a stringerla con le braccia sotto le ascelle per fare la famosa manovra, ma le mie braccia non erano abbastanza lunghe.

Da dietro il bancone uscì un tipo robusto, abbracciò Lula da dietro e diede una stretta.

«Oooh» fece Lula. E dalla bocca le volò un pezzo di pollo che andò a colpire in testa un ragazzino due tavoli più avanti.

«Devi dimagrire» dissi a Lula.

«Ho l’ossatura robusta» mi rispose.

Tutto tornò alla normalità e Lula cominciò a succhiare il frappè.

«Mentre stavo per morire mi è venuta un’idea» disse Lula. «Quello che devi fare è piuttosto chiaro. Devi dire a DeChooch che hai deciso di accettare i soldi. Poi lo becchiamo quando viene a ritirare quella cosa. E dopo che l’abbiamo preso lo facciamo parlare.»

«Finora non abbiamo avuto troppa fortuna.»

«Sì, ma che cosa hai da perdere? Alla fine lui non prenderà un bel niente.»

Vero.

«Dovresti chiamare Mary Maggie la lottatrice di wrestling e dirle che sei pronta a trattare» suggerì Lula.

Pescai il cellulare dalla borsa e feci il numero di Mary Maggie, ma non rispose nessuno. Lasciai nome e numero di telefono nella segreteria chiedendo di essere richiamata.

Stavo riponendo il cellulare nella borsa a tracolla quando Joyce entrò come una furia nel fast food.

«Ho visto la tua macchina nel parcheggio» disse Joyce. «Pensi di trovare DeChooch standotene qui a mangiare pollo?»

«Se ne è appena andato» disse Lula. «Avremmo potuto catturarlo, ma ci è sembrato troppo facile. Ci piacciono le sfide.»

«Voi due non sapete neanche cosa sia, una sfida» sibilò Joyce. «Siete due fallite. Ciccia e Svampita. Mi fate pena.»

«Già, faremo anche pena, ma non siamo noi ad avere problemi con i gamberetti in agrodolce» disse Lula.

Il commento colse Joyce alla sprovvista, incerta se Lula fosse coinvolta in quell’ignobile misfatto o se la stesse semplicemente provocando.

Il cercapersone di Joyce trillò. Joyce controllò sul display e atteggiò le labbra a un sorriso. «Devo andare. Ho una pista su DeChooch. È un peccato che voi due sciacquette non abbiate niente di meglio da fare che stare qui ad abbuffarvi. Anche se, a giudicare dal vostro aspetto, immagino che sia la cosa che vi riesce meglio.»

«Già, invece a giudicare dal tuo aspetto la cosa che ti riesce meglio è recuperare bastoncini e ululare alla luna» disse Lula.

«Fottiti» fece Joyce e scappò via verso la sua auto.

«Mmm» fece Lula. «Mi aspettavo qualcosa di più originale. Mi sa che Joyce è un po’ fuori forma oggi.»

«Sai cosa dovremmo fare? Dovremmo seguirla.»

Lula stava già raccogliendo il cibo rimasto sul piatto. «Mi leggi nel pensiero» disse.

Nel momento preciso in cui Joyce stava uscendo dal parcheggio, noi uscimmo dal fast food e salimmo sulla CR-V. Lula teneva sulle ginocchia il cestino di pollo e focacce, infilammo i frappè negli appositi reggibicchieri e partimmo.

«Scommetto che è una gran bugiarda» disse Lula. «Scommetto che non c’è nessuna pista. Probabilmente sta andando al centro commerciale.»

Mi tenni a un paio di auto di distanza in modo da non farmi individuare, e io e Lula rimanemmo con gli occhi incollati al parafango posteriore del SUV di Joyce. Dal lunotto si intravedevano due teste. C’era qualcuno seduto davanti, accanto a Joyce.

«Non sta andando al centro commerciale» osservai. «Sta andando nella direzione opposta. Sembrerebbe che si stia dirigendo in centro.»

Dieci minuti dopo cominciai ad avere una brutta sensazione riguardo alla destinazione di Joyce.

«So dove sta andando» dissi a Lula. «Sta andando a parlare con Mary Maggie Mason. Qualcuno deve averle detto della Cadillac bianca.»

Seguii Joyce nel parcheggio sotterraneo, mantenendomi a distanza. Parcheggiai due corsie più in là e io e Lula rimanemmo zitte e buone a guardare.

«Oh-oh» fece Lula «eccola. Lei e il suo portaborse. Stanno andando a parlare con Mary Maggie.»

Maledizione. Conosco Joyce fin troppo bene. So come lavora. Entrerà a tutta birra con la pistola puntata e perlustrerà stanza dopo stanza, dicendo che si tratta di un’irruzione del tutto legittima.

È proprio questo il genere di comportamento da cui deriva la cattiva reputazione dei cacciatori di taglie. E come se non bastasse, a volte funziona. Se Eddie DeChooch si sta nascondendo sotto il letto di Mary Maggie, Joyce lo troverà.

Da quella distanza non riuscivo a vedere bene il suo socio. Avevano entrambi T-shirt nera e pantaloni neri multitasche e dietro la maglietta, in giallo brillante, era scritto RISCOSSIONE GARANZIE.

«Cavolo» disse Lula «hanno un’uniforme. Come mai noi non abbiamo un’uniforme?»

«Forse perché non vogliamo sembrare cretine?» «Già. Stavo pensando più o meno la stessa cosa.» Saltai fuori dalla macchina e chiamai Joyce. «Ehi Joyce! Aspetta un minuto. Voglio parlarti.»

Joyce si girò sorpresa. Strizzò gli occhi quando mi vide e disse qualcosa al suo socio. Non riuscii a sentire cosa. Joyce schiacciò il pulsante di avvio dell’ascensore. Le porte si aprirono e lei e il suo socio scomparvero.

Lula e io arrivammo qualche secondo dopo che le porte si erano chiuse. Prememmo il pulsante e aspettammo qualche minuto.

«Sai cosa penso?» disse Lula. «Non credo che l’ascensore arriverà. Penso che Joyce lo stia tenendo occupato.»

Prendemmo le scale e salimmo dapprima veloci, poi sempre più lentamente.

«Ho qualcosa che non va alle gambe» disse Lula arrivate al quinto piano. «Ho le gambe di gomma. Non vogliono più funzionare.»

«Non ti fermare.»

«Per te è facile. Devi trascinare per le scale un corpo pelle e ossa, ma guarda cosa tocca fare a me.»

Per me non era per niente facile. Sudavo e riuscivo a malapena a respirare. «Dobbiamo metterci in forma» dissi. «Dovremmo andare in palestra.»

«Faccio prima a darmi fuoco.»

Lo stesso valeva anche per me.

Barcollammo via dalle scale e ci ritrovammo sul pianerottolo del settimo piano. La porta dell’appartamento di Mary Maggie era aperta e Joyce e la padrona di casa stavano urlando.

«Se non esci di qui immediatamente chiamo la polizia» urlò Mary Maggie.

«Io sono un’agente» le gridò Joyce per tutta risposta.

«Ma davvero? E dov’è il distintivo?»

«È qui, sulla catenina che ho al collo.»

«Quello è falso. L’hai comprato per corrispondenza. Ti avverto, chiamo la polizia e gli dico che ti spacci per piedipiatti.»

«Non mi spaccio per nessuno» ribatté Joyce. «Non ho mai detto di essere un’agente della polizia di Trenton. Sono un’agente per la riscossione di garanzie.»

«Mi sembri più l’agente di un circo» sibilò Lula.

Ora che ero più vicina, riconobbi la persona che era con Joyce. Si trattava di Janice Molari. Eravamo state compagne di scuola. Janice era una brava persona. Mi domandavo cosa ci facesse con Joyce.

«Stephanie» disse Janice. «Chi non muore si rivede.»

«Ci siamo viste l’ultima volta al matrimonio di Loretta Beeber.»

«Come va?» chiese Janice.

«Benone. E a te come va?»

«Benone. I miei figli vanno tutti a scuola ormai, così ho pensato che potevo lavorare part rime.»

«Da quanto stai con Joyce?»

«Più o meno da due ore» rispose. «È il mio primo lavoro.»

Joyce aveva una pistola fissata alla coscia e ci teneva sopra la mano. «Dimmi, che ci fai qui Plum? Mi stai seguendo per imparare i trucchi del mestiere?»

«Ora basta» disse Mary Maggie. «Tutti fuori! Subito!»

Joyce spinse Lula verso la porta. «L’hai sentita. Muoviti.»

«Ehi» fece Lula dando una botta a Joyce sulla spalla. «A chi hai detto di muoversi?»

«Lo sto dicendo a te, barile di lardo» fu la risposta.

«Sempre meglio essere un barile di lardo che vomito di gamberetti in agrodolce e cacca di cane» disse Lula.

Joyce fece un verso di stupore. «Come lo sai? Non ti ho raccontato tutto.» Aveva gli occhi sbarrati. «Ecco! Sei stata tu!» Oltre alla pistola, Joyce aveva una cintura multiuso completa di manette, spray per autodifesa, scacciacani e manganello. Estrasse la scacciacani dalla cintura e la caricò. «Adesso te la faccio pagare» disse Joyce. «Ti friggo. Te la tengo addosso finché non mi si scarica la batteria e non ti riduco in una poltiglia di grasso liquefatto.»

Lula abbassò lo sguardo sulle mani. Niente borsa. Le avevamo lasciate in macchina. Si infilò le mani nelle tasche. Anche lì, nessuna arma. «Oh-oh» fece.

Joyce le si scagliò contro e Lula strillò, si girò di scatto e corse via lungo il corridoio, in direzione delle scale. Joyce si lanciò subito all’inseguimento. E ci mettemmo tutte a correre dietro a loro due. Io per prima, seguita da Mary Maggie e quindi da Janice. Forse Lula non era un granché a salire le scale, ma una volta preso l’abbrivio, in discesa diventava assolutamente imprendibile. Era un treno merci in corsa.

Lula arrivò al parcheggio sotterraneo e oltrepassò svelta la porta. Era quasi giunta alla macchina quando Joyce la raggiunse e le puntò addosso la scacciacani. Lula si fermò di scatto, ondeggiò sul posto per un secondo e crollò a terra come un sacco di cemento. Joyce si avvicinò per spararle un altro colpo ma io la bloccai da dietro. La scacciacani le sfuggì di mano e cademmo entrambe a terra. Fu allora che Eddie DeChooch entrò nel garage sotterraneo alla guida della Cadillac bianca di Mary Maggie.

Janice lo avvistò per prima. «Ehi, è lui il vecchio della Cadillac bianca?» chiese.

Io e Joyce alzammo la testa per guardare. DeChooch avanzava lentamente in cerca di un parcheggio libero.

«Vai via!» urlò Mary Maggie a DeChooch. «Vai via dal parcheggio!»

Joyce riuscì a mettersi in piedi e partì di corsa verso DeChooch. «Prendilo!» urlò Joyce a Janice. «Non farlo scappare.»

«Prendilo?» chiese Janice, che era in piedi accanto a Lula. «È pazza o cosa? Come dovrei prenderlo?»

«Non voglio che succeda nulla alla mia macchina» urlò Mary Maggie rivolta a Joyce e a me. «Era la macchina di mio zio Ted.»

Lula intanto si era messa carponi e sbavava. «Cosa?» disse. «Chi?»

Io e Janice aiutammo Lula a tirarsi in piedi. Mary Maggie stava ancora urlando a DeChooch, il quale continuava a non accorgersi di nulla.

Consegnai Lula a Janice e corsi verso la mia Honda. Avviai il motore e girai nel parcheggio mettendomi dietro a DeChooch. Non so come sperassi di prenderlo, ma mi sembrava la cosa giusta da fare.

Joyce saltò fuori davanti a DeChooch, con la pistola puntata, e gli intimò di fermarsi. DeChooch premette sull’acceleratore e andò avanti. Joyce ruzzolò per mettersi in salvo e sparò un colpo, che mancò DeChooch ma colpì un finestrino posteriore dell’auto.

DeChooch prese a sinistra e svoltò in una corsia di auto parcheggiate. Gli andai dietro, curvando su due ruote mentre lo inseguivo nella sua folle corsa. Stavamo girando in tondo perché DeChooch non riusciva a trovare l’uscita.

Mary Maggie stava ancora urlando. E Lula era in piedi che agitava le braccia.

«Aspettami!» gridò Lula, pronta a scattare di corsa ma senza sapere bene in che direzione.

Feci un giro passandole davanti e Lula saltò a bordo. Lo sportello sul retro si era aperto e Janice si lanciò nel sedile posteriore.

Joyce era tornata a prendere la sua macchina e l’aveva posizionata in modo da bloccare parzialmente l’uscita. Aveva aperto lo sportello sul lato di guida e vi si riparò dietro con la pistola pronta a sparare.

DeChooch riuscì finalmente a imboccare la corsia giusta e si diresse verso l’uscita. Puntava diritto verso Joyce la quale sparò un colpo mancando completamente il bersaglio, poi si buttò di lato quando DeChooch arrivò a tutta velocità scardinando lo sportello dell’auto di Joyce e facendolo volare in aria.

Lanciai subito l’auto all’inseguimento di DeChooch. La parte anteriore destra della Cadillac era piuttosto malconcia, ma era chiaro che a Choochy non importava minimamente. Svoltò su Spring Street e rimasi incollata al suo paraurti. Dalla Spring si immise sulla Broad e improvvisamente ci ritrovammo in mezzo a un ingorgo.

«È nostro» gridò Lula. «Tutti fuori dalla macchina!»

Lula, Janice e io schizzammo via dalla macchina e corremmo a catturare DeChooch. Questo fece una retromarcia veloce e speronò la CR-V, facendola finire contro l’auto che era dietro di noi. Sterzò tutto il volante e si tirò fuori raschiando il paraurti contro l’auto che gli stava davanti.

Lula non smise mai di urlare. «Abbiamo la tua cosa» gridava. «E vogliamo i soldi. Abbiamo deciso che vogliamo i soldi!»

Ma DeChooch sembrò non sentire nulla di tutto ciò. Fece un’inversione a U e se ne andò, avvolgendoci in una nuvola di polvere.

Lula, Janice e io restammo a guardarlo mentre sfrecciava lungo la strada, poi rivolgemmo la nostra attenzione alla CR-V. Era accartocciata come una fisarmonica.

«Adesso sì che mi arrabbio» disse Lula. «Ha fatto versare tutto il mio frappè, e l’ho anche pagato caro.»

«Fammi capire bene» disse Vinnie. «Mi stai dicendo che DeChooch ti ha distrutto la macchina e ha rotto una gamba a Barnhardt.»

«A dire il vero è stato lo sportello della macchina che ha rotto la gamba a Joyce» dissi. «Quando è volato via ha fatto una specie di piroetta in aria e le è piombato sulla gamba.»

«Non ci saremmo accorte di niente se l’autoambulanza non ci fosse passata davanti mentre andava in ospedale. Stavano giusto per rimorchiarci la macchina quando è arrivata l’ambulanza con dentro Joyce tutta legata alla barella» disse Lula.

«E adesso dov’è DeChooch?» domandò Vinnie.

«È una domanda alla quale non sappiamo rispondere» disse Lula. «E visto che non abbiamo mezzi di trasporto non c’è neanche modo di scoprirlo.»

«E la tua macchina?» chiese Vinnie a Lula.

«È dal meccanico. La sto facendo revisionare e poi le danno una passata di vernice. Non me la consegnano prima della prossima settimana.»

Si rivolse a me. «E la tua Buick? Prendi sempre la Buick quando hai problemi con la macchina.»

«Ora la Buick ce l’ha mia sorella.»

Capitolo 10

«Puoi prendere una motocicletta che ho tenuto come garanzia» disse Vinnie. Il tale che me l’ha data era a corto di soldi e così mi ha lasciato la sua moto. Ho già un mucchio di roba inutile in garage. Non c’è spazio per la moto.»

Per comprarsi una garanzia, la gente si ripuliva casa. Vinnie accettava stereo, televisori, pellicce, computer e attrezzature da palestra. Una volta pagò una garanzia per Madame Zaretsky e in cambio ottenne il suo frustino e il cane ammaestrato.

In circostanze normali avrei colto al volo l’occasione di guidare una moto. Ho preso la patente un paio d’anni fa quando uscivo con un ragazzo che era proprietario di un negozio di accessori per motociclette. Mi sono interessata di motociclette di tanto in tanto, ma non ho mai avuto i soldi per comprarmene una. Ora il problema è un altro: la motocicletta non è il mezzo ideale per una che fa la cacciatrice di taglie.

«Non voglio una moto» dissi. «Che me ne faccio di una moto? Non posso prelevare un MG con la moto.»

«Già, e io?» disse Lula. «Come fai a sistemare una donna bella in carne come me su una moto? E i miei capelli? Dovrei mettere uno di quei caschi e me li rovinerebbe tutti.»

«Prendere o lasciare» disse Vinnie.

Tirai un sospiro profondo e alzai gli occhi al cielo. «La moto è compresa di caschi?»

«Sono nella stanza sul retro.»

Lula e io uscimmo a vedere la moto.

«Sarà di sicuro imbarazzante» disse Lula, mentre apriva la porta. «Sarà… aspetta, guarda qui. Porca di una miseria. Non è una stupidissima moto. È un bolide.»

Era una Harley-Davidson FXDL modello Dyna Low Rider, tutta nera con fiamme verdi e marmitte personalizzate. Lula aveva ragione. Non era la solita, stupidissima moto. Era una libidine.

«Sai guidare una di queste?» chiese Lula.

Le feci un sorriso. «Oh sì» risposi. «Oh sì.»

Io e Lula ci infilammo i caschi e montammo in sella. Inserii la chiave nell’accensione, diedi una bella botta di pedale ed ecco la Harley mettersi in moto sotto di me con un rombo. «Pronti al decollo» dissi. E poi ebbi un piccolo orgasmo.

Feci avanti e indietro un paio di volte nel vicolo dietro l’ufficio di Vinnie per prendere confidenza con la moto e poi partii diretta al palazzo dove abitava Mary Maggie. Volevo fare un altro tentativo e provare a parlarle.

«A quanto pare non è in casa» osservò Lula dopo il primo giro per il parcheggio sotterraneo. «Non vedo la sua Porsche.»

Non c’era da sorprendersi. Probabilmente era da qualche parte a valutare i danni alla Cadillac.

«Ha un incontro di wrestling questa sera» dissi a Lula. «Possiamo andare a parlarle là.»

Quando arrivai sotto casa controllai le auto che erano nel parcheggio. Niente Cadillac bianca, niente limousine nera, niente auto di Ziggy e Benny, niente Porsche targata MMM-YUM, niente auto superlusso — e probabilmente rubata — di Ranger. Solo il fuoristrada di Joe.

Quando entrai in casa trovai Morelli spaparanzato davanti alla TV con in mano una birra.

«Mi hanno detto che hai distrutto la macchina» disse.

«Sì, ma io sto bene.»

«Mi hanno detto anche quello.»

«DeChooch è svitato. Spara alle persone. Le prende sotto di proposito. Che devo fare con lui? Non è un comportamento normale… neanche fosse un vecchio malavitoso. Va bene che è depresso, ma insomma.» Andai in cucina e diedi a Rex un pezzetto di focaccia che mi era rimasta dal pranzo.

Morelli mi seguì in cucina. «Come sei venuta a casa?»

«Vinnie mi ha prestato una moto.»

«Una moto? Che genere di moto?»

«Una Harley. Una Dyna Low Rider.»

Gli si piegarono occhi e bocca in un sorriso. «Vai in giro su uno di quei superbolidi?»

«Sì. E ho già avuto un orgasmo.»

«Tutto da sola?»

«Sì.»

Morelli scoppiò a ridere e mi si avvicinò, schiacciandomi contro il piano di lavoro e cingendomi la vita, la bocca che mi accarezzava l’orecchio e il collo. «Scommetto che riesco a fare di meglio.»

Il sole era tramontato e in camera da letto era buio. Morelli dormiva accanto a me. Persino nel sonno Joe trasmetteva una sensazione di energia trattenuta. Aveva un corpo snello e sodo. La bocca era morbida e sensuale. I lineamenti del viso si erano fatti più spigolosi con l’età e lo sguardo era diventato più attento. Ne aveva viste tante con il suo lavoro di poliziotto. Forse troppe.

Buttai l’occhio alla sveglia. Le otto. Le otto! Cavolo. Dovevo essermi addormentata anch’io. Un attimo prima facevamo l’amore e adesso si erano fatte le otto!

Svegliai Morelli con qualche scossone.

«Sono le otto!» dissi.

«Oh-oh.»

«Bob! Dov’è Bob?»

Joe saltò via dal letto. «Merda! Sono venuto qui direttamente dal lavoro. Bob non ha cenato!»

Il che significava che Bob si era probabilmente mangiato tutto ormai… divano, televisore, battiscopa.

«Vestiti» disse Morelli. «Daremo da mangiare a Bob e poi andremo a farci una pizza. Dopo puoi rimanere da me.»

«Non posso. Devo lavorare questa sera. Io e Lula non siamo riuscite a parlare con Mary Maggie oggi, quindi vado allo Snake Pit. Ha un incontro alle dieci.»

«Non ho tempo per discutere. Probabilmente Bob si è già mangiato anche il muro. Vieni da me quando hai finito allo Snake Pit.» Mi prese e mi diede un bacio, poi corse via.

«Okay» dissi, ma Morelli se ne era già andato.

Non ero sicura di come ci si dovesse vestire per andare allo Snake Pit, ma un’acconciatura da puttanella mi sembrava la scelta più giusta e quindi mi diedi da fare con bigodini e cotonatura. Alla fine ero più alta di quasi dieci centimetri. Per involgarirmi ancora di più mi feci un trucco pesante, indossai una minigonna elasticizzata nera e tacchi da dieci centimetri. Mi sentivo una pantera. Presi la giacca di pelle e le chiavi della macchina dal piano della cucina. Un momento. Quelle non erano le chiavi della macchina. Erano quelle della moto. Merda! Non sarei mai riuscita a ficcare quell’acconciatura dentro il casco.

Niente panico, mi dissi. Riflettiamo un attimo. Dove puoi trovare una macchina? Valerie. Valerie ha la Buick. Ora la chiamo e le dico che vado in un posto dove ci sono donne mezze nude. Del resto è questo quello che le lesbiche vogliono vedere, giusto?

Dopo dieci minuti, Valerie venne a prendermi sotto casa. Portava ancora i capelli dietro le orecchie e si era completamente struccata a parte il rossetto rosso sangue. Portava scarpe nere stringate da uomo, un gessato grigio con pantaloni sportivi e una camicia bianca che teneva sbottonata. Non cedetti alla tentazione di verificare se dalla scollatura si intravedesse un petto villoso.

«Come è andata oggi?» le chiesi.

«Ho delle scarpe nuove! Guardale. Non sono favolose? Penso che siano le scarpe perfette per una lesbica.»

Bisognava ammetterlo: Valerie non prendeva le cose alla leggera. «Intendevo il lavoro.»

«Non è andata bene. C’era da aspettarselo, immagino. Se all’inizio non riesci…» Si appoggiò al volante e riuscì a far curvare la Buick. «Però ho iscritto le bambine a scuola. È già qualcosa.»

Lula stava aspettando sul marciapiede quando arrivammo a casa sua.

«Questa è mia sorella Valerie» dissi a Lula. «Viene con noi perché ha la macchina.»

«A quanto pare compra i vestiti al reparto moda maschile.»

«Ci sta facendo un giro di prova.»

«Per me va bene» disse Lula.

Il parcheggio dello Snake Pit era strapieno, quindi fummo costrette a lasciare la macchina lungo la strada, a mezzo chilometro da lì. Quando arrivammo alla porta d’ingresso mi facevano già malissimo i piedi e stavo cominciando ad apprezzare i vantaggi dell’essere lesbiche. Le scarpe di Valerie sembravano belle comode.

Ci sedemmo a un tavolo in fondo alla sala e ordinammo da bere.

«Come facciamo a parlare con Mary Maggie?» domandò Lula. «Da quaggiù non si vede quasi niente.»

«Ho controllato il locale. Ci sono solo due porte, così dopo che Mary Maggie avrà finito il suo incontro ci metteremo ognuna a una porta e la fermeremo prima che riesca a uscire.»

«Mi sembra un buon piano» approvò Lula, ingollando il suo drink tutto d’un fiato, pronta a ordinarne un altro.

In sala c’erano alcune donne con accompagnatore, ma il locale era perlopiù frequentato da uomini apparentemente seri che speravano che in tutto quel dimenarsi nel fango saltasse via qualche perizoma, il che immagino sia l’equivalente del placcaggio di un quarterback.

Valerie aveva gli occhi spalancati. Difficile dire se per l’entusiasmo o l’isteria.

«Sei sicura che qui incontreremo delle lesbiche?» urlò per farsi sentire sopra il chiasso della sala.

Io e Lula ci guardammo intorno. Non vedevamo nessuna lesbica. Almeno nessuna vestita come Valerie.

«Non si sa mai quando possono arrivare» disse Lula. «Forse dovresti provare a bere qualcos’altro. Mi sembri un po’ pallida.»

Quando vennero a prendere le ordinazioni lasciai un biglietto da consegnare a Mary Maggie. Le indicai il tavolo a cui sedevo e aggiunsi che avevo un messaggio da riferire a Eddie DeChooch.

Mezz’ora dopo stavo ancora aspettando una risposta da Mary Maggie. Lula si era già bevuta quattro Cosmopolitan e non dava il minimo segno di cedimento, mentre Valerie si era tracannata due bicchieri di Chablis ed era molto allegra.

Nella fossa dei combattimenti le donne si prendevano a botte. Di tanto in tanto l’ubriaco di turno finiva nella melma e veniva sbattuto di qua e di là finché non ingoiava una quintalata di fango e veniva poi cacciato dal buttafuori. Era tutto un gran tirare di capelli, schiaffoni e rotolamenti. Dopo tutto il fango è scivoloso. Fino a quel momento non era stato strappato nessun perizoma, ma c’era una serie di seni nudi spalmati di fango, tanto siliconati da sembrare sul punto di scoppiare. Tutto sommato, la cosa non doveva essere poi così piacevole e mi sentivo contenta di avere un lavoro dove mi sparavano. Sempre meglio che sguazzare mezza nuda nel fango.

Una voce annunciò l’incontro di Mary Maggie, la quale si presentò sul ring con un bikini color argento. Evidentemente era tutto studiato. Porsche argentata, bikini argentato. Fu accolta da un tifo rumoroso. Mary Maggie è famosa. Poi uscì l’altra lottatrice. Il suo nome da combattimento era Animale e, detto fra noi, non mi sembrava si mettesse bene per Mary Maggie. Gli occhi di Animale erano iniettati di sangue e anche se da lontano non vedevo benissimo, ero quasi sicura che avesse dei serpenti tra i capelli.

Il presentatore suonò la campana e le due donne prima si studiarono, poi si scagliarono l’una contro l’altra. Proseguirono così per un po’, ma poi Mary Maggie scivolò e Animale le fu subito sopra.

L’intera sala si alzò in piedi, comprese Lula, Valerie e io. Urlavamo tutte e tre, incitando Mary Maggie a sbudellare Animale. Ovviamente Mary Maggie era troppo raffinata per sbudellare Animale, così si rotolarono nel fango per qualche minuto e poi cominciarono a stuzzicare il pubblico, in attesa del povero maschio ubriaco di turno.

«Tu» disse Mary Maggie, indicando nella mia direzione.

Mi voltai, sperando di trovarmi alle spalle qualche libidinoso che agitava una banconota da venti.

Mary Maggie prese il microfono. «Abbiamo un ospite speciale questa sera. Abbiamo la Cacciatrice di Taglie, alias la Sfascia Cadillac, alias la Rompipalle.»

Oh cavolo.

«Vuoi parlare con me, Cacciatrice di Taglie?» chiese Mary Maggie. «Fatti avanti.»

«Magari più tardi» dissi, riflettendo sul fatto che sotto i riflettori Mary Maggie era tutta diversa dal topo di biblioteca che mi era sembrata inizialmente. «Parliamo dopo lo spettacolo. Non voglio farti sprecare neanche un minuto del tuo tempo prezioso mentre sei in scena.»

Poi, improvvisamente, mi ritrovai sollevata in aria da due omoni. Mi stavano spostando, sedia compresa, a un metro e mezzo da terra, verso il ring.

«Aiuto!» gridai. «Aiuto!»

Rimasi sospesa sopra il ring. Mary Maggie sorrideva. Animale faceva brutti versi e ruotava la testa. Poi la sedia si inclinò e volai in caduta libera nel fango.

Animale mi tirò in piedi prendendomi per i capelli. «Rilassati» disse. «Non sentirai niente.»

Poi mi strappò la camicia. Per fortuna avevo il reggiseno buono di pizzo Victoria’s Secret.

Un istante dopo, urlavamo tutte aggrovigliate. Mary Maggie Mason, Animale e io. Poi si fece avanti Lula.

«Ehi» fece Lula. «Veniamo qui per fare due chiacchiere e tu rovini la gonna della mia amica. Ti faremo pagare il conto della lavanderia.»

«Ah sì? Bene, metti in conto anche questo» disse Animale prendendola per un piede. Lula perse l’equilibrio e finì col sedere nel fango.

«Ora mi arrabbio davvero» disse Lula. «Stavo cercando di spiegarti come stanno le cose, ma ora mi arrabbio davvero.»

Ero riuscita a mettermi in piedi mentre Lula stava battibeccando con Animale. Mi stavo togliendo il fango dagli occhi quando Mary Maggie Mason mi saltò addosso e mi fece finire di nuovo a faccia in giù nel fango. «Aiuto» urlai. «Aiuto!»

«Lascia in pace la mia amica» disse Lula. E prese Mary Maggie per i capelli facendola volare fuori dal ring come fosse una bambola di pezza. Bang! Dritta contro un tavolo a bordo ring.

Dai lati sbucarono altre due lottatrici e saltarono dentro al ring. Lula ne scagliò fuori una e si sedette sopra l’altra. Superando le funi con un salto, Animale fu sopra a Lula, che emise un grido agghiacciante e si buttò nel fango insieme a lei.

Mary Maggie era tornata nel ring. Anche l’altra lottatrice era tornata nel ring. Entrò un tipo ubriaco. Ora eravamo in sette là dentro, a rotolarci l’uno sull’altro. Mi aggrappavo a qualsiasi cosa, cercando di non scivolare nel fango e non so come, mi ritrovai in mano il perizoma di Animale. Poi tutti cominciarono a fischiare e incitare, e i buttafuori dovettero saltare anche loro nel ring per separarci.

«Ehi» fece Lula, ancora in movimento «ho perso una scarpa. È meglio che qualcuno la ritrovi o qui non ci metto più piede.»

Il direttore di scena prese Lula per un braccio. «Non si preoccupi. Ci pensiamo noi. Da questa parte. Là per quella porta.»

E prima che potessimo capire cosa stava succedendo ci ritrovammo in strada. Lula con una scarpa sola e io senza camicia. La porta si aprì di nuovo e Valerie fu spinta fuori insieme alle nostre giacche e borse.

«Quell’Animale aveva qualcosa di strano» disse Valerie. «Quando le hai strappato via le mutande, ho visto che laggiù non aveva peli!»

Valerie mi diede un passaggio fino a casa di Morelli e poi mi salutò.

Joe venne ad aprire e mi accolse con un commento scontato. «Sei ricoperta di fango.»

«Le cose non sono andate esattamente come da programma.»

«Mi piace questo look senza camicia. Mi ci potrei abituare.»

Mi spogliai fuori dalla porta di casa e Morelli portò i vestiti direttamente nella lavatrice. Ero ancora lì quando tornò. Avevo i miei dieci centimetri di tacchi, fango e niente altro.

«Vorrei farmi una doccia» gli dissi «ma se non vuoi che ti sporchi le scale di fango mi puoi buttare una secchiata d’acqua nel cortile sul retro.»

«Penserai che sono malato» disse Morelli «ma mi sta venendo un’erezione.»

Morelli abita in una casetta a schiera sulla Slater, a breve distanza dal Burg. L’ha ereditata da sua zia Rose ed è andato a viverci. Va’ a capire. Il mondo è tutto un mistero. Quella casa mi ricordava molto quella dei miei, piccola e senza tanti lussi, ma piena di buoni profumi e bei ricordi. Nel caso di Morelli i profumi erano quelli di pizza riscaldata, cane, e vernice fresca. Un po’ alla volta Morelli stava risistemando le finestre.

Eravamo al tavolo della cucina… io, Morelli e Bob. Joe stava mangiando una fetta di pane tostato alla cannella e uvetta e beveva caffè.

Io e Bob mangiammo tutto quello che c’era nel frigorifero. Niente di meglio di una ricca colazione dopo una serata di lotta nel fango.

Avevo addosso una delle T-shirt di Morelli, mi aveva prestato un paio di pantaloni felpati ed ero scalza, dato che le scarpe erano tutte bagnate e sarebbero probabilmente finite nella spazzatura.

Joe era vestito per andare al lavoro: anonimo abbigliamento da piedipiatti.

«Non capisco» dissi. «Questo tipo se ne va in giro su una Cadillac bianca e la polizia non riesce a prenderlo. Come è possibile?»

«Probabilmente non va poi così tanto in giro. È stato avvistato un paio di volte, ma non da gente in grado di metterglisi alle calcagna. Una volta da Mickey Greene mentre effettuava servizio di pattuglia in bicicletta. Un’altra volta da una delle nostre auto che però era bloccata nel traffico. E poi non è una priorità. Nessuno è stato espressamente incaricato di trovarlo.»

«È un assassino. Non è forse una priorità?»

«Non è esattamente ricercato per omicidio. Loretta Ricci è morta di infarto. Al momento è ricercato esclusivamente per essere interrogato.»

«Credo che abbia rubato un arrosto dal freezer di Dougie.»

«Questo cambia tutto. Così sì che finirà nella lista delle priorità.»

«Non ti sembra strano che abbia rubato un arrosto?»

«Quando uno è poliziotto da tanto tempo come me, niente sembra più strano.»

Morelli finì di bere il caffè, risciacquò la tazza e la mise nella lavastoviglie. «Devo andare. Tu rimani qui?»

«No. Mi serve un passaggio a casa. Devo fare delle cose e vedere un po’ di gente.» E poi un paio di scarpe non guasterebbe.

Morelli mi accompagnò davanti al portone di casa. Entrai scalza, con addosso i vestiti di Joe e i miei in mano. Il signor Morganstern era nell’ingresso.

«Dev’essere stata una gran notte» disse. «Ti do dieci dollari se mi racconti i particolari.»

«Neanche per sogno. Lei è troppo giovane.»

«E se te ne dessi venti? Però devi aspettare il primo del mese prossimo quando mi arriva l’assegno della pensione.»

Dieci minuti dopo ero già vestita e fuori dalla porta. Volevo arrivare da Melvin Baylor prima che uscisse per andare al lavoro. In onore della Harley mi ero messa stivali, jeans, T-shirt e il giubbotto Schott di pelle. Rombai via dal parcheggio e sorpresi Melvin mentre cercava di aprire la macchina. La serratura si era arrugginita e Melvin non riusciva a far girare la chiave. Perché poi si prendesse la briga di chiuderla a chiave, proprio non lo capivo. Nessuno gliela avrebbe mai rubata. Era in giacca e cravatta e, tranne che per le borse scure sotto gli occhi, sembrava stesse molto meglio.

«Mi spiace scocciarti» dissi «ma devi andare in tribunale a fissare un’altra data per l’udienza.»

«E il lavoro? Devo andare al lavoro.»

Melvin Baylor era solo un povero sempliciotto. Dove avesse preso il coraggio di pisciare sulla torta rimaneva un mistero.

«Dovrai entrare in ritardo. Chiamo Vinnie e gli dico di aspettarci in Comune. Non dovrebbe volerci molto.»

«Non riesco ad aprire la macchina.»

«Allora è la tua giornata fortunata, perché hai vinto un giro sulla mia moto.»

«Odio questa macchina» disse Melvin. Fece un passo indietro e diede un calcio allo sportello facendo cadere un grosso pezzo di metallo arrugginito. Prese lo specchietto laterale e lo strappò via gettandolo poi a terra. «Fottutissima macchina» disse, allontanando con un calcio lo specchietto che finì in mezzo alla strada.

«Ben fatto» dissi. «Ma ora dobbiamo andare.»

«Non ho finito» disse Melvin, provando la chiave nella serratura del portabagagli, ma senza riuscire ad aprirlo. «Cazzo!» urlò. Appoggiandosi sul paraurti salì sul portabagagli e ci saltò sopra più volte. Poi salì sul tettuccio e continuò a saltare.

«Melvin» dissi «stai un tantino esagerando.»

«Odio la mia vita. Odio la mia macchina. Odio questo vestito.» Per poco non cadde, saltò goffamente giù dall’auto e provò di nuovo ad aprire il portabagagli. Questa volta ci riuscì. Frugò dentro e tirò fuori una mazza da baseball. «Ah-ah!» fece.

Oh cavolo.

Melvin brandì la mazza e cominciò a menare colpi sulla macchina. La colpì con forza, fino a sudare. Diede un colpo al finestrino laterale che andò in frantumi, facendo volare i pezzi di vetro. Fece un passo indietro e si guardò la mano. Si era fatto un bel taglio. Sangue dappertutto.

Merda. Smontai dalla moto e feci sedere Melvin sul marciapiede. Tutte le casalinghe dell’isolato erano uscite in strada per assistere allo spettacolo. «Mi serve un asciugamano» dissi. Poi chiamai Valerie e le chiesi di portare la Buick a casa di Melvin.

Valerie arrivò dopo un paio di minuti. Melvin aveva la mano avvolta in un asciugamano, ma sia il vestito sia le scarpe erano macchiati di sangue. Valerie scese dall’auto, diede un’occhiata a Melvin e stramazzò. Bang. Sul prato dei Selig. Lasciai Valerie distesa sul prato e accompagnai Melvin al pronto soccorso. Lo affidai a un’infermiera e tornai a casa di Melvm. Non avevo tempo di aspettare che gli mettessero i punti. A meno che non gli fosse venuto un collasso per emorragia, avrebbe probabilmente dovuto attendere per delle ore prima di vedere un medico.

Valerie era in piedi, sul marciapiede, e aveva un’aria confusa.

«Non sapevo cosa fare» disse. «Non so guidare la motocicletta.»

«Nessun problema. Puoi riprenderti la Buick.»

«Cosa è successo a Melvin?»

«Una crisi di nervi. Si riprenderà.»

La mia tappa successiva fu l’ufficio. Pensavo di essermi vestita in modo impeccabile, ma Lula mi fece sentire una vera dilettante. Portava degli stivali comprati al negozio della Harley, pantaloni in pelle, giubbotto senza maniche in pelle e teneva le chiavi legate a una catena agganciata alla cintura. Sullo schienale della sedia aveva appoggiato una giacca di pelle che aveva una fila di frange lungo tutto il braccio e lo stemma della Harley cucito sulla schiena.

«Nel caso dovessimo uscire in moto» disse.

Terrificante biker donna in completo di pelle nera semina il caos per le strade. Traffico bloccato per chilometri a causa dei curiosi che si fermano a guardare.

«Sarà meglio che ti sieda e ascolti quello che ho da dirti a proposito di DeChooch» mi disse Connie.

Guardai Lula. «Tu sai già di DeChooch?»

Il viso di Lula si aprì in un sorriso. «Sì, Connie me ne ha parlato stamattina quando sono arrivata. E ha ragione, ti conviene sederti.»

«Lo sanno solo quelli della famiglia» iniziò Connie. «Finora è rimasto praticamente un segreto quindi non devi dirlo a nessuno.»

«Di che famiglia stiamo parlando?»

«Di quella famiglia.»

«Ricevuto.»

«Le cose stanno così…»

Lula stava già ridacchiando, incapace di trattenersi. «Scusate» disse. «Mi fa crepare dal ridere. Aspetta di sentire tutto e ti rotolerai per terra.»

«Eddie DeChooch aveva messo in piedi un accordo per contrabbandare delle sigarette» iniziò Connie. «La sua idea era di fare una piccola operazione che potesse gestire da solo. Così ha affittato un camion ed è andato a Richmond a prelevare gli scatoloni di sigarette. Mentre è a Richmond, a Louie D viene un infarto e muore. Come saprai, Louie D è originario del New Jersey. Ha sempre vissuto qui e poi, un paio di anni fa, si era trasferito a Richmond per occuparsi di affari. Così quando Louie D rimane stecchito, DeChooch prende il telefono e informa immediatamente la famiglia qui nel New Jersey.

«La prima persona che DeChooch chiama, ovviamente, è Anthony Thumbs.» Connie si fermò, si sporse in avanti e abbassò la voce. «Se ti dico Anthony Thumbs, sai a chi mi riferisco?»

Annuii in silenzio. Anthony Thumbs controlla Trenton. Il che non è poi un grande onore, dato che Trenton non è quel che si dice il centro dell’universo malavitoso. Il suo vero nome è Anthony Thumbelli ma tutti lo chiamano Anthony Thumbs. Visto che Thumbelli non è un nome tipicamente italiano, presumo che sia stato coniato a Ellis Island e tale è rimasto, proprio come il cognome di mio nonno, Plumerri, è stato accorciato in Plum da un impiegato dell’ufficio immigrazione oberato di lavoro.

Connie proseguì. «Ad Anthony Thumbs, Louie D non è mai piaciuto troppo, ma in qualche modo misterioso è suo parente, e Anthony sa che la tomba di famiglia è a Trenton. Così Anthony Thumbs agisce da bravo capofamiglia e dice a DeChooch di scortare Louie D in New Jersey per la sepoltura. Solo che Anthony Thumbs, che non è certo noto per la sua eloquenza, dice a Eddie DeChooch, che dal canto suo non ci sente, “Portamelo, per l’onore”. Testuali parole. Anthony Thumbs dice a Eddie DeChooch: “Portamelo, per l’onore”.

«DeChooch sa che non corre buon sangue tra Louie D e Anthony Thumbs. Pensa che si tratti di una vendetta e crede che Thumbs gli abbia detto: “Portami il suo cuore”.»

Rimasi a bocca aperta. «Cosa?»

Connie stava ghignando mentre le guance di Lula erano rigate di lacrime per il troppo ridere.

«Questa è la parte che preferisco» disse Lula. «È la mia preferita.»

«Giuro su Dio» disse Connie. «DeChooch pensava che Anthony Thumbs volesse il cuore di Louie D e così, di notte, Eddie fa irruzione nell’impresa di pompe funebri, trincia per benino Louie D ed estrae il cuore. A quanto pare ha dovuto spaccargli un paio di costole. L’impresario delle pompe funebri ha detto…» Connie dovette fermarsi un momento per ricomporsi. «L’impresario delle pompe funebri ha detto di non aver mai visto un lavoro così ben fatto.»

Lula e Connie ridevano così tanto che dovettero tenersi ben ferme con le mani sulla scrivania di Connie per non rotolare per terra.

Mi tappai la bocca con una mano, indecisa se ridere insieme a loro o dare ascolto al mio stomaco e vomitare.

Connie si soffiò il naso e si asciugò le lacrime con un fazzolettino pulito. «Okay, allora DeChooch mette il cuore in un frigo portatile con un po’ di ghiaccio e parte per Trenton con le sigarette e il cuore. Porta il frigo ad Anthony Thumbs, orgoglioso come non mai, e gli dice che lì dentro c’è il cuore di Louie D.

«Anthony dà in escandescenze, ovviamente, e dice a DeChooch di riportare quel fottutissimo cuore a Richmond e di farlo rimettere dentro a Louie D dall’impresario delle pompe funebri.

«A tutti viene fatto giurare di mantenere la cosa segreta perché non solo è imbarazzante, ma è anche una pericolosa mancanza di rispetto tra due famiglie che, quando non ci sono problemi particolari, già non vanno molto d’accordo. E come se non bastasse, la moglie di Louie D, che è una donna molto religiosa, è fuori di sé perché il corpo del marito è stato profanato. Sophia DeStefano si è proclamata protettrice dell’anima immortale di Louie ed è fermamente decisa a volerlo vedere sepolto tutto intero. Ha dato a DeChooch un ultimatum per cui se non riporta a Louie il suo cuore, lo trasformerà in un hamburger.»

«Un hamburger?»

«Tra le tante attività di Louie c’era anche uno stabilimento per la lavorazione delle carni.»

Non riuscii a trattenere un brivido.

«Adesso arriva la parte più confusa. Non si sa come, ma DeChooch perde il cuore.»

Suonava tutto così strano che mi chiesi se Connie mi stesse raccontando la verità oppure se lei e Lula avessero architettato uno scherzo. «Ha perso il cuore» dissi. «Come ha fatto a perdere il cuore?»

Connie alzò le mani. Come se lei stessa stentasse a crederci. «Mi ha riferito tutto zia Flo, e questo è tutto quello che sa.»

«Non mi meraviglia che DeChooch sia depresso.»

«Eccome, cazzo» disse Lula.

«Cosa c’entra Loretta Ricci in tutto questo?»

Connie alzò di nuovo le mani. «Non lo so.»

«Il Luna e Dougie?»

«Non so neanche questo» disse Connie.

«E così DeChooch sta cercando il cuore di Louie D.»

Connie stava ancora sorridendo. Questa storia la divertiva molto. «A quanto pare.»

Mi fermai un minuto a riflettere. «A un certo punto DeChooch deve aver deciso che Dougie aveva il cuore. Poi ha deciso che ce l’aveva il Luna.»

«Già» disse Lula «e ora pensa che sia tu ad averlo.»

Piccole macchie nere cominciarono a danzare davanti ai miei occhi e mi sentii ronzare la testa.

«Oh-oh» fece Lula «non hai una bella cera.»

Misi la testa fra le ginocchia e cercai di respirare profondamente. «Crede che sia io ad avere il cuore di Louie D!» dissi. «Pensa che me ne vada in giro con un cuore. Santo Dio, che genere di persona andrebbe in giro con il cuore di un morto?

«Credevo che si trattasse di droga. Credevo di dover barattare il Luna con della cocaina. Come faccio a fare uno scambio con un cuore?»

«A quanto pare non ti devi preoccupare di questo» disse Lula «perché DeChooch non ha né il Luna né Dougie.»

Riferii a Connie e Lula della limousine e del Luna.

«È o non è perfetto?» disse Lula. «Un’anziana non meglio identificata ha rapito il Luna. Forse era la moglie di Louie D che voleva riprendersi il cuore del marito.»

«Spero per te che non fosse la moglie di Louie» disse Connie. «La nonna di Morelli è niente in confronto. Gira una storia su lei e una sua vicina che a suo parere le aveva mancato di rispetto e fu trovata morta il giorno dopo con la lingua mozzata.»

«La fece ammazzare da Louie?»

«No» disse Connie. «Louie non era a casa. Era via per affari.»

«Oh mio Dio.»

«A ogni modo, probabilmente non si tratta di Sophia perché mi dicono che si è chiusa in casa da quando Louie è morto, accende candele di continuo, prega e maledice DeChooch.» Connie si fermò un momento a riflettere. «Sai chi potrebbe aver rapito il Luna? La sorella di Louie, Estelle Colucci.»

Bisogna anche dire che rapire il Luna non è poi così difficile. Basta offrirgli una canna e lui ti segue senza battere ciglio fino ai confini della terra.

«Forse dovremmo andare a parlare con Estelle Colucci» dissi a Lula.

«Sono pronta a montare in sella» rispose.

Benny ed Estelle Colucci abitano nel Burg in una bifamiliare molto ben tenuta. A dire il vero, quasi tutte le case del Burg sono molto ben tenute. È d’obbligo se si vuole sopravvivere. Si può riverniciare secondo il proprio gusto, ma è meglio per tutti che le finestre siano sempre ben pulite.

Parcheggiai la moto davanti a casa Colucci, andai alla porta e bussai. Nessuna risposta. Lula si infilò tra i cespugli sotto le finestre sul davanti e sbirciò dentro.

«Non vedo nessuno» disse. «Non ci sono luci accese. Anche la TV è spenta.»

Allora provammo al circolo. Di Benny nemmeno l’ombra. Percorsi due isolati verso la Hamilton e riconobbi la sua auto all’angolo tra la Hamilton e la Grand, parcheggiata davanti al Tip Top Sandwich Shop. Lula e io sbirciammo dalla vetrina. Benny e Ziggy erano dentro e stavano facendo uno spuntino.

Il Tip Top è un piccolo caffè e ristorantino che serve cibo preparato in casa a prezzi ragionevoli. Il pavimento di linoleum verde e nero è rovinato, le strutture che reggono le luci sul soffitto sono scurite dallo sporco, le sedie in similpelle sono rappezzate con nastro adesivo da imballaggio. Mickey Spritz era un cuoco dell’esercito durante la guerra di Corea. Aprì il Tip Top trent’anni fa quando lasciò l’esercito e da allora non ha cambiato una virgola. Né il pavimento, né le sedie, neanche il menù. Mickey e sua moglie si occupano da soli della cucina. E un ritardato mentale, Pookie Potter, aiuta a servire ai tavoli e lava i piatti.

Benny e Ziggy erano concentrati sulle uova che avevano nel piatto quando io e Lula ci avvicinammo a loro.

«Diamine» disse Benny, alzando gli occhi dalle uova e spalancando la bocca nel trovarsi davanti Lula completamente vestita in pelle. «Dove la trovi questa gente?»

«Siamo passati da casa tua» dissi a Benny. «Non c’era nessuno.»

«Già. Per questo sono qui.»

«Che mi dici di Estelle? A casa non c’era neanche lei.»

«Abbiamo avuto un lutto in famiglia» disse Benny. «Estelle è fuori città per un paio di giorni.»

«Immagino ti riferisca a Louie D» dissi. «E al casino che è successo.»

Ora mi ero conquistata l’attenzione di Benny e Ziggy.

«Sai del casino?» chiese Benny.

«So del cuore.»

«Gesù Cristo» disse Benny. «Credevo che stessi bluffando.»

«Dov’è il Luna?»

«Ti giuro che non so dov’è, ma mia moglie mi sta mandando via di testa con questa storia del cuore. Devi trovarlo. Non sento parlare d’altro… ma come lo ritrovo? Sono solo un essere umano, capisci? Non ce la faccio più.»

«Benny ha i suoi problemi di salute» disse Ziggy. «Non sta bene. Dovresti consegnargli il cuore così può avere anche lui un po’ di pace. È la cosa giusta da fare.»

«E poi pensa a Louie D senza il suo cuore» disse Benny. «Non è carino. Uno dovrebbe avere il proprio cuore quando lo mettono sotto terra.»

«Estelle quando è partita per Richmond?»

«Lunedì.»

«Il giorno in cui il Luna è scomparso» dissi.

Benny si allungò in avanti. «Cosa stai cercando di insinuare?»

«Che Estelle si è portata via il Luna.»

Benny e Ziggy si guardarono. Non avevano preso in considerazione quella possibilità.

«Estelle non fa questo genere di cose» disse Benny.

«Come è andata a Richmond? Ha preso una limousine?»

«No. È andata in macchina. Andava prima a Richmond a trovare la moglie di Louie D, Sophia, e poi a Norfolk. Abbiamo una figlia che vive là.»

«Non è che per caso hai con te una foto di Estelle?»

Benny tirò fuori il portafogli e mi mostrò una fotografia della moglie. Era una bella donna con un viso tondo e capelli corti e grigi.

«Be’, io ho il cuore, ora tocca a te scoprire chi ha il Luna» dissi a Benny.

E io e Lula ce ne andammo.

«Cavolo» disse Lula quando risalimmo in moto. «Sei stata fighissima. Per un attimo ho pensato che sapessi veramente il fatto tuo. Ho quasi creduto che ce l’avessi per davvero quel cuore.»

Io e Lula tornammo in ufficio e il mio cellulare vibrò proprio mentre varcavo la soglia.

«Tua nonna è con te?» domandò mia madre. «È andata dal fornaio questa mattina presto per comprare dei panini e non è tornata.»

«Non l’ho vista.»

«Tuo padre è uscito a cercarla ma non l’ha trovata. E ho chiamato le sue amiche. Non si vede in giro da ore.»

«Da quante ore?»

«Non saprei. Da un paio d’ore. È solo che non è da lei. Viene sempre direttamente a casa dal fornaio.»

«Okay» dissi «vado a cercarla. Fammi uno squillo se si fa viva.»

Chiusi la comunicazione e il cellulare vibrò di nuovo.

Era Eddie DeChooch. «Ce l’hai ancora il cuore?» mi chiese.

«Sì.»

«Bene, ho qualcosa con cui fare cambio.»

Avvertii una brutta sensazione allo stomaco. «Il Luna?»

«Ritenta.»

Si sentì un trascinare di piedi e poi all’altro capo del telefono arrivò la nonna.

«Cos’è questa storia del cuore?» mi chiese la nonna.

«È una faccenda complicata. Stai bene?»

«Ho un po’ di artrite al ginocchio oggi.»

«Volevo sapere se Choochy ti tratta bene.»

Sentivo in sottofondo DeChooch che le suggeriva qualcosa. «Dille che sei stata rapita» le borbottava. «Dille che ti faccio saltare la testa se non mi consegna il cuore.»

«Non glielo dico» replicò la nonna. «Come ci rimarrebbe? E non farti strane idee. Solo perché mi hai rapita non significa che sono una facile. Non faccio niente con te se non prendi le dovute precauzioni. Non voglio rischiare una di quelle strane malattie.»

DeChooch tornò al telefono. «Le cose stanno così. Tu porta il tuo cellulare e il cuore di Louie D al centro commerciale di Quaker Bridge e io ti chiamerò alle sette. Se qualche sbirro ci si mette di mezzo, tua nonna è morta.»

Capitolo 11

«Che cosa voleva?» domandò Lula.

«DeChooch ha nonna Mazur. Vuole barattarla con il cuore. Devo portarlo al Quaker Bridge e poi lui mi chiamerà alle sette per darmi altre istruzioni. Dice che se mi trascino dietro la polizia la ammazza.»

«È quello che dicono sempre i rapitori» disse Lula. «È scritto nel manuale del bravo rapitore.»

«Cosa hai intenzione di fare?» domandò Connie. «Hai idea di chi abbia il cuore?»

«Ascoltate un momento» disse Lula. «Louie D non aveva il suo nome scolpito sul cuore. Perché non ne prendiamo uno qualsiasi? Come fa Eddie DeChooch a sapere se si tratta del cuore di Louie D? Scommetto che potremmo rifilargli un cuore di vacca e lui non se ne accorgerebbe. Andiamo da un macellaio e gli diciamo che ci serve un cuore di vacca. Non andiamo da un macellaio del Burg perché potrebbe spargersi la voce. Andiamo da qualche altra parte. Ne conosco un paio su Stark Street. Oppure potremmo provare al Price Chopper. Il reparto carni è molto ben fornito.

«Mi sorprende che DeChooch non ci abbia pensato. Voglio dire, nessuno ha mai visto il cuore di Louie D a parte DeChooch. Che tra l’altro non ci vede un accidenti. DeChooch ha probabilmente preso l’arrosto dal freezer di Dougie pensando che si trattasse del cuore.»

«L’idea di Lula non è da scartare» disse Connie. «Potrebbe funzionare.»

Sollevai la testa che tenevo fra le ginocchia. «È raccapricciante!»

«Già» disse Lula. «Quella è la parte migliore.» Guardò l’orologio appeso al muro. «È ora di pranzo. Andiamo a prenderci un hamburger e poi penseremo al cuore.»

Chiamai mia madre dal telefono di Connie.

«Non ti preoccupare per la nonna» dissi. «So dov’è e andrò a prenderla questa sera.» Poi riattaccai prima che potesse farmi delle domande.

Dopo pranzo io e Lula andammo al Price Chopper.

«Ci serve un cuore» disse Lula al macellaio. «E deve essere in buono stato.»

«Mi spiace» rispose «ma non abbiamo cuori. Che ne dite di qualche altro organo? Abbiamo del fegato, dell’ottimo fegato di vitello.»

«Deve essere un cuore» disse Lula. «Sa dove possiamo trovarne uno?»

«Per quanto ne so, vanno tutti a finire in una fabbrica di cibo per cani in Arkansas.»

«Non abbiamo tempo di andare in Arkansas» disse Lula. «Grazie comunque.»

Mentre uscivamo ci fermammo davanti a una vetrina di quei negozi che vendono tutto per il campeggio e comprammo un piccolo frigo portatile rosso e bianco.

«Sarà perfetto» disse Lula. «Tutto quello che ci serve adesso è il cuore.»

«Credi che avremo più fortuna a Stark Street?»

«Conosco dei macellai che vendono roba di cui è meglio non sapere la provenienza. Se non hanno un cuore da vendere, se ne procurano uno e senza fare troppe domande.»

C’erano zone di Stark Street che a confronto facevano sembrare la Bosnia una ridente località. Lula aveva lavorato a Stark Street quando faceva la prostituta. Era una lunga strada di negozi in disfacimento, palazzi in disfacimento e persone in disfacimento.

Impiegammo una mezz’ora per arrivarci, arrancando per il centro città e godendoci l’attenzione che un bolide come il nostro, con le sue marmitte personalizzate, non mancava di attirare.

Era una bella giornata di aprile, ma Stark Street era tetra. Per la strada rotolavano pagine di giornale che poi finivano contro i marciapiedi e le verande di cemento di tristissime case a schiera. Sulle facciate di mattoni, le bande di quartiere avevano spruzzato con bombolette spray i loro slogan. Ogni tanto c’era un edificio incendiato e sventrato, con le finestre annerite di fumo e inchiodate con assi di legno. Tra le case a schiera si erano inseriti abusivamente dei negozietti: un bar rosticceria, un’autofficina, una ferramenta e una macelleria, l’Omar’s Meat Market.

«Questo è il posto che fa per noi» disse Lula. «Omar’s Meat Market. Se il cuore viene usato per fare cibo per cani, di sicuro Omar lo vende per farci il brodo. Ci conviene solo verificare che non batta ancora quando lo prendiamo.»

«È sicuro lasciare la moto parcheggiata qui sul marciapiede?»

«Assolutamente no. Parcheggiala accanto alla vetrina in modo che possiamo tenerla d’occhio.»

Dietro il banco delle carni c’era un omone nero. Portava i capelli molto corti con qualche spruzzatina di grigio qua e là. Il grembiule bianco da macellaio era macchiato di sangue. Al collo aveva una grossa catena d’oro e portava un orecchino con un solitario. Fece un sorriso a trentadue denti quando ci vide.

«Lula! Ti trovo bene. Non ti ho più visto da quando hai smesso di lavorare in strada. Niente male il completo in pelle.»

«Questo qui è Omar» mi disse Lula. «Ha più o meno i soldi di Bill Gates. Gestisce questa macelleria solo perché gli piace infilare le dita nel culo delle galline.»

Omar buttò indietro la testa e fece una risata molto simile al rombo che la Harley aveva fatto riecheggiare tra le vetrine di Stark Street.

«Che posso fare per te?» chiese Omar a Lula.

«Mi serve un cuore.»

Omar non batté ciglio. Come se una richiesta del genere fosse ordinaria amministrazione. «Certo. Che genere di cuore ti serve? Che ci devi fare? Il brodo? Affettarlo e friggerlo?»

«Immagino che tu non abbia cuori umani.»

«Oggi no. Solo su ordinazione.»

«Qual è la cosa che gli assomiglia di più, allora?»

«Cuore di maiale. Quasi non si vede la differenza.»

«Okay» fece Lula «ne prendo uno.»

Omar andò verso l’estremità del bancone e infilò la mano in un recipiente pieno di organi. Ne tirò fuori uno e lo mise sulla bilancia sopra un pezzo di carta oleata. «Che ne dite di questo?»

«Non ne so molto di cuori» disse Lula a Omar. «Magari potresti darci una mano. Stiamo cercando un cuore che vada bene per un maiale di oltre cento chili che ha appena avuto un infarto.»

«Quanti anni ha questo maiale?»

«Oltre i sessantacinque, forse settanta.»

«È un maiale anzianotto» disse Omar. Tornò indietro e prelevò un altro cuore. «Questo è qui da un po’ di tempo. Non so se il maiale sia morto d’infarto, ma il cuore non ha un bell’aspetto.» Vi affondò il dito. «Non gli manca niente, intendiamoci, è solo che sembra ne abbia viste parecchie, capisci cosa voglio dire?»

«Quanto costa?» chiese Lula.

«Sei fortunata. Questo è in saldo. Posso dartelo a metà prezzo.»

Io e Lula ci guardammo.

«Okay, lo prendiamo» dissi.

Omar guardò oltre il bancone verso il minifrigo che Lula teneva in mano. «Vuoi che te lo incarti o lo vuoi tenere nel ghiaccio?»

Sulla via del ritorno in ufficio ci fermammo a un semaforo rosso e ci si piazzò accanto un tipo su una Harley modello Fat Boy.

«Bella moto» disse. «Cosa avete nel frigo?»

«Un cuore di maiale» rispose Lula.

Dopodiché il verde scattò e ce ne andammo.

Cinque minuti dopo eravamo in ufficio a mostrare il cuore a Connie.

«Cavolo, sembra vero» disse.

Io e Lula rispondemmo con un’alzata di sopracciglia.

«Non che sia in grado di distinguerli» precisò Connie.

«Funzionerà a meraviglia» disse Lula. «Tutto quello che dobbiamo fare è scambiarlo con la nonnina.»

Mi si annodò lo stomaco dalla paura. Era come se avessi tante piccole palpitazioni che mi facevano mancare il respiro. Non volevo che accadesse nulla di male alla nonna.

Io e Valerie litigavamo in continuazione da bambine. A me veniva sempre una qualche idea folle e Valerie faceva immancabilmente la spia a mia madre. Stephanie è sul tetto del garage che prova a volare, urlava Valerie a mia madre entrando di corsa in cucina. Oppure, Stephanie è in cortile che cerca di fare la pipì in piedi come i maschi. Dopo che mia madre mi aveva sgridato, quando nessuno poteva vedere, davo a Valerie una bella botta in testa. Pam! Poi ci prendevamo a pugni. E poi mia madre mi sgridava di nuovo. E alla fine scappavo di casa.

Correvo sempre a casa di nonna Mazur. Nonna Mazur non mi faceva mai la ramanzina. Ora capisco perché. In fondo in fondo, nonna Mazur era più pazza di me.

Nonna Mazur mi faceva entrare senza una sola parola di rimprovero. Trascinava le quattro sedie della cucina in soggiorno, le disponeva a quadrato e ci adagiava sopra un lenzuolo. Poi mi dava un cuscino e dei libri da leggere e mi mandava nella tenda che aveva costruito per me. Dopo un paio di minuti, sotto il lenzuolo arrivavano sempre un piatto di biscotti o un sandwich.

A un certo punto del pomeriggio, prima che mio nonno tornasse a casa dal lavoro, mia madre veniva a riprendermi e tutto si sistemava.

E ora la nonna era con quel pazzo di Eddie DeChooch. E alle sette l’avrei barattata con un cuore di maiale. «Uh!» feci.

Lula e Connie mi rivolsero un’occhiata.

«Stavo pensando ad alta voce» dissi. «Forse dovrei chiamare Joe o Ranger per farmi da appoggio.»

«Joe è la polizia» disse Lula. «E DeChooch ha detto che non vuole la polizia.»

«DeChooch non si accorgerebbe di Joe.»

«Pensi che Joe starà al gioco?»

Era proprio quello il problema. Avrei dovuto dire a Morelli che stavo scambiando la nonna con un cuore di maiale. Rivelare una notizia del genere a cose fatte e dopo che tutto aveva funzionato alla perfezione era ben diverso. Al momento assomigliava molto di più a quella volta che avevo cercato di volare dal garage.

«Magari potrebbe suggerirmi un’idea migliore» dissi.

«A Eddie DeChooch interessa una cosa sola» disse Lula. «E ce l’hai nel frigo.»

«Ho un cuore di maiale in questo frigo!»

«Be’, sì, tecnicamente è così» ammise Lula.

Probabilmente Ranger era la scelta migliore. Si trovava a proprio agio con la gente più pazza del mondo… come Lula, la nonna e me.

Al cellulare di Ranger non rispose nessuno, così chiamai il suo cercapersone e Ranger mi ritelefonò dopo neanche un minuto.

«È insorta una complicazione con la faccenda DeChooch» gli dissi. «Si è preso la nonna.»

«Una coppia perfetta» commentò Ranger.

«Dico sul serio! Ho fatto girare voce che ho quello che DeChooch sta cercando. Siccome non ha il Luna, ha rapito la nonna per avere qualcosa con cui fare cambio. Il tutto dovrebbe succedere alle sette.»

«Cosa hai intenzione di dare a DeChooch?»

«Un cuore di maiale.»

«Mi sembra giusto.»

«È una storia lunga.»

«Cosa posso fare per te?»

«Potresti coprirmi nel caso qualcosa andasse storto.» Poi gli riferii il piano.

«Fatti dare una microspia da Vinnie» disse Ranger. «Più tardi faccio un salto in ufficio e prendo il ricevitore. Accendi il microfono alle sei e mezzo.»

«Il tuo onorario è sempre lo stesso?»

«Questa volta è gratis.»

Mi sistemai addosso il microfono, poi io e Lula decidemmo di andare al centro commerciale. Lula doveva comprarsi un paio di scarpe e io avevo bisogno di svagarmi un po’ e non pensare alla nonna.

Quello di Quaker Bridge è un centro commerciale a due piani appena fuori dalla Route 1, tra Trenton e Princeton. Ci sono tutti i classici negozi da centro commerciale più un paio di grandi magazzini ben piazzati alle due estremità, con in mezzo un negozio della catena Macy’s. Parcheggiai la moto vicino alla porta del Macy’s perché stavano facendo una svendita di scarpe.

«Pensa un po’» mi disse Lula mentre eravamo nel reparto calzature. «Siamo le uniche persone ad andare in giro con un frigo da picnic.»

A dire il vero, stringevo la borsa frigo con tutte le mie forze, tenendomela stretta al petto con entrambe le mani. Lula indossava ancora il completo in pelle. Io avevo stivali, jeans, i miei due occhi neri e un frigo da campeggio. E la gente, per guardarci, andava a sbattere contro vetrine e manichini.

Regola numero uno per una cacciatrice di taglie: passare inosservata.

Mi squillò il telefono e per poco non feci cadere il frigorifero.

Era Ranger. «Che diavolo stai facendo? Stai attirando talmente l’attenzione che hai una guardia giurata alle calcagna. Probabilmente pensa che tu abbia una bomba dentro quel frigo.»

«Sono un po’ nervosa.»

«Si vede, eccome.»

E riagganciò.

«Ascolta» dissi a Lula «perché non andiamo a mangiarci un pezzo di pizza e stiamo tranquille finché non arriva l’ora?»

«Mi sembra una buona idea. Tanto non ci sono scarpe che mi piacciono.»

Alle sei e mezzo feci scolare il ghiaccio che si era sciolto nel frigo e chiesi al ragazzo del chiosco della pizza di darmene dell’altro.

Mi mise qualche cubetto in un bicchiere.

«Veramente mi serve per il frigo» spiegai. «Ce ne vuole più di un bicchiere.»

Si sporse oltre il banco per guardare il frigo. «Non credo di potergliene dare così tanto.»

«Se non ci dai il ghiaccio, il cuore andrà a male» intervenne Lula. «Dobbiamo mantenerlo al fresco.»

Il ragazzo fissò nuovamente il frigo. «Il cuore?»

Lula fece scivolare il coperchio e gli mostrò il cuore.

«Porca puttana» disse il ragazzo. «Prendete tutto il ghiaccio che volete.»

Riempimmo il frigo per metà e il cuore sembrava bello fresco sul suo nuovo letto di ghiaccio. Poi andai al bagno delle signore e accesi il microfono.

«Prova» dissi. «Mi senti?»

Un secondo dopo mi squillò il telefono. «Ti sento» disse Ranger. «E sento anche la donna nel cesso accanto al tuo.»

Lasciai Lula nel chiosco della pizza e mi diressi verso il centro dell’area commerciale, davanti al Macy’s. Mi sedetti su una panchina con il frigo sulle ginocchia e il cellulare a portata di mano nella tasca della giacca.

Alle sette in punto il telefono squillò.

«Sei pronta per le istruzioni?» chiese Eddie DeChooch.

«Sono pronta.»

«Vai al primo sottopassaggio a sud sulla Route 1…»

In quel preciso istante la guardia giurata mi diede un colpetto sulla spalla.

«Mi scusi, signora» disse «ma sono costretto a chiederle cosa porta dentro quel frigo.»

«Chi c’è lì con te?» domandò DeChooch. «Chi è?»

«Nessuno» dissi a DeChooch. «Continua con le istruzioni.»

«Devo chiederle di allontanarsi dal frigo» disse la guardia. «Subito.»

Con la coda dell’occhio vidi che si stava avvicinando un’altra guardia.

«Ascolta» dissi a DeChooch. «Ho un problemino qui. Puoi richiamarmi tra dieci minuti?»

«Non mi piace» disse DeChooch. «Non se ne fa niente. Niente.»

«No! Aspetta!»

Riattaccò.

Merda.

«Cosa le è preso?» dissi alla guardia. «Non ha visto che stavo parlando al telefono? È così importante che non poteva aspettare due secondi? Non vi insegnano niente alla scuola per guardie giurate?»

Aveva estratto la pistola. «Si allontani dal frigo.»

Sapevo che da qualche parte Ranger stava guardando e probabilmente si stava trattenendo dal ridere.

Posai il frigo sulla panchina e arretrai.

«Ora allunghi la mano destra e faccia scorrere il coperchio così posso guardare dentro» ordinò la guardia.

Feci come mi era stato chiesto.

La guardia si sporse in avanti e guardò dentro al frigo. «Che diavolo di roba è?»

«È un cuore. C’è qualche problema? È illegale portare un cuore in un centro commerciale?»

Ora le guardie giurate erano diventate due. Si scambiarono un’occhiata. Il manuale della brava guardia giurata non contemplava quel genere di evenienza.

«Scusi se l’abbiamo disturbata» disse la guardia. «Il frigo sembrava sospetto.»

«Imbecille» risposi brusca.

Poi richiusi il coperchio, presi il frigo e corsi da Lula che mi aspettava al chiosco della pizza.

«Oh-oh» disse Lula. «Come mai hai ancora il frigo? Dovresti avere tua nonna.»

«È andato tutto a monte.»

Ranger mi aspettava accanto alla moto. «Se mai dovessi avere bisogno di essere riscattato, fammi un favore e rinuncia all’incarico» disse. Mi infilò una mano sotto la camicia e spense il microfono. «Non ti preoccupare. Richiamerà. Come potrebbe rifiutare un cuore di maiale?» Ranger guardò dentro il frigo e sorrise. «È davvero un cuore di maiale.»

«Dovrebbe essere il cuore di Louie D» dissi a Ranger. «DeChooch glielo ha tolto per sbaglio e, non si sa come, è riuscito a perdere il cuore mentre era in viaggio di ritorno da Richmond.»

«E tu volevi barattare con lui un cuore di maiale» disse Ranger.

«È successo tutto molto in fretta» disse Lula. «Abbiamo cercato di trovarne uno umano, ma bisogna ordinarli per tempo.»

«Bella moto» mi disse Ranger. «Ti si addice.»

Poi salì in macchina e se ne andò.

Lula si fece aria con la mano. «Quell’uomo è così sexy.»

Quando tornai al mio appartamento chiamai mia madre. «A proposito della nonna…» dissi «rimane a dormire da amici.»

«Perché non mi ha telefonato?»

«Avrà pensato che bastava dirlo a me.»

«È molto strano. È un amico maschio?»

«Sì.»

Sentii il suono di un piatto che si rompeva e poi mia madre riattaccò.

Avevo messo il frigo sul piano della cucina. Guardai dentro e lo spettacolo che mi si presentò non mi piacque per niente. Il ghiaccio si stava sciogliendo e il cuore non aveva più un bell’aspetto. C’era solo una cosa da fare. Congelare quella robaccia.

Facendo molta attenzione lo tirai fuori dal contenitore, e con un plop lo feci cadere in una busta per conservare i cibi. Ebbi un paio di conati ma riuscii a non vomitare, per fortuna. Poi misi il cuore nel freezer.

Nella segreteria telefonica c’erano due messaggi di Joe. Entrambi dicevano: «Chiamami».

Non mi andava di farlo. Mi avrebbe fatto domande a cui non volevo rispondere. Soprattutto ora che lo scambio con il cuore di maiale era andato in fumo. Continuavo a sentire in testa una fastidiosa vocina che sussurrava: Se ci fosse stata di mezzo la polizia le cose sarebbero potute andare meglio.

E la nonna? Era ancora con Eddie DeChooch. Con quel pazzo depresso di Eddie DeChooch.

Porca miseria. Chiamai Joe. «Devi aiutarmi» dissi. «Ma non puoi fare il poliziotto.»

«Forse dovresti spiegarti meglio.»

«Ti dico una cosa ma devi promettermi che rimarrà tra noi e che non diventerà un caso per la polizia.»

«Non posso farlo.»

«Devi.»

«Di che si tratta?»

«Eddie DeChooch ha rapito la nonna.»

«Nessuna offesa, ma DeChooch può ritenersi fortunato se sopravvive.»

«Un po’ di compagnia non mi farebbe schifo. Ti va di dormire da me?»

Mezz’ora dopo Joe e Bob arrivarono. Bob corse in giro per l’appartamento, annusando le sedie, ficcando il muso nei cestini della spazzatura, per poi prendere a unghiate lo sportello del frigorifero.

«È a dieta» disse Morelli. «Oggi l’ho portato dal veterinario per i vaccini e mi ha detto che è troppo grasso.» Accese la TV e si sintonizzò sul canale che trasmetteva la partita dei Rangers. «Vuoi raccontarmi cosa è successo?»

Scoppiai a piangere. «Ha preso la nonna e io ho mandato tutto all’aria. E adesso ho paura. Non si è fatto vivo. E se avesse ucciso la nonna?» Stavo singhiozzando. Non riuscivo a smettere. Facevo dei gran singhiozzi, avevo il naso che colava e la faccia mi stava diventando tutta gonfia e a chiazze.

Morelli mi strinse tra le braccia. «Come hai fatto a rovinare tutto?»

«Avevo il cuore nel frigo e la guardia giurata mi ha fermato e allora DeChooch ha bloccato tutto.»

«Il cuore?»

Indicai verso la cucina. «È nel freezer.»

Morelli si staccò da me e andò verso il freezer. Sentii che apriva lo sportello. Passò qualche secondo. «Hai ragione» disse. «C’è un cuore qui dentro.» E lo sportello si richiuse con un cigolio.

«È un cuore di maiale» spiegai.

«Meno male.»

Gli raccontai tutta la storia.

Il fatto è che Morelli sa essere una persona molto difficile da interpretare. Da bambino era furbo e da ragazzino era scatenato. Immagino dovesse mantenersi all’altezza delle aspettative. Gli uomini della famiglia Morelli hanno la reputazione di duri. Ma poi, verso i vent’anni, Joe ha cominciato a seguire la sua strada. Così adesso è difficile dire dove cominci il Morelli nuovo e dove finisca quello vecchio.

Sospettavo che per il nuovo Morelli, rifilare un cuore di maiale a Eddie DeChooch fosse un piano balordo. E sospettavo anche che questa cosa non avrebbe fatto altro che alimentare le sue paure sul fatto che stesse per sposare una che assomigliava molto a Lucy Ricardo, la svampita della celebre serie I love Lucy.

«Hai avuto una bella idea a provare con un cuore di maiale» disse.

Per poco non scivolai dal divano.

«Se avessi chiamato me invece di Ranger avrei potuto bloccare l’area.»

«Col senno di poi. Non volevo fare nulla che potesse impaurire DeChooch.»

Facemmo tutti e due un salto quando il telefono squillò.

«Voglio darti un’altra possibilità» disse DeChooch. «Se rovini tutto anche questa volta, tua nonna è andata.»

«Sta bene?»

«Mi sta mandando al manicomio.»

«Voglio parlarle.»

«Le parlerai quando mi consegnerai il cuore. Ecco il nuovo piano. Prendi cuore e cellulare e vai al ristorantino a Hamilton Township.»

«Il Silver Dollar?»

«Esatto. Ti chiamo domani sera alle sette.»

«Perché non possiamo fare lo scambio prima?»

«Credimi, vorrei tanto poterlo fare prima, ma non mi è possibile. Il cuore è ancora in buono stato?»

«È nel ghiaccio.»

«In quanto ghiaccio?»

«È congelato.»

«Sapevo che avresti dovuto farlo. Fai in modo di non romperlo. Sono stato molto attento quando l’ho tirato fuori. Non voglio che me lo rovini.»

Riagganciò e provai un senso di vomito.

«Che schifo!»

Morelli mi passò un braccio dietro le spalle. «Non stare in pensiero per tua nonna. È come la Buick del ’53. Spaventosamente indistruttibile. Forse addirittura immortale.»

Scossi la testa. «È solo una signora anziana.»

«Mi piacerebbe poterlo credere» disse Morelli. «Penso invece che ci troviamo di fronte a una generazione di donne e macchine che sfuggono a ogni logica e legge scientifica.»

«Stai parlando di tua nonna.»

«Non l’ho mai ammesso con nessuno prima, ma qualche volta temo che sia veramente capace di fare il malocchio. Certe volte mi spaventa a morte.»

Scoppiai a ridere. Non riuscii a trattenermi. Morelli era sempre stato così indifferente alle minacce e alle previsioni della nonna.

Mi infilai la maglia col numero 35 sopra la T-shirt e ci mettemmo a guardare la partita dei Rangers. Dopo rincontro portammo Bob a fare un giro fuori e poi ci infilammo a letto.

Un rumore di cocci e unghiate.

Io e Joe ci guardammo. Bob stava cercando qualcosa da mangiare, buttava per terra i piatti che erano sul piano della cucina in cerca di qualche briciola.

«Ha fame» disse Morelli. «Forse dovremmo chiuderlo in camera con noi se non vogliamo che mangi una sedia.»

Joe scese dal letto e tornò con Bob. Chiuse la porta e si rimise a letto. E Bob saltò su insieme a noi. Ci girò intorno per cinque o sei volte, si affilò le unghie sul piumone, fece qualche altro giro con espressione confusa.

«È carino» dissi a Morelli. «In un senso un po’ preistorico.»

Bob si rigirò ancora un po’, poi si incastrò tra me e Joe. Appoggiò il suo testone di cane su un angolo del cuscino di Morelli, fece un sospiro di soddisfazione e si addormentò all’istante.

«Ti serve un letto più grande» disse Morelli.

E non dovevo neanche preoccuparmi della contraccezione.

Morelli rotolò fuori dal letto alle prime luci dell’alba.

Aprii un occhio solo. «Dove vai? Sta appena facendo giorno.»

«Non riesco a dormire. Bob si sta prendendo tutto il mio posto. E poi ho promesso al veterinario che gli avrei fatto fare un po’ di moto, quindi usciamo a correre.

«È una bella idea.»

«Vieni anche tu» disse.

«Neanche per sogno.»

«Sei tu che mi hai appioppato questo cane. Adesso porti le chiappe fuori di qui e vieni a correre con noi.»

«Neanche per sogno!»

Joe mi prese per una caviglia e mi trascinò fuori dal letto. «Non costringermi a usare le maniere forti.»

Rimanemmo immobili a guardare Bob. C’era rimasto solo lui sul letto. Aveva ancora la testa sul cuscino, ma sembrava preoccupato. Bob non era un cane mattiniero. E nemmeno un atleta.

«Alzati» disse Morelli a Bob.

Bob chiuse ancora di più gli occhi, facendo finta di dormire.

Morelli provò a trascinare Bob fuori dal letto e il cane fece un ringhio cupo come se avesse delle brutte intenzioni.

«Merda» disse Morelli. «Come fai? Come riesci a farlo cagare nel giardino di Joyce così presto la mattina?»

«Ne sei al corrente?»

«Gordon Skyer abita davanti a Joyce, dall’altra parte della strada. Giochiamo insieme a minitennis.»

«Uso il cibo come esca.»

Morelli andò in cucina e tornò con un sacchetto di carote. «Guarda cosa ho trovato» disse. «Nel frigo hai del cibo che fa bene alla salute. Mi sorprendi.»

Non volevo scuoterlo da quel sogno, ma in realtà le carote erano per Rex. A me le carote piacciono solo se sono passate nella pastella e fritte in un dito di grasso oppure sotto forma di torta di carote con una bella copertura di formaggio cremoso.

Morelli tirò fuori una carota per Bob ma lui gli rifilò uno sguardo della serie vorrai scherzare.

Cominciavo a sentirmi dispiaciuta per Joe. «Okay» mi arresi «vestiamoci, andiamo in cucina e cominciamo a fare rumore. Bob dovrà arrendersi.»

Cinque minuti dopo, noi ci eravamo vestiti e Bob aveva collare e guinzaglio.

«Un momento» dissi. «Non possiamo andare tutti via e lasciare il cuore a casa da solo. Ho gente che mi entra in casa ogni giorno.»

«Che gente?»

«Benny e Ziggy, tanto per cominciare.»

«La gente non può entrarti in casa come se niente fosse. È illegale. È violazione di domicilio con scasso.»

«Non è così grave» dissi. «Le prime volte sono rimasta sorpresa, ma dopo un po’ ci si fa l’abitudine.» Tirai fuori il cuore dal freezer. «Lo lascio al signor Morganstern. Lui è un mattiniero.»

«Il mio freezer è difettoso» dissi al signor Morganstern «e non vorrei che questo mi si scongelasse. Me lo può tenere fino a ora di cena?»

«Certo» disse. «Sembra un cuore.»

«È una nuova dieta. Una volta a settimana si deve mangiare un cuore.»

«Ma guarda un po’. Forse dovrei seguirla anch’io. Ultimamente sono stato un po’ svogliato.»

Morelli mi aspettava nel parcheggio. Stava correndo sul posto e ora che era all’aperto Bob aveva lo sguardo sveglio e sorridente.

«Ha già fatto i bisogni?» chiesi a Joe.

«Tutto sotto controllo.»

Morelli e Bob partirono a passo spedito mentre io arrancavo dietro. Riesco a fare cinque chilometri con dieci centimetri di tacco e posso fare shopping fino a portare Morelli all’esaurimento, ma di correre non se ne parla. Magari se si trattasse di correre per una svendita di borse, allora forse sì.

Un po’ alla volta, rimasi sempre più indietro. Quando Morelli e Bob girarono l’angolo e li persi di vista, tagliai per un cortile e uscii davanti al forno di Ferraro. Mi presi una sfogliatella alle mandorle e tornai allegramente a casa, mangiandomi il dolce. Ero quasi arrivata al parcheggio quando vidi Joe e Bob che correvano a lunghi passi per la St. James. Ripresi immediatamente a saltellare e ad ansimare.

«Dove eravate finiti?» dissi. «Vi ho perso.»

Morelli scosse la testa disgustato. «Che tristezza. Hai dello zucchero a velo sulla maglietta.»

«Sarà caduto dal cielo.»

«Sei patetica.»

Quando tornammo a casa trovammo Benny e Ziggy nell’ingresso.

«Si direbbe che abbiate fatto un po’ di jogging» osservò Ziggy. «Fa bene alla salute. Lo dovrebbero fare più persone.»

Joe mise una mano sul petto di Ziggy per trattenerlo. «Che ci fate qui?»

«Eravamo venuti a trovare la signorina Plum, ma a casa non c’era nessuno.»

«Be’, eccola qui. Non volete parlarle?»

«Certo» disse Ziggy. «Ti è piaciuta la marmellata?»

«Fantastica, grazie.»

«Non vi siete introdotti nel suo appartamento, vero?» chiese Morelli.

«Non ci permetteremmo mai» disse Benny. «Abbiamo troppo rispetto per lei. Vero, Ziggy?»

«Già, è vero» disse Ziggy. «Ma se volessi ci riuscirei. Non ho perso la mano.»

«Hai avuto modo di parlare con tua moglie?» chiesi a Benny. «È a Richmond?»

«Ho parlato con lei ieri sera. È a Norfolk. Le cose non vanno tanto bene, come del resto c’era da aspettarsi. Sono sicuro che ti rendi conto che è una situazione difficile per tutti.»

«È una tragedia. Nessun’altra novità da Richmond?»

«Purtroppo no.»

Benny e Ziggy si diressero verso l’ascensore e Morelli e io seguimmo Bob in cucina.

«Erano in casa, vero?» chiese Joe.

«Certo. A cercare il cuore. La moglie di Benny gli sta dando il tormento perché vuole che quel cuore salti fuori.»

Morelli riempì la ciotola di cibo di Bob. Il cane lo fece fuori tutto e si mise a cercarne dell’altro.

«Spiacente, amico» disse Morelli. «Ecco cosa succede quando si ingrassa.»

Mi si chiuse lo stomaco dal senso di colpa per aver mangiato la sfogliatella. In confronto a Joe io ero una vacca. Morelli aveva addominali tesi come una tavola da surf. Lui riusciva sul serio a fare le flessioni. E molte. Mentalmente le sapevo fare anche io. In pratica, fare flessioni seguiva a ruota il jogging nella classifica delle cose che mi piace fare.

Capitolo 12

Eddie DeChooch teneva nascosta la nonna da qualche parte. Probabilmente non al Burg perché in quel caso l’avrei già saputo. Presumibilmente erano nella zona di Trenton. Le località di chiamata erano entrambe urbane.

Joe mi aveva promesso di non riferire la cosa in polizia, ma sapevo che avrebbe lavorato comunque in incognito. Avrebbe fatto domande in giro e sguinzagliato i suoi colleghi piedipiatti a cercare Eddie DeChooch con molto più accanimento di me. Anche Connie, Vinnie e Lula stavano tampinando i loro informatori. Non mi aspettavo che ne venisse fuori qualcosa. Eddie DeChooch lavorava da solo. Forse faceva visita a padre Carolli ogni tanto. E forse si faceva vedere a qualche veglia funebre. Ma agiva da solo. Ero convinta che nessuno conoscesse il posto dove si rintanava. A eccezione, forse, di Mary Maggie Mason.

Per chissà quale ragione, due giorni prima, DeChooch era andato a trovarla.

Prelevai Lula in ufficio e ci dirigemmo verso l’edificio dove abitava Mary Maggie. Era metà mattina e il traffico era scorrevole. Sopra di noi le nuvole si stavano compattando. Per la seconda parte della giornata era prevista pioggia. Non importava un fico secco a nessuno, in New Jersey. Era giovedì. Che piovesse pure. Da noi ci si preoccupava solo del tempo del fine settimana.

La Low Rider entrò rombante nel parcheggio sotterraneo facendo vibrare pavimento e soffitto di cemento. La Cadillac bianca non c’era ma la Porsche argento targata MMM-YUM era parcheggiata nel suo spazio. Fermai la Harley due corsie più in là.

Io e Lula ci guardammo. Non volevamo salire di sopra.

«L’idea di parlare con Mary Maggie mi mette a disagio» dissi. «Nel fango non ho avuto il mio cosiddetto “momento di gloria”.»

«È stata tutta colpa sua. Ha iniziato lei.»

«Avrei potuto fare meglio, ma mi ha preso alla sprovvista» dissi.

«Già. L’ho capito da come continuavi a gridare aiuto. Spero solo che non voglia farmi causa per averle rotto la schiena o che so io.»

Arrivammo alla porta di casa di Mary Maggie e rimanemmo in silenzio. Respirai profondamente e suonai il campanello. Venne ad aprire Mary Maggie e non appena ci vide cercò di chiuderci la porta in faccia. Regola numero due per una cacciatrice di taglie: se una porta si apre, infilaci subito il piede.

«Cosa vuoi ancora?» chiese Mary Maggie, cercando di togliere di mezzo il mio piede.

«Voglio parlarti.»

«Mi hai già parlato.»

«Ti devo parlare un’altra volta. Eddie DeChooch ha rapito mia nonna.»

Mary Maggie smise di spingermi via il piede e mi fissò. «Dici sul serio?»

«Io ho una cosa che gli interessa. E ora è lui ad avere qualcosa che interessa a me.»

«Non so cosa dire. Mi dispiace.»

«Speravo che potessi aiutarmi a trovarla.»

Mary Maggie aprì la porta e io e Lula ci infilammo dentro senza troppi convenevoli. Non pensavo di trovare la nonna rinchiusa in un ripostiglio, però mi sentivo in dovere di controllare. L’appartamento era carino ma non troppo grande. Un ambiente unico per soggiorno, sala da pranzo e cucina. Una camera da letto. Bagno e wc. Era arredato con gusto. Mobili classici. Colori tenui. Grigi e beige. E naturalmente c’erano libri ovunque.

«Non so davvero dove sia» disse Mary Maggie. «Mi ha chiesto di prestargli la macchina. È già successo in passato. Quando il padrone del locale dove lavori ti chiede di prestargli qualcosa conviene assecondarlo. E poi è un vecchietto simpatico. Dopo che sei stata qui, sono andata dal nipote e gli ho detto che rivolevo indietro la mia macchina. Eddie me la stava riportando quando tu e la tua amica gli avete teso un’imboscata nel mio garage. Da allora non ho sue notizie.»

La brutta notizia era che le credevo. Quella bella, era sapere che Ronald DeChooch era in contatto con lo zio.

«Mi dispiace per la scarpa» disse Mary Maggie a Lula. «L’abbiamo cercata, ma non si è trovata.»

«Mmm» fece Lula.

Io e Lula rimanemmo in silenzio finché non arrivammo al parcheggio.

«Che ne pensi?» chiese Lula.

«Penso che dobbiamo fare una visita a Ronald DeChooch.»

Avviai la moto, Lula montò su e attraversammo il garage a tutta birra, dirette alla Ace Pavers.

«Siamo fortunate ad avere un buon lavoro» disse Lula quando fermai la moto davanti all’ufficio di Ronald DeChooch. «Pensa se dovessimo lavorare in un posto come questo, a respirare catrame tutto il giorno e sempre con pezzi di robaccia nera appiccicati sotto le scarpe.»

Smontai dalla moto e mi tolsi il casco. L’odore di asfalto bollente incombeva su di noi e oltre il cancello chiuso, i rulli anneriti e i camion della pece emanavano tremule onde di calore. Non c’erano uomini in giro, ma era ovvio che i macchinari erano stati in funzione fino a poco tempo prima.

«Saremo professionali ma decise» dissi a Lula.

«Vuoi dire che non accetteremo stronzate da quel caprone bifolco di Ronald DeChooch.»

«Hai di nuovo guardato il wrestling in TV» dissi a Lula.

«L’ho videoregistrato, così posso rivedere gli incontri di The Rock.»

Io e Lula prendemmo coraggio ed entrammo senza bussare. Questa volta non ci saremmo fatte fermare da un branco di stronzi che passano il tempo a giocare a carte. Questa volta avremmo preteso delle risposte. Avremmo preteso rispetto.

Attraversammo rapidamente il piccolo corridoio dell’ingresso e di nuovo senza bussare andammo dritte nell’ufficio interno. Spalancammo una porta dietro l’altra e ci ritrovammo faccia a faccia con Ronald DeChooch che giocava al dottore con la segretaria. A dire il vero non fu proprio un faccia a faccia visto che DeChooch ci dava le spalle. Anzi, a essere precisi ci dava il suo grosso culo peloso visto che stava montando la poverina da dietro. Aveva le brache calate alle caviglie e la donna era piegata sul tavolino delle carte, tenendosi come meglio poteva.

Ci fu un momento di stupito silenzio, poi Lula scoppiò a ridere.

«Dovresti prendere in considerazione l’idea di farti la ceretta al culo» consigliò Lula a DeChooch. «Hai davvero un brutto sedere.»

«Cristo» esclamò DeChooch, tirandosi su i pantaloni. «Uno non è padrone di avere una relazione neanche nel proprio ufficio.»

La donna si tirò su, si sistemò la gonna e cercò di ficcare nuovamente le tette nel reggiseno. Poi sgambettò via, imbarazzata a morte, con le mutandine in mano. Mi augurai che fosse ben ricompensata per quel che faceva.

«Che volete ancora?» chiese DeChooch. «Avete in mente qualcosa in particolare o siete soltanto venute a vedere una dimostrazione?»

«Tuo zio ha rapito mia nonna.»

«Cosa?»

«L’ha presa ieri. Come riscatto vuole che gli consegni il cuore.»

La sorpresa nei suoi occhi si fece un tantino più intensa. «Sai tutto del cuore?»

Io e Lula ci scambiammo un’occhiata.

«Io… ehm, ce l’ho io il cuore» dissi.

«Gesù Cristo. Come cazzo l’hai avuto?»

«Non importa come l’ha avuto» intervenne Lula.

«Giusto» dissi. «Quello che importa è che sistemiamo la faccenda. Prima di tutto voglio che mia nonna torni a casa. Poi rivoglio il Luna e Dougie.»

«Per tua nonna posso fare qualcosa» disse Ronald. «Non so dove si stia nascondendo mio zio Eddie, ma ogni tanto lo sento. Ha un cellulare. Per quegli altri due la faccenda è diversa. Non ne so niente. Anzi, mi pare che nessuno ne sappia niente.»

«Eddie dovrebbe chiamarmi questa sera alle sette. Non voglio che qualcosa vada storto. Gli darò il cuore e rivoglio indietro mia nonna. Se succede qualcosa di brutto a mia nonna o se non me la restituisce in cambio del cuore, la cosa prenderà una brutta piega.»

«Ricevuto.»

Io e Lula ce ne andammo. Ci chiudemmo alle spalle due porte, montammo sulla Harley e poi via. Due isolati più in là dovetti accostare perché ridevamo così tanto che temevo saremmo potute cadere dalla moto.

«È stato davvero il massimo» disse Lula. «Se vuoi catturare l’attenzione di un uomo basta beccarlo con i pantaloni calati.»

«È la prima volta che vedo qualcuno mentre lo fa!» dissi a Lula. Mi si era infuocato il viso per le risate. «Non mi sono neanche mai guardata allo specchio.»

«È meglio non guardarsi allo specchio» disse Lula. «Sono gli uomini che adorano gli specchi. Si guardano mentre lo fanno e gli sembra di vedere uno stallone. Le donne, invece, si guardano e la prima cosa che gli viene in mente è che devono assolutamente rinnovare l’iscrizione in palestra.»

Stavo cercando di riprendermi quando mia madre mi chiamò al cellulare.

«Sta succedendo qualcosa di strano» disse. «Dov’è tua nonna? Perché non è tornata a casa?»

«Sarà a casa questa sera.»

«Hai detto la stessa cosa anche ieri. Chi è l’uomo con cui si trova adesso? Questa faccenda non mi piace proprio per niente. Che dirà la gente?»

«Non ti preoccupare. La nonna è stata molto discreta. È solo che doveva fare questa cosa.» Non sapevo cos’altro dire così simulai il suono di un’interferenza. «Oh-oh» feci «si sta per interrompere la comunicazione. Devo proprio andare.»

Lula stava guardando oltre le mie spalle. «Vedo che in fondo alla strada» disse «c’è una grossa macchina nera appena uscita dall’area della ditta di pavimentazioni. E tre uomini sono appena usciti dalla porta principale e giurerei che ci stanno indicando.»

Guardai per vedere cosa stava succedendo. Da quella distanza era impossibile distinguere i dettagli, ma sembrava che uno di loro ci stesse effettivamente indicando. Gli uomini salirono in macchina e l’auto partì nella nostra direzione.

«Forse Ronald si è dimenticato di dirci qualcosa» disse Lula.

Avevo una strana sensazione al petto. «Avrebbe potuto chiamare.»

«A pensarci bene, forse non avresti dovuto dirgli che hai il cuore.»

Merda.

Io e Lula saltammo in sella alla moto ma ormai la macchina era a solo un isolato di distanza e ci stava raggiungendo.

«Tieniti stretta» urlai. E scattammo via. Accelerai verso la curva e la presi larga. Non ero ancora abbastanza brava sulla moto da correre rischi.

«Ehi» mi urlò Lula in un orecchio «ce li abbiamo dietro.»

Con la coda dell’occhio vidi che la macchina si avvicinava di lato. Eravamo su una strada a due corsie e ci separavano due isolati dalla Broad. Queste strade secondarie erano deserte, ma sulla Broad ci sarebbe stato traffico a quell’ora del giorno. Se fossi riuscita ad arrivarci, forse li avrei seminati. L’auto mi superò, si allontanò un po’ e poi si piazzò di traverso, bloccandoci la strada. Le portiere della Lincoln si aprirono, tutti e quattro gli uomini scesero e io mi fermai con una brusca frenata. Sentii il braccio di Lula sulla mia spalla e intravidi la sua Glock.

Tutto si fermò.

Alla fine uno degli uomini si fece avanti. «Ronnie ha detto di consegnarti il suo biglietto da visita nel caso avessi bisogno di metterti in contatto con lui. C’è su il suo numero di cellulare.»

«Grazie» dissi, prendendo il biglietto. «Ronald è stato previdente a pensarci.»

«Già. È uno in gamba.»

Poi risalirono in macchina e se ne andarono.

Lula rimise la sicura alla pistola. «Credo di essermela fatta addosso» disse.

Quando tornammo in ufficio, Ranger era lì ad aspettarci.

«Questa sera alle sette» dissi a Ranger. «Al Silver Dollar. Morelli lo sa, ma mi ha promesso di non far intervenire la polizia.»

Ranger mi guardò. «Hai bisogno che ci sia anch’io?»

«Non guasterebbe.»

Si alzò. «Porta con te il microfono e accendilo alle sei e trenta.»

«E io?» chiese Lula. «Sono invitata?»

«Tu mi accompagni» dissi. «Mi serve qualcuno che porti il frigo.»

Il Silver Dollar è un ristorantino a Hamilton Township, a poca distanza dal Burg e vicinissimo a casa mia. È aperto ventiquattr’ore su ventiquattro e ha un menù che per leggerlo servirebbero dodici ore. Si può fare colazione a qualsiasi ora e anche alle due di mattina servono un ottimo formaggio bello grasso alla griglia. È circondato da tutte le cose più brutte che rendono il New Jersey così speciale. Minimarket, filiali di banche, magazzini ortofrutticoli, negozi di videocassette, centri commerciali e lavanderie a secco. E insegne al neon e semafori a perdita d’occhio.

Io e Lula arrivammo alle sei e trenta con il cuore surgelato che sbatteva di qua e di là dentro il frigo e il microfono che mi prudeva fastidiosamente sotto la camicia di flanella a quadri. Ci sedemmo in un angolo e ordinammo cheeseburger e patatine fritte e rimanemmo a guardare fuori dalla finestra lo scorrere del traffico.

Verificai che il microfono funzionasse correttamente e ricevetti la telefonata di conferma di Ranger. C’era anche lui… da qualche parte. Stava tenendo d’occhio il ristorante. Ed era invisibile. C’era anche Joe. Probabilmente si erano messi in comunicazione. Li avevo già visti lavorare insieme in passato. Gli uomini come Joe e Ranger usavano delle regole per imporre i loro ruoli. Regole che non riuscivo a capire. Regole che consentivano, per il bene comune, la contemporanea esistenza di due maschi dominanti.

Nel ristorante c’erano ancora molti clienti del secondo turno. Quelli del primo turno erano gli anziani che approfittavano degli sconti di inizio serata. Per le sette la clientela si sarebbe ridotta. Qui non eravamo a Manhattan, dove andava di moda cenare tardi, alle otto o alle nove. A Trenton si lavorava sodo e per le dieci la gente era perlopiù già a letto.

Alle sette il cellulare squillò e il cuore mi cominciò a battere a ritmo di tip tap quando sentii la voce di DeChooch.

«Hai portato il cuore?» chiese.

«Sì. Ce l’ho qui accanto, nel frigo. Come sta la nonna? Voglio parlarle.»

Sentii dei rumori di sottofondo e dei borbottìi, poi la nonna venne al telefono.

«Salve» salutò.

«Stai bene?»

«Sto benone.»

Aveva un tono troppo allegro. «Hai bevuto?»

«Io ed Eddie ci siamo fatti un paio di aperitivi prima di cena, ma non ti preoccupare… sono lucidissima.»

Lula era seduta di fronte a me e sorrideva scuotendo la testa. Sapevo che Ranger stava facendo lo stesso.

Eddie tornò al telefono. «Sei pronta per le istruzioni?»

«Sì.»

«Sai come arrivare a Nottingham Way?»

«Sì.»

«Okay. Prendi la Nottingham fino a Mulberry Street e gira a destra sulla Cherry.»

«Aspetta un minuto. Ronald, tuo nipote, abita sulla Cherry.»

«Già. Devi portare il cuore a Ronald. Ci penserà lui a farlo arrivare a Richmond.»

Maledizione. Avrei riavuto la nonna, ma non Eddie DeChooch. Speravo che Ranger o Joe potessero prenderlo al momento dello scambio.

«E la nonna?»

«Appena ricevo la telefonata di Ronald lascio libera tua nonna.»

Infilai di nuovo il cellulare nella tasca della giacca e riferii il piano a Lula e a Ranger.

«È piuttosto prudente per essere un vecchio» disse Lula. «Non è un piano malvagio.»

Avevo già pagato il cibo, così lasciai la mancia sul tavolo e me ne andai insieme a Lula. Il nero-verde che avevo intorno agli occhi era diventato giallo, nascosto dietro gli occhiali scuri. Lula non si era messa il completo in pelle. Aveva un paio di stivali, jeans e una T-shirt con su un sacco di mucche che pubblicizzava la marca di gelato Ben Jerry. Eravamo due normalissime donne uscite per mangiare un paio di hamburger al ristorante. Persino il frigo sembrava innocuo. Non c’era motivo di sospettare che contenesse un cuore da usare come riscatto per il rilascio di mia nonna.

E queste altre persone, che si sbafavano patatine fritte e insalata russa e che ordinavano budino di riso per dolce: che segreti avevano? Chi mi garantiva che non fossero spie, criminali o ladri di gioielli? Mi guardai in giro. In quanto a questo, chi mi garantiva che fossero degli esseri umani?

Andai a Cherry Street in tutta calma. Ero preoccupata per la nonna e nervosa per il fatto di dover consegnare il cuore a Ronald. Così guidai con molta attenzione. Andare a sbattere con la moto avrebbe ostacolato seriamente il mio tentativo di salvataggio. A ogni modo, era una serata ideale per un giro su una Harley. Né insetti, né pioggia. Sentivo dietro di me Lula che si teneva stretta al frigo.

Nella veranda a casa di Ronald la luce era accesa. Probabilmente mi stava aspettando. Mi augurai che avesse posto per un organo nel freezer. Lasciai Lula sulla moto con la Glock in mano mentre io portai il frigo davanti alla porta di casa e suonai il campanello.

Ronald venne ad aprire, guardò me e poi Lula. «Andate anche a letto insieme, voi due?»

«No» dissi. «Io vado a letto con Joe Morelli.»

Al che Ronald divenne serio in viso dato che Morelli lotta contro il crimine, mentre Ronald lo produce.

«Prima che te lo consegni, voglio che tu telefoni e faccia liberare mia nonna» dissi.

«Certo. Entra pure.»

«Rimango qui. E voglio sentire mia nonna che mi dice che sta bene.»

Ronald alzò le spalle. «Come vuoi. Fammi vedere il cuore.»

Feci scorrere il coperchio e Ronald guardò dentro.

«Gesù» disse «è congelato.»

Guardai anch’io nel frigo. Quello che vidi fu uno schifoso pezzo di ghiaccio marrone scuro avvolto nella plastica.

«Già» dissi «cominciava ad avere un aspetto un po’ strano. Un cuore non si mantiene tanto, capisci? Così l’ho congelato.»

«Comunque l’hai visto bene prima di congelarlo, giusto? Era a posto, vero?»

«Non sono quel che si dice un’esperta in queste cose.»

Ronald scomparve e tornò con un telefono portatile. «Ecco» disse, porgendomi il telefono. «Ecco tua nonna.»

«Sono al centro commerciale di Quaker Bridge con Eddie» disse la nonna. «Ho visto una giacca che mi piace da Macy’s, ma devo aspettare l’assegno della pensione.»

DeChooch venne al telefono. «La lascio al chiosco della pizza. Puoi venire a prenderla quando vuoi.»

Ripetei l’informazione per Ranger. «Okay, fammi capire. Lascerai la nonna al chiosco della pizza al centro commerciale di Quaker Bridge.»

«Esatto» disse Eddie «per caso hai addosso un microfono?»

«Chi, io?»

Restituii il telefono a Ronald e gli consegnai il frigo. «Se fossi in te metterei il cuore nel freezer per il momento e poi magari potresti metterlo nel ghiaccio secco per il viaggio a Richmond.»

Annuì. «Lo farò. Non è il caso di dare a Louie D un cuore pieno di vermi.»

«Toglimi una curiosità.» dissi. «È stata tua l’idea di portare il cuore qui?»

«Avevi detto che non volevi che qualcosa andasse storto.»

Quando tornai alla moto, tirai fuori il cellulare e chiamai Ranger.

«Sto arrivando» disse Ranger. «Sono a dieci minuti da Quaker Bridge. Ti chiamo quando l’ho prelevata.»

Feci sì con la testa e chiusi la comunicazione, incapace di parlare. Ci sono volte in cui la vita ti travolge.

Lula abita in un piccolo appartamento in una zona del quartiere nero che, per essere un ghetto, non è affatto male. Presi la Brunswick Avenue e la percorsi per un po’, poi attraversai i binari ferroviari e trovai il quartiere di Lula. Strade strette e case piccole. Probabilmente costruite anni addietro per gli immigrati importati a lavorare nelle fabbriche di porcellana e nelle acciaierie. Lula abitava al centro del quartiere, al secondo piano di una di queste case.

Il telefono squillò proprio mentre spegnevo il motore.

«Tua nonna è qui con me, bambina» disse Ranger. «La porto a casa. Vuoi un po’ di pizza?»

«Salame e doppia razione di formaggio.»

«Tutto quel formaggio ti ucciderà» disse Ranger e riagganciò.

Lula smontò dalla moto e mi guardò. «Sei sicura che vada tutto bene?»

«Sì, sì. Non ti preoccupare.»

Si sporse in avanti e mi abbracciò. «Sei proprio una brava persona.»

Le sorrisi sbattendo forte gli occhi e asciugandomi il naso con la manica. Anche Lula era una brava persona.

«Oh-oh» disse Lula. «Stai piangendo?»

«No. Credo di aver respirato un insetto un paio di isolati fa.»

Impiegai altri dieci minuti per arrivare a casa dei miei. Parcheggiai una casa più giù e spensi le luci. Non avevo nessuna intenzione di arrivare prima di mia nonna. Probabilmente mia madre era ormai furibonda. Meglio spiegarle che la nonna era stata rapita dopo che era tornata a casa sana e salva.

Mi sedetti sul marciapiede e approfittai del mio anticipo per telefonare a Morelli. Lo trovai al cellulare.

«La nonna è al sicuro» gli dissi. «Ora è con Ranger. È andato a prenderla al centro commerciale e la sta portando a casa.»

«Ho sentito. Ero dietro di te a casa di Ronald. Sono rimasto là finché Ranger non mi ha confermato che aveva preso tua nonna. Ora sto andando a casa.»

Morelli mi chiese di passare la notte da lui, ma rifiutai. Avevo delle cose da fare. Avevo recuperato la nonna, ma il Luna e Dougie erano ancora là fuori da qualche parte.

Dopo un po’, in fondo alla strada un paio di abbaglianti lampeggiarono e la scintillante Mercedes nera di Ranger rallentò fino a fermarsi davanti a casa dei miei. Ranger aiutò la nonna a scendere e mi sorrise. «Tua nonna si è mangiata la tua pizza. A quanto pare, fare l’ostaggio mette appetito.»

«Entri insieme a me?»

«Neanche morto.»

«Devo parlarti. Non ci vorrà molto. Mi aspetti?»

I nostri occhi si incontrarono, e restammo in silenzio per un lungo istante.

Mentalmente mi bagnai le labbra con la lingua e mi sventolai. Già. Avrebbe aspettato.

Mi voltai per entrare in casa ma lui mi tirò indietro. Fece scivolare le mani sotto la mia camicia facendomi trattenere il respiro.

«Il microfono» disse, staccando il nastro adesivo con la punta delle dita che ardevano sulla mia pelle e sfiorandomi la rotondità non coperta dal reggiseno.

La nonna era già oltre la soglia quando la raggiunsi.

«Cavolo, non vedo l’ora di andare al salone di bellezza domani e raccontare a tutti quello che mi è successo.»

Mio padre alzò gli occhi dal giornale e mia madre fu percorsa da un brivido involontario.

«C’è qualche veglia da Stiva?» chiese la nonna a mio padre. «Non vedo un giornale da due giorni. Mi sono persa qualcosa?»

Mia madre strizzò gli occhi. «Dove sei stata?»

«Magari lo sapessi» rispose la nonna. «Avevo una busta in testa quando sono arrivata e anche quando me ne sono andata.»

«È stata rapita» dissi a mia madre.

«Cosa significa… rapita?»

«Io avevo una cosa che Eddie DeChooch voleva e così ha rapito la nonna e l’ha tenuta come ostaggio.»

«Dio ti ringrazio» disse mia madre. «Credevo che fosse andata a vivere con un uomo.»

Mio padre tornò alla lettura del suo giornale. Una giornata come un’altra in casa Plum.

«Ti ha detto niente Choochy?» chiesi alla nonna. «Hai idea di che fine abbiano fatto il Luna e Dougie?»

«Eddie non sa niente di loro. Vorrebbe trovarli anche lui. Dice che è stato Dougie a cominciare tutto. Dice che Dougie gli ha rubato il cuore. Però non sono ancora riuscita a capire questa faccenda del cuore.»

«E non hai idea di dove ti abbia tenuto in questi due giorni?»

«Mi ha messo una busta in testa sia all’andata che al ritorno. All’inizio non mi ero resa conto di essere stata rapita. Credevo che volesse fare del sesso un po’ strano. Quello che so è che siamo andati in giro per un po’ e poi siamo entrati in un garage. Lo so perché ho sentito la porta del garage aprirsi e chiudersi. E poi siamo scesi al piano di sotto di una casa. Era come se il garage comunicasse con la cantina, solo che non era la solita cantina nel seminterrato. C’erano una stanza per la TV, due camere da letto e un cucinino. E poi c’era un’altra stanza con la caldaia, la lavatrice e l’asciugatrice. E non sono riuscita a vedere fuori perché c’erano delle finestre strettissime e con le persiane chiuse dall’esterno.» La nonna sbadigliò. «Be’, io vado a letto. Sono sfinita e domani ho una giornata importante. Devo sfruttare al massimo questo rapimento. Devo raccontarlo a un sacco di gente.»

«Però non dire niente del cuore» pregai la nonna. «Il cuore è un segreto.»

«Per me va bene visto che non saprei comunque che cosa dire.»

«Hai intenzione di denunciarlo?»

La nonna mi guardò stupita. «Chi, Choochy? Certo che no. Cosa penserebbe la gente?»

Ranger mi aspettava appoggiato alla macchina. Era vestito di nero. Abito sportivo nero, mocassini neri che dovevano essergli costati parecchio, T-shirt nera e giacca nera di cachemire. Sapevo che la giacca non serviva a ripararsi dal freddo. La giacca serviva a nascondere la pistola. Non che importasse poi molto. Era una bellissima giacca.

«Probabilmente Ronald porterà il cuore a Richmond domani» dissi a Ranger. «E ho paura che scopriranno che non è quello di Louie D.»

«E allora?»

«Temo che vogliano far capire il loro messaggio facendo qualcosa di brutto al Luna o a Dougie.»

«E allora?»

«Credo che il Luna e Dougie siano a Richmond. Credo che la moglie e la sorella di Louie D stiano collaborando di nascosto. E credo che abbiano il Luna e Dougie.»

«E tu vorresti liberarli?»

«Sì.»

Ranger sorrise. «Potrebbe essere divertente.»

Ranger ha uno strano senso dell’umorismo.

«Mi sono fatta dare da Connie l’indirizzo di Louie D. A quanto pare sua moglie si è rinchiusa in casa da quando Louie è morto. Anche Estelle Colucci, la sorella di Louie, è lì. È partita per Richmond lo stesso giorno in cui il Luna è scomparso. Credo che in qualche modo la donna abbia rapito il Luna e l’abbia portato a Richmond. E scommetto che c’è anche Dougie. Forse Estelle e Sophia si sono stancate dei buchi nell’acqua di Benny e Ziggy e hanno deciso di prendere in mano la situazione.» Purtroppo, da lì in poi, la mia teoria si faceva molto più fumosa. Uno dei motivi di questa fumosità era che Estelle Colucci non rispondeva alla descrizione della donna con gli occhi da pazza. A dire il vero, non rispondeva neanche alla descrizione della donna nella limousine.

«Vuoi fare un salto a casa per prendere qualcosa?» mi chiese Ranger. «O vuoi partire subito?»

Guardai dietro, verso la moto. Dovevo metterla al sicuro da qualche parte. Probabilmente non era una buona idea dire a mia madre che me ne andavo a Richmond con Ranger. E non mi sentivo del tutto tranquilla a lasciare la moto nel parcheggio sotto casa. Gli anziani del mio condominio hanno la tendenza ad andare a sbattere contro tutto quello che è più piccolo di una Cadillac. Di certo non volevo lasciarla da Morelli. Avrebbe insistito per venire a Richmond. Joe era competente quanto Ranger in questo genere di operazioni. Anzi, forse sarebbe stato meglio di Ranger, perché Morelli non era altrettanto matto. Il problema era che non si trattava di un’operazione di polizia. Era un’operazione da cacciatori di taglie.

«Devo sistemare la moto» dissi a Ranger. «Non voglio lasciarla qui.»

«Non ti preoccupare. Dirò a Tank di prendersene cura finché non torniamo.»

«Gli serve la chiave.»

Ranger mi guardò come se fossi tonta.

«Ma certo» dissi. «Dove avevo la testa?» Tank non aveva bisogno della chiave. Tank era membro dell’Allegra Brigata di Ranger, gente che aveva dita migliori di quelle di Ziggy.

Lasciammo il Burg e ci dirigemmo verso sud, prendendo l’autostrada a Bordentown. Dopo pochi minuti cominciò a piovere, una nebbiolina fitta che si fece sempre più insistente con lo scorrere dei chilometri.

La Mercedes ronzava lungo il nastro di strada. Eravamo avvolti dalla notte, il buio che ci circondava era interrotto solo dalle luci sul cruscotto.

C’erano tutti i comfort di un luogo chiuso, più la tecnologia della cabina di comando di un jet. Ranger schiacciò il pulsante del lettore CD e della musica classica si diffuse nell’auto. Una sinfonia. Non il massimo, ma comunque piacevole.

Secondo i miei calcoli il viaggio sarebbe durato circa cinque ore. Ranger non era il tipo che parlava del più e del meno. Non parlava con nessuno della sua vita o di ciò che pensava. Così reclinai il sedile e chiusi gli occhi. «Se ti stanchi e vuoi che guidi io, basta che tu me lo dica» dissi.

Mi misi comoda e cominciai a pensare a Ranger. Quando ci eravamo incontrati la prima volta, lui era una specie di bullo di strada tutto muscoli. Era uno che sapeva il fatto suo, una specie di boss della zona ispanoamericana del ghetto, sempre vestito in tuta mimetica e divisa nera da squadra speciale. Ora improvvisamente indossava giacche di cachemire, ascoltava musica classica e parlava più come un laureato di Harvard che come un rapper di colore.

«Non è che per caso hai un fratello gemello?» gli chiesi.

«No» disse con voce morbida. «Sono un esemplare unico.»

Capitolo 13

Mi svegliai quando la macchina smise di muoversi. Non pioveva più, ma era molto buio. Guardai l’orologio digitale sul cruscotto. Erano quasi le tre. Ranger stava studiando il massiccio edificio coloniale sul lato opposto della strada.

«La casa di Louie D?» chiesi.

Ranger annuì.

Era una grande casa costruita su un fazzoletto di terra. Le case vicine erano simili. Si trattava di costruzioni tutte relativamente nuove. Non c’erano alberi o cespugli ben cresciuti. Di lì a vent’anni sarebbe diventato un grazioso quartiere. Al momento sembrava un po’ troppo nuovo, troppo spoglio. Non c’erano luci accese in casa di Louie. Non c’erano auto parcheggiate lungo la strada. In quel quartiere le auto venivano tenute nei garage o nei vialetti di casa.

«Rimani qui» disse Ranger. «Devo dare un’occhiata in giro.»

Lo guardai mentre attraversava la strada per poi sparire nelle ombre proiettate dalla casa. Socchiusi il finestrino e mi concentrai per ascoltare i suoni, ma non sentii nulla. In un’altra vita Ranger ha fatto parte delle Forze Speciali e non ha perso nessuna delle sue abilità. Si muove come un felino che abbia puntato la sua preda. Io, invece, mi muovo come un bisonte acquatico. Il che presumibilmente spiega perché lo stessi aspettando in macchina.

Sbucò dal lato più lontano dell’edificio e tornò lentamente in macchina. Si mise al volante e girò la chiave dell’accensione.

«È tutto chiuso» disse. «L’allarme è inserito e la maggior parte delle finestre ha le tende tirate. Non c’è molto da vedere. Se avessi più informazioni sulla casa e sulle sue abitudini entrerei a dare un’occhiata. Ma non mi va di farlo senza sapere quante persone ci vivono.» Si allontanò dal marciapiede e percorse lentamente la strada. «Siamo a quindici minuti da un quartiere di uffici. Il computer mi dice che ci sono un centro commerciale, alcuni fast food e un motel. Ho fatto prenotare le stanze da Tank. Puoi prenderti qualche ora per dormire e darti una rinfrescata. La mia idea è di bussare alla porta della signora D alle nove e intrufolarci in casa con qualche stratagemma.»

«Mi sembra che possa funzionare.»

Tank aveva prenotato due camere in una classica costruzione a due piani che faceva parte di una catena di motel. Non era un ambiente di lusso, ma neanche troppo brutto. Entrambe le stanze erano al secondo piano. Ranger aprì la porta della mia e accese la luce, passando rapidamente in rassegna il locale con lo sguardo. Sembrava tutto in ordine. Non c’erano pazzi in agguato nell’ombra.

«Vengo da te alle otto e trenta» disse. «Possiamo fare colazione e poi andare a salutare le signore.»

«Sarò pronta.»

Mi tirò a sé, abbassò la bocca sulla mia e mi baciò. Fu un bacio lento e profondo. Le sue mani erano ben ferme sulla mia schiena. Gli presi la T-shirt e mi strinsi a lui. Sentii il suo corpo rispondere a quel gesto.

L’immagine di me stessa in abito da sposa mi balenò in mente. «Merda!» esclamai.

«Non è la reazione che ottengo di solito quando bacio una donna» disse Ranger.

«Okay, ecco la verità. Mi piacerebbe molto venire a letto con te, ma c’è questo stupido abito da sposa…»

Ranger seguì la mia mascella con le labbra, fino all’orecchio. «Potrei farti dimenticare l’abito da sposa.»

«Certo. Ma questo creerebbe un sacco di brutti problemi.»

«Hai un dilemma morale.»

«Sì.»

Mi baciò nuovamente. Questa volta con leggerezza. Fece un passo indietro e gli angoli della bocca gli si incresparono in un mezzo sorriso. «Non voglio fare pressione su di te e sul tuo dilemma morale, ma prega di riuscire a catturare Eddie DeChooch da sola perché se ti aiuto dovrò riscuotere il mio onorario.»

E se ne andò. Si chiuse la porta alle spalle e rimasi ad ascoltarlo mentre percorreva il corridoio per poi entrare nella sua camera.

Diamine.

Mi distesi sul letto tutta vestita, con le luci accese e gli occhi spalancati. Quando il cuore smise di martellarmi e i capezzoli cominciarono a rilassarsi mi alzai e mi passai dell’acqua sul viso. Programmai la sveglia per le otto. Evviva, quattro ore di sonno. Spensi la luce e mi infilai a letto. Non riuscivo a dormire. Troppi vestiti addosso. Mi alzai, mi tolsi tutto tranne le mutandine e ritornai a letto. Niente da fare, non riuscivo a dormire neanche così. Troppo pochi vestiti addosso. Indossai di nuovo la camicia, mi infilai ancora una volta sotto le coperte e sprofondai istantaneamente nel mondo dei sogni.

Quando alle otto e trenta Ranger bussò alla porta della mia stanza ero pronta più che mai. Mi ero fatta la doccia e sistemata i capelli come meglio potevo pur non avendo il gel. Ho sempre un sacco di roba nella borsa. Chi poteva prevedere che mi sarebbe servito il gel?

Per colazione Ranger prese caffè, frutta e una ciambella integrale. Io presi un uovo McMuffin, un frappè al cioccolato e patatine fritte. E visto che pagava Ranger, presi anche un pupazzetto dei personaggi Disney.

A Richmond faceva più caldo che in New Jersey. Alcuni alberi e le azalee precoci erano già in fiore. Il cielo era sereno e stava diventando azzurro. Una giornata ideale per fare i cattivi con due vecchie signore.

Sulle strade principali c’era molto traffico, ma scomparve non appena entrammo nel quartiere di Louie D. I pulmini della scuola erano già arrivati e ripartiti e gli abitanti adulti del quartiere stavano già facendo la loro lezione di yoga, oppure erano nei negozi di raffinata gastronomia, al circolo del tennis, alla boutique per bambini o al lavoro. Quella mattina nel quartiere c’era un’atmosfera vitale e piena d’energia. A eccezione della casa di Louie D. Sembrava esattamente come l’avevamo vista alle tre di mattina. Buia e silenziosa.

Ranger chiamò Tank, il quale gli disse che Ronald era uscito di casa alle otto con il frigo. Tank lo aveva seguito verso sud fino a Whitehorse e poi era tornato indietro una volta appurato che Ronald si stava dirigendo verso Richmond.

«Che ne pensi della casa?» chiesi a Ranger.

«Che è come se nascondesse un segreto.»

Scendemmo entrambi dall’auto e ci incamminammo verso la porta principale. Ranger suonò il campanello. Dopo un po’ venne ad aprire una donna sui sessant’anni. Aveva capelli castani corti che incorniciavano un viso lungo e stretto su cui spiccavano un paio di folte sopracciglia nere. Era vestita di nero. Un abito nero abbottonato sul davanti che rivelava una corporatura minuta e asciutta, un cardigan nero, mocassini neri e calze scure. Non portava trucco né gioielli, a eccezione di una collanina con un semplice crocifisso d’argento. Aveva gli occhi spenti e cerchiati di scuro, come chi non dorme da molto tempo.

«Sì?» disse quasi senza forze. Sulle sue labbra sottili ed esangui non passò nemmeno l’ombra di un sorriso.

«Sto cercando Estelle Colucci» dissi.

«Estelle non c’è.»

«Suo marito ha detto che sarebbe venuta qui.»

«Suo marito si è sbagliato.»

Ranger si mosse in avanti ma la donna lo trattenne subito.

«Lei è la signora DeStefano?» chiese Ranger.

«Sono Christina Gallone. Sophia DeStefano è mia sorella.»

«Abbiamo bisogno di parlare con la signora DeStefano» disse Ranger.

«Non riceve visite.»

Ranger la spinse indietro nell’ingresso. «Io penso di sì.»

«No!» disse Christina, tirando Ranger da una parte. «Non sta bene. Dovete andarvene!»

Dalla cucina sbucò un’altra donna. Era più vecchia di Christina ma si assomigliavano. Indossava lo stesso vestito nero, scarpe nere e lo stesso crocifisso d’argento. Era più alta della sorella e i capelli corti e castani erano spruzzati qua e là di grigio. Il viso aveva un’espressione più viva di quello della sorella, ma i suoi occhi erano vuoti, assorbivano la luce senza riflettere nulla. Il mio primo pensiero fu che fosse sotto l’effetto di qualche medicinale. Il secondo pensiero fu che fosse pazza. Ed ero quasi certa che la donna che avevo davanti era quella con gli occhi spaventosi che aveva sparato al Luna.

«Che succede?» chiese.

«La signora DeStefano?» domandò Ranger.

«Sì.»

«Vorremmo parlarle riguardo alla scomparsa di due persone.»

Le sorelle si guardarono e io avvertii un formicolio alla nuca. Alla mia sinistra c’era il soggiorno. Era buio e minaccioso, ammobiliato in maniera formale con tavoli di mogano lucido e tappezzeria in broccato pesante. Le tende erano ben chiuse e non lasciavano filtrare la minima luce all’interno. Sulla destra si apriva un piccolo studio. La porta era socchiusa e lasciava intravedere una scrivania piena zeppa di carte e oggetti. Anche nello studio le tende erano chiuse.

«Che cosa vorreste sapere?» disse Sophia.

«Si chiamano Walter Dunphy e Douglas Kruper e vorremmo sapere se li avete visti.»

«Non conosco nessuno dei due.»

«Douglas Kruper è latitante e sta venendo meno alla garanzia che è stata pagata per lui» disse Ranger. «Abbiamo motivo di credere che si trovi in questa casa e in qualità di agenti alle dipendenze di Vincent Plum siamo autorizzati a effettuare una perquisizione.»

«Non farete niente di tutto ciò. O ve ne andate immediatamente oppure chiamo la polizia.»

«Se preferisce che la polizia sia presente mentre effettuiamo la perquisizione, la chiami pure.»

Di nuovo un silenzioso scambio di occhiate tra le sorelle, ma ora Christina stringeva nervosamente tra le dita un lembo della gonna.

«Non mi piace questa intrusione» disse Sophia. «È una mancanza di rispetto.»

Oh-oh, pensai. Tutta colpa della mia linguaccia… avevo fatto proprio come la povera vicina defunta di Sophia.

Ranger si spostò di lato e aprì la porta del guardaroba. Teneva la pistola in mano, lungo il fianco.

«Basta» disse Sophia. «Non avete alcun diritto di perquisire la casa. Sapete chi sono? Vi rendete conto che sono la vedova di Louis DeStefano?»

Ranger aprì un’altra porta. La toilette.

«Vi ordino di fermarvi o ne pagherete le conseguenze» minacciò Sophia.

Ranger aprì la porta dello studio e accese la luce, tenendo d’occhio le due donne mentre perlustrava la casa.

Seguii il suo esempio e dopo aver acceso le luci feci un giro nel soggiorno e nella sala da pranzo. Poi passai in cucina. In un corridoio attiguo c’era una porta chiusa a chiave. Probabilmente la dispensa o la cantina. Non mi andava di entrare. Non avevo la pistola. E anche se l’avessi avuta, non sarei stata granché capace di usarla.

Improvvisamente Sophia mi seguì in cucina. «Fuori di qui!» gridò prendendomi per il polso e tirandomi con forza in avanti. «Esci immediatamente dalla mia cucina.»

Mi allontanai da lei con uno strattone. E con lo scatto di un rettile, Sophia aprì un cassetto della cucina e tirò fuori una pistola. Si girò, puntò l’arma e sparò a Ranger. Poi si girò verso di me.

Senza pensare, mossa unicamente dalla paura cieca, mi scagliai contro di lei e la buttai a terra. La pistola scivolò via sul pavimento e io cercai in fretta di recuperarla. Ranger arrivò prima di me. La raccolse lentamente e se la infilò in tasca.

Ero in piedi, incerta sul da farsi. La manica della giacca di cachemire di Ranger era intrisa di sangue. «Vuoi che chiami aiuto?» gli chiesi.

Si scrollò di dosso la giacca e si guardò il braccio. «Non è grave» disse. «Per ora prendimi un asciugamano.» Allungò indietro il braccio per prendere le manette. «Ammanettale insieme.»

«Non mi toccare» disse Sophia. «Se mi tocchi ti ammazzo. Ti cavo gli occhi con le unghie.»

Feci scattare la manetta attorno al polso di Christina e la tirai verso Sophia. «Mi dia la mano» dissi a Sophia.

«Mai» rispose. E mi sputò addosso.

Ranger si avvicinò. «Tiri fuori immediatamente la mano o sparo a sua sorella.»

«Louie, mi senti Louie?» gridò Sophia guardando in alto, presumibilmente oltre il soffitto. «Vedi cosa sta succedendo? Vedi che disgrazia? Gesù santo» gemeva. «Gesù santo.»

«Dove sono?» chiese Ranger. «Dove sono i due uomini?»

«Sono miei» disse Sophia. «Non li cedo. Non finché non ho ottenuto quello che voglio. Quell’idiota di DeChooch ha assoldato il suo ricettatore per riportare il cuore a Richmond. Troppo pigro per riportarlo lui stesso. Si vergognava troppo. E sapete che cosa mi ha riportato quel rompiscatole? Un frigo vuoto. Credevano di cavarsela, lui e il suo amico.»

«Dove sono?» le chiese di nuovo Ranger.

«Sono dove dovrebbero essere. All’inferno. E ci rimarranno finché non mi dicono che ne è stato del cuore. Voglio sapere chi ce l’ha.»

«Ronald DeChooch ha il cuore» la informai. «Sta venendo qui.»

Sophia strizzò gli occhi. «Ronald DeChooch.» Sputò per terra. «Ecco cosa penso di Ronald DeChooch. Voglio vederlo con i miei occhi, altrimenti non ci credo.»

Ovviamente non era stata messa al corrente di tutta la storia, e quindi del mio coinvolgimento.

«Dovete lasciar andare mia sorella» supplicò Christina. «Vedete che non sta bene.»

«Hai le manette?» mi chiese Ranger.

Frugai nella borsa e tirai fuori un paio di manette.

«Bloccale al frigorifero» disse Ranger «e poi vedi se riesci a trovare un kit di pronto soccorso.»

Avevamo avuto tutti e due esperienza diretta con ferite d’arma da fuoco, quindi sapevamo bene come bisognava procedere. Trovai del materiale di pronto soccorso nel bagno al piano di sopra, applicai una compressa sterile sul braccio di Ranger e la fissai con della garza e del nastro.

Ranger provò ad aprire la porta sul corridoio vicino alla cucina.

«Dov’è la chiave?» chiese.

«Vai all’inferno» disse Sophia, socchiudendo quei suoi occhi da serpente.

Colpendola con un piede, Ranger spaccò la porta e riuscì ad aprirla. C’erano un piccolo pianerottolo e dei gradini che scendevano nella cantina. Era buio come la pece. Ranger accese l’interruttore della luce e scese con la pistola pronta a sparare.

Era un seminterrato lasciato a metà e con il solito assortimento di scatoloni, attrezzi e oggetti vari, ancora in buono stato per essere gettati via ma del tutto inutili. Un paio di mobili da giardino parzialmente coperti da vecchi teli. Caldaia e boiler in un angolo. Lavanderia in un altro. E un altro angolo ancora era chiuso da un muro di blocchi di cemento alto fino al soffitto che creava una specie di stanzetta. La porta era di metallo e chiusa con un lucchetto.

Guardai Ranger. «Un rifugio antiatomico? Una dispensa sotterranea? Una cella frigorifera?»

«Accidenti» disse Ranger. Mi fece arretrare e sparò due serie di colpi disintegrando il lucchetto.

Aprimmo la porta e il puzzo di paura ed escrementi ci fece indietreggiare. La stanzetta era buia ma dall’angolo opposto intravedemmo degli occhi che ci guardavano. Il Luna e Dougie erano accucciati e si tenevano stretti. Erano nudi e luridi, avevano i capelli aggrovigliati, le braccia ricoperte di ferite sanguinanti. Erano stati ammanettati a un tavolo di metallo fissato al muro. Il pavimento era cosparso di bottiglie di plastica e buste del pane.

«Piccola» disse il Luna.

Mi sentii cedere le gambe e crollai su un ginocchio.

Ranger mi tirò su infilandomi una mano sotto l’ascella. «Non ora» disse. «Togli i teli dai mobili.»

Un altro paio di colpi di pistola. Ranger li stava liberando dal tavolo.

Il Luna era in condizioni migliori di Dougie. Dougie era rimasto in quella stanza per più tempo. Era dimagrito e sulle braccia aveva cicatrici di bruciature.

«Credevo che ci sarei morto, qui dentro» disse Dougie.

Io e Ranger ci guardammo. Se non fossimo intervenuti sarebbe probabilmente andata a finire così. Sophia non li avrebbe lasciati liberi dopo averli rapiti e torturati.

Li avvolgemmo nei teli e li portammo di sopra. Andai in cucina per chiamare la polizia e quello che vidi mi fece rimanere di stucco. Un paio di manette che penzolavano dal frigorifero. La porta del frigo era macchiata di sangue. Le due donne se ne erano andate.

Ranger era alle mie spalle. «Probabilmente si è liberata la mano a furia di morsi» disse.

Chiamai la polizia e dieci minuti dopo un’auto di servizio era già davanti al marciapiede. La seguivano un’altra auto e un’ambulanza.

Restammo a Richmond fino al tardo pomeriggio. Il Luna e Dougie furono reidratati e furono somministrati loro degli antibiotici. A Ranger suturarono e medicarono il braccio. Passammo gran parte del tempo alla stazione di polizia. Difficile spiegare alcune parti della storia. Tralasciammo il cuore di maiale che era in viaggio da Trenton. E decidemmo di non confondere le acque con il rapimento della nonna. La Corvette di Dougie fu ritrovata nel garage di Sophia. L’avrebbero rispedita a Trenton in settimana.

Ranger mi consegnò le chiavi della Mercedes quando lasciammo l’ospedale. «Non attirare l’attenzione» disse. «Non è il caso che la polizia si avvicini troppo a questa macchina.»

Dougie e il Luna, provvisti di scarpe e vestiti nuovi, si sistemarono nel sedile posteriore, belli puliti e contenti di essere usciti da quella cantina.

Il viaggio di ritorno fu tranquillo. Dougie e il Luna si addormentarono all’istante. Ranger si isolò. Se fossi stata meno stanca avrei potuto approfittare per riflettere sulla mia vita. Ma dovevo concentrarmi sulla strada e sforzarmi di non crollare dal sonno facendo scattare il pilota automatico.

Quando aprii la porta di casa quasi mi aspettavo di trovarmi davanti Benny e Ziggy. Trovai invece una calma totale. Paradisiaca. Mi chiusi la porta alle spalle e stramazzai sul divano.

Mi svegliai tre ore dopo e arrancai in cucina. Lasciai cadere un cracker e un acino d’uva nella gabbietta di Rex e gli chiesi scusa. Non solo ero una stronza che correva dietro a due uomini contemporaneamente, ma ero anche una cattiva madre per il mio criceto.

La segreteria telefonica lampeggiava furiosamente. Gran parte dei messaggi erano di mia madre. Due erano di Morelli. Uno della boutique di Tina che mi diceva che l’abito da sposa era arrivato. E poi c’era un messaggio di Ranger che mi riferiva che Tank aveva lasciato la moto nel parcheggio sotto casa e che dovevo stare attenta. Sophia e Christina erano ancora in libertà.

L’ultimo messaggio era di Vinnie. «Complimenti, sei riuscita a recuperare tua nonna. Mi dicono che hai recuperato anche il Luna e Dougie. Indovina chi manca? Eddie DeChooch. Te lo ricordi? È lui quello che voglio che recuperi. È lui che mi porterà al fallimento se non trascini quel suo culo decrepito in galera. È vecchio, santo Dio. È cieco. Non ci sente. Non riesce a pisciare da solo. Ma tu non sei capace di prenderlo. Dov’è il problema?»

Porca miseria. Eddie DeChooch. Mi ero effettivamente dimenticata di lui. Era in una casa chissà dove. C’era un garage che dava nel seminterrato. E a giudicare dal numero di stanze di cui la nonna aveva parlato doveva essere una casa piuttosto grande. Non se ne trovavano così nel Burg. E neanche nel quartiere di Ronald. Cos’altro avevo? Zero. Non avevo idea di dove poter trovare Eddie DeChooch. A dire la verità non lo volevo neanche trovare.

Erano le quattro di mattina ed ero esausta. Disinserii la suoneria del telefono, mi trascinai in camera, scivolai sotto le coperte e non mi svegliai fino alle due del pomeriggio.

Avevo la cassetta di un film nel videoregistratore e una ciotola di popcorn sulle ginocchia quando il cercapersone suonò.

«Dove sei?» chiese Vinnie. «Ti ho chiamato a casa ma non ha risposto nessuno.»

«Ho disinserito la suoneria del telefono. Ho bisogno di una giornata di ferie.»

«Le tue ferie sono finite. Ho appena intercettato una chiamata dall’antenna radar» disse Vinnie. «Un treno merci in uscita da Philly è andato a sbattere contro una Cadillac bianca al passaggio a livello di Deeter Street. È successo solo pochi minuti fa. Pare che la macchina sia ridotta malissimo, una pacchia per gli sfasciacarrozze. Voglio che tu vada là immediatamente. Con un po’ di fortuna ci sarà rimasto qualcosa del fu Eddie DeChooch che possiamo utilizzare per l’identificazione.»

Guardai l’orologio della cucina. Erano quasi le sette. Ventiquattro ore prima ero a Richmond, mi preparavo per tornare a casa. Era come un brutto sogno. Difficile da credere.

Presi la borsa e le chiavi della moto e mi infilai in bocca quel che rimaneva di un panino. DeChooch non era il mio uomo preferito ma l’idea che fosse stato investito da un treno non mi rendeva felice. Però la mia vita ne avrebbe sicuramente guadagnato. Alzai gli occhi al cielo mentre attraversavo controvoglia l’ingresso. Sarei andata dritta all’inferno per aver pensato una cosa del genere.

Impiegai venti minuti per arrivare a Deeter Street. Gran parte dell’area era bloccata dalle auto della polizia e dai veicoli del pronto soccorso. Parcheggiai a tre isolati di distanza e poi continuai a piedi. Quando mi avvicinai, la polizia stava disponendo il nastro per delimitare l’area sotto inchiesta. Non tanto per preservare il luogo dell’incidente, quanto per tenere alla larga i curiosi. Scrutai tra la folla per vedere se c’era qualcuno che conoscevo, qualcuno che potesse farmi passare. Individuai Carl Costanza insieme a diversi piedipiatti in uniforme. Erano stati convocati sul luogo e ora si trovavano davanti ai curiosi, a guardare il disastro scuotendo la testa. Con loro c’era anche il comandante Joe Juniak.

Mi feci strada a suon di spintoni e arrivai a Carl e Juniak, cercando di non guardare troppo l’auto maciullata perché non mi andava di vedere parti del corpo mozzate e sparse dappertutto.

«Ehi» fece Carl quando mi vide. «Ti stavo aspettando. È una Cadillac bianca. O almeno lo era.»

«È stata identificata?»

«No. Non si riesce a leggere la targa.»

«C’era qualcuno dentro?»

«Chi può dirlo? La macchina è alta una sessantina di centimetri. È volata via e si è accartocciata. I vigili del fuoco la stanno passando agli infrarossi per rilevare eventuale calore corporeo.»

Fui percorsa da un brivido involontario. «Brrr.»

«Già. Ti capisco. Sono arrivato sulla scena per secondo. Ho visto la Cadillac e mi si sono ritirate le palle.»

Da dove mi trovavo non riuscivo a vedere granché della macchina. E la cosa non mi dispiaceva ora che sapevo quanto era distrutta. Era stata colpita da un treno merci e il treno non sembrava aver subito alcun danno. Da quel che riuscivo a vedere non c’era stato nessun deragliamento.

«Qualcuno ha chiamato Mary Maggie Mason?» chiesi. «Se questa è la macchina che guidava Eddie DeChooch, la proprietaria è Mary Maggie.»

«Dubito che qualcuno l’abbia chiamata» disse Costanza. «Non credo che siamo così organizzati.»

Da qualche parte tra le mie cose dovevo avere l’indirizzo e il numero di telefono di Mary Maggie. Frugai nella borsa tra spiccioli, carte di chewing gum, mentine, limetta per le unghie e tutte le altre cianfrusaglie che si raccolgono nel fondo. Alla fine trovai quello che cercavo.

Mary Maggie rispose al secondo squillo.

«Sono Stephanie Plum» le dissi. «Hai riavuto la macchina?»

«No.»

«C’è stato un incidente ferroviario ed è rimasta coinvolta una Cadillac bianca. Pensavo che magari potresti venire qui e vedere se riesci a identificarla.»

«Ci sono feriti?»

«Troppo presto per dirlo. Al momento stanno lavorando sul rottame.»

Le diedi indicazioni sul luogo e le dissi che l’avrei aspettata.

«A quanto pare tu e Mary Maggie siete colleghe» disse Costanza. «Mi dicono che vi rotolate nel fango insieme.»

«Già» risposi «sto pensando di dare una svolta alla mia carriera professionale.»

«Ti consiglio di ripensarci. Pare che lo Snake Pit sia sul punto di chiudere. Gira voce che i suoi conti siano in rosso da due anni.»

«È impossibile. Era pieno zeppo di gente.»

«I posti come quello fanno soldi con la vendita di alcolici e la gente non beve abbastanza. Vanno, pagano l’ingresso e finisce lì. Sanno che se bevono troppo possono essere segnalati e magari vedersi ritirata la patente. Ecco perché Pinwheel Soba si è tirato fuori. Ha aperto un’attività a South Beach dove ha sempre un sacco di gente. A Dave Vincent non importa. Per lui si trattava solo di una buffonata. I soldi gli vengono da attività di cui è meglio non sapere.»

«E così Eddie DeChooch non sta ricavando niente dal suo investimento?»

«Non lo so. Questa gente frega il fisco, ma la mia impressione è che DeChooch non ci ricavi molto.»

Tom Bell era l’investigatore incaricato del caso Loretta Ricci e, a quanto sembrava, gli avevano affidato anche questo. Era uno degli sbirri in borghese che si agitavano intorno all’auto e al locomotore. Si girò e venne verso di noi.

«C’era qualcuno nella macchina?» chiesi.

«Non si sa. Il locomotore butta fuori così tanto calore che non riusciamo ad avere una rilevazione precisa dall’apparecchiatura termosensibile. Dovremo aspettare che il locomotore si raffreddi oppure estrarre l’auto dai binari e aprirla. È una cosa che porta via del tempo. Una parte è rimasta intrappolata sotto il locomotore. Stiamo aspettando delle attrezzature speciali per lavorarci. Quello che sappiamo di sicuro è che nella macchina non c’è nessuno ancora vivo. E per anticipare la tua prossima domanda, non siamo stati in grado di leggere la targa, quindi non sappiamo se si tratti dell’auto che guidava DeChooch.»

Essere la ragazza di Morelli ha i suoi vantaggi. Mi vengono fatti dei favori speciali, come per esempio dare una risposta alle mie domande.

Il passaggio a livello di Deeter Street ha una campana e una sbarra. Ci trovavamo a circa duecento metri da lì, tanto era stata sbalzata lontano la macchina. Il treno era lungo e arrivava oltre Deeter Street. Da dove mi trovavo vedevo che le sbarre erano ancora abbassate. Era possibile che ci fosse stato un guasto e si fossero abbassate dopo l’incidente. Ma a me sembrava più probabile che l’auto si fosse fermata di proposito sui binari e avesse aspettato di essere colpita dal treno.

Sul lato opposto della strada individuai Mary Maggie e le feci cenno con la mano. Avanzò a fatica tra i curiosi e mi raggiunse. Vide da lontano la macchina e impallidì.

«Oh mio Dio» esclamò con occhi sbarrati e un’espressione palesemente scioccata in viso.

Presentai Mary Maggie a Tom e gli spiegai che poteva essere la proprietaria dell’auto.

«Se la facciamo avvicinare pensa di riuscire a dirci se si tratta della sua auto?» chiese Tom.

«C’è qualcuno dentro?»

«Non lo sappiamo. Non si vede nessuno. Potrebbe anche essere vuota. Ma non possiamo esserne certi.»

«Mi sto sentendo male» disse Mary Maggie.

Tutti si mobilitarono. Acqua, sali, busta di carta. Non so da dove sbucassero tutte quelle cose. Gli sbirri sanno muoversi in fretta quando hanno davanti una campionessa di lotta nel fango sul punto di vomitare.

Una volta smesso di sudare e riacquistato un po’ di colore in viso, Mary Maggie venne accompagnata da Bell più vicino alla macchina. Io e Costanza gli eravamo dietro di qualche passo. Non avevo particolarmente voglia di vedere la carneficina, ma non volevo neanche perdermi qualcosa.

Ci fermammo tutti a circa tre metri dai rottami. Il locomotore era immobile ma Bell aveva ragione, emanava ancora molto calore. L’enorme massa ferrosa di quella macchina incuteva paura anche da ferma.

Mary Maggie fissò quel che restava della Cadillac e ondeggiò turbata. «È la mia macchina» disse. «Almeno credo.»

«Da cosa lo capisce?» chiese Bell.

«Dal tessuto dei rivestimenti interni. Mio zio li aveva fatti rifare in blu. Non era il normale tessuto di serie.»

«Qualcos’altro?»

Mary Maggie scosse la testa. «Non credo. Non c’è rimasto granché da vedere.»

Tornammo tutti indietro e ci unimmo al resto delle persone. Dei camion che portavano pesanti attrezzature di soccorso accostarono e iniziarono a lavorare sulla Cadillac. Avevano piazzato una cesoia gigante, ma stavano usando torce all’acetilene per estrarre l’auto da sotto il treno. Si stava facendo buio ed erano stati portati dei faretti trasportabili per illuminare la scena, creando un’atmosfera sinistra, da set cinematografico di film dell’orrore.

Sentii qualcuno tirarmi per la manica e quando mi voltai vidi che si trattava di nonna Mazur che era in punta di piedi e cercava di vedere meglio la scena dell’incidente. Con lei c’era Mabel Pritchet.

«Hai mai visto una cosa simile?» disse la nonna. «Alla radio hanno detto che una Cadillac bianca era stata schiacciata da un treno e mi sono fatta accompagnare da Mabel. È la macchina di Eddie?»

«Non ne siamo sicuri, ma pensiamo che ci siano buone probabilità.»

Presentai la nonna a Mary Maggie.

«È un vero piacere» disse la nonna. «Sono una grande fan del wrestling.» Tornò a guardare ciò che restava della Cadillac. «Sarebbe un vero peccato se dentro ci fosse Eddie. È così carino.» La nonna si allungò davanti a me verso Mary Maggie. «Sapevi che sono stata rapita? Con tanto di busta in testa.»

«Avrà avuto paura» disse Mary Maggie.

«Be’, all’inizio credevo che Choochy avesse solo qualche idea perversa. Ha un problema con il pene, sai. Non riesce a fare niente. Gli rimane giù, come fosse morto. Ma poi ho scoperto di essere stata rapita. Che roba, eh? Prima abbiamo fatto un giro in macchina, poi ho sentito che entravamo in un garage con una porta automatica. Il garage era comunicante con uno di quei seminterrati abitabili, con un paio di camere da letto e una stanza per la TV. E in quella stanza c’erano delle sedie rivestite con un tessuto leopardato.»

«Conosco quella casa» disse Mary Maggie. «Ci sono andata a una festa, una volta. C’è anche un cucinino, vero? E il bagno di sotto ha una carta da parati con un motivo a uccelli tropicali.»

«Esatto» disse la nonna. «Era un motivo giungla. Chooch ha detto che anche Elvis aveva una stanza decorata stile giungla.»

Non potevo credere alle mie orecchie. Mary Maggie conosceva il nascondiglio segreto di DeChooch. E ora probabilmente non mi serviva più.

«A chi appartiene la casa?» chiesi.

«A Pinwheel Soba.»

«Credevo si fosse trasferito in Florida.»

«Sì, ma ha tenuto la casa. Hanno dei parenti qui, così passano una parte dell’anno in Florida e una parte qui a Trenton.»

Si sentì uno stridore di lamiera tagliata e la Cadillac fu estratta dal treno. Guardammo in silenzio per diversi minuti di tensione mentre il tettuccio veniva aperto come una scatoletta di sardine. Tom Bell si avvicinò alla macchina. Un momento dopo si voltò e guardandomi disse in silenzio la parola «Vuota».

«Non c’è» dissi. E tutti soffocammo lacrime di sollievo. Chissà perché. Eddie DeChooch non era una persona poi così meravigliosa. Forse però nessuno si merita di essere schiacciato come una pizza da un treno.

Quando tornai a casa chiamai Morelli. «Hai sentito di DeChooch?»

«Sì, mi ha chiamato Tom Bell.»

«Molto strano. Penso che DeChooch abbia lasciato lì la macchina per farla investire.»

«È quello che pensa anche Tom.»

«Perché DeChooch avrebbe dovuto fare una cosa del genere?»

«Perché è pazzo?»

Non credevo che DeChooch fosse pazzo. I veri pazzi sono altri. Prendiamo Sophia, per esempio. DeChooch aveva dei problemi, fisici ed emotivi. E aveva pericolosamente perso il controllo sulla sua vita. Erano andate storte alcune cose e aveva cercato di rimettere tutto a posto, ma invece di migliorare, la situazione peggiorava sempre di più. Ora capivo come tutto fosse collegato, a eccezione della morte di Loretta Ricci e della Cadillac sui binari ferroviari.

«Questa sera è successo qualcosa di buono» dissi. «È venuta la nonna e ha cominciato a parlare con Mary Maggie a proposito del suo rapimento. La nonna ha descritto la casa dove DeChooch l’ha portata e Mary Maggie ha detto che potrebbe essere la casa di Pinwheel Soba.»

«Soba viveva a Ewing, in una traversa di Olden Avenue. È schedato.»

«Ora capisco. Ho visto DeChooch girare in quella zona. Ho sempre pensato che il motivo fosse Ronald, ma forse andava a casa di Soba. Puoi darmi l’indirizzo?»

«No.»

«Cosa significa no?»

«Non voglio che tu ci vada a ficcanasare. DeChooch è imprevedibile.»

«È il mio lavoro.»

«Non cominciare con questa storia del lavoro.»

«Non avevi un’opinione così negativa del mio lavoro quando ci siamo messi insieme.»

«Era diverso allora. Non pensavo a te come alla madre dei miei figli.»

«Non so neanche se voglio dei figli.»

«Cristo» disse Morelli. «Non dirlo mai a mia madre o a mia nonna. Ti faranno firmare un contratto.»

«Davvero non vuoi darmi l’indirizzo?»

«No.»

«Me lo procurerò in qualche altro modo.»

«Bene» disse Morelli. «Non voglio entrarci in questa faccenda.»

«Lo dirai a Tom Bell, vero?»

«Sì. Devi lasciar fare alla polizia.»

«Vuoi la guerra.»

«Oh cavolo» disse. «Di nuovo in guerra.»

Capitolo 14

Chiusi la telefonata con Morelli e mi feci dare l’indirizzo da Mary Maggie. Ora avevo un problema. Non avevo nessuno che venisse con me. Era sabato sera e Lula aveva un appuntamento con un uomo. Ranger sarebbe venuto, ma non volevo disturbarlo a così poca distanza dalla sparatoria. E poi c’era sempre un prezzo da pagare. Mi vennero le palpitazioni solo a pensarci. Quando gli stavo vicino e gli ormoni cominciavano a lavorare lo desideravo da impazzire. Quando eravamo distanti, la possibilità di andare a letto con Ranger mi spaventava a morte.

Se avessi aspettato fino a domani sarei rimasta un passo indietro rispetto alla polizia. Rimaneva una sola persona, ma il pensiero di lavorare a un caso insieme a lui mi faceva venire i sudori freddi. Quella persona era Vinnie. Quando aveva aperto l’agenzia aveva effettuato le catture tutte da solo. Con il passare del tempo, l’attività era cresciuta e così aveva assunto altro personale e lui aveva cominciato ad occuparsi dell’amministrazione. Ogni tanto fa anche lui una cattura, ma non è quello che preferisce. Vinnie è un bravo garante, ma gira voce che come cacciatore di taglie non sia la persona più corretta del mondo.

Guardai l’orologio. Dovevo prendere una decisione. Non volevo rimandare troppo e dover tirare Vinnie giù dal letto.

Feci un bel respiro e composi il numero.

«Ho una pista su DeChooch» dissi a Vinnie. «Vorrei verificarla ma non ho nessuno che mi faccia da appoggio.»

«Ci vediamo in ufficio tra mezz’ora.»

Parcheggiai la moto sul retro, vicino alla Cadillac blu notte di Vinnie. Dentro, le luci erano accese e la porta sul retro era aperta. Vinnie si stava fissando una pistola alla gamba quando entrai. Come si addice a un buon cacciatore di taglie era vestito di nero, con tanto di giubbotto in kevlar. Io, d’altro canto, avevo un paio di jeans, una T-shirt verde oliva con una vecchia camicia di flanella blu navy indossata a mo’ di giacca. La pistola era a casa, nel barattolo dei biscotti. Speravo che Vinnie non mi chiedesse della pistola. La odio, quella pistola.

Mi lanciò un giubbotto e me lo infilai.

«Giuro che non capisco come tu riesca a portare a termine le tue catture» disse Vinnie guardandomi.

«Questione di fortuna» gli risposi.

Gli diedi l’indirizzo e lo seguii in macchina. Non avevo mai lavorato con Vinnie prima e provai una strana sensazione. Il nostro rapporto è sempre stato antagonistico. Sappiamo troppe cose l’uno dell’altra per essere amici. E sappiamo anche che, all’occorrenza, saremmo entrambi tanto spietati da usare ciò di cui siamo a conoscenza per nuocere all’altro. Okay, la verità è che non sono così spietata. Ma so come fare una minaccia efficace. Forse lo stesso vale per Vinnie.

L’abitazione di Soba si trovava in un quartiere che risaliva probabilmente agli anni Settanta. Ampi spazi e alberi alti. Le case erano classiche costruzioni con ingresso su due livelli, garage per due macchine e giardini sul retro ben recintati per tenere alla larga cani e bambini.

In gran parte delle case le luci erano accese, e immaginai gli adulti che dormivano davanti alle TV mentre i bambini erano nelle loro camere a fare i compiti o a navigare in Internet.

Vinnie rimase col motore acceso davanti a casa di Soba.

«Sei sicura che sia questo il posto?» mi chiese.

«Mary Maggie ha detto che ci è venuta per una festa e che corrispondeva alla descrizione che ha fornito la nonna.»

«Oh cavolo» disse Vinnie «sto per fare irruzione in una casa su indicazione di una lottatrice di wrestling. E neanche una casa qualsiasi. La casa di Pinwheel Soba.» Fece un altro mezzo giro dell’isolato e parcheggiò. Scendemmo dalla macchina e tornammo a piedi verso la casa. Rimanemmo un momento sul marciapiede a guardare le case vicine, in ascolto di eventuali rumori che potessero indicare la presenza di qualcuno all’esterno.

«Le finestrelle del piano inferiore hanno le persiane nere» dissi a Vinnie. «Sono serrate proprio come le ha descritte la nonna.»

«Okay. Ora entriamo e queste sono le possibilità. Potremmo aver sbagliato edificio, nel qual caso siamo nei guai per aver spaventato a morte qualche povera famiglia innocente. Oppure abbiamo la casa giusta e quel pazzo di DeChooch ci spara.»

«Grazie per avermelo fatto presente. Mi sento molto meglio ora.»

«Hai un piano?» domandò Vinnie.

«Sì. Che ne dici se tu vai a suonare il campanello e a vedere se c’è qualcuno in casa? Io ti aspetto qui e ti faccio da appoggio.»

«Ho un’idea migliore. Perché non ti pieghi e ti faccio vedere io il mio piano.»

«Non ci sono luci accese in casa» dissi. «Credo che non ci sia nessuno.»

«Magari stanno dormendo.»

«Magari sono morti.»

«Quella sì che sarebbe una bella cosa» disse Vinnie. «I morti non sparano.»

Mi incamminai sul prato. «Vediamo se ci sono luci accese sul retro.»

«Ricordami di non pagare più garanzie per gente anziana. Sono inaffidabili. Non ragionano normalmente. Basta che si dimentichino di prendere un paio di pasticche e te li ritrovi che nascondono cadaveri nel capanno degli attrezzi e rapiscono vecchie signore.»

«Niente luci accese anche sul retro» dissi. «Che facciamo? Come te la cavi con le violazioni di domicilio con scasso?»

Vinnie tirò fuori dalla tasca due paia di guanti di gomma usa e getta e ce li infilammo.

«Ho una discreta esperienza in materia» disse. Andò alla porta sul retro e provò a tirare la maniglia. Chiusa a chiave. Si girò per guardarmi e mi sorrise. «Un gioco da ragazzi.»

«Sei capace di manomettere la serratura?»

«No, ma posso infilare la mano nel buco dove prima c’era un pannello di vetro.»

Mi avvicinai a Vinnie. Aveva ragione: uno dei vetri sulla porta era stato rimosso.

«Forse DeChooch aveva perso la chiave» disse Vinnie.

Già. Come se ne avesse mai avuta una. Buona idea quella di usare la casa libera di Soba.

Vinnie girò il pomello della porta dall’interno e la aprì. «Inizia lo spettacolo» disse sottovoce.

Avevo in mano la torcia e il cuore mi batteva più veloce del solito. Non ancora all’impazzata, ma andava decisamente a un bel ritmo.

Perlustrammo velocemente il piano superiore facendo luce con la torcia più piccola e decidemmo che DeChooch non era passato di lì. La cucina non sembrava essere stata usata, il frigorifero era spento ed era stato lasciato aperto. Le camere da letto, il soggiorno e la sala da pranzo erano in perfetto ordine, ogni cuscino al suo posto, i vasi di cristallo sui tavoli in attesa di raccogliere mazzi di fiori. Pinwheel Soba non si faceva mancare proprio nulla.

Considerate le persiane ben chiuse all’esterno e le pesanti tende all’interno decidemmo di accendere le luci al piano di sotto. Era esattamente come l’avevano descritto la nonna e Maggie. Sembrava di essere a casa di Tarzan. Mobili tappezzati con tessuti leopardati e zebrati. E poi, tanto per confondere le cose, carta da parati con raffigurati uccelli che vivono solo in America meridionale e centrale.

Il frigorifero era spento e vuoto, ma dentro era ancora fresco. I pensili erano vuoti. I cassetti anche. La spugna nello scolapiatti era ancora umida.

«Ci è sfuggito per poco» disse Vinnie. «Se ne è andato e direi che non ha intenzione di tornare.»

Spegnemmo le luci e stavamo per andarcene quando sentimmo il rumore della porta automatica del garage che si apriva. Eravamo nella parte abitabile del seminterrato. Tra noi e il garage c’erano un breve corridoio e un ingresso con una rampa di scale che saliva al piano di sopra. La porta che conduceva al garage era chiusa. Da sotto la porta chiusa filtrò una striscia di luce.

«Oh merda!» sussurrò Vinnie.

La porta che dava sul garage si aprì ed ecco controluce la sagoma di DeChooch. Entrò nell’ingresso e accese le luci alla base delle scale e guardò dritto verso di noi. Rimanemmo immobili come cervi abbagliati dalle luci di un’auto. Passò qualche secondo prima che spegnesse le luci e si mettesse a correre su per le scale. Probabilmente voleva arrivare alla porta principale al primo piano, invece andò oltre ed entrò in cucina, il tutto piuttosto in fretta per essere un anziano.

Io e Vinnie ci buttammo all’inseguimento su per le scale, spintonandoci nel buio. Arrivammo in cima e alla mia destra vidi il lampo di un colpo d’arma da fuoco e bang, DeChooch sparò alla cieca contro di noi. Lanciai un grido mentre mi buttavo a terra e cercavo di mettermi al riparo.

«Sono il tuo garante» gridò Vinnie. «Molla la pistola, DeChooch, brutto vecchio rincoglionito!»

DeChooch rispose con un altro colpo. Sentii il rumore di qualcosa che si rompeva e altre imprecazioni uscirono dalla bocca di Vinnie. Poi Vinnie aprì il fuoco.

Ero dietro al divano con le mani sulla testa. Era come se Vinnie e DeChooch stessero giocando al tiro al bersaglio al buio. Vinnie aveva una Glock da quattordici colpi. Non so che arma avesse DeChooch ma tra tutti e due sembrava che fosse in atto un mitragliamento. Ci fu una pausa e poi sentii Vinnie buttare in terra un caricatore e inserirne un altro nella pistola. Almeno mi sembrò che fosse Vinnie. Difficile a dirsi, considerato che ero ancora accucciata dietro al divano.

Il silenzio sembrava ancora più assordante degli spari. Misi fuori la testa e socchiusi gli occhi in quella oscurità fumosa. «Ci sei?»

«Ho perso DeChooch» sussurrò Vinnie.

«Forse l’hai ucciso.»

«Un momento. Cos’è questo rumore?»

Era la porta automatica del garage che si apriva.

«Cazzo!» urlò Vinnie. Corse verso le scale, nel buio scivolò sul primo gradino e cadde col sedere sul pianerottolo. Si tirò faticosamente in piedi, spalancò la porta principale e puntò la pistola. Sentii uno stridore di ruote e Vinnie chiuse la porta sbattendola. «Maledizione, merda, cazzo!» esclamò Vinnie, attraversando a passo pesante l’ingresso e proseguendo di sopra. «Non posso credere che mi sia sfuggito! Mi è passato davanti mentre stavo ricaricando la pistola. Cazzo, cazzo, cazzo!»

Considerato l’accanimento con cui aveva pronunciato quei cazzo, temevo che gli scoppiasse una vena in testa.

Accese una luce e ci guardammo intorno. Lampade in frantumi, pareti e soffitti sforacchiati, tappezzeria stracciata dai fori delle pallottole.

«Porca miseria» disse Vinnie. «Sembra ci sia stata una guerra.»

Suono di sirene in lontananza. La polizia.

«Me ne vado» disse Vinnie.

«Non so se è una buona idea fuggire dalla polizia.»

«Non sto fuggendo dalla polizia» chiarì Vinnie facendo le scale due alla volta. «Sto fuggendo da Pinwheel Soba. Credo che sarebbe un’ottima idea se questa faccenda rimanesse tra noi due.»

Aveva ragione.

Ci fiondammo verso la parte più buia del cortile e attraversammo la proprietà dietro la casa di Soba. C’erano luci che si accendevano e spegnevano in tutte le verande dell’isolato. Cani che abbaiavano. E io e Vinnie che ansimavamo, correndo da un cespuglio all’altro. Quando ormai dalla macchina ci separava solo un giardino, uscimmo dall’ombra e prendemmo a camminare con calma. Tutta l’attività si svolgeva a metà isolato, davanti a casa di Soba.

«Ecco perché non si parcheggia mai davanti alla casa dove si deve fare irruzione» disse Vinnie.

Una cosa da ricordare.

Salimmo in macchina. Vinnie girò lentamente la chiave dell’accensione e ce ne andammo da bravi e onesti cittadini. Arrivammo all’angolo e Vinnie guardò verso la casa di Soba.

«Gesù» disse «mi è venuto duro.»

Il sole faceva capolino da dietro le tende della camera da letto e stavo giusto pensando di alzarmi quando qualcuno bussò alla porta. Mi ci volle un minuto per trovare i vestiti, e nel frattempo i colpi alla porta si trasformarono in urla.

«Ehi, Steph, ci sei? Siamo il Luna e Dougie.»

Andai ad aprirgli e le loro facce contente e piene di beata vitalità mi fecero venire in mente il muso di Bob.

«Ti abbiamo portato delle ciambelle» disse Dougie porgendomi una grossa busta bianca. «E poi abbiamo qualcosa da dirti.»

«Già» disse il Luna «aspetta di sentire questa. È una vera forza. Io e Dougie stavamo parlando e pensiamo di aver capito cosa è successo al cuore.»

Appoggiai la busta sul piano della cucina e prendemmo una ciambella ciascuno.

«È stato il cane» disse il Luna. «Il cane della signora Belski, Spotty, si è mangiato il cuore di Louie.»

Rimasi paralizzata con mezza ciambella in bocca.

«Vedi, DeChooch aveva fatto un accordo con il vecchio Dougie perché portasse il cuore a Richmond» disse il Luna. «Solo che DeChooch non disse niente a Dougie tranne che il frigo doveva essere consegnato alla signora D. Così il vecchio Dougie lasciò il frigo sul sedile anteriore della Batmobile, con l’intenzione di partire presto l’indomani. L’unico problema fu che verso mezzanotte a me e al mio compagno d’appartamento Huey venne voglia di un po’ di gelato, il gusto speciale all’amarena di Ben Jerry, e così prendemmo in prestito la Batmobile per andarlo a cercare. Visto che la Batmobile ha solo due posti, lasciai il frigo nella veranda sul retro.»

Dougie stava ghignando. «È una storia assolutamente eccezionale» disse.

«A ogni modo, io e Huey riconsegnammo la macchina prestissimo il mattino dopo perché Huey doveva essere al lavoro allo Shoppers Warehouse. Accompagnai Huey e quando parcheggiai l’auto nel cortile di Dougie vidi che il frigo era semiaperto e Spotty stava masticando qualcosa. Non gli diedi molto peso. Spotty sta sempre a frugare nella spazzatura. Così rimisi il frigo in macchina, me ne andai a casa, e guardai i programmi TV del mattino. A proposito, Katie Couric è proprio carina.»

«Poi io portai il frigo vuoto a Richmond» disse Dougie.

«Spotty ha mangiato il cuore di Louie D» dissi.

«Proprio così» confermò il Luna. Finì la sua ciambella e si pulì le mani sulla camicia. «Be’, dobbiamo andare. Abbiamo delle cose da fare.»

«Grazie per le ciambelle.»

«Ehi, figurati.»

Rimasi in cucina per dieci minuti, cercando di assimilare quelle nuove informazioni e domandandomi se avessero un significato nell’ordine naturale delle cose. È questo che succede quando mandi irreparabilmente all’aria il tuo karma? Un cane ti mangia il cuore? Non riuscii a giungere a una conclusione, quindi optai per una doccia, nel caso potesse aiutarmi.

Chiusi a chiave la porta d’ingresso e mi trascinai verso il bagno. Ero arrivata a malapena in soggiorno quando ci fu un’altra serie di colpi alla porta e prima che potessi arrivarci, la porta fu aperta con una tale forza da far saltare la catenella di sicurezza dalla sua sede. Seguì una raffica di imprecazioni che riconobbi subito come uscite dalla bocca di Morelli.

«Buongiorno» dissi, sbirciando la catenella che penzolava ormai inutilmente.

«Non è un buon giorno neanche con il massimo sforzo di immaginazione» disse Joe. I suoi occhi erano scuri e semichiusi e la bocca serrata. «Non sei andata a casa di Pinwheel Soba ieri sera, vero?»

«No» dissi, scuotendo la testa. «Io no.»

«Bene. Come pensavo… perché qualche imbecille ci è andato e ha combinato un macello. L’ha distrutta a suon di pallottole. In realtà si sospetta che due persone si siano sfidate lì dentro nella sparatoria del secolo. Sapevo che non potevi essere così fottutamente stupida.»

«Hai indovinato.»

«Gesù Cristo, Stephanie» urlò «cosa avevi in testa? Che accidenti è successo?»

«Non sono stata io, ricordi?»

«Oh già. Dimenticavo. Be’, allora cosa pensi che stesse facendo quel qualcun altro a casa di Soba?»

«Immagino stessero cercando DeChooch. E poi magari l’hanno trovato ed è scoppiata una discussione animata.»

«E DeChooch è scappato?»

«Direi di sì.»

«Per fortuna non sono state rilevate altre impronte oltre a quelle di DeChooch, perché altrimenti chiunque sia stato tanto fottutamente stupido da sparare a destra e a manca a casa di Soba non sarebbe nei guai solo con la polizia, ma dovrebbe anche rendere conto a Soba.»

Il fatto che continuasse a urlarmi addosso cominciava a darmi sui nervi. «Benone» dissi con la mia voce da sindrome premestruale. «Nient’altro?»

«Sì, c’è dell’altro. Ho incontrato Dougie e il Luna giù nel parcheggio. Mi hanno detto che tu e Ranger li avete salvati.»

«E allora?»

«A Richmond.»

«E allora?»

«E Ranger è rimasto ferito?»

«Una ferita superficiale.»

Morelli serrò ancora di più le labbra. «Gesù.»

«Avevo paura che si venisse a sapere del cuore di maiale e che potessero andarci di mezzo il Luna e Dougie.»

«Davvero encomiabile, ma non mi fa sentire meglio. Cristo, mi sta venendo l’ulcera. Per colpa tua bevo bottiglie intere di Maalox. Odio tutto questo. Odio dover passare le giornate a chiedermi in quale assurda situazione ti trovi e chi sta cercando di spararti.»

«Quanto sei ipocrita. Sei un poliziotto.»

«A me non spara mai nessuno. Le uniche volte che devo preoccuparmi di non rimediare una pallottola sono quando sto con te.»

«Che cosa mi stai dicendo?»

«Ti sto dicendo che devi scegliere tra me e il lavoro.»

«Be’, indovina un po’, non ho intenzione di trascorrere il resto della mia vita con uno che mi dà degli ultimatum.»

«Bene.»

«Bene.»

E se ne andò sbattendo la porta. Mi piace pensare a me come a una persona stabile, ma questa volta era troppo. Piansi fino a non avere più lacrime, poi mangiai tre ciambelle e feci una doccia. Mi asciugai ma mi sentivo ancora a pezzi, così decisi di ossigenarmi i capelli. Cambiare look fa bene, non è vero?

«Li voglio biondi» dissi al signor Arnold, l’unico parrucchiere che ero riuscita a trovare aperto di domenica. «Biondo platino. Voglio assomigliare a Marilyn.»

«Cara» disse Arnold «con questi capelli non assomiglierai a Marilyn. Assomiglierai ad Art Garfunkel.»

«Faccia come le ho detto.»

Il signor Morganstern era nell’atrio quando tornai. «Wow» fece «assomigli a… come si chiama?»

«Garfunkel?»

«No. Quella cantante con le tette a forma di cono gelato.»

«Madonna.»

«Sì, proprio lei.»

Entrai in casa e andai dritta al bagno per guardarmi i capelli allo specchio. Mi piacevano. Erano diversi. Da puttanella, ma di classe.

Sul piano della cucina si era accumulata una pila di posta che avevo lasciato inevasa. Presi una birra per festeggiare la mia nuova capigliatura e cominciai a passare in rassegna la posta. Bollette, bollette, nient’altro che bollette. Sfogliai il libretto degli assegni. Non avevo abbastanza soldi. Dovevo assolutamente catturare DeChooch.

La mia idea era che anche DeChooch avesse un problema di soldi. Niente più percentuali sulle scommesse. Niente ricavi dall’affare delle sigarette. Poco o niente dallo Snake Pit. E ora non aveva più né una macchina né un posto dove vivere. Mi correggo, non aveva più la Cadillac. Ma se ne era andato con un’altra auto. Non ero riuscita a vedere di che tipo fosse.

C’erano quattro messaggi nella mia segreteria. Non li avevo controllati perché temevo che fossero di Joe. Suppongo che la verità sia che nessuno dei due è pronto per il matrimonio. E che invece di affrontare la vera questione stiamo cercando il modo di sabotare la nostra relazione. Non parliamo di cose importanti come i figli o il nostro lavoro. Rimaniamo sulle nostre posizioni e ci urliamo contro.

Forse non è il momento giusto per sposarci. Non voglio fare la cacciatrice di taglie per il resto della mia vita, ma di sicuro adesso non voglio fare la casalinga. E poi non voglio proprio sposarmi con uno che mi dà degli ultimatum.

E forse Joe deve pensare bene a che tipo di moglie vuole. È cresciuto in una tradizionale famiglia italiana con una madre casalinga e un padre autoritario. Se vuole una moglie di quello stampo, non sono fatta per lui. Chissà, forse un giorno potrei fare la casalinga, la madre di famiglia, ma proverò sempre a volare dal tetto del garage. Sono fatta così.

Allora tiriamo fuori un po’ di coraggio, bionda, mi dissi. Questa è la nuova Stephanie, riveduta e corretta. Ascolta i messaggi in segreteria. Sii temeraria.

Riavvolsi il primo e lo ascoltai: era di mia madre.

«Stephanie? Sono la mamma. Ho un bell’arrosto per cena. E per dolce ci sono i pasticcini con sopra gli zuccherini. Alle ragazze piacciono i pasticcini.»

Nel secondo messaggio, la boutique di Tina mi avvisava nuovamente che l’abito da sposa era arrivato.

Il terzo era di Ranger che mi ragguagliava su Sophia e Christina. Christina si era presentata in ospedale con tutte le ossa della mano rotte. La sorella gliel’aveva spaccata con un batticarne per liberarla dalla manetta. Non riuscendo a sopportare il dolore, Christina era uscita allo scoperto mentre Sophia era ancora latitante.

Il quarto messaggio era di Vinnie. Le accuse contro Melvin Baylor erano state ritirate e Melvin si era comprato un biglietto di sola andata per l’Arizona. La sua ex moglie aveva assistito all’attacco di follia che Melvin aveva sfogato contro la sua macchina e, a quanto pare, si era spaventata. Se Melvin era capace di riservare quel trattamento alla sua macchina, chi poteva prevedere cosa avrebbe fatto in seguito? Così la donna aveva costretto la madre a ritirare la denuncia e si era accordata con Melvin per una liquidazione in contanti. Qualche volta dare di matto conviene.

Quelli erano i messaggi, dunque. Nessuno di Morelli. Curioso come funziona la mente delle donne. Adesso ero depressa perché Joe non aveva chiamato.

Dissi a mia madre che sarei andata a cena. E poi telefonai alla boutique per dire a Tina che avevo deciso di non prendere l’abito. Dopo aver riagganciato mi sentii più leggera di dieci chili. Il Luna e Dougie stavano bene. La nonna stava bene. Io ero bionda e non avevo un abito da sposa. Lasciando da parte i miei problemi con Morelli, non potevo chiedere di meglio alla vita.

Feci un pisolino prima di partire per casa dei miei. Quando mi svegliai i capelli avevano preso una piega strana e così feci la doccia. Dopo essermi lavata e asciugata i capelli, assomigliavo ad Art Garfunkel. Anzi, era come se i capelli mi fossero esplosi.

«Non m’importa» dissi alla mia immagine riflessa allo specchio. «Sono la nuova Stephanie, riveduta e corretta.» Era una bugia, ovviamente. Alle ragazze del New Jersey importa eccome.

Indossai un paio di jeans neri, stivali neri e una maglia rossa a coste a maniche corte. Andai in soggiorno e trovai Benny e Ziggy comodamente seduti sul divano.

«Abbiamo sentito il rumore della doccia aperta e non volevamo disturbarti» disse Benny.

«Già» fece Ziggy «e poi dovresti proprio rimettere a posto la catenella di sicurezza. Non si sa mai chi ti può entrare in casa.»

«Siamo appena tornati dal funerale di Louie D e abbiamo saputo tutto di come hai trovato il finocchietto e il suo amico. È stato terribile quello che ha fatto Sophia.»

«Era pazza anche quando Louie era ancora vivo» disse Ziggy. «Meglio non farle mai un torto. Ha qualcosa che non va in testa.»

«E dovresti porgere a Ranger i nostri migliori auguri. Speriamo che non abbia niente di grave al braccio.»

«Louie D è stato seppellito con il suo cuore?»

«Ronald l’ha portato immediatamente all’impresario delle pompe funebri, l’hanno messo a posto e poi hanno ricucito tutto come se non fosse successo niente. Poi Ronald ha seguito il carro funebre fino a Trenton per il funerale di oggi.»

«Nessuna traccia di Sophia?»

«C’erano dei fiori sulla tomba, ma non è venuta alla cerimonia.» Scosse la testa. «Un sacco di agenti di polizia in servizio. Un peccato per la privacy.»

«Immagino che tu stia ancora cercando Choochy» disse Benny. «Dovresti stare attenta con lui. È un po’…» Benny fece un movimento circolare con l’indice sulla testa, a significare una rotella fuori posto. «Non come Sophia, però. Chooch è una brava persona in fondo.»

«Colpa dell’ictus e dello stress» disse Ziggy. «Lo stress non va sottovalutato. Se hai bisogno di aiuto con Choochy dovresti chiamarci. Magari potremmo fare qualcosa.»

Benny annuì. Dovevo chiamarli.

«Mi piacciono i capelli» disse Ziggy. «Ti sei fatta la permanente, vero?»

Si alzarono e Benny mi diede una scatola. «Ti ho portato del croccante. Estelle l’ha portato dalla Virginia.»

«Qui da noi non si trova croccante buono come quello che hanno in Virginia» disse Ziggy.

Li ringraziai per il croccante e chiusi la porta alle loro spalle. Lasciai passare cinque minuti in modo che si allontanassero dall’edificio, poi presi la giacca di pelle nera, la borsa e dopo aver chiuso tutto me ne andai.

Mia madre guardò dietro di me quando venne ad aprire la porta. «Dov’è Joe? Dov’è la tua macchina?»

«L’ho scambiata con la moto.»

«La moto sul marciapiede?»

Feci sì con la testa.

«Sembra una di quelle che usano gli Hell’s Angels.»

«È una Harley.»

Fu allora che se ne accorse. Dei capelli. Spalancò gli occhi e rimase a bocca aperta. «I capelli» sussurrò.

«Ho pensato di provare qualcosa di nuovo.»

«Mio Dio, assomigli a…»

«Madonna?»

«Art Garfunkel.»

Lasciai casco, giacca e borsa nel guardaroba dell’ingresso e presi il mio posto a tavola.

«Sei arrivata giusto in tempo» disse la nonna. «Perdiana! Guardate che roba. Assomigli a quel cantante.»

«Lo so» replicai. «Lo so.»

«Dov’è Joseph?» chiese mia madre. «Credevo venisse a cena.»

«Abbiamo… rotto.»

Tutti smisero di mangiare, eccetto mio padre. Anzi, ne approfittò per servirsi un’altra porzione di patate.

«È impossibile» disse mia madre. «Hai un abito da sposa.»

«L’ho disdetto.»

«Joseph lo sa?»

«Sì.» Cercai di comportarmi con nonchalance, concentrata sul piatto, e chiesi a mia sorella di passarmi i fagiolini. Posso farcela, mi dissi. Sono bionda. Posso fare qualsiasi cosa.

«Sono i capelli, vero?» chiese mia madre. «Ha annullato il matrimonio per colpa dei capelli.»

«Sono stata io ad annullare il matrimonio. E non mi va di parlarne.»

Suonò il campanello e Valerie fece un salto. «È per me. Ho un appuntamento.»

«Un appuntamento!» disse mia madre. «È meraviglioso. Sei qui da così poco e hai già un appuntamento.»

Mentalmente alzai gli occhi al cielo. Mia sorella è un’incapace. Ecco cosa succede a fare sempre la brava ragazza. Non si impara mai l’importanza della menzogna e dell’inganno. Non ho mai portato a casa i ragazzi con cui uscivo. Ci si incontra ai centri commerciali così eviti di far venire un infarto ai tuoi quando il ragazzo di turno si presenta con tatuaggi e piercing sulla lingua. O, nel caso specifico, è una lesbica.

«Questa è Janeane» disse Valerie, presentandoci una donna di bassa statura con i capelli scuri. «Ci siamo conosciute quando sono andata a fare il colloquio in banca. Non ho avuto il lavoro ma Janeane mi ha chiesto se volevamo uscire insieme.»

«È una donna» disse mia madre.

«Sì, siamo lesbiche» disse Valerie.

Mia madre perse i sensi. Bum. Stesa sul pavimento.

Tutti si alzarono di scatto per correre da mia madre.

Aprì gli occhi ma non mosse neanche un muscolo per almeno trenta secondi. Poi urlò: «Una lesbica! Madre di Dio. Frank, tua figlia è lesbica!».

Mio padre guardò Valerie di traverso. «Quella che porti è la mia cravatta?»

«Hai un gran bel coraggio» disse mia madre, ancora supina a terra. «Tutti questi anni, in cui sei stata normale e con un marito, hai abitato in California. E adesso che sei qui diventi lesbica. Non basta che tua sorella vada in giro a sparare alle persone? Che razza di famiglia è questa?»

«Non sparo mai a nessuno» dissi.

«Scommetto che ci sono un sacco di lati positivi nell’essere lesbiche» disse la nonna. «Se sposi una lesbica non devi mai preoccuparti che qualcuno lasci alzato il sedile del cesso.»

Prendendola sottobraccio, io da una parte e Valerie dall’altra, aiutammo la mamma a rialzarsi.

«Ecco fatto» disse Valerie, tutta contenta. «Va meglio?»

«Meglio?» fece mia madre. «Meglio?»

«Be’, ora noi andiamo» disse Valerie, indietreggiando verso l’ingresso. «Non aspettatemi alzati. Ho la chiave.»

Mia madre si scusò, andò in cucina e spaccò un altro piatto.

«Non sapevo che spaccasse i piatti così» dissi alla nonna.

«Stasera metto sotto chiave tutti i coltelli, non si sa mai» rispose lei.

Seguii mia madre in cucina e la aiutai a raccogliere i pezzi.

«Mi è scivolato di mano» disse.

«Proprio come pensavo.»

A casa dei miei sembra che non cambi mai niente. La cucina sembra la stessa di quando ero piccola. Le pareti sono state riverniciate e ci sono delle tende nuove. Lo scorso anno è stato rinnovato il linoleum. Gli elettrodomestici vengono sostituiti con degli altri man mano che si rompono e non si possono più riparare. Ma le novità finiscono qui. Mia madre cuoce le patate nella stessa casseruola da trentacinque anni. Anche gli odori sono gli stessi. Cavolo, salsa di mele, budino al cioccolato, arrosto di agnello. E anche le abitudini sono le stesse. Come quella di sedersi al tavolo piccolo in cucina per pranzo.

Io e Valerie facevamo i compiti al tavolo della cucina sotto l’occhio vigile di mia madre. Sembra che il tempo si sia fermato. Entro in cucina e mi viene voglia di sandwich tagliati a triangolo proprio come quando ero bambina.

«Non ti stanchi mai della tua vita?» chiesi a mia madre. «Non c’è mai un momento in cui ti andrebbe di fare qualcosa di diverso?»

«Come per esempio saltare in macchina e continuare a guidare finché non arrivo all’Oceano Pacifico? Radere al suolo la cucina? Divorziare da tuo padre e sposare Tom Jones? No, non penso mai a queste cose.» Tolse il coperchio dal piatto del dolce e guardò i suoi pasticcini. Metà al cioccolato con glassa bianca e metà alla vaniglia con glassa al cioccolato. Zuccherini di tutti i colori sulla glassa bianca. Bisbigliò qualcosa che al mio orecchio arrivò come pasticcini del cazzo.

«Come?» chiesi. «Non ho sentito.»

«Non ho detto niente. Vai a sederti.»

«Speravo che potessi accompagnarmi alle pompe funebri questa sera» mi disse la nonna. «C’è la veglia per Rusty Kuharchek da Stiva. Sono andata a scuola con Rusty. Sarà una bella serata.»

Non avevo nient’altro da fare. «Certo, ma dovrai metterti dei pantaloni comodi. Ho la Harley.»

«Una Harley? Da quando hai una Harley?» domandò la nonna.

«Ho avuto un problema con la macchina così Vinnie mi ha prestato una moto.»

«Ti proibisco di portare tua nonna su una motocicletta» disse mia madre. «Cadrà e si ammazzerà.»

Molto saggiamente mio padre non parlò.

«Non le succederà niente» garantii. «Ho un casco in più.»

«È sotto la tua responsabilità» disse mia madre. «Se le succede qualcosa, ci vai tu a farle visita alla casa di riposo.»

«Forse potrei comprarmi una moto» rifletté la nonna. «Quando ti ritirano la patente della macchina, il divieto di guidare vale anche per le moto?»

«Sì!» urlammo tutti all’unisono. Nessuno voleva che nonna Mazur tornasse a girare in strada.

Mary Alice aveva cenato per tutto il tempo con la faccia nel piatto perché i cavalli non hanno mani. Quando alzò il viso, era una maschera di purè di patate e salsa. «Cos’è una lesbica?» chiese.

Rimanemmo tutti paralizzati.

«È quando una ragazza esce con le femmine anziché con i maschi» disse la nonna.

Angie si allungò per prendere il latte. «Si pensa che l’omosessualità sia causata da un cromosoma anormale.»

«Giusto quello che stavo per dire» disse la nonna.

«E i cavalli?» chiese Mary Alice. «Ci sono lesbiche anche tra i cavalli?»

Ci scambiammo delle occhiate. Eravamo imbarazzati.

Mi alzai dal mio posto. «Chi vuole un pasticcino?»

Capitolo 15

Per andare alle veglie serali, la nonna di solito si veste in modo elegante. Le piace indossare scarpe décolleté di vernice nera e gonne a ruota, nel caso ci sia qualche bell’uomo da conquistare. In onore della motocicletta, quella sera si era messa pantaloni sportivi e scarpe da tennis.

«Mi servono dei vestiti da biker» disse. «Ho appena riscosso l’assegno della pensione e come prima cosa domattina vado a fare shopping, ora che so che hai questa Harley.»

Montai in sella alla moto. Mio padre aiutò la nonna a salire dietro di me. Girai la chiave dell’accensione, mandai su di giri il motore e le vibrazioni si trasmisero attraverso le marmitte.

«Pronta?» urlai alla nonna.

«Pronta» mi urlò in risposta.

Percorsi Roosevelt Street fino a Hamilton Avenue e in due minuti avevamo già parcheggiato la moto davanti alle pompe funebri di Stiva.

Aiutai la nonna a scendere e le tolsi il casco. Si allontanò dalla moto e si sistemò i vestiti. «Capisco perché alla gente piacciono le Harley» disse. «Ti danno una bella svegliata alle parti basse, vero?»

Rusty Kuharchek era nella sala numero tre e la scelta di quella collocazione indicava che la famiglia di Rusty era andata al risparmio. Le morti violente e quelli che acquistavano le bare di lusso in mogano, intagliate a mano e piombate erano degne di una veglia nella sala numero uno.

Lasciai la nonna con Rusty e le dissi che sarei ritornata di lì a un’ora. L’appuntamento era davanti al tavolo dei biscotti.

Era una bella serata e avevo voglia di camminare. Passeggiai lungo la Hamilton e tagliai dentro il Burg. Non era del tutto buio. In un altro mese la gente si sarebbe seduta in veranda a quell’ora della sera. Mi dissi che stavo passeggiando per rilassarmi, magari per pensare. Ma dopo poco mi ritrovai davanti a casa di Eddie DeChooch, per giunta senza essere minimamente rilassata. Il fatto di non essere riuscita a effettuare la cattura mi infastidiva.

La metà casa di DeChooch sembrava completamente abbandonata. Nella metà della famiglia Margucci guardavano un quiz in TV con il volume al massimo. Mi diressi verso la porta di casa della signora Margucci e bussai.

«Che bella sorpresa» disse quando mi vide. «Mi domandavo come stessero andando le cose tra te e DeChooch.»

«È ancora in libertà» dissi.

Angela commentò con un verso. «Quello è un furbo.»

«L’ha visto? Ha sentito rumori a casa sua?»

«È come se fosse scomparso dalla faccia della terra. Non sento neanche mai squillare il telefono.»

«Magari do un’occhiatina in giro.»

Percorsi il perimetro della casa, guardai in garage, mi fermai davanti al capanno degli attrezzi. Avevo con me la chiave di casa di DeChooch e così entrai. Non c’era nulla che indicasse che lui fosse passato di lì. Il tavolo della cucina era coperto da un mucchio di posta inevasa.

Bussai di nuovo alla porta di Angela. «È lei che ritira la posta di DeChooch?»

«Sì. Gliela lascio in casa tutti i giorni e controllo che sia tutto a posto. Non so cos’altro fare. Pensavo che Ronald sarebbe passato per ritirarla, ma non l’ho visto.»

Quando tornai alle pompe funebri, la nonna era al tavolo dei biscotti che parlava con il Luna e Dougie.

«Piccola» disse il Luna.

«Siete qui per incontrare qualcuno?» gli chiesi.

«Negativo. Siamo qui per i biscotti.»

«Quest’ora è volata in un lampo» disse la nonna. «C’è ancora un sacco di gente con cui non ho scambiato neanche una parola. Hai fretta di tornare a casa?» mi chiese.

«Potremmo accompagnarla a casa noi» disse Dougie alla nonna. «Non ce ne andiamo mai prima delle nove perché quella è l’ora in cui Stiva tira fuori i biscotti ripieni al cioccolato.»

Ero combattuta. Non volevo restare ma non sapevo se potevo fidarmi di lasciare la nonna al Luna e a Dougie.

Presi Dougie da parte. «Non voglio che nessuno si metta a fumare erba.»

«Niente erba» mi assicurò.

«E non voglio che portiate la nonna in un locale di spogliarelli.»

«Niente spogliarelli.»

«E non voglio neanche che rimanga coinvolta in qualche furto.»

«Ehi, mi sono ravveduto» disse Dougie.

«Okay» dissi «conto su di te.»

Alle dieci ricevetti una telefonata di mia madre.

«Dov’è tua nonna?» mi chiese. «E perché non sei insieme a lei?»

«Avrebbero dovuto riaccompagnarla a casa in auto degli amici.»

«Quali amici? Hai perso tua nonna un’altra volta?»

Maledizione. «Ti richiamo.»

Riattaccai e ricevetti subito un’altra telefonata. Era la nonna.

«L’ho trovato!» disse.

«Chi?»

«Eddie DeChooch. Mentre ero alla veglia ho avuto un’illuminazione e ho capito dove avrei trovato Choochy questa sera.»

«Dove?»

«A ritirare l’assegno della pensione. Tutti al Burg ritirano la pensione lo stesso giorno. Ed è stato ieri, solo che ieri DeChooch era impegnato a distruggere la macchina. Così mi sono detta che probabilmente aspettava che si facesse buio e che sarebbe passato oggi a ritirare l’assegno. E come volevasi dimostrare, è esattamente quello che ha fatto.»

«Dov’è adesso?»

«Be’, ora arriva la parte complicata. È andato a casa sua a prendere la posta e quando abbiamo cercato di catturarlo ha tirato fuori una pistola e ci siamo tutti spaventati e siamo corsi via. Il Luna però non è stato abbastanza veloce e ora è nelle mani di Eddie.»

Sbattei ripetutamente la testa sul piano della cucina. Forse mi avrebbe fatto bene continuare a sbatterla così. Tonc, tonc, tonc.

«Avete chiamato la polizia?» le chiesi.

«Non sapevamo se fosse una buona idea, considerato che il Luna potrebbe avere con sé qualche sostanza illegale. Credo che Dougie mi abbia parlato di un certo pacchetto che il Luna tiene dentro la scarpa.»

Perfetto. «Arrivo subito» dissi. «Non fate nulla finché non arrivo.»

Afferrai la borsa, corsi lungo il corridoio e le scale, uscii dall’edificio e saltai in sella alla moto. Frenai con una derapata nel vialetto di accesso di Angela Margucci e guardai in giro per cercare la nonna. Vidi che era insieme a Dougie e si nascondevano dietro una macchina sul lato opposto della strada. Indossavano costumi da supereroi e intorno al collo si erano appuntati un asciugamano da bagno a mo’ di mantella.

«Niente male quegli asciugamani» dissi.

«Lottiamo contro il crimine» disse la nonna.

«Sono ancora dentro?» chiesi.

«Sì. Ho parlato con Choochy dal cellulare di Dougie» disse la nonna. «Ha detto che lascerà andare il Luna solo se gli procuriamo un elicottero e poi un aereo che lo aspetti a Newark per portarlo in Sud America. Mi sa che ha bevuto.»

Composi il numero dal mio cellulare.

«Voglio parlarti» dissi.

«Mai. Non fino a che non mi date un elicottero.»

«Non avrai nessun elicottero se tieni il Luna in ostaggio. Non importa a nessuno se gli spari. Lascia andare il Luna e verrò io al posto suo. Sono un ostaggio migliore per un elicottero.»

«Okay» accettò DeChooch. «Mi sembra ragionevole.»

Come se ci fosse qualcosa di ragionevole in tutta quella faccenda.

Il Luna uscì con addosso il suo costume da supereroe e asciugamano. DeChooch gli tenne una pistola puntata in testa finché non uscì sulla veranda.

«È un po’, come dire, imbarazzante» disse il Luna. «Voglio dire, che figura ci fa un supereroe che lotta contro il crimine a essere fregato da un vecchio?» Guardò DeChooch. «Niente di personale, amico.»

«Accompagna la nonna a casa» dissi al Luna. «Mia madre è in pensiero per lei.»

«Adesso?»

«Sì. Subito.»

La nonna era ancora dall’altra parte della strada e non volevo gridare, così la chiamai al cellulare. «Me la vedo io con Eddie» dissi. «Tu, il Luna e Dougie dovreste andare subito a casa.»

«Non mi sembra una buona idea» disse la nonna. «Credo che dovrei restare.»

«Grazie, ma sarà tutto più semplice se mi muovo da sola.»

«Devo chiamare la polizia?»

Guardai DeChooch. Non mi sembrava né pazzo né arrabbiato. Era solo stanco. Se avessi fatto intervenire la polizia, DeChooch si sarebbe messo sulla difensiva e avrebbe potuto fare un gesto sconsiderato, per esempio spararmi. Se avessimo parlato un po’ con calma, forse sarei riuscita a convincerlo a consegnarsi. «La risposta è no» dissi.

Chiusi la comunicazione e io e DeChooch rimanemmo sulla veranda finché la nonna, il Luna e Dougie non furono andati via.

«Va a chiamare la polizia?» chiese DeChooch.

«No.»

«Pensi di riuscire ad arrestarmi da sola?»

«Non voglio che qualcuno si faccia male. Me compresa.» Lo seguii in casa. «Non penserai seriamente che arrivi un elicottero, vero?»

Fece un gesto di disgusto con la mano e si spostò in cucina. «L’ho detto solo per impressionare Edna. Dovevo pur dire qualcosa. Pensa che io sia un fuggitivo di tutto rispetto.» Aprì il frigorifero. «Non c’è niente da mangiare. Quando mia moglie era ancora in vita c’era sempre qualcosa da mangiare.»

Versai l’acqua nella macchina del caffè e riempii il filtro. Aprii un po’ di sportelli e trovai una scatola di biscotti. Ne misi un po’ su un piatto e mi sedetti al tavolo della cucina con Eddie DeChooch.

«Hai l’aria stanca» dissi.

Annuì. «Non avevo un posto dove dormire ieri sera. Volevo ritirare la pensione questa sera e prendermi una stanza in un albergo da qualche parte, ma Edna si è presentata con quei due buffoni. Non me ne va una dritta.» Prese un biscotto. «Non riesco neanche ad ammazzarmi. Questa prostata del cazzo. Fermo la Cadillac sui binari. Rimango lì seduto per morire e cosa succede? Mi viene da pisciare. Mi viene sempre da pisciare. Così esco e vado dietro un cespuglio ed ecco che arriva il treno. Quante possibilità ci sono che accada una cosa del genere? E poi non sapevo cosa fare e ho avuto paura. Sono fuggito via come un maledetto codardo.»

«È stato uno schianto allucinante.»

«Sì, l’ho visto. Cavolo, deve aver trascinato la Cadillac per quasi cinquecento metri.»

«Dove hai preso l’altra macchina?»

«L’ho fregata.»

«Allora c’è qualcosa che ti riesce ancora bene.»

«Le uniche cose che mi funzionano sono le dita. Non ci vedo. Non ci sento. Non riesco a pisciare.»

«Si può rimediare.»

Si mise a giocherellare con il biscotto. «Ci sono cose che non si possono rimediare.»

«La nonna mi ha detto tutto.»

Alzò gli occhi, sorpreso. «Ti ha detto tutto? Gesù Cristo. Certo che le donne sono proprio delle gran chiacchierone.»

Versai due tazze di caffè e ne diedi una a DeChooch. «Hai interpellato un medico?»

«Non voglio andare dal medico. Prima ancora che tu riesca a dire due parole, loro già cominciano a toccarti e ti dicono di fare un trapianto. Non ho nessuna intenzione di ritrovarmi con un pene trapiantato.» Scosse la testa. «Mi sembra impossibile parlare con te di queste cose. Perché lo sto facendo?»

Gli sorrisi. «Con me si parla bene.» E anche perché aveva un alito all’alcol etilico. DeChooch beveva un sacco. «Mentre parliamo, perché non mi racconti di Loretta Ricci?»

«Porca miseria, quella sì che era una focosa. Venne a portarmi uno di quei pasti a domicilio e me la ritrovai addosso. Continuavo a dirle che non ero più buono a niente ma lei non ne voleva sapere. Disse che era capace di farlo… sì, insomma, a tutti. Così ho pensato, che diamine, non ho niente da perdere, giusto? E così eccola che si abbassa e incomincia a lavorare con un certo successo. E poi, proprio quando è lì lì per succedere, cade su un fianco e muore. Credo che le sia venuto un infarto per la fatica. Ho cercato di rianimarla ma ormai era morta. Ero così maledettamente arrabbiato che le ho sparato.»

«Non ti farebbe male imparare a controllare la rabbia» dissi.

«Già, me lo dicono tutti.»

«Non c’erano tracce di sangue. Né fori di pallottole.»

«Mi hai preso per un dilettante?» Corrugò il viso e una lacrima gli scese sulla guancia. «Sono proprio depresso» disse.

«Scommetto che so qualcosa che ti tirerà su.»

Mi guardò come se gli sembrasse impossibile.

«Hai presente il cuore di Louie D?»

«Sì.»

«Non era il suo cuore.»

«Stai scherzando?»

«Giuro su Dio.»

«E di chi era?»

«Era un cuore di maiale. L’ho comprato dal macellaio.»

DeChooch sorrise. «Hanno messo un cuore di maiale dentro a Louie e l’hanno seppellito così?»

Feci sì con la testa.

Cominciò a ridacchiare. «E allora che fine ha fatto il vero cuore di Louie D?»

«Se l’è mangiato un cane.»

DeChooch scoppiò a ridere. E continuò finché non gli venne un attacco di tosse. Quando riacquistò il controllo e smise di ridere e tossire abbassò lo sguardo. «Gesù, ho un’erezione.»

Gli uomini hanno erezioni nei momenti più impensati.

«Guardalo» disse. «Guardalo! È una bellezza. È duro come un sasso.»

Guardai in basso. Era un’erezione niente male.

«Chi l’avrebbe mai detto?» dissi. «Va’ a pensare.»

DeChooch era raggiante. «Evidentemente non sono poi così vecchio, dopo tutto.»

Andrà in galera. Non ci vede. Non ci sente. Non riesce a fare una pisciata che duri meno di un quarto d’ora. Ma poi ha un’erezione e tutti gli altri problemi diventano sciocchezze. La prossima volta voglio rinascere uomo. Le priorità sono così nette. La vita è così semplice.

Mi saltò all’occhio il frigorifero di DeChooch. «Per caso hai preso un arrosto dal freezer di Dougie?»

«Sì. Da principio credevo che fosse il cuore. Era tutto avvolto nella pellicola trasparente ed era buio in cucina. Ma poi mi sono reso conto che era troppo grosso e quando l’ho guardato meglio ho visto che era un arrosto. Ho pensato che non gli sarebbe dispiaciuto troppo se l’avessi tenuto, e poi l’idea di mangiare l’arrosto non mi dispiaceva. Solo che non sono mai riuscito a cucinarlo.»

«Mi spiace dovertelo dire» dissi a DeChooch «ma dovresti seguirmi alla polizia.»

«Non posso» rispose. «Rifletti. Cosa penseranno… Eddie DeChooch catturato da una ragazza.»

«Non è certo la prima volta.»

«Non nel mio lavoro. Non riuscirei a mandarlo giù. Sarei messo in ridicolo. Sono un uomo. Devo essere consegnato da un duro, uno come Ranger.»

«No. Non Ranger. Non è disponibile. Non sta bene.»

«Be’, questa è la mia richiesta. Voglio Ranger. Non se ne fa niente se non viene Ranger.»

«Mi piacevi di più prima che avessi l’erezione.»

DeChooch sorrise. «Già, sono di nuovo in sella, bellezza.»

«E se ti consegnassi spontaneamente?»

«Quelli come me non si consegnano. Forse i giovani. Ma quelli della mia generazione hanno delle regole. Abbiamo un codice.» La pistola era davanti a lui sul tavolo. La prese e inserì un caricatore pieno. «Vuoi essere responsabile del mio suicidio?»

Oh cavolo.

In soggiorno c’era una lampada da tavolo accesa e la cucina era illuminata dalla plafoniera sul soffitto. Il resto della casa era al buio. DeChooch era seduto con la schiena rivolta verso la porta che dava sul soggiorno buio. Come il fantasma di una storia del terrore, con appena un leggero fruscio di vestiti, Sophia si materializzò sulla soglia. Rimase lì un momento, ondeggiando leggermente, e per un attimo pensai che potesse davvero trattarsi di un’apparizione, il frutto della mia fervidissima immaginazione. Teneva una pistola all’altezza della vita. Mi guardò dritto negli occhi, puntò, e prima che potessi avere una reazione, sparò. Bang!

A DeChooch sfuggì di mano la pistola, un fiotto di sangue gli uscì dalla testa e crollò a terra.

Qualcuno urlò. Credo di essere stata io.

Sophia ridacchiò sommessamente, aveva le pupille ridotte a capocchie di spillo. «Vi ho fatto una bella sorpresa, eh? Vi guardavo dalla finestra. Tu e Chooch seduti al tavolo a mangiare biscotti.»

Non dissi nulla. Temevo che se avessi aperto la bocca avrei cominciato a balbettare, sbavare o forse a pronunciare suoni gutturali incomprensibili.

«Oggi hanno messo Louie sotto terra» disse Sophia. «Non ho potuto prendere parte al funerale per colpa vostra. Avete rovinato tutto. Tu e Chooch. È lui che ha cominciato tutto e deve pagare. Non mi sono potuta occupare di lui finché non ho riavuto il cuore, ma ora è giunto il suo momento. Occhio per occhio.» Un’altra risatina. «E sarai tu ad aiutarmi. Se fai un buon lavoro, magari ti lascio andare. Che ne dici?»

Credo di aver annuito, ma non ne sono sicura. Non mi avrebbe mai lasciato andare. Lo sapevamo tutte e due.

«Occhio per occhio» disse Sophia. «È la parola di Dio.»

Mi venne da vomitare.

Sorrise. «Vedo dalla tua faccia che hai capito cosa intendo fare. Non c’è altro modo, non ti pare? Se non facciamo così saremo dannati per sempre, disonorati per sempre.»

«Lei ha bisogno di un medico» sussurrai. «Ha subito troppi stress. Non ragiona come dovrebbe.»

«Che ne sai di come si deve ragionare? Parli con Dio, sei guidata dalla Sua parola?»

La fissai, mentre mi sentivo il cuore battere forte in gola e alle tempie.

«Io parlo con Dio» disse. «Faccio quello che Lui mi dice di fare. Sono uno strumento nelle Sue mani.»

«Sì, va bene, ma Dio è uno buono. Di certo non vorrebbe che lei facesse qualcosa di brutto.»

«Faccio quello che è giusto» disse Sophia. «Elimino il male alla fonte. Ho l’anima di un angelo vendicatore.»

«Come lo sa?»

«Me lo ha detto Dio.»

Mi saltò in mente un nuovo, terribile pensiero. «Louie sapeva che lei parla con Dio? Che lei è uno strumento di Dio?»

Sophia si immobilizzò.

«Quella stanza nella cantina… la cella di cemento dove ha tenuto il Luna e Dougie. Louie l’ha mai rinchiusa in quella stanza?»

La pistola le tremava in mano e le brillavano gli occhi. «È sempre difficile per coloro che credono. I martiri. I santi. Stai cercando di sviarmi, ma non funziona. So quello che devo fare. E adesso mi aiuterai. Voglio che ti metta in ginocchio e gli sbottoni la camicia.»

«Neanche per sogno!»

«E invece sì. Fallo subito o ti sparo. Ti sparo prima su un piede e poi sull’altro. Poi ti sparo in un ginocchio. E continuerò così finché o ti deciderai a farlo o morirai.»

Prese la mira e capii che stava dicendo la verità. Mi avrebbe sparato senza il minimo rimorso. E avrebbe continuato a spararmi finché non fossi morta. Mi alzai, appoggiandomi al tavolo per non cadere. Completamente irrigidita andai verso DeChooch e mi inginocchiai accanto a lui.

«Avanti» incalzò. «Sbottonagli la camicia.»

Gli misi la mano sul petto ancora caldo, e lo sentii respirare appena. «È ancora vivo!»

«Meglio ancora» disse Sophia.

Non riuscii a trattenere un brivido e cominciai a sbottonargli la camicia. Un bottone alla volta. Lentamente. Per guadagnare tempo. Le mie dita erano impacciate. Riuscivano a malapena a eseguire quel compito.

Una volta sbottonata la camicia, Sophia allungò una mano dietro di sé e prese un coltello da macellaio dal blocco di legno sul piano della cucina. Gettò il coltello a terra sul pavimento accanto a DeChooch. «Tagliagli la maglietta.»

Presi in mano il coltello, soppesandolo. Se fosse stato un film, in una mossa fulminea avrei affondato il coltello nel corpo di Sophia. Invece era la vita reale e non avevo idea di come usare un coltello né di come muovermi abbastanza in fretta da schivare un proiettile.

Avvicinai il coltello alla maglietta bianca. Ero andata completamente nel pallone. Mi tremavano le mani e sentivo il sudore sotto le ascelle e sulla testa. Diedi il primo colpo e poi feci scorrere il coltello per tutta la lunghezza della maglia, denudando il petto bitorzoluto di DeChooch. Mi sentivo come se avessi dentro un fuoco acceso e avvertivo un doloroso senso di oppressione.

«Ora tiragli fuori il cuore» disse Sophia con voce calma e ferma.

Alzai lo sguardo su di lei e vidi che aveva un’espressione serena… a eccezione del terrore che i suoi occhi incutevano. Era convinta di fare la cosa giusta. Probabilmente aveva in testa delle voci che la rassicuravano mentre mi abbassavo su DeChooch.

Una goccia colò sul petto di DeChooch. Poteva essere uscita dalla mia bocca o dal naso. Ero troppo spaventata per indovinare. «Non so come si fa» dissi. «Non so come arrivare al cuore.»

«Ce la farai.»

«Non posso.»

«Fallo e basta!»

Scossi la testa.

«Vuoi dire una preghiera prima di morire?» mi chiese.

«Quella stanza nella cantina… l’ha rinchiusa spesso laggiù? Pregava quando era lì?»

La tranquillità sembrò abbandonarla. «Diceva che ero pazza, ma il pazzo era lui. Non aveva fede. Dio non parlava con lui.»

«Non avrebbe dovuto rinchiuderla in quella stanza» dissi, provando un forte senso di rabbia per quell’uomo che aveva rinchiuso la moglie schizofrenica in una cella di cemento invece di farla curare da uno specialista.

«È arrivata l’ora» disse Sophia puntandomi addosso la pistola.

Guardai verso DeChooch, chiedendomi se potessi ucciderlo per salvarmi la pelle. Quanto era forte il mio istinto di sopravvivenza? Spostai lo sguardo sulla porta della cantina. «Ho un’idea» dissi. «DeChooch ha degli utensili elettrici in cantina. Potrei tagliargli la cassa toracica se avessi una motosega.»

«È ridicolo.»

Saltai in piedi. «No, è proprio quello che mi serve. L’ho visto fare in TV, in uno di quei programmi di medicina. Torno subito.»

«Fermati!»

Ero arrivata alla porta della cantina. «Ci vorrà soltanto un minuto.» Aprii la porta, accesi la luce e feci il primo gradino.

Mi seguiva a una certa distanza con la pistola. «Non andare così veloce» disse. «Scendo insieme a te.»

Facemmo i gradini insieme, lentamente, per evitare di inciampare. Attraversai la cantina e presi la motosega portatile che si trovava sul banco da lavoro di DeChooch. Le donne vogliono bambini. Gli uomini vogliono attrezzi da lavoro.

«Torniamo di sopra» disse, in agitazione per il fatto di trovarsi in una cantina e ansiosa di andarsene.

Risalii lentamente i gradini, trascinando i piedi, sentendola agitarsi alle mie spalle. Avevo la pistola puntata dietro la schiena. Era troppo vicina. Stava rischiando, ma voleva andarsene dalla cantina. Arrivai in cima alla scala e mi girai di scatto, colpendola in mezzo al petto con la motosega.

Pronunciò una breve esclamazione, sparò alla cieca e ruzzolò giù per le scale. Non rimasi a vedere quello che era successo. Saltai oltre la porta, la sbattei con forza e la chiusi a chiave. Poi lasciai la casa di corsa. Attraversai la porta principale che avevo malauguratamente lasciato aperta quando avevo seguito DeChooch in cucina.

Bussai forte a casa di Angela Margucci, urlandole di venire ad aprire. Angela venne alla porta e quasi la buttai a terra tanta era la foga con cui entrai. «Chiuda a chiave» dissi. «Chiuda tutte le porte e vada a prendermi il fucile di sua madre.» Poi corsi al telefono a chiamare la polizia.

La polizia arrivò prima che potessi riacquistare il controllo e tornare nella casa. Non aveva senso tornare se le mani mi tremavano così tanto da non riuscire a tenere fermo il fucile.

Due agenti entrarono nella metà casa di DeChooch e qualche minuto dopo autorizzarono il personale medico a entrare. Sophia era ancora nella cantina. Si era rotta un’anca e probabilmente aveva qualche costola incrinata. Pensai che quella delle costole incrinate fosse una bella ironia della sorte.

Seguii il personale dell’ambulanza e rimasi interdetta quando arrivai in cucina. DeChooch non era sul pavimento.

L’agente Billy Kwiatkowski era stato il primo a entrare. «Dov’è DeChooch?» gli chiesi. «L’ho lasciato sul pavimento accanto al tavolo.»

«Non c’era nessuno in cucina quando sono entrato» disse.

Guardammo entrambi la scia di sangue che portava alla porta sul retro. Kwiatkowski accese la torcia e andò verso il cortile. Tornò dopo qualche minuto.

«Difficile seguire la scia nell’erba con questo buio, ma c’è dell’altro sangue nel vicoletto dietro al garage. È probabile che abbia lasciato la macchina là dietro e che se ne sia andato.»

Incredibile. Stramaledettamente incredibile. Quell’uomo era come uno scarafaggio… bastava accendere la luce e lui spariva.

Rilasciai la mia deposizione e me ne andai. Ero preoccupata per la nonna. Volevo accertarmi che fosse al sicuro. E volevo sedermi nella cucina di mia madre. E soprattutto, volevo un pasticcino.

La casa dei miei ardeva di luci quando accostai per parcheggiare. Erano tutti nella stanza sul davanti a guardare il notiziario in TV. E conoscendo la mia famiglia, erano tutti alzati ad aspettare Valerie.

La nonna saltò su dal divano quando mi vide entrare. «L’hai preso? Hai preso DeChooch?»

Feci no con la testa. «È scappato.» Non mi andava di scendere nei dettagli.

«È straordinario» disse la nonna, sprofondando nuovamente sul divano.

Andai in cucina a prendere un pasticcino. Sentii aprire e chiudere la porta di casa e Valerie entrò in cucina e si abbandonò a sedere al tavolo. Aveva i capelli lisciati dietro le orecchie e cotonati sulla parte alta. Versione lesbica e bionda di Elvis.

Spostai davanti a lei il piatto dei pasticcini e mi sedetti. «Allora? Come è andato l’appuntamento?»

«Un disastro. Non è il mio tipo.»

«Qual è il tuo tipo?»

«Non le donne, a quanto pare.» Scartò uno dei pasticcini al cioccolato. «Janeane mi ha baciato ma non è successo niente. Poi mi ha baciato di nuovo, un bacio quasi… appassionato.»

«Quanto appassionato?»

Valerie diventò rosso fuoco. «Mi ha dato un bacio con la lingua!»

«E allora?»

«Strano. È stato molto strano.»

«Allora non sei lesbica?»

«Direi di no.»

«Ehi, ci hai provato. Chi non risica, non rosica» dissi.

«Pensavo che potesse essere qualcosa a cui ci si abitua col tempo. Ti ricordi per esempio quando eravamo piccole e mi facevano schifo gli asparagi? Be’, adesso li adoro.»

«Forse devi darti un po’ più di tempo. Del resto ti ci sono voluti vent’anni per farti piacere gli asparagi.»

Valerie ci rifletté su mentre mangiava il pasticcino.

Entrò la nonna. «Che succede qui? Mi sto perdendo qualcosa?»

«Mangiamo i pasticcini» dissi.

La nonna ne prese uno e si sedette. «Hai provato la moto di Stephanie?» chiese a Valerie. «Ci sono montata sopra questa sera e mi ha fatto formicolare le parti intime.»

Valerie per poco non si strozzò con il pasticcino.

«Forse ti conviene smettere di essere lesbica e comprarti una Harley» dissi a Valerie.

Entrò in cucina mia madre. Guardò il piatto dei pasticcini e tirò un sospiro. «Li avevo fatti per le ragazze.»

«Siamo ragazze anche noi» disse la nonna.

Mia madre si sedette e prese un pasticcino. Ne scelse uno alla vaniglia con gli zuccherini colorati. Rimanemmo tutte a bocca aperta. Mia madre non mangiava quasi mai un pasticcino tutto intero. Di solito mangiava quelli che si erano rotti a metà o che avevano la glassa rovinata. Mangiava i biscotti sbriciolati e le frittelle bruciate da un lato.

«Wow» le dissi «stai mangiando un pasticcino tutto intero.»

«Me lo merito» rispose mia madre.

«Scommetto che hai guardato un’altra volta Oprah Winfrey in TV» le disse la nonna. «Mi accorgo sempre se hai guardato Oprah in TV.»

Mia madre si mise a giocherellare con la carta. «Non è solo questo…»

Smettemmo tutte di mangiare e la fissammo.

«Ricomincio a studiare» disse. «Ho fatto domanda al Comune e ho appena saputo di essere stata accettata. Studierò part time. Hanno dei corsi serali.»

Feci un sospiro di sollievo. Temevo volesse annunciare che stava per farsi un piercing sulla lingua o magari un tatuaggio. O addirittura che voleva andarsene di casa e seguire un circo. «È eccezionale» dissi. «A che corso ti sei iscritta?»

«Per il momento si tratta di un corso generico» disse mia madre. «Ma un giorno mi piacerebbe diventare infermiera. Ho sempre pensato di essere portata per fare l’infermiera.»

Era quasi mezzanotte quando tornai al mio appartamento. La scarica di adrenalina era ormai passata e ora mi sentivo esausta. Avevo fatto il pieno di pasticcini e latte ed ero pronta a scivolare sotto le coperte e dormire per una settimana. Presi l’ascensore e quando le porte si aprirono sul mio piano uscii e rimasi immobile come una statua. Non credevo ai miei occhi. In fondo al corridoio, davanti alla porta di casa mia, era seduto Eddie DeChooch.

DeChooch si tamponava la testa con un grosso asciugamano fissato con la cintura dei pantaloni, con la fibbia ben allacciata all’altezza della tempia. Alzò gli occhi quando mi avvicinai a lui, ma non si alzò in piedi né mi sorrise, non mi sparò e neanche mi salutò. Rimase lì seduto con lo sguardo fisso.

«Devi avere un mal di testa coi fiocchi» dissi.

«Non mi farebbe schifo un’aspirina.»

«Perché non sei entrato da solo? Lo fanno tutti.»

«Non ho gli attrezzi. Ci vogliono gli attrezzi giusti.»

Lo aiutai a mettersi in piedi e lo feci entrare in casa. Lo misi a sedere sulla sedia comoda del soggiorno e tirai fuori la bottiglia mezza vuota di liquore che la nonna aveva lasciato nascosta nel mio armadio quando era rimasta da me per un paio di giorni.

DeChooch ne buttò giù tre dita e riacquistò un po’ di colore.

«Cristo, credevo che volessi aprirmi come un’oca per il pranzo della domenica» disse.

«Ci è mancato poco. Quando sei rinvenuto?»

«Quando parlavate di segarmi le costole. Gesù. Se ci ripenso mi formicolano le palle.» Fece un altro sorso dalla bottiglia. «Me ne sono andato appena voi due avete cominciato a scendere le scale.»

Era proprio da ridere. Avevo attraversato la cucina così velocemente che non mi ero neanche accorta che DeChooch non c’era più. «Che succede adesso?»

Si lasciò nuovamente andare sulla sedia. «Ho girato per un po’ con la macchina. Volevo andarmene, ma mi fa male la testa. Mi ha portato via mezzo orecchio. Sono stanco. Accidenti quanto sono stanco. Ma sai una cosa? Non sono poi tanto depresso. E così ho pensato, che diamine, vediamo cosa riesce a fare per me il mio avvocato.»

«Vuoi che ti consegni alla polizia?»

DeChooch sgranò gli occhi. «Che diavolo, no! Voglio che sia Ranger a consegnarmi. È solo che non so come contattarlo.»

«Dopo tutto quello che abbiamo passato, mi merito almeno di portare a buon fine l’arresto.»

«Ehi, e a me chi ci pensa? Ho solo metà orecchio!»

Feci un sospiro profondo e chiamai Ranger.

«Mi serve aiuto» dissi. «Ma è una cosa un po’ strana.»

«Come sempre.»

«Sono qui con Eddie DeChooch che non vuole essere portato alla polizia da una donna.»

Sentii Ranger ridacchiare all’altro capo del telefono.

«Non c’è niente da ridere» dissi.

«È perfetto.»

«Mi aiuti o no, allora?»

«Dove sei?»

«A casa mia.»

Non era il genere di aiuto a cui avevo pensato e non mi sembrava che tra noi il patto fosse ancora in piedi. A ogni modo, con Ranger non si poteva mai dire. A dire il vero, non ero del tutto sicura che fosse serio quando aveva parlato del prezzo da pagare se mi avesse aiutato.

Venti minuti più tardi Ranger era alla porta. Era vestito in pantaloni militari neri con tanto di cintura multiuso completa di tutto. Dio solo sa da cosa l’avevo distolto. Mi guardò e fece una smorfia. «Bionda?»

«Una decisione impulsiva.»

«Altre sorprese?»

«Niente di cui abbia voglia di parlare adesso.»

Entrò in casa e alzò un sopracciglio nel vedere DeChooch.

«Non sono stata io.»

«È grave?»

«Sopravviverò» disse DeChooch «ma fa un male cane.»

«È spuntata Sophia e gli ha fatto saltare un orecchio» spiegai a Ranger.

«E adesso dov’è?»

«La polizia l’ha arrestata.»

Ranger prese DeChooch sotto braccio e lo aiutò ad alzarsi. «Di sotto c’è Tank che ci aspetta nel SUV. Portiamo Chooch al pronto soccorso e lo facciamo tenere in osservazione per questa notte. Starà meglio lì che in galera. Possono tenerlo sotto chiave in ospedale.»

DeChooch era stato furbo a insistere per avere Ranger. Ranger riusciva a fare l’impossibile.

Dopo che se ne furono andati chiusi la porta a chiave. Accesi la TV e passai in rassegna i canali uno dopo l’altro. Niente wrestling né hockey. Niente film interessanti. La bellezza di cinquantotto canali e niente da guardare.

Avevo un sacco di cose per la testa ma non mi andava di ragionare su nessuna. Vagai per casa, infastidita e allo stesso tempo sollevata dal fatto che Morelli non avesse chiamato.

Non avevo niente da fare. Avevo trovato tutti. Non avevo casi in sospeso. Lunedì avrei riscosso quello che mi spettava da Vinnie e avrei potuto pagare un altro mese di bollette. La mia CR-V era dal meccanico. Ancora non avevo ricevuto il preventivo. Con un po’ di fortuna avrebbe pagato l’assicurazione.

Feci una bella doccia calda e quando uscii mi chiesi chi fosse la bionda allo specchio. Non io, pensai. Probabilmente la settimana seguente sarei andata dal parrucchiere per farmi tingere di nuovo i capelli del loro colore originale. È sufficiente una bionda in famiglia.

L’aria che entrava dalla finestra aperta della camera da letto aveva il sapore dell’estate, così decisi di mettermi a letto in mutandine e T-shirt. Niente più camicie di flanella fino al prossimo novembre. Mi infilai una maglietta bianca e via sotto il piumone. Spensi la luce e rimasi distesa al buio per un po’, con un senso di solitudine.

Ho due uomini nella mia vita e non so cosa pensare di nessuno dei due. Strano come vanno a finire le cose. Morelli entra ed esce dalla mia vita da quando ho sei anni. È come una cometa che ogni dieci anni viene risucchiata dalla mia corrente gravitazionale, gira vorticosamente nella mia orbita e poi riparte a razzo per tornare nello spazio. I nostri bisogni non sembrano mai essere completamente allineati.

Ranger è una novità nella mia vita. Ha un valore ignoto, è partito come mentore e sta diventando… cosa? Difficile stabilire esattamente cosa Ranger voglia da me. O cosa io voglia da lui. Appagamento sessuale. Oltre a quello non so. Rabbrividii mio malgrado al pensiero di un incontro sessuale con Ranger. So così poco di lui che in un certo senso è come fare l’amore bendati… puro istinto e fisicità. E fiducia. C’è qualcosa in Ranger che infonde fiducia.

I numeri blu dell’orologio digitale fluttuavano nel buio della stanza. Era l’una. Non riuscivo a dormire. Mi balenò in mente l’immagine di Sophia. Chiusi forte gli occhi per allontanarla. Passarono altri minuti insonni. I numeri blu indicavano l’1:30.

Fu allora, nel silenzio della casa, che sentii lo scatto di una serratura che si apriva. Poi l’impercettibile rumore della catenella di sicurezza rotta che penzolava dalla porta di legno. Mi si fermò il cuore. Quando riprese, mi batteva così forte contro il petto che mi si appannò la vista. C’era qualcuno nel mio appartamento.

Erano passi leggeri. Non si muovevano con prudenza. Non si fermavano ogni tanto per rimanere in ascolto, per scrutare l’appartamento buio. Cercai di controllare la respirazione, di regolarizzare il battito cardiaco. Credevo di conoscere l’identità dell’intruso, ma non per questo mi sentivo meno in preda al panico.

Si affacciò sulla porta della mia camera da letto e bussò appena sullo stipite. «Sei sveglia?»

«Adesso sì. Mi hai spaventata a morte.»

Era Ranger.

«Voglio vederti» disse. «Hai una lampada sul comodino?»

«Ce n’è una nel bagno.»

Prese la lampada dal bagno e inserì la spina nella presa sul battiscopa della camera. Non faceva molta luce, ma abbastanza per vederlo bene.

«Allora» dissi, schiacciandomi mentalmente le nocche delle mani. «Che succede? DeChooch sta bene?»

Ranger si tolse la cintura dove teneva la pistola e la lasciò cadere a terra. «DeChooch sta bene, ma noi abbiamo un conto in sospeso.»

FINE