Un’epoca lontana, Un Mondo profondamente diverso dal nostro tranne che per un particolare: le Donne devono lottare per la salvezza loro e del pianeta. È una razza che sembra schiava di abitudini Sessuali molto particolari… Da Eleanor Arnason, che è stratadefinita la "Ursula Le Guin" degli anni novanta.

Eleanor Arnason

Sigma Draconis

Ai membri dell’Aardvarks il più antico laboratorio di opere di fantascienza di Minneapolis e/o St. Paul

RINGRAZIAMENTI

Ringrazio le seguenti persone che hanno letto il manoscritto di questo romanzo, offrendomi consigli riguardo a eventuali variazioni:

Ruth Berman, John Douglas, David G. Hartwell, Eric M. Heideman, Albert W. Kuhfeld, Mike Levy, Sandra Lindow e Shoshona Pederson.

Al Kuhfeld ha creato la splendida nave stellare e ha letto il romanzo, attento a eventuali errori scientifici. Dopo di che il manoscritto ha subito tre revisioni. Non è sua, quindi, la responsabilità di alcun nuovo errore eventualmente inserito. Susan Pederson mi ha aiutata a delineare la cultura del Popolo del Ferro. Ruth Berman ha trovato il mio nome preferito per la nave stellare. P. C. Hodgell ha disegnato la mappa.

Un particolare ringraziamento va a Bill Gober, che mi ha sentito parlare del romanzo parecchi anni fa a Minicon. Ogni anno da allora è venuto da me a Minicon e ha chiesto: "Hai già terminato il romanzo sul popolo peloso?".

Eccolo, Bill. Spero sia valsa la pena aspettare.

L’acqua dice:

ricordo.

Io venni per prima.

Nulla esisteva prima di me.

Al tempo della pioggia

la pioggia cadde sull’acqua.

Al tempo della siccità

l’acqua rifletteva il cielo.

Io venni per prima.

Nulla esisteva prima di me.

Si levò il vapore.

Divenne

l’albero del cielo.

Si levò il vapore.

Divenne

l’uccello del sole.

Cadde un seme.

La terra cominciò a germogliare.

Nacquero gli animali.

La vegetazione era fitta.

Poi vennero le persone.

Poi vennero gli spiriti

e i potenti demoni

che vivono sottoterra.

Lasciate che ve lo dica:

sopravviverò a tutti loro.

Perfino i demoni

spariranno col tempo.

Io non ho forma.

Nessuno può dividermi.

Nessuno può dire

che cosa sono realmente.

DAL: Comitato per il problema dei primi contatti

AI: Membri della prima spedizione interstellare

Il problema, dal nostro punto di vista, si divide in tre: (1) Potreste incontrare individui con una tecnologia più progredita della nostra. (2) Potreste incontrare individui con una tecnologia simile. (3) Potreste incontrare individui con una tecnologia meno progredita.

(Per il momento lasceremo da parte il problema di che cosa si intenda per "più" o "meno" progredito. Lasceremo da parte anche la possibilità che gli alieni abbiano una tecnologia così diversa dalla nostra che sia impossibile mettere a confronto le due.)

Riteniamo più probabile che incontriate il problema numero tre: alieni con una tecnologia meno avanzata. Per ogni evenienza, tuttavia, dibatteremo tutte le possibilità.

Gli alieni con una tecnologia simile presentano il problema minore. Certamente non potremo recar loro danno, non a una distanza di 18,2 anni luce. Se la loro tecnologia è più o meno la stessa della nostra, neppure loro potranno recare danno a noi. C’è la possibilità di un considerevole guadagno per entrambe le culture senza grossi rischi. Probabilmente potrete andare avanti con fiducia.

Se incontrate alieni con una tecnologia realmente avanzata (per esempio in grado di viaggiare alla velocità della luce), dovrete fermarvi a riflettere.

Secondo la teoria sociale corrente, qualunque specie in grado di viaggiare verso le stelle è anche in grado di annientarsi, e qualunque specie in grado di annientarsi lo farà, se non imparerà molto rapidamente a occuparsi dei propri aspetti meno gradevoli.

Riteniamo improbabile che incontriate una specie capace di viaggiare fra le stelle che sia aggressiva, violenta, fanatica o accecata dall’avidità. Ma tutte le nostre teorie si basano su un unico campione, e forse non siamo corretti quanto pensiamo.

Se incontrate una specie con una tecnologia superiore, siate prudenti. Forse vorrete mantenere le distanze, almeno in un primo tempo. Forse non vorrete dire loro da dove venite.

Se sono corretti e pacifici, rispetteranno la vostra prudenza. In caso contrario, ricordate che la vostra nave è stata fornita di mezzi di autodistruzione. Se necessario, potrete cancellare il sistema computerizzato e uccidere tutti a bordo.

Questa possibilità è stata fornita con estrema riluttanza. (Vedi Appendice D.) Potrebbe essere la dimostrazione che, come specie, non abbiamo superato il nostro terribile passato.

Il problema, trattando con una specie più progredita, è l’autodifesa.

(Ricordate che, quando qui parliamo di progresso, ci riferiamo soltanto alla tecnologia.)

Il problema, trattando con una specie meno progredita, è il karma. Non vogliamo causare loro danni. La nostra specie ha causato un sacco di danni nel corso del tempo.

Siate molto prudenti se vi imbattete in individui la cui tecnologia non è uguale alla nostra. Ricordate tutte le culture sterminate nei sette secoli passati. Ricordate tutti i milioni di individui che sono morti sulla Terra: intere tribù e nazioni, gruppi linguistici, religioni, tutti spariti, annientati. Ricordate gli altri ominidi che non sono più con noi. Ricordate l’Homo sapiens di Neandertal.

Ora pensiamo di capire il processo. Siamo convinti che non ripeteremo gli stessi errori. Ma non ne siamo sicuri.

Muovetevi molto adagio. Pensate a quello che state facendo.

Lao Zi e Zhuang Zi ci ricordano i pericoli dell’azione.

I maestri del Chan e dello Zen ci avvertono che quando facciamo delle discriminazioni, quando facciamo una distinzione fra "bene" e "male, "alto" e "basso", ci allontaniamo dalla vera comprensione.

Carlo Marx ci dice che l’azione è inevitabile e che dobbiamo fare delle distinzioni per comprendere.

Avete la vostra scelta di saggi.

Tuttavia, ricordate che, secondo Marx, il fine del socialismo è l’azione attenta, la storia resa consapevole, gli individui che sanno quello che fanno.

Ricordate, anche, che le categorie non sono fisse. "Bene" e "male" cambiano il loro significato. "Alto" e "basso" sono relativi. È possibile che le distinzioni — le discriminazioni — che portate con voi nel vostro viaggio non siano utili quando arriverete.

Buona fortuna.

Copie di questo promemoria sono state inserite nel Sistema di Informazioni con Libero Accesso, negli Archivi dell’Alleanza delle Comunità Umane e negli Archivi della Quinta, Sesta e Ottava Internazionale.

Appendice A: Su possibile/i significato/i di "più" o "meno" progredito.

Appendice B: Perché riteniamo più probabile che incontriate individui con una tecnologia meno progredita.

Appendice C: Relazione di minoranza sui rischi dello sciovinismo culturale.

Appendice D: Relazione di minoranza sui rischi della paura.

Appendice E: Relazione di minoranza sulla pertinenza dei concetti taoisti e buddisti.

Appendice F: Relazione di minoranza sulla pertinenza di Carlo Marx.

Appendice G: Dao De Jing. (Integrale.)

Appendice H: L’ideologia germanica. (Brani scelti.)

PARTE PRIMA

Anasu

Sua madre era stata una lavoratrice del ferro, una seguace della Signora della Fucina. Ma era morta giovane, una primavera durante la stagione degli accoppiamenti. Succedeva, a volte. Una donna lasciava il villaggio e non vi faceva più ritorno.

Le vecchie dicevano: "L’ha uccisa un balordo. Ah! È ben difficile il destino delle donne!".

In ogni caso, Nia e suo fratello erano rimasti soli. Fu Suhai, una delle sorelle di sua madre, a prenderli con sé. Era un donnone burbero con un pelame così scuro che pareva più nero che bruno.

Insieme a loro, si prese anche le cose di sua madre: la tenda, il carro, i sei castrati di cornacurve e tutti gli utensili di ferro, bronzo e pietra.

— Un giusto compenso — disse loro Suhai. — Mi costerete parecchio negli inverni a venire. Ho anche delle figlie mie a cui pensare.

Suo fratello Anasu, che a quel tempo aveva otto anni, disse: — Sei sempre stata un’arraffona.

Suhai gli rivolse un’occhiata torva. — Vattene fuori. Non voglio averti sotto gli occhi.

Anasu fece il cenno dell’assenso, quindi si alzò. Il lembo della tenda era sollevato e Nia riusciva a vedere chiaramente il fratello. Aveva una figura slanciata e armoniosa. La sua pelliccia era di un bruno rossiccio e splendeva come rame alla luce del sole. In seguito le sembrava di ricordare che quel giorno lui portasse un gonnellino di tessuto blu scuro, alti stivali e una cintura dalla fibbia d’argento.

Anasu se ne andò. Nia guardò Suhai, seduta curva presso il fuoco, che era spento.

— Grazie alla Madre delle Madri, non ho figli maschi. Bene, intendo fare quel che è giusto. Lo crescerò, anche se non mi aspetto che sia piacevole neppure per un momento. Tu, Nia, mi darai meno disturbo, ne sono certa. Le donne della nostra famiglia sono sempre state di carattere tranquillo.

Nia non rispose.

Le cose andarono proprio come aveva previsto Suhai. Crescere Anasu non le procurò mai alcuna gioia, nonostante lui fosse intelligente e abile. Nessun ragazzo della sua età sapeva ricamare meglio. Era abile con l’arco ed era anche di carattere amabile, fuorché nelle vicinanze di Suhai. Loro due non facevano che bisticciare.

Nia si teneva fuori dagli alterchi. Scoprì di essere una persona timorosa. Quasi buona a niente, diceva a se stessa. Non era in grado di aiutare Anasu, sebbene si sentisse più vicina a lui che a chiunque altro; e non era capace di tenere testa a Suhai. Faceva sempre e soltanto quello che voleva sua zia.

Come tutti gli individui del mondo, la sua gente seguiva le mandrie. In primavera si spostavano a nord verso la Terra dell’Estate: una vasta e piatta pianura. C’erano parecchi laghetti e fiumi poco profondi. Nei giorni in cui Suhai le permetteva di andarsene libera, lei e Anasu fabbricavano trappole per i pesci con i rami di un arbusto che cresceva presso le rive dei fiumi. I rami erano sottili e flessibili e si potevano intrecciare fra loro e poi legare con pezzi di corteccia fibrosa.

Mettevano le trappole in un fiume, poi sedevano sulla riva e se ne stavano a chiacchierare finché non capivano, dal dibattersi nell’acqua, di aver preso un pesce.

Quando era assorto nelle sue fantasticherie, Anasu parlava di volare. Le grandi nuvole dell’estate gli sembravano abitabili.

— Non le nubi temporalesche, naturalmente, ma le altre. Non credo che sarebbero adatte per accudire il bestiame. Hanno troppe colline. Ma potrei portare lassù il mio arco. Sappiamo che c’è l’acqua. Può darsi che ci siano anche i pesci.

Lei ascoltava senza parlare molto. Anasu era più vecchio di lei di due anni. Aveva sempre più cose da dire.

In autunno, il villaggio si trasferiva a sud: dapprima la mandria, guidata dagli uomini adulti. Poi venivano i carri, le donne e i bambini, e infine gli uomini molto vecchi. Hisu, il maestro degli archi, era uno di costoro.

La Terra dell’Inverno era una pianura ondulata e costellata di alberi. A sud c’erano le colline sassose e, al di là delle colline, c’era un’enorme massa d’acqua.

— Il nostro sale viene da lì — le spiegò Anasu. — Alcuni degli uomini, quelli veramente audaci, restano qui da soli durante l’estate. Me l’ha raccontato Hisu. Lui lo faceva quando era giovane. Aspettava finché la mandria non se n’era andata, poi attraversava le colline. Sull’altro lato ci sono delle colline più piccole, fatte di sabbia, e poi l’acqua. Si estende fino all’orizzonte, ha detto Hisu, come la pianura nella Terra dell’Estate; e ha un gusto salato. In ogni modo, lui fabbricava delle bacinelle con il legno. Non c’è legno nelle vicinanze, ha detto. Doveva portarlo dalle colline di pietra. Ah! Quanto lavoro! Comunque, riempiva di acqua le bacinelle. Quando l’acqua si prosciugava, nelle bacinelle restava il sale. — La osservò, elettrizzato da quell’informazione e col desiderio che anche lei si emozionasse

Nia fece il gesto che significava che sentiva e capiva.

Anasu fece il gesto che significava "se è così che la pensi". Poi disse: — Credo che raccoglierò sale quando sarò un uomo.

Lei si sentì qualcosa di duro in gola. Non le piaceva mai pensare di crescere.

Passarono gli anni. Quando Nia ebbe dieci anni, Suhai incominciò a insegnarle a lavorare il ferro. Questo la rendeva felice, raccontò ad Anasu.

— Avresti dovuto incominciare un anno fa o forse due anni prima. Suhai è sempre riluttante e indolente.

— Ciò nonostante, sono contenta — replicò Nia. — Suhai è brava in quello che fa.

— Nella fucina, può darsi. Altrove, no.

Anasu si faceva alto. Il suo corpo incominciava a ingrossarsi. Adesso Suhai lo odiava davvero.

— Non mi sono mai piaciuti gli uomini. Perfino quando ero pervasa dalla smania primaverile, pensavo sempre che fossero orribili. Sono stanca di tornare a casa e di trovarti nella mia tenda.

Anasu, che a quel tempo aveva quattordici anni, fece il cenno dell’assenso. Radunò le sue cose, i gonnellini, gli stivali, l’unico mantello lungo per l’inverno, e se ne andò. Su una spalla teneva l’arco dentro la sua custodia, e il coltello gli pendeva dalla cintura.

Nia sia alzò, tremante. — Ora basta, vecchia. Non intendo sopportarti più. Me ne vado anch’io.

— Benissimo. — Suhai si sedette accanto al fuoco. Il pranzo stava cuocendo in un grosso paiolo. Lei tirò fuori un pezzo di carne e se lo mangiò.

Nia incominciò a fare i bagagli.

Uscì dalla tenda, provando un senso di orgoglio. Per la prima volta da quando riusciva a ricordare, aveva fatto qualcosa di importante tutta da sola. E adesso che sarebbe successo? Non lo sapeva. Si fermò e si guardò attorno. Era estate inoltrata. La giornata era torrida e senza un alito di vento. Il fumo saliva diritto dai fuochi per cucinare del villaggio. In lontananza, la gialla pianura baluginava. Non aveva assolutamente idea di che cosa fare.

— Nia?

Era Ti-antai, sua cugina: una donna grassoccia dal pelame bruno scuro.

— Anasu mi ha riferito di aver lasciato mia madre.

Nia fece il gesto dell’affermazione. — Anch’io.

— Quella donna terribile! Finirà con l’allontanare tutti. Mia nonna me l’ha detto una volta, Suhai avrebbe dovuto nascere uomo. È troppo litigiosa per essere una donna. Vieni a stare con me, almeno per il momento.

Nia fece il gesto dell’assenso.

Restò con Ti-antai durante il viaggio verso sud. Poi, quando arrivarono nella Terra dell’Inverno, andò a vivere con Hua, una vecchia le cui figlie erano tutte morte. La sua tenda era vuota e lei aveva bisogno di aiuto alla sua fucina.

— Uno scambio conveniente. Tu mi aiuterai. Mi terrai compagnia. Io ti insegnerò ì segreti dell’oro e dell’argento. Io li conosco, lo sai. C’era un tempo in cui ero la migliore del villaggio alla fucina. Non sono tanto male neppure di questi tempi. Certo, le mie mani si sono fatte un po’ rigide e i miei occhi non sono più quelli di un tempo. Ma che importa, dopo tutto? A ogni modo, ti insegnerò come inserire l’argento nel ferro. E anche l’oro. Trasferisciti qui quando vuoi.

Anasu barattò il suo miglior ricamo con due pezze di cuoio e con queste si fece una tenda, piccola. Viveva da solo ai margini del villaggio. Quell’inverno Nia lo vide assai di rado.

In primavera, durante il viaggio verso nord, lui cavalcò accanto al carro di Hua e diede una mano con i cornacurve. Uno di questi era un giovane maschio, forte ma recalcitrante a tirare.

A quel tempo Anasu era ormai cresciuto. Era più tranquillo che in passato, seppure sempre di carattere gioviale.

Una mattina, all’incirca a metà del viaggio, Nia si svegliò un po’ più presto del solito. Si alzò e uscì. Erano accampati in prossimità di un fiume. La bruma si ammassava sull’acqua. Il sole incominciava appena a mostrarsi sopra una catena di colline verso oriente. Nia si diresse verso il carro. Il pannello posteriore era fissato con cerniere e catene. Poteva essere abbassato in modo da facilitare le operazioni di carico e scarico, e poteva venire fissato a metà, formando uno spazio piatto. Anasu dormiva lì sopra. Durante la notte aveva gettato via il mantello e ora giaceva sulla schiena, un braccio sul viso per ripararsi gli occhi. Tutt’a un tratto Nia vide chiaramente il fratello. Era grande e robusto. Aveva un aspetto arruffato, rozzo, un po’ insolito. Si stava avvicinando il tempo del cambiamento. Nia provò un dolore terribile.

Lui si destò e si stiracchiò. — Uh! Sono tutto irrigidito!

A lei venne voglia di abbracciarlo, ma decise di no. Avrebbe dovuto spiegare perché lo faceva. Invece se ne andò ad accendere il fuoco e a preparare la colazione.

Quell’estate Nia cercò di trascorrere più tempo con Anasu, ma lui era irrequieto, taciturno. Gli piaceva cacciare e pescare da solo. Quando si trovava al villaggio, lavorava a fabbricare frecce o a finire un grosso ricamo. Questo raffigurava un uomo con grandi corna ricurve: il Signore delle Mandrie. Su entrami i lati c’erano femmine di cornacurve. Sopra di lui il sole e un paio di uccelli.

— Non infastidirlo — le disse Ti-antai. — Si sta preparando per il cambiamento. Se vuoi fare qualcosa per lui, lavora ai suoi doni di addio.

Nia fece il gesto dell’assenso.

L’estate fu piovosa ed eccezionalmente breve. Il sole era ancora molto lontano dal nord quando gli uccelli incominciarono a partire.

— Un brutto inverno — commentò Hua. — Chiederò alla conciapelli che cosa vuole in cambio di un buon mantello di pelliccia. Ora, faremmo meglio a cominciare a preparare i bagagli.

Poco prima che lasciassero la Terra dell’Estate, il cielo si fece terso. Per due giorni il tempo fu caldo e luminoso. Anasu venne alla sua tenda. — Andiamo a catturare pesci.

Fabbricarono le trappole e le sistemarono nel fiume. Poi sedettero sulla riva. Le foglie sugli arbusti incominciavano già a ingiallire. Il sole scottava. Su una roccia, a poca distanza, c’era una lucertola di fiume. Con il capo sollevato, li scrutava guardinga. Sotto il mento aveva una vescica di pelle color arancione. Una o due volte la gonfiò e gracidò.

Anasu raccolse un ramoscello e lo spezzò in piccoli pezzi. — Sto diventando sempre più irritabile. Ci sono giorni, Nia, in cui riesco a stento a sopportare la gente. Penso… il primo che mi viene vicino lo pesto.

Il cambiamento, pensò Nia.

— Ho deciso di dirtelo. Voglio che tu sappia che, se all’improvviso me ne vado o divento violento, è perché non riesco più a mantenere il controllo.

— Tutti noi lo sappiamo.

D’un tratto, con violenza, lui fece il gesto del dissenso. — Tu non puoi sapere. Ho le ossa in fiamme. È come un fuoco in una torbiera che non si esaurisce mai. Non mi sono mai sentito peggio di così, neppure quando è morta nostra madre. — Si alzò. — Non intendo restare qui, Nia. Addio.

Si allontanò. Nia restò seduta per un po’ a guardare il fiume. Un pesce si dibatteva nell’acqua dove avevano collocato una delle loro trappole. Lei fece qualche passo nell’acqua bassa per andare a prenderlo.

Durante il viaggio verso il sud lo vide appena. Una volta o due scorse di sfuggita, attraverso la polvere, un giovane che cavalcava. Era possibile che fosse lui. Una sera Anasu venne nella loro tenda. Aveva la pelliccia irsuta e opaca e le sue vesti erano sporche. Si sedette sul lato opposto a dove si trovavano loro e si servì della cena. La vecchia Hua, che di solito era loquace, non disse nulla.

Alla fine fu Nia a parlare. — Come stai?

Lui le rivolse un’occhiata assente e Nia notò che i suoi occhi non erano di un giallo puro. C’era dell’arancione attorno alle pupille. Non se lo ricordava.

Anasu fece il gesto che significava né bene né male. Poi riprese a mangiare. Non appena ebbe finito, se ne andò.

— Completa i tuoi doni — disse la vecchia Hua.

Lei lo fece. L’ultimo era una fibbia fatta in ferro ricoperto di argento. Raffigurava un cornacurve che lottava con un assassino-delle-montagne.

— Non male — fu il commento di Hua. — Un giorno o l’altro mi renderai orgogliosa.

Nia fece il gesto che significava un cortese o schivo diniego.

— Hai troppo poco amor proprio — osservò Hua.

Il viaggio si concluse. La gente innalzò le proprie tende in prossimità del Fiume Marrone. Più a nord c’era un crinale roccioso dalle basse pendici ricoperte di foreste. A sud, sull’altra sponda del fiume, si estendeva la pianura: ondulata, costellata di alberi, del giallo della tarda estate. Lì fu condotta a pascolare la mandria.

Non c’era traccia di Anasu. Nia si sentì inquieta.

— Verrà — le disse Ti-antai. — Nessun uomo se ne va senza i suoi doni di addio; a meno che, naturalmente, il cambiamento non lo faccia impazzire. Ma questo accade di rado.

— Non sei sempre una consolazione, cugina.

All’inizio il tempo si mantenne asciutto. Poi incominciò a piovere. Ogni giorno cadeva almeno qualche goccia; la maggior parte dei giorni, però, pioveva o piovigginava per ore. L’aria era fredda. Hua si lamentava che le dolevano le ossa. Ciò nonostante, si manteneva operosa.

Un pomeriggio se ne stavano entrambe alla fucina. Nia azionava il mantice per Hua, che stava fabbricando un lungo coltello: un dono di addio per Gersu, il figlio della conciapelli, che era di poco più giovane di Anasu.

Quando il lavoro di martellinatura fu completato e la lama immersa nell’acqua fredda, Nia mise giù il mantice. Si massaggiò il collo.

— Nia. — Era Anasu. C’era una nota esitante nella sua voce.

Nia si guardò attorno. Lui era fermo lì vicino e teneva le redini del cornacurve. Non aveva mai avuto un aspetto peggiore: arruffato, sporco di fango, smarrito.

— Anasu?

— Io… — S’interruppe per un attimo. — Sono venuto per i doni. Sto per andare al di là del fiume.

Lei fece il gesto che significava che capiva, poi quello del rincrescimento.

— Tu resta qui — disse Hua. — Nessuno ti darà noia. Impacchetteremo ogni cosa.

Andarono dentro la tenda. Hua aggiunse legna al fuoco, poi mise una bacinella di latte a scaldare.

Nia tirò fuori le bisacce da sella nuove che aveva fatto la conciapelli, poi il panno che si era procurata da Angai la Cieca, la tessitrice, in cambio di un nuovo paiolo. La maggior parte dei rimanenti oggetti li avevano fatti lei stessa, Hua o Ti-antai. Li sistemò uno a uno: il coltello nuovo, la marmitta, gli aghi di ottone, il punteruolo e il pettine dal manico lungo del genere che gli uomini usavano per pettinarsi il pelo sulla schiena.

Che altro? Faceva fatica a pensare.

— La cintura nuova, sciocchina! — Hua stava impacchettando il cibo: carne essicata, bacche essicate, pane.

Finalmente ebbero finito. Hua versò il latte in una tazza. Portarono ad Anasu le bisacce da sella. Era cominciato a piovere un poco. Lui se ne stava fermo lì dove lo avevano lasciato e aveva un’aria inquieta. Il cornacurve, che avvertiva il suo nervosismo, continuava a muoversi, ruotando il capo, scuotendo le orecchie, dando strattoni alle redini.

Proprio quando raggiunsero Anasu, lui tirò con violenza le redini e gridò: — Sta’ fermo, tu!

Il cornacurve muggì e s’impennò. Anasu lo tirò giù. Strappò le bisacce da sella dalle mani di Nia e un istante dopo era a cavalcioni del cornacurve. Si piegò a dare una pacca sulla spalla dell’animale. Il cornacurve incominciò a correre.

— Anasu! — gridò Nia.

Se n’era andato.

— Gli uomini! — fu il commento di Hua. — Danno sempre spettacolo! Ed eccomi qui con questa tazza di latte. Intendevo darla a lui. Be’, farà altrettanto bene a me. — Ne bevve una sorsata.

Nia emise una specie di mugolio, poi serrò la mano e cominciò a battersi una coscia.

— È giusto. Da’ sfogo al dolore.

Nia continuò a battersi la coscia.

Come aveva predetto Hua, fu un inverno cattivo. Faceva freddo e c’era parecchia neve. Nia si chiedeva come se la stesse cavando Anasu. Pregò il Signore delle Mandrie, chiedendogli di proteggere suo fratello.

All’epoca del solstizio, Gersu impazzì e lo si dovette scacciare dal villaggio. In seguito, sua madre portò i doni al di là del fiume. Li appese ai rami di un grosso albero. Forse lui li avrebbe trovati e li avrebbe presi. Più probabilmente, no.

— I suoi occhi hanno sempre avuto uno sguardo cattivo — fu il commento di Hua.

Nia fece il gesto dell’assenso.

La primavera arrivò presto. La pianura divenne di un azzurro chiaro. Gli arbusti lungo il fiume misero dei fiori gialli. Nia si sentiva quasi felice.

— Vedi — disse Hua. — Superiamo sempre qualunque cosa.

— No. Questo non lo credo.

— Vedrai.

Giunse la stagione degli accoppiamenti. Ti-antai, che aveva appena finito di svezzare il suo ultimo bambino, sentì la smania primaverile e partì. Nia si trasferì nella sua tenda e si prese cura dei bambini.

Dieci giorni più tardi, Ti-antai fece ritorno. Appariva scompigliata e rilassata. — Bene, è finito. — Si stiracchiò e sbadigliò.

— Hai visto Anasu?

— Naturalmente no. Nia, che cosa c’è che non va? Lui deve trovarsi molto a sud con gli altri giovani. Non sono arrivata fin laggiù. — Ti-antai arrotolò una coperta fino a farne un guanciale, poi si coricò. Sbadigliò di nuovo. — Mi sono presa un tipo grande e grosso, a mezza giornata di viaggio da qui. Fa dei bei lavori di intaglio. Mi ha dato un corno per il sale pieno di sale. Mmm! Ho bisogno di dormire!

Nessuna delle donne aveva incontrato Anasu, ma nessuna di loro si era spinta molto a sud. Si erano accoppiate tutte con uomini più vecchi, che avevano il proprio territorio in prossimità del villaggio.

— Non preoccuparti — le disse Hua. — Fra un anno, due o tre qualcuno lo incontrerà e te lo riferirà.

Nia fece il gesto che significava che aveva capito. Mentre faceva il gesto, pensò che c’era qualcosa che non andava. Qualcosa di sbagliato. Perché così spesso la gente si sentiva sola?

Andarono a nord nella Terra dell’Estate. Una volta che si furono sistemati, Nia si guardò attorno in cerca di nuovi amici. Aveva passato troppo tempo con Anasu e aveva fatto troppo affidamento su di lui.

Scelse come amica la più giovane Angai. Angai era la figlia della sciamana, una ragazza esile, sveglia, spesso sarcastica. Ma sapeva parecchie cose interessanti: i diversi modi di impiegare le piante, il significato dei voli degli uccelli. Al pari di Nia, era sola.

— Ho molte capacità — spiegò a Nia. — Ma non quella di fare amicizia. È terribile!

Nia la osservò. Stava facendo dell’ironia? Sì. Un angolo della sua bocca era piegato all’ingiù, segno che non pensava davvero ciò che aveva detto.

Durante i festeggiamenti della mezza estate, si ubriacarono insieme e si addormentarono fra le braccia l’una dell’altra.

Sul finire dell’estate, Nia fece una collana per Angai. Ogni maglia era un uccello fatto in argento.

— È meravigliosa! — esclamò Angai. Abbracciò Nia, poi si mise la collana. — Tutte le donne del villaggio mi invidieranno!

— Pensi troppo all’opinione degli altri. Angai parve irritata, poi disse: — Può darsi.

Dopo di che Angai si comportò freddamente per un giorno o due. Poi arrivò alla fucina di Hua e portò un dono. Era un unguento che toglieva il dolore di qualunque scottatura.

— È una ricetta di mia madre. L’ho fatto io questa volta. Mia madre dice che è buono.

Nia prese il vasetto. — Grazie.

— Adesso possiamo smettere di litigare?

Nia rise. — Sì.

L’autunno fu asciutto e il viaggio verso sud agevole, quasi piacevole. Nia e Angai erano sempre insieme. Qualche volta Angai viaggiava sul carro di Hua. A volte Nia cavalcava accanto al carro della sciamana. Naturalmente, non vi salì mai. Era pieno di oggetti magici.

Un giorno si allontanarono dalla carovana. Lasciarono correre i loro cornacurve e, quando gli animali incominciarono a essere stanchi, si fermarono. Il territorio era piatto e deserto. Non videro nulla all’infuori della gialla pianura e del cielo verdeazzurro. Da qualche parte lì vicino un uccello terrestre cantava: un fischio, uno schiocco, un fischio.

— Mmm! — esclamò Nia, massaggiando il collo del cornacurve.

— Ci sono momenti — disse Angai — in cui mi stanco della gente. Penso che vorrei essere un uomo e vivere per mio conto.

— Tu hai molte idee strane.

Angai fece il gesto dell’assenso. — Mi viene dal vivere con mia madre. Passiamo la notte qui fuori, lontano da tutti.

— Perché?

Angai fece il gesto che esprimeva incertezza.

— Questa non è una vera ragione — disse Nia. — E io non desidero fare le cose che fanno gli uomini.

Nel tardo pomeriggio fecero ritorno alla carovana. Era ancora in movimento. I carri e gli animali sollevavano nubi di polvere. Mentre si avvicinavano, Nia udì il suono delle voci: donne e bambini che sbraitavano. Per un attimo il baccano la irritò. Voleva tornare indietro, verso il silenzio della pianura.

Non lo fece. Invece proseguì, cercando il carro di Hua.

Quando arrivarono nella Terra dell’Inverno, Ti-antai si ammalò. Cominciò a perdere sangue e abortì. La sciamana tenne una cerimonia di purificazione e un’altra per allontanare altri eventi sfortunati. Dopo di che Ti-antai cominciò a stare meglio, ma molto lentamente. Stette male fino a inverno inoltrato.

Non successe nient’altro di importante, a parte il fatto che Nia scoprì di poter andare d’accordo con Suhai. Cominciarono a scambiarsi visite; non spesso, ma una volta ogni tanto. Suhai stava diventando vecchia. C’erano peli grigi nella sua pelliccia. Le sue ampie spalle si erano afflosciate. Si lamentava del freddo dell’inverno e dell’ingratitudine delle proprie figlie.

— Non vengono mai a farmi visita. Dopo tutti gli anni di cure, mi lasciano sola. Tutto questo è corretto? È normale e giusto?

Nia non disse nulla.

— Ebbene? — domandò Suhai.

— Non intendo criticare il loro comportamento. Il proverbio dice di non parlare male di parenti o di qualsiasi altro con cui viaggi. Il proverbio dice anche di non interferire nei bisticci degli altri.

— Uh! Ho tirato su una donna saggia, vero?

Nia non rispose.

Suhai si alzò, muovendosi in modo rigido. — Non ho intenzione di stare ad ascoltare una bambina che sputa saggezza come il pesce dell’antica leggenda che sputa pezzi d’oro. È innaturale. Addio.

— Addio, matrigna. Ti verrò a trovare fra un giorno o due.

Arrivò la primavera. Era di nuovo precoce. Nia incominciò a sentirsi nervosa. Di notte era disturbata da sogni. Spesso, nei sogni, vedeva il fratello o altri giovani, perfino il folle Gersu.

Quando si alzava, di solito era stanca e trovava difficile concentrarsi su qualsiasi cosa. Incominciò a fare errori alla fucina.

— Non riesci a fare niente nel modo giusto? — le domandò Hua.

Nia la fissò, sbigottita.

— Be’, è comunque una risposta, ma non è una buona risposta — osservò Hua.

Da ultimo raccolse la lama di un coltello che era ancora rovente e si bruciò seriamente la mano. Hua si prese cura della bruciatura, poi disse: — Adesso basta. Vattene. Non tornare finché non sarai in grado di lavorare.

Angai le diede una pozione che le calmò il dolore. Dormì parecchio. I suoi sogni erano frammentari, oscuri, e la turbavano. Le pareva che in essi ci fosse sempre Anasu.

Finalmente la mano smise di farle male. Ma ora le sembrava che tutto il suo corpo fosse pieno di strane sensazioni: pizzicori e formicolii. Spesso provava un gran calore, sebbene si fosse ancora all’inizio della primavera. Il tempo non era particolarmente caldo.

Andò a trovare Ti-antai.

— La smania primaverile — sentenziò la cugina. — La scorgo sul tuo viso. Bene, sei abbastanza grande. Adesso prepara i tuoi bagagli. Cibo e un dono per l’uomo. Qualcosa di utile. Della stoffa o un coltello. Sarai pronta a partire fra un giorno o due.

Lei preparò i bagagli. Quella notte non dormì affatto. Il suo corpo era in fermento e scottava. Al mattino uscì. La carezza del vento la fece rabbrividire. È ora di andare, pensò. Prese il suo cornacurve preferito e lo sellò, poi andò a prendere le sue bisacce da sella.

— Sii prudente — le disse Hua.

Per un attimo non si rese conto di chi fosse l’anziana donna; poi se ne ricordò. — Sì. — Uscì, montò in sella e partì al galoppo.

Passò a guado il fiume. L’acqua era poco profonda e c’era un po’ di foschia. Sul lato opposto c’era un albero e dai suoi rami penzolavano un paio di stracci. C’era un coltello conficcato nel legno, la lama e l’impugnatura arrugginiti. Nia osservò di sfuggita tutto ciò, poi se ne scordò e procedette sulla pianura.

A metà pomeriggio arrivò ai margini di una mandria. Il primo animale che vide era un grosso maschio. Un corno era spezzato e il pelo lungo e arruffato che gli copriva il collo e il busto era di un bruno argenteo. L’animale mugghiò, poi abbassò il capo come se stesse per caricare. Quindi sollevò il capo e lo scosse. Un istante dopo si allontanava al trotto.

Bene, pensò Nia. Non era dell’umore giusto per un confronto.

Proseguì. Ben presto si imbatté in altri animali: bestie di un anno o due. Erano troppo grandi per le cure materne e troppo giovani per tenere testa ai grossi maschi, i guardiani della mandria. In quel periodo dell’anno si tenevano ai margini della mandria, ben lontani dalle femmine e dai loro nuovi piccoli. Non gradivano di dover stare lì ai margini e spesso gli animali di un anno cercavano di entrare per trovare la madre, ma i grossi maschi li allontanavano.

Nia si fermò all’imbrunire. Trovò un albero e vi legò il suo cornacurve. Poi accese un fuoco. La notte era fredda e si era dimenticata il mantello. Restò alzata e mantenne vivo il fuoco.

La mattina seguente, al levar del sole, comparve un uomo. Dall’aspetto doveva avere trenta o trentacinque anni, era pesante e con le spalle ampie. La sua pelliccia era color bruno scuro. Indossava una tunica gialla, alti stivali, una collana d’argento e bronzo.

Tenne a freno il suo cornacurve e la osservò per un momento. Il suo sguardo era fermo e calcolatore. Poi smontò. Nia indietreggiò; all’improvviso si sentiva a disagio.

— Dall’aspetto mi eri sembrata abbastanza giovane — fece lui. — Mi causerà un sacco di problemi?

— Non lo so.

La sua pelliccia era folta e lucente. Aveva un’interessante cicatrice: una striscia bianca che gli scendeva lungo il braccio destro dalla spalla fino all’interno del gomito.

— Chi sei? — s’informò Nia.

Lui sembrò irritato. — Inani. Ti dispiace se non parliamo? Parlare mi rende nervoso.

Lei fece il gesto dell’assenso. Lui le si avvicinò, poi tese le braccia e la toccò. Nia rabbrividì. Dolcemente, lui la cinse con un braccio. Ciò che accadde in seguito non le fu del tutto chiaro.

Quando ebbero finito, Nia si alzò e riaccese il fuoco. Scaldò del latte. Inani sonnecchiava con la schiena appoggiata all’albero. Ogni tanto si destava di soprassalto. Si guardava attorno, poi si rilassava e si appisolava di nuovo. Alla fine si svegliò del tutto. Nia gli offrì una tazza. Sedettero uno di fronte all’altra attorno al fuoco e bevvero.

Inani disse: — Chi sei?

— Nia. La figliastra di Suhai. Hai incontrato mio fratello Anasu?

— No. Conosco gli uomini che hanno il proprio territorio accanto al mio. Mi tengo lontano da loro il più possibile, ma durante le migrazioni tutto si confonde. Gli individui stanno troppo vicini. A volte penso che sarebbe meglio andarsene via del tutto.

— Chi è tua madre?

— La fabbricante di tende. Enwa. È viva?

— Sì.

— Bene. — Inani si alzò. — Ti va di restare qui? — Montò in sella al suo cornacurve. — Causi meno problemi di quanto mi aspettassi. Tornerò questa sera.

Si allontanò al galoppo. Nia dormì per buona parte della giornata. Alla sera, Inani tornò. Si accoppiarono di nuovo. Lui si accampò a breve distanza. Nia osservò per un po’ il suo fuoco di bivacco, poi si addormentò.

Il giorno seguente Inani se ne andò di nuovo e tornò nel tardo pomeriggio. Si accoppiarono. Lui fece ritorno al proprio bivacco. La notte era nuvolosa e c’erano raffiche di vento gelido. Nia se ne stava raggomitolata accanto al fuoco e tremava. Dopo un po’ alzò lo sguardo e vide Inani. Era in piedi sul limitare della luce del fuoco, appena visibile.

— Sì? Che cosa c’è?

L’uomo fece qualche passo avanti e le tese qualcosa. Un mantello. Svolazzava al vento.

Nia si alzò. — Grazie.

Prese il mantello. Inani rimase dov’era. Per un istante Nia pensò che stesse per parlare. Ma lui non lo fece. Fece invece il gesto che significava "oh, bene". Si voltò e si allontanò nelle tenebre.

Che strano! Lei si avvolse nel mantello, poi si coricò.

La mattina seguente l’uomo se ne andò di nuovo. Nia restò presso l’albero. Cominciava a sentirsi irrequieta, ma non osava andare a cavalcare. Non sapeva dove terminasse il territorio di Inani. Se avesse sconfinato nel territorio di un altro uomo, costui l’avrebbe rivendicata. Inani avrebbe potuto seguirla. Poi ci sarebbe stato un diverbio. Aveva sentito parlare di cose del genere. Di solito i due uomini si minacciavano a vicenda finché uno di loro rinunciava e se ne andava. Qualche volta, però, si battevano. La vecchia Hua aveva visto morire un uomo, con una lama di coltello nel petto. Che cosa terribile! Ma anche interessante. Che effetto avrebbe fatto stare a guardare un combattimento che era veramente serio?

Inani tornò quella sera. Si accoppiarono. Questa volta, lui si trattenne alla fine. Si sedette all’altra estremità del fuoco e si mise a fare domande. Come stava Enwa? E le sue sorelle? Il vecchio Niri era ancora vivo?

— No.

Inani si grattò la testa. — Be’, era vecchio. Mi ha insegnato lui a intagliare. Posso restare qui stanotte?

Nia fece il gesto dell’assenso.

Si destò al sorgere del sole. L’aria era fredda e senza vento. Inani se n’era andato. Nia si alzò, stiracchiandosi e gemendo. Il fuoco era spento. Accanto alle ceneri c’erano due oggetti.

— Che cosa? — esclamò ad alta voce. Si avvicinò e li esaminò: un sacchetto pieno di sale e una scatola. Lei la rigirò, ammirandone la lavorazione. Era un abile artigiano, Inani.

Dopo un istante o due si rese conto del significato degli oggetti. Erano i doni dell’accoppiamento. Queste cose venivano date quando era terminato il periodo dell’accoppiamento. Inani l’aveva finita con lei.

Così presto? Nia si sentiva imbarazzata e insultata. Aveva forse fatto qualcosa di sbagliato? O Inani aveva trovato un’altra donna nel proprio territorio? Qualcuna che trovava più attraente.

Nia sospirò, poi mise nelle bisacce la scatola e il sacchetto di sale e dispose i suoi doni per Inani: un coltello, una cintura, una pezza di panno azzurro. Lui sarebbe tornato e li avrebbe trovati. Sellò il suo cornacurve. Si sentiva stanca e un po’ delusa, ma la smania era sparita. Questo era un bene. Montò in sella e si diresse verso casa.

Quando tutte le donne ebbero fatto ritorno al villaggio, Nia s’informò se qualcuna avesse visto Anasu. Ma nessuna l’aveva incontrato.

— Non preoccuparti — disse Hua. — Ricomparirà. Non è uno degli sfortunati.

Nia fece il gesto che indicava che aveva capito.

Il viaggio verso nord fu difficoltoso. C’era pioggia. La mandria, che procedeva davanti al villaggio, sommuoveva il terreno bagnato, trasformandolo in fango. I carri s’impantanarono infinite volte. L’umore si fece irascibile. Parecchi fra i vecchi sellarono i loro cornacurve e se ne andarono.

Hisu, il fabbricante di archi, era troppo vecchio per andare. Se ne stava seduto sul suo carro e malediceva il destino.

Nia, che gli cavalcava accanto, lo sentì borbottare: — Era meglio se morivo anni fa. — Parlava a voce alta senza rivolgersi a nessuno che lei potesse vedere. — Nel fiore degli anni, da solo. Il modo che si conviene. Ora… o Signore delle Mandrie, che fine! Vivere circondato da donne!

Aveva davvero un’aria miserevole. Se ne stava raggomitolato nel mantello, il volto riparato da un ampio cappello da pioggia di cuoio. Nia notò che il suo pelame era completamente grigio.

Gli fece un cenno con la mano. Lui imprecò. Lei proseguì.

Finalmente arrivarono nella Terra dell’Estate. La maggior parte dei vecchi tornò e si sistemò come al solito ai margini dell’accampamento. Ma due non fecero più ritorno.

— Due stupidi! — osservò Hua. — Perché se ne sono andati? Erano vecchi. Si sarebbero potuti comportare in modo ragionevole. L’hanno fatto? No. Sono corsi via come ragazzi forsennati. E adesso qualcosa li ha uccisi.

Nia non disse nulla.

La pioggia cessò. L’estate era fresca e asciutta. Ben presto ebbe la certezza di non essere gravida.

— Non preoccuparti — la rassicurò Ti-antai. — Capita spesso. Avrai un figlio il prossimo anno o l’anno successivo.

Nia fece il gesto con cui mostrava che capiva. Non si era preoccupata. Era felice così com’era. Durante il giorno lavorava alla fucina. Nel tardo pomeriggio lei e Angai andavano a cavalcare o se ne stavano sedute presso il fiume a chiacchierare. Era per lo più Angai a parlare. Aveva molto spirito di osservazione e trovava sempre qualcosa di mordace da dire sulle persone del villaggio. A causa del tempo asciutto, c’erano solo pochi insetti nell’aria. Era piacevole starsene sedute ad ascoltare mentre il cielo cambiava colore.

La sua amica era senza dubbio intelligente, pensò Nia. Quasi intelligente quanto Anasu.

Quell’estate ci fu uno scandalo al villaggio. Riguardava la lavoratrice del bronzo, Nuha, e suo figlio.

Lui aveva sedici anni e tutti potevano vedere che era passato attraverso il cambiamento. La sua pellicia era irsuta, il corpo grande e grosso. Si comportava in modo irrequieto, ma non abbandonava il villaggio. Al contrario, restava dentro la tenda di sua madre o lavorava con lei alla fucina.

Le vecchie torcevano la bocca e brontolavano. Hua disse: — È quello che capita quando una donna non ha figlie. Non riesce a lasciar andare i figli maschi. Guarda in che modo lo tratta! Non lo manda a imparare a usare l’arco o qualche altra cosa che gli tornerà utile. Lascia che lui azioni il mantice e coli perfino il bronzo. Aiya! È spaventoso.

Nia non disse nulla. Le era sempre piaciuto Enshi. Da bambino era stato affabile e loquace, sempre pronto a raccontare storielle e a fare scherzi. Perfino adesso era sempre cortese e non perdeva mai le staffe, una cosa assai insolita in un ragazzo, o in un uomo, della sua età.

Era però mediocre come tiratore d’arco. Glielo aveva detto Anasu.

"E cavalca anche male", aveva osservato suo fratello. "Non sopravviverà da solo sulla pianura."

Arrivò l’autunno. Il villaggio si preparò a muoversi. Una mattina Enshi se ne andò.

— Finalmente! — fu il commento di Hua. — Adesso potrò parlare di nuovo con sua madre.

Restò assente per cinque giorni, poi ritornò. Aveva l’aspetto stanco e sporco. Le donne del villaggio gli rivolsero occhiate ostili, ma Enshi le ignorò. Condusse la sua cavalcatura fino alla tenda della madre e smontò.

Nuha, che era piccola e grassa, si precipitò fuori e abbracciò il figlio.

— Disgustoso — dichiarò Suhai. — Che la Madre delle Madri possa insegnare la vergogna a quella donna.

— Stai maledicendo la donna? — domandò Nia. — In tal caso, farò il gesto dello scongiuro. Chi può dire quale spirito ascolterà una maledizione? O che cosa ne farà?

— Hai intenzione di diventare una sciamana, figliastra?

— No.

Suhai la fissò torva, poi fece il gesto dello scongiuro.

— Bene — disse Nia.

La mattina seguente, di buon’ora, le donne anziane si recarono dalla sciamana. Rimasero sull’entrata della sua tenda e si lamentarono. Nia udì le loro voci stridule e uscì. La giornata era luminosa. L’aria odorava di fumo di legna, di cuoio e dell’arida pianura estiva.

Nia osservò la sciamana che attraversava il villaggio. Indossava una tunica ricoperta di ricami rossi e una grossa collana fatta di bronzo. Mmm! Che donna imponente!

Le vecchiacce la seguivano zoppicando. Nia restò a guardare.

Si fermarono tutte davanti alla tenda di Nuha.

— Enshi! — gridò la sciamana.

Un minuto dopo, Enshi uscì. Nia non riusciva a vedere la sua espressione.

— Non hai la coscienza di ciò che è giusto? — domandò ad alta voce la sciamana.

Enshi abbassò gli occhi, poi li rialzò. Borbottò qualcosa che Nia non riuscì a sentire.

— È ora che tu te ne vada — disse la sciamana.

Enshi fece il gesto dell’assenso. Ora aveva le spalle curve e un’aria scoraggiata.

— Vattene oggi. E non tornare. Sei diventato una fonte di imbarazzo.

Enshi fece una seconda volta il gesto dell’assenso. Poi si voltò e rientrò nella tenda della madre.

La sciamana se ne andò, ma le vecchie si sedettero lì in attesa.

Nia andò alla fucina e lavorò da sola. Nel pomeriggio inoltrato arrivò Hua.

— Se ne è andato — dichiarò. — Gli abbiamo detto che se mai decidesse di tornare, lo malediremmo.

— Davvero? — osservò Nia. Si drizzò e si massaggiò il collo. — Come sono indolenzita oggi!

Il villaggio si spostò a sud. Il tempo si manteneva asciutto. La mandria sollevava una nube di polvere che saliva verso il cielo per gran parte del cammino. Un giorno dopo l’altro, vedevano davanti a loro la nube. Era di un colore marrone scuro. Nia pensava: Anasu è laggiù, che cavalca fra la polvere. E anche Enshi, il povero buffone.

Arrivarono nella Terra dell’Inverno. Di solito si accampavano a nord della mandria, ma quell’anno si diressero a sud e a est fino al Grande Lago dei Giunchi. Ora si trovavano ai margini orientali del loro pascolo. Sull’altra sponda del lago c’era la terra del Popolo dell’Ambra. Piantarono le loro tende e la sciamana si recò a far visita al Popolo dell’Ambra. Angai andò con lei, a anche altre nove donne. Conducevano tutte animali da soma carichi di doni.

Rimasero assenti per trenta giorni. Il tempo si manteneva asciutto, sebbene Hua continuasse a dire che stava arrivando la pioggia. Se la sentiva nelle ossa.

Quando tornarono, portarono con loro i doni del Popolo dell’Ambra: ambra, naturalmente, conchiglie colorate e rame.

— Uh! Che esperienza — dichiarò Angai. — Abbiamo dovuto girare attorno al lago. Sull’altra riva ci sono acquitrini e, al di là degli acquitrini, un fiume. È ampio e profondo. L’abbiamo dovuto attraversare ed è stato pericoloso. Ci vivono degli animali. Sono simili alle lucertole di fiume, ma più grandi. Molto più grandi. Mangiano qualunque cosa, dice mia madre.

— Uh! — esclamò Nia. — Raccontami di più.

— Abbiamo fabbricato delle zattere. È così che abbiamo attraversato il fiume. Non ho visto nessuno di quegli animali. Sono chiamati tuffatori o assassini-dell’acqua-profonda.

— Aiya! - fece Nia.

— Sull’altra sponda del fiume c’è la terra del Popolo dell’Ambra. — Angai fece una pausa e aggrottò la fronte. — Sono alte quanto noi, ma più corpulente; e parecchie di loro sono grasse. Hanno la pelliccia scura. La loro sciamana è enorme. Porta un cappello fatto di penne. Riuscivo a stento a capirle. Parlano in un modo così strano. Però sono molto ospitali. E bevono una specie di birra che non ho mai assaggiato prima. Nia, ho sentito una storia laggiù da non credere. Ma loro giurano che è vera.

Angai s’interruppe per bere un po’ di latte. Nia restò in attesa.

— Sostengono che più a oriente di dove stanno loro c’è un popolo che rimane in un unico posto. Non si sposta mai.

Nia fece il gesto dello stupore.

— Vivono in case fatte di legno. Le case non possono essere ripiegate o smontate. Sono solide come scatole.

"A quanto sostiene il Popolo dell’Ambra, vivono nei pressi di una foresta e i loro uomini vivono nella foresta. Non conducono in branco gli animali come dovrebbero fare gli uomini. Invece cacciano e pescano pesci. Le donne non hanno una grande opinione di loro. Dicono che tutti gli uomini sono selvaggi e cattivi."

— È il Popolo dell’Ambra che lo dice?

— No! No! È il popolo che non si sposta mai. In realtà, secondo il Popolo dell’Ambra, alcune fra le donne rifiutano di accoppiarsi con gli uomini.

Nia si grattò il capo. — Com’è possibile?

— Quando arriva la smania primaverile, si allontanano a coppie, due donne insieme. Si accoppiano fra di loro.

Per un attimo Nia restò seduta in silenzio a fissare il fuoco. — Come fanno a generare figli?

— Nel solito modo. Il Popolo dell’Ambra sostiene che pochissime fra le donne si accoppiano soltanto con altre donne. La maggior parte di loro vuole avere figli, così si accoppiano con gli uomini finché non hanno tutti i figli che vogliono.

Nia si grattò di nuovo la testa. — È una storia molto strana.

— Sì. Mi piacerebbe andare a visitare quel popolo.

— Sono delle pervertite! — saltò su Hua. — E le donne del Popolo dell’Ambra sono una massa di bugiarde. Non esiste un popolo simile. Case di legno! Che idea balorda!

Angai aveva l’aria infuriata.

— Non voglio parlare più di questo — disse Nia. — Questa storia mi mette a disagio.

L’inverno fu freddo. Di notte, nel cielo a settentrione, brillavano luci. Erano verdi, bianche e gialle.

— Il fuoco dell’inverno — spiegò Hua. — Lassù a nord riempie il cielo. Noi non lo vediamo spesso quaggiù.

— Porta sventura — sentenziò Ti-antai.

Cadde la neve. Al villaggio ci fu un’epidemia di tosse e molte persone morirono. Erano per lo più donne anziane e bambini molto piccoli.

Suhai si prese la malattia. Per qualche tempo, nel periodo buio dopo il solstizio, tutti pensarono che sarebbe morta. Ma alla fine si ristabilì, seppure lentamente. Per tutto il resto dell’inverno rimase nella sua tenda, accudita da Nia e da Ti-antai. Era duro per Nia andare a trovarla e vederla rannicchiata lì accanto al fuoco. La sua pelliccia era più grigia che bruna e aveva un aspetto ossuto e infelice.

Nia si domandava perché mai le si contraesse la gola alla vista della vecchia. La matrigna non le piaceva neppure.

Finalmente giunse la primavera, una primavera fredda e piovosa. Le mani di Hua divennero così rigide che non era in grado di lavorare alla fucina. — Questo posto è pervaso dalla malasorte — si lamentò.

— Credo che tu abbia ragione — convenne Nia.

Gli alberi misero foglie di un colore azzurro chiaro e fra le canne rinsecchite nel lago sbocciavano fiori. Erano gialli e arancione. Altri fiori, bianchi e minuscoli, comparvero ai margini della pianura. Nia incominciò a sentirsi irrequieta. La smania primaverile, pensò. Iniziò così a radunare provviste.

— Perché io non provo la smania? — domandò Angai.

— Tu sei più giovane di me. — Nia si chinò e osservò gli oggetti che aveva preparato durante l’inverno: lunghi coltelli e aghi, fermagli, lime e punteruoli. Qual era il dono adatto?

— Sono più giovane solo di mezzo anno — disse Angai. — Non è molto.

— Perché lo chiedi a me? Che cosa ne so? Domandalo a tua madre.

Angai se ne andò. Nia comprese che era in collera. Peccato. Allungò la mano e raccolse un coltello. Aveva una buona lama, fatta di ferro che era stato piegato e ripiegato. Questo sarebbe andato bene, pensò. E anche aghi e un fermaglio, e magari del cuoio della conciapelli.

Si alzò in piedi. E ora, del cibo per il viaggio.

Quella notte sognò di Anasu e di cavalcare per la pianura. Si svegliò, sentendosi più smaniosa di prima. Sollevò il lembo della tenda e lo fissò, lasciando entrare la luce del sole. L’aria era tranquilla e mite e odorava della vegetazione nuova. Pensò: partirò oggi, prima che la smania diventi ancora più forte. Cavalcherò finché non dimenticherò questo inverno terribile. Si voltò a guardare Hua.

— Lo so — disse la vecchia. — Qualche volta vorrei provare ancora la smania. Allora penso: devo essere davvero pazza per desiderare una cosa del genere. In ogni caso, va’.

Nia riempì le bisacce da sella e andò in cerca del suo cornacurve preferito. A mezzogiorno era già in viaggio. Il cornacurve era irrequieto e voleva correre e Nia glielo permise. Dopo un po’, l’animale rallentò, poi si fermò. Nia si guardò attorno. Era sola. Da ogni parte, la pianura si estendeva ondulata fino all’orizzonte. Trasse un respiro profondo, poi espirò. Il cornacurve agitò le orecchie.

Dove voleva andare? Non a ovest, decise. Là c’erano la mandria e gli uomini maturi. No. Sarebbe andata a sud, verso le colline dove stavano i giovani. Lanciò uno sguardo al sole e poi alla propria ombra, quindi diresse il cornacurve verso sud.

Viaggiò per tre giorni. Il tempo si mantenne sereno. Non incontrò neppure una persona, nulla all’infuori degli uccelli e dei piccoli animali che vivevano sulla pianura. Pian piano la smania andava facendosi più forte. Era una sensazione quasi piacevole. Cominciò a chiedersi che genere di uomo avrebbe incontrato quell’anno.

Il quarto giorno il cielo si annuvolò e si levò il vento. A mezzogiorno Nia arrivò alle colline meridionali. Erano basse, con parecchi affioramenti di roccia. C’erano alberi sulle colline. Una specie era in fiore. Qui e là, sui pendii azzurrognoli, c’erano chiazze di giallo. Nia trovò impronte di animali che costeggiavano un corso d’acqua. Conducevano a est, fra le colline. Seguì quella pista, sentendosi un po’ inquieta. Non era abituata ai luoghi dove il cielo era limitato.

— Oh Madre delle Madri, abbi cura di me — bisbigliò.

Più in alto, i rami si muovevano. Le foglie stormivano, un rumore forte, diverso dal sommesso fruscio della vegetazione che si muoveva sulla pianura.

Nia pregò la Signora della Fucina. — Riportami a casa sana e salva, o santa.

Nel tardo pomeriggio incontrò un uomo. Era in cima a una collinetta, seduto su una roccia. Non c’erano alberi nelle vicinanze, solo arbusti dalle piccole foglie verdeazzurre. Il suo cornacurve stava brucando un arbusto.

Nia trattenne l’animale. Il suo cuore cominciò a battere all’impazzata.

— Mi sembrava di aver visto una donna. Che sorpresa! Nia, sei tu?

Lei lo guardò. Era bruno scuro e i suoi occhi erano grigi. Un colore molto insolito. — Enshi? — Notò che la sua tunica era sbrindellata. Appariva magro.

— Come sta mia madre? E tu che ci fai qui? Le donne non si spingono mai così a sud.

Lei aprì la bocca per rispondere. Enshi si alzò, poi saltò giù dalla roccia. — Parliamo più tardi. C’è un odore che emana da te, Nia. Non so dirti l’effetto che mi fa. — Tese una mano. — Andiamo.

La sua pelliccia scura scintillava al sole. Tutt’a un tratto Nia si rese conto di quanto fosse bello. Smontò e legò il suo cornacurve, poi prese il mantello.

Andarono fra i cespugli e si accoppiarono lì. Il terreno era sassoso. Le foglie avevano un fresco profumo primaverile. Quanto a Enshi, era un po’ impacciato, ma perfettamente all’altezza.

Quando ebbero finito, lui si rigirò sulla schiena. — È tutto qui, allora? Mi aspettavo di più. Tuttavia… — La guardò, gli occhi grigi semichiusi. Allungò una mano e la toccò con dolcezza. — Che pelliccia morbida! — Fece un sommesso suono di gola, una specie di ruh, poi chiuse del tutto gli occhi e si addormentò.

Nia tirò su il mantello in modo da coprirli entrambi. Osservò i cornacurve, poi il cielo. Il sole era sparito ma le nuvole avevano ancora una radiosità bianca e di un oro tenue. Si sentiva assonnata e felice.

Enshi il Buffone! Non aveva mai neppure immaginato di accoppiarsi con lui. Anzitutto, pensava che lui fosse morto. Chi avrebbe creduto che sarebbe riuscito a sopravvivere al terribile inverno?

Enshi si svegliò al crepuscolo. Le lanciò un’occhiata. — Non è stato un sogno. Se gli spiriti sono responsabili di questo, li ringrazio. — L’afferrò e si accoppiarono di nuovo. Dopo di che scesero nella valle più vicina e si accamparono. La notte era fredda e ventosa. Brandelli di nuvole riempivano il cielo. Il fuoco tremolava. Enshi incominciò a parlare.

— Che cosa ci fai tanto a sud? Come mai non non ti ha presa uno degli uomini grandi prima che tu arrivassi da Enshi?

Lei rifletté per un momento. — Volevo venire quaggiù. Volevo trovare mio fratello Anasu. — S’interruppe, provando un certo stupore. Era quella la verità? Era venuta in cerca di Anasu?

— Davvero? — Enshi la fissava. — Perché?

Nia si grattò la testa. — Non lo so. Sai dove sia?

Enshi fece il gesto dell’affermazione. — Prendo da lui il mio sale. Ero solito farlo, in ogni modo. L’inverno è stato duro e non credo che mi sia rimasto qualcosa da dargli in cambio.

Nia aprì la bocca.

Enshi la guardò. I suoi occhi erano socchiusi. Aveva un’aria pensierosa, quasi astuta. — Tu vuoi che ti dica dove si trova. Non lo farò. Se sei venuta fin qui per vedere lui, allora è probabile che tu prosegua e mi lasci qui da solo, con la sensazione di essere uno stupido. Non ho intenzione di lasciarti andare, Nia. Non prima che sia finito il tempo dell’accoppiamento.

— Non si può dire che tu non sia loquace — osservò Nia.

Enshi fece il gesto dell’assenso. — Ricordati, non ho avuto nessuno con cui parlare per tutto l’inverno.

— Mi dirai dove si trova Anasu quando sarà finito il tempo dell’accoppiamento?

— Sì.

Nia fece il gesto che significava "così sia".

— Allora — cominciò Enshi — parlami di mia madre. Sta bene? Si affligge ancora per me?

Nia tracorse otto giorni insieme a Enshi. Il tempo si mantenne freddo e ventoso. Ogni tanto cadeva la pioggia, ma non era violenta. Gli alberi sopra il loro accampamento li riparavano; inoltre, mantenevano acceso un bel fuoco. Si accoppiarono spesso.

Ogni mattina Enshi andava a caccia. Al pomeriggio tornava con foglie, radici e i teneri germogli delle piante primaverili. Due volte riportò della selvaggina: un uccello terrestre, smagrito dall’inverno, e un costruttore-di-monticelli. Quest’ultimo era piccolo, ma grasso. O almeno non era magro.

— Se l’è cavata meglio di me quest’inverno — osservò Enshi.

Nia scuoiò l’animale, lo sviscerò e lo infilzò sullo spiedo. Poi si sedettero fianco a fianco a osservarlo mentre cuoceva.

— Mmm! Che profumo! Ero solito sognare il profumo della carne che cuoceva. Mi svegliavo e non trovavo nient’altro che neve. Che delusione! C’erano periodi in cui il tempo era brutto e non potevo viaggiare. Incominciavo a guardare il mio cornacurve e a pensare a lui come a un arrosto. Ma poi pensavo: no, Enshi. Morirai senza un animale da cavalcare. Poi pregavo gli spiriti; e il tempo cambiava. Andavo giù fino ai margini della mandria in cerca di un cornacurve che fosse troppo vecchio per scappare e lo uccidevo. La carne era sempre fibrosa, senza nemmeno un po’ di grasso. Bene, quei giorni sono finiti. Perché pensarci?

Nia rigirò lo spiedo. Mentre l’altro lato dell’animale cuoceva, si accoppiarono.

Il giorno seguente Nia preparò una trappola per i pesci e la sistemò nel corso d’acqua sul fondo della valle. Quella sera mangiarono pesce farcito di erbe aromatiche.

— Che brava cuoca sei — disse Enshi. — Quasi brava quanto mia madre.

Nia si sentì irritata. Sembrava che Enshi non facesse altro che parlare di sua madre. Non era giusto. Un ragazzo allevato nel modo appropriato parlava di sé o degli anziani che gli avevano insegnato a essere uomo. Non andava avanti per ore a parlare della propria madre.

— Com’è Anasu di questi tempi? — gli chiese.

Enshi fece il gesto che significava "chi può dirlo?". — L’ho incontrato due volte. La prima volta ho cercato di parlargli ma lui ha detto: "Non voglio fare conversazione, Enshi. Che cos’hai che sei disposto a darmi?". Non ha voluto aggiungere altro. Io ho tirato fuori una delle tazze di bronzo di mia madre e l’ho deposta per terra. Lui ha tirato fuori un sacchetto di sale, poi mi ha fatto cenno di indietreggiare. Quando sono stato abbastanza lontano, è venuto a prendere la tazza, poi ha messo giù il suo sacchetto. Tutto qui. Se ne è andato e io ho raccolto il sale. La seconda volta che l’ho incontrato, non ha neppure aperto bocca. — Enshi esitò per un momento, poi proseguì. — È più amichevole degli altri uomini. Non fa mai boccacce e non agita le armi contro di me.

Non sembrava promettere bene. Anasu sarebbe stato disposto a parlare con lei? Nia non lo sapeva.

Il periodo dell’accoppiamento terminò. Nia diede a Enshi i suoi doni. Lui pareva a disagio. — L’inverno è stato duro. Ho perso la maggior parte dei miei doni di addio. Prima un assassino-delle-foreste ha trovato il mio nascondiglio e l’ha distrutto, poi ho perso gran parte di quel che restava questa primavera mentre attraversavo un fiume. Ma compongo poesie. Posso offrirtele?

— Sì.

Ne recitò nove o dieci. In seguito Nia se ne ricordò solo una. Parlava di un albero che lui aveva visto qualche giorno prima.

— Tutti i rami erano spogli e la corteccia si stava staccando. Ciò nonostante, c’erano virgulti tutt’attorno all’albero, che crescevano dalla sua base. Erano lunghi come il mio braccio. Avevano foglie e fiori. Ho pensato che questo doveva avere un senso. E ho composto una poesia. Fa così:

"Se tu non ti arrendi

vecchio albero…

Non lo farò

nemmeno io."

— Quella mi piace — disse Nia.

Lui la recitò di nuovo. — È sufficiente? Abbiamo fatto uno scambio equo?

— Dov’è Anasu?

— Oh, sì. Segui la pista finché non si biforca. Allora va’ a sud. Arriverai presso una grossa pietra con sopra dei segni. La pietra è magica e nessuno pretende mai che si trovi nel suo territorio. Le persone vanno lì a scambiare doni. Aspetta presso la pietra. Se Anasu è da qualche parte lì attorno, verrà.

— Grazie. Abbiamo fatto uno scambio equo.

Si dissero addio. Nia sellò il suo cornacurve, poi montò in sella e si allontanò. Era una giornata soleggiata e soffiava una lieve brezza. Gli uccelli zufolavano. Si sentiva appagata.

Al crepuscolo giunse presso la pietra. Era alta e stretta, con incise delle linee. Riusciva a mala pena a scorgerle e non sapeva che significato avessero. Erano state delle persone a farle? Nessuno che lei conoscesse incideva linee nella pietra.

Legò il suo cornacurve e accese un fuoco. La notte era serena. Nia si coricò sulla schiena. Su nel cielo, sorse la Grande Luna. Era all’ultimo quarto. Restò a osservarla per un po’ di tempo, poi si addormentò.

La mattina seguente osservò la pietra. Le linee raffiguravano degli animali, per lo più cornacurve. Ma c’era un altro animale che non riconosceva. Aveva un corpo grosso e corte corna. Che cos’era? Nia si grattò la testa. C’erano cacciatori sulla pietra: uomini con archi. Formavano un circolo attorno agli animali. Su un lato, a una certa distanza, c’era un uomo da solo. Era più grande degli altri, e aveva delle corna. Erano corte, come quelle dell’animale sconosciuto. Chi era? Una qualche specie di spirito, a quanto pareva. Ma nessuno spirito che lei conoscesse. Il Signore delle Mandrie aveva lunghe corna ricurve. Lo Spirito del Cielo era privo di corna. Si grattò di nuovo la testa. Poi si preparò la colazione.

A mezzogiorno comparve Anasu. Arrivò cavalcando lungo la pista che portava alla radura in cui c’era la pietra. Trattenne il suo cornacurve.

Nia si alzò in piedi. — Fratello.

Lui era più grande di come se lo ricordava e aveva un torace molto ampio. La sua pelliccia era ruvida e scura. Indossava un gonnellino rosso, un’alta cintura, alti stivali, un coltello dall’impugnatura d’argento. — Nia? — disse dopo un momento. Restò a fissarla. — Hai superato la smania. — La sua voce aveva un suono aspro e deluso. — Ti ha presa qualcun altro.

— È una cosa da dire questa? Gli uomini non sanno pensare ad altro che al sesso?

Lui scoppiò in una risata. Non era un suono del tutto affabile. — In questo periodo dell’anno non penso quasi a nient’altro. Mi dico che, se fossi coraggioso, andrei a nord. Poi penso: non sono abbastanza maturo per affrontare quegli uomini. E tu che cosa ci fai qui?

Lei fece il gesto del dubbio.

— Non hai mai avuto le idee chiare. — Smontò di sella. — Vuoi del sale? Ne ho.

— No. Voglio parlare. Come stai? — Fece un passo verso il fratello.

Lui alzò una mano. — Resta dove sei. Non sono abituato alla gente.

Nia si fermò.

Dopo un po’, Anasu disse: — Sto bene. Non c’è niente che tu voglia darmi in cambio del sale?

Lei si tolse la cintura. — Vuoi questa? Ho fatto io la fibbia. È oro misto ad argento.

Lui esitò. — D’accordo. — Si voltò verso le bisacce da sella.

— Non voglio sale. Voglio fare conversazione.

Anasu si girò di nuovo verso di lei e la fissò. — Perché?

— Fratello, quando penso a te, mi sento sola.

Anasu si grattò la nuca. Poi fece il gesto che significava "così sia" oppure "sono cose che capitano".

— Non c’è modo di parlare?

Lui restò in silenzio per un lungo momento. Nia aspettava. Infine Anasu disse: — Non credo che ciò che tu vuoi siano parole. Potrei offrirti parole, anche se non sarebbe facile. Non sono più abituato a parlare molto o a dire quello che mi passa per la mente. Ma credo che tu voglia qualcos’altro. Credo che tu sia come la donna dell’antica leggenda, i cui figli si trasformarono in uccelli. Lei lasciò la propria tenda e vagabondò per la pianura nel tentativo di trovarli. Ma non ci riuscì mai, e alla fine morì e diventò uno spirito, uno spirito malvagio, uno spirito famelico. — Esitò e aggrottò la fronte.

Nia aprì la bocca per parlare, ma lui alzò la mano. — No. Aspetta. Voglio seguire il corso dei miei pensieri. — Lei attese. Alla fine lui disse: — Credo che tu voglia qualcosa che non esiste più.

— No.

— Ti conosco, sorella. Sono convinto di avere ragione. In ogni caso, non voglio più parlare. — Montò in sella al suo cornacurve. — Qualsiasi cosa tu stia cercando di fare, non voglio entrarci. — Fece il gesto dell’addio, poi girò l’animale e se ne andò.

Nia serrò il pugno e colpì la pietra magica. Aiya! Che male! Emise un gemito, aprì la mano e la palpò. Per quanto era in grado di capire, non c’erano ossa rotte, ma la pelle era graffiata sul lato della mano privo di pelliccia. Si leccò la sbucciatura, poi si sedette e restò lì a dondolarsi e a gemere. Non serviva a niente. La mano continuava a farle male e il dolore dentro di lei persisteva, solido come una pietra.

Verso sera si alzò e accese un fuoco. Per tutta la notte se ne stette seduta a guardare le fiamme e a pensare alla propria infanzia.

La mattina dopo spense il fuoco e sellò il suo cornacurve. Era inutile restare. Anasu non sarebbe tornato. Era sempre stato testardo. Si diresse a nord. Il cielo era nuvoloso e soffiava un vento freddo. Petali di fiori cadevano svolazzando sulla pista. Erano gialli o di un bianco verdognolo.

Nel pomeriggio incominciò a piovere. Nia si fermò e si accampò sotto una sporgenza rocciosa. Si addormentò presto. Qualcosa durante la notte la svegliò

Il fuoco ardeva ancora. Sul lato opposto c’era Enshi. Stava spennando un uccello.

Nia sollevò il capo. Lui fece il cenno del saluto, poi sollevò l’uccello. Era grande e grasso.

— L’ho trovato su un nido. Ho le uova, se non si sono rotte. Come stava Anasu?

— Non ha voluto parlarmi. E tu che cosa ci fai qui?

— Sei nel mio territorio, e ho pensato che forse avresti avuto fame. Ho pensato anche che mi sarebbe piaciuto parlare ancora un po’.

— Perché sei così diverso dagli altri uomini?

— Non lo so. — Per un attimo parve imbarazzato. Poi riprese a spennare l’uccello.

Nia si addormentò.

Al mattino cucinarono l’uccello farcito con le sue uova. Mangiarono, poi Nia si preparò ad andarsene.

— Posso venire con te? — le chiese Enshi.

— Che intenzioni hai?

— Voglio far visita a mia madre. Pensavo che tu potessi mostrarmi la via per il villaggio.

— Ma le vecchie ti malediranno.

— No, se mi dirai dove si trova la tenda di mia madre e io sgattaiolerò dentro di notte. Le vecchie non lo sapranno mai.

— È sbagliato.

— Può darsi. Ma ho perso tutti i miei doni di addio. Non sopravviverò a un altro inverno con quello che ho. Io voglio vivere, se mi sarà possibile. E non mi importa se farò delle cose che sono vergognose. Chissà che cosa provano gli spiriti dei morti? Preferisco essere vivo e un po’ imbarazzato.

Nia lo osservò per un attimo. Non c’era dubbio che fosse magro, e la sua tunica era proprio a brandelli. Si fregò la mano, che le faceva ancora male, poi sospirò. — D’accordo. Ti aiuterò, anche se prevedo che me ne pentirò.

Enshi sellò il suo cornacurve. Partirono insieme per il nord.

Lixia

Otto di noi furono fatti atterrare, ciascuno per proprio conto: tre sul continente grande, che si estendeva con una forma irregolare attorno al polo meridionale del pianeta, pieno di crepacci e lobi. Il centro del continente era costituito da ghiaccio. Le coste erano verdi, verdeazzurre e gialle: praterie, foreste e deserti, a detta delle persone che analizzavano gli ologrammi.

Altri quattro andarono sul continente piccolo, che si trovava a nord dell’equatore. Lì non c’erano ghiacci degni di nota e quasi nessun deserto, ma vegetazione in abbondanza. C’erano montagne: una catena a occidente, lungo la costa, e altre catene minori a est e a sud. Nulla di imponente, nulla di simile alle Montagne Rocciose o all’Himalaya. Ma, secondo i planetologi, due delle catene erano vulcaniche. Una era attiva. L’altra poteva esserlo.

L’ultima persona fu fatta atterrare su una delle numerose isole dell’arcipelago che dal continente grande si estendeva ad arco fin oltre l’equatore, raggiungendo quasi il continente piccolo.

Altre isole costellavano il resto del pianeta-oceano. Erano piccolissime e assai distanziate fra loro. Interessanti per i biologi, naturalmente. Non c’è niente come un’isola per studiare l’evoluzione. Decidemmo, però, che non erano il posto dal quale avremmo dovuto iniziare.

Io andai sulla costa nordorientale del continente settentrionale. Ero equipaggiata con una giacca di tela di jeans e una leggera camicia di cotone. I miei stivali erano di plastica, resistenti e flessibili. Nell’avambraccio destro, sotto la pelle, avevo una fila di capsule che mi fornivano le vitamine che non erano disponibili su questo pianeta. Nel mio intestino c’erano cinque nuovi tipi di batteri, studiati per scomporre le proteine locali, trasformandole in aminoacidi che io potessi digerire.

Avevo uno zaino che conteneva una radio, una cassetta con l’attrezzatura medica, un poncho, un’altra camicia, esattamente come la prima, e un cambio di biancheria. Un grosso scomparto era pieno di gingilli. Questi erano fabbricati con materiali originari del pianeta. Non volevamo introdurre niente di alieno all’infuori di noi stessi.

Da ultimo, avevo un medaglione appeso a una catena di metallo grigio. Il medaglione era di metallo, piatto e scuro, con inseriti dei pezzi di vetro. Era un registratore audiovisivo, e quasi indistruttibile, così mi era stato detto. Qualunque cosa mi fosse successa, sarebbe sopravvissuto.

Sbarcai su una spiaggia, in prossimità di una fila di dune. Erano alte e spoglie, di un colore rosa arancione.

La barca che mi aveva trasportata virò e tornò verso l’aeroplano. Io mi diressi verso l’interno, arrampicandomi su una duna. Quando arrivai in cima, sentii un rombo e mi guardai attorno. L’aeroplano si stava muovendo sull’acqua. Si levarono spruzzi, poi del fumo. Era in aria. Le ali risplendevano alla luce del sole. L’aeroplano continuava a salire. Un minuto o due più tardi, era sparito.

Guardai il cielo deserto e tutt’a un tratto mi sentii molto sola. Allora incominciai a scendere lungo l’altro versante della duna.

Arrivata in fondo, trovai una pista. Non era una gran cosa. Stretta e sabbiosa, si allontanava serpeggiando dalle dune in direzione di un boschetto di alberi.

Erano state delle persone a tracciarla? Qualche forma di vita intelligente? Sapevamo che il pianeta era abitato. Le immagini fornite dai satelliti avevano mostrato villaggi e mandrie le cui migrazioni, stando a quanto ci avevano detto gli zoologi, erano troppo sistematiche per essere assolutamente naturali.

In ogni caso, mi trovavo di fronte a una pista. Decisi di seguirla. Questa mi condusse fra gli alberi e in mezzo ad alcune colline. Spesso le cime delle colline erano spoglie fatta eccezione per alcune macchie di una pianta che somigliava un po’ ad alta erba gialla. Le foglie, o i fili, erano rigide e avevano bordi seghettati. Non era un organismo dall’aspetto gradevole. Si trattava di un pianeta non ostile?

Negli avvallamenti fra le colline c’erano altri alberi. Erano piccoli e contorti, con piccole foglie scure. Dai tronchi spuntavano spine che erano lunghe e sottili, simili ad aghi. Un altro organismo dall’aspetto sgradevole. Incominciarono a venirmi in mente raccapriccianti storie di fantascienza. Perché avevo letto quella roba? Gli anziani della mia famiglia mi avevano messa in guardia: la fantascienza non portava a niente di buono.

Non serviva a niente innervosirsi o pensare al passato. Mi trovavo in un luogo del tutto nuovo e non avevo la minima idea di come fosse. Il mio lavoro, per il momento, consisteva nell’osservare. Successivamente, quando avessi avuto delle informazioni, avrei potuto pensare, ricordare e confrontare.

Dopo circa un chilometro giunsi in prossimità di un manufatto. Si trovava in un avvallamento al centro di una radura. I pendii tutt’attorno erano coperti di alberi. Mi fermai. La cosa era alta tre metri e fatta di pezzi di legno lunghi e stretti. Mi fece pensare a una palestra nella giungla oppure alle costruzioni rituali fabbricate dagli aborigeni della California meridionale. Avevo trascorso del tempo insieme a loro. In mezzo ai seni e sulla parte superiore delle braccia avevo le cicatrici della loro cerimonia di iniziazione. Non ero mai riuscita a capire perché mai mi ci fossi sottoposta fino in fondo. Ma conservavo le cicatrici. Me le ero guadagnate e, ogni volta che mi facevo una doccia, mi ricordavano di non lasciarmi coinvolgere troppo dai sistemi di valori di altri popoli.

Ispezionai la costruzione. Adesso notai che sotto c’erano i residui di un fuoco. Tre oggetti grigi erano appesi a una delle stecche più basse. Mi inginocchiai e li esaminai. Pesci o qualcosa di molto simile a pesci. Mi dondolai all’indietro sui talloni e mi sentii soddisfatta. Una rastrelliera per affumicare il pesce. A farla era stato un qualche essere intelligente. Ero la prima persona della Terra a vedere da vicino un manufatto alieno; su questo pianeta, in ogni caso, e per quel che ne sapevo.

Restai dov’ero alcuni minuti, osservando i pezzi di legno. Erano nodosi e contorti. Non c’era del legno migliore in quella zona? Mi guardai attorno. Tutti gli alberi nelle vicinanze avevano rami contorti. La struttura era tenuta insieme da strisce di fibra. Ne strappai via un pezzetto e lo arrotolai fra le dita. Al tatto sembrava una qualche specie di prodotto vegetale. Forse corteccia.

Qualcosa fece un rumore alle mie spalle. Mi alzai lentamente e mi girai, tenendo le mani tese all’infuori con le palme in avanti. Il gesto significava "Vedi? Non porto armi".

C’era una creatura lì ferma ai margini della radura, a forse venti metri di distanza. Un bipede. Era all’incirca della mia statura, tarchiato e coperto di pelame. Il pelo era di un bruno scuro, quasi nero. La creatura aveva due braccia, una testa e una faccia. Ero troppo lontana per distinguerne le fattezze. La creatura, uomo, donna o animale che fosse, indossava un gonnellino e in una mano teneva un coltello.

— Sono estremamente pacifica. — Tenevo le mani tese all’infuori e il tono della mia voce era sommesso e uniforme. — Non ho cattive intenzioni.

La creatura disse qualcosa che io, naturalmente, non riuscii a capire. Ma il tono non mi piaceva. Era forte e aveva un che di aspro.

— Non ho cattive intenzioni.

La creatura sollevò il coltello e fece un passo avanti. Io indietreggiai.

— Non possiamo discuterne? — Mi concentrai nel mantenere un tono di voce sommesso e conciliante. Evitavo di incontrare gli occhi della creatura. Fra molte specie, compresa la mia, uno sguardo diretto era una sfida.

La creatura fece un altro passo nella mia direzione. Decisi di andarmene.

— D’accordo. Hai vinto. Addio.

Attraversai arretrando la radura. La creatura mi seguì per un tratto, poi si fermò accanto alla rastrelliera. Quando arrivai al limitare della radura, mi fermai.

— Ne sei sicuro?

La creatura sollevò più in alto il coltello e sbraitò qualcosa. Mi voltai e mi allontanai a tutta velocità. Avevo la pelle della schiena che formicolava. Continuavo a immaginare la lama di un coltello che vi si conficcava.

Quando arrivai in cima alla successiva collina, mi voltai a guardare. La pista era deserta. Non c’era niente che mi seguisse.

Bene. E adesso?

Forse la creatura che avevo incontrato era un eremita. Senza dubbio dovevano esserci altri membri della specie che fossero amichevoli o curiosi.

Proseguii, andando sempre verso l’interno. Incominciavo a notare dei rumori: un sommesso ronzio che immaginai provenisse da pseudoinsetti nascosti fra gli alberi. Cose simili a uccelli svolazzavano di ramo in ramo. Quando erano fermi, emettevano mugolii o fischi. Mi resi conto, per la prima volta, che la giornata era mite e radiosa. Soffiava una leggera brezza. Nel cielo, che era di un intenso verdeazzurro, si muovevano alticumuli. L’aria odorava di acqua salmastra.

Il mio pensiero corse alla mia infanzia nel Libero Stato delle Hawaii, sull’isola di Kauai. Ero vissuta in una grande casa, a cinque minuti dall’oceano. Nove genitori si erano presi cura di me, e c’erano stati una dozzina di fratelli e sorelle con cui giocare. Sarebbe dovuto essere un periodo felice. Ricordavo la luce del sole, fiori, volti gentili, una spiaggia bianca, acqua azzurra, e niente risacca. Ma ero stata una bambina imbronciata, sempre ansiosa di andarsene.

Nel pomeriggio camminavo ormai attraverso una foresta acquitrinosa. Qui gli alberi erano alti e diritti. Il loro fogliame scuro non lasciava filtrare la luce del sole. L’aria era ferma e fresca e aveva una nuova fragranza: il profumo della foresta. Era intenso e caratteristico, diverso da qualunque odore avessi sentito in precedenza.

Pensavo che l’avrei riconosciuto se mai l’avessi sentito di nuovo, sebbene non ne fossi assolutamente certa. Era molto più facile ricordare qualcosa se aveva un nome e una descrizione. Per il momento, avrei chiamato quella fragranza "diversa" e "gradevole".

Nel tardo pomeriggio arrivai in prossimità di un villaggio. Dapprima sentii l’odore del fumo di legna, poi vidi delle abitazioni davanti a me fra gli alberi. Non riuscivo a distinguerle chiaramente. La foresta era troppo piena di ombre. Qui e là la luce di un fuoco brillava attraverso una porta o una finestra.

Mi fermai e riflettei su cosa fare. Non sarebbe servito a nulla aggirarsi furtivamente. Se mi avessero scoperta a spiare, mi sarei trovata davvero nei guai. La cosa migliore, la cosa che avevo fatto nella California meridionale e nel New Jersey, era di entrare direttamente.

Beninteso, quella tecnica non aveva funzionato nel New Jersey. Laggiù gli abitanti avevano cercato di sacrificarmi al loro dio, il Distruttore delle Città. Decisi di non pensare a quell’episodio. Passai ancora un minuto o due a farmi coraggio, poi entrai nel villaggio.

Ai margini c’erano piccole capanne, costruite in legno. Erano molto distanziate fra loro, come se gli individui che vi abitavano non fossero troppo amichevoli. Più avanti, gli edifici erano grandi e lunghi, disposti vicini gli uni agli altri. Alcuni bambini, nudi a parte la pelliccia, correvano nelle strade. Un gruppetto di tre mi vide e si fermò a fissarmi a bocca aperta. Erano abbastanza vicini da permettermi di vedere le loro facce: rotonde, piatte e coperte di pelo. Ogni faccia aveva una bocca, un naso e un paio di occhi gialli.

— Salve — dissi in tono cordiale.

I bambini strillarono e corsero via.

Proseguii fra le case. Più volte passai accanto a persone grandi. Adulti. Mi fissavano, ma non dissero niente. Non fecero nessun gesto minaccioso.

La cosa era incoraggiante. Arrivai in uno spazio aperto che sembrava trovarsi più o meno al centro del villaggio. Una piazza. Mi accosciai e rimasi in attesa. Ormai il sole era sparito e il cielo incominciava a farsi scuro. La gente si assembrava ai margini della piazza, parlando sommessamente. Sudavo. Se avessi fatto un errore, se costoro non fossero stati amichevoli, sarei morta lì.

Qualcuno si diresse verso di me: una persona alta e magra. Lui, o lei, portava una veste lunga e numerose collane. Qualcuno di importante. Uno sciamano o un capo.

Naturalmente usavo le definizioni della Terra.

Mi alzai lentamente in piedi, poi tesi le mani all’infuori. — Vengo in pace.

La persona mi osservò con cura. Finalmente allargò le mani, ripetendo il mio gesto.

E adesso che cosa sarebbe successo? Lasciamo che sia l’indigeno a deciderlo. Aspettai. La persona si tolse una collana e me la offrì. La presi. Le palline erano piccoli cilindri di rame. C’era un ciondolo: un pezzo di conchiglia intagliata a forma di pesce.

Era quasi certamente un gesto amichevole.

— Grazie. — Mi misi la collana. Adesso dovevo ricambiare. Mi sfilai lo zaino dalle spalle, poi mi chinai e l’aprii.

— Ecco. — Mi raddrizzai, porgendo una collana fatta di conchiglie. Quel particolare tipo di conchiglia, blu scuro e lucente, era stato trovato nell’oceano settentrionale del pianeta, attorno a un piccolo arcipelago che avevamo chiamato Isole Deserte. Io e Harrison Yee avevamo raccolto le conchiglie e le avevamo intagliate, usando tecniche che Harrison aveva appreso presso l’Università di Pechino, alla Facoltà di Antropologia.

L’individuo prese il mio dono, poi mi fece un cenno, si voltò e si allontanò. Lo seguii. Passammo accanto a una folla di gente che stava a guardare. Avevo la camicia intrisa di sudore.

Arrivammo davanti a una casa. La persona gesticolò di nuovo. Entrai e mi trovai in una vasta stanza lunga. Al centro ardeva un fuoco. Alla sua luce rossastra scorsi delle pareti di tronchi e travi di legno. Il pavimento era di terra o argilla.

Mi guardai attorno. Non c’era mobilia, ma c’erano mucchi di pellicce negli angoli. Lungo le pareti vidi dei paioli. Alcuni erano alti un metro. Neri e lucidissimi, scintillavano alla luce del fuoco. L’aria odorava di fumo di legna e di qualcos’altro: un aroma pungente. Guardai verso l’alto. Dalle travi pendevano mazzi di piante. Erbe aromatiche, pensai. Chissà se erano selvatiche o coltivate? Quegli individui coltivavano la terra? Avevano la ruota del vasaio? Quali metalli lavoravano oltre al rame?

Il mio ospite mi seguì all’interno. Lo guardai. Ora, alla luce del fuoco, notai le spalle curve, le mani ossute, la pelliccia che diventava grigia. Era una persona anziana, ne ero quasi certa. Gli occhi arancioni mi osservavano. Le palpebre erano pesanti, le pupille due fessure verticali.

Dopo un momento la persona parlò.

— Mi dispiace. Non conosco la tua lingua.

Il mio ospite allungò una mano e mi toccò con estrema delicatezza il viso. Non c’era pelo nella parte interna della mano. La pelle era dura e secca al tatto.

— Uh!

Io avevo i capelli tirati indietro e legati sulla nuca. La persona mi sfiorò il lato della testa, tastando la capigliatura in quel punto, poi toccò i capelli che mi ricadevano fra le scapole.

— Tsa!

Tirai indietro la mano e mi tolsi il fermaglio dai capelli, scuotendo la testa. I capelli ricaddero liberi.

Il mio ospite sussultò. Mi afferrò alcune ciocche e tirò. Per un attimo sopportai il dolore, poi dissi: — Ehi — e toccai molto delicatamente la mano pelosa.

La persona mollò la presa. Parlò di nuovo, forse per scusarsi, e mi invitò con un cenno ad avvicinarmi al fuoco.

Arrivarono altre persone, che indossavano gonnellini o tuniche. Vidi altre collane fatte di rame e cinture con fibbie di metallo. Il metallo era giallo, ottone oppure bronzo.

I nuovi arrivati stesero pellicce sul pavimento. Io e il mio ospite ci sedemmo. Qualcuno portò una ciotola piena di liquido. Il mio ospite bevve, poi mi offrì la ciotola. Era di argilla cotta, nera come i paioli e lucente. All’esterno, sotto il bordo, era inciso un disegno geometrico. Il liquido all’interno appariva scuro e aveva un odore pungente.

Mi ricordai di ciò che mi avevano detto i biochimici. Probabilmente potevo mangiare quello che mangiavano gli indigeni.

"Naturalmente ci sono un sacco di cose che non riuscirai a metabolizzare, neppure con i virus che ti abbiamo fornito. Se resterai laggiù per un certo periodo di tempo, ciò provocherà in te parecchie carenze. Ma non pensiamo che resterai avvelenata."

Sollevai la ciotola e bevvi.

Il liquido era acido oltre che pungente. Piuttosto saporito. Avevo consumato cose di gran lunga peggiori nel New Jersey.

Dissi: — Grazie — e porsi la ciotola al mio ospite.

Lui, o lei, mosse la mano in modo rapido e deciso, un gesto che significava qualcosa. Le altre persone dissero "ya" e "uh". Mi sembrò che fossero più rilassate di prima.

In ogni caso, stesero altre pellicce. Altre persone si sedettero finché mi trovai circondata. L’aria era satura del loro odore di polvere e pelliccia.

Fu portato del cibo. Non ero sicura di che genere di roba si trattasse. Mangiai adagio e con circospezione e il meno possibile. Ma mangiai. Nella maggior parte delle società di cui ero a conoscenza, rifiutare il cibo era un gesto offensivo. Un antropologo doveva avere la digestione di una capra.

Le persone attorno a me incominciarono a conversare sommessamente. Spesso mi lanciavano occhiate. Solo il mio ospite restava in silenzio e continuava a porgermi nuovi piatti, osservandomi per assicurarsi che mangiassi.

Un piatto era costituito da pesce, ne ero quasi certa. Un altro mi ricordava dei pomodori verdi in salamoia. Un terzo aveva l’aspetto di kasha, ma non riuscivo a individuarne il gusto.

Le persone che mi stavano attorno ruttarono ed emisero dei suoni simili al tubare. Una serie di "uh" e "ya". Feci altrettanto.

Il pasto continuò. Cominciai a sentirmi stordita. Qualcosa che avevo ingerito stava facendomi un effetto narcotico. Le persone tutt’attorno si fecero più rumorose. Parecchi tesero le mani per toccarmi i vestiti, le mani o la faccia.

Qualcuno tirò fuori uno strumento simile a un flauto. Qualcun altro incominciò a battere fra loro due bastoncini cavi. Un battito e un sibilo, un battito e un sibilo, così faceva la musica. Mi appoggiai all’indietro su un gomito e rimasi a osservare il suonatore di flauto. Lui, o lei, indossava una tunica gialla e un paio di alti braccialetti di rame che mandavano bagliori con l’ondeggiare del suonatore, tenendo il tempo con la musica. Non avevo difficoltà a sentirne il ritmo; era quasi sempre regolare: un cuore con una leggera aritmia.

La musica cessò. Il mio ospite si alzò in piedi e io mi guardai attorno.

C’era un nuovo individuo nella stanza, appena dentro l’uscio aperto. Al pari del mio ospite, anche questo portava una veste lunga. Un segno di importanza? O di età? Sesso o occupazione? Portava un cappello, il primo che mi capitasse di vedere: alto e appuntito, e ornato di conchiglie.

Mi alzai in piedi, ondeggiando un poco. Mi ci volle un momento per mettere a fuoco le immagini.

Il nuovo arrivato aveva un’aria torva. Vidi una fonte di problemi nel portamento rigido ed eretto, nelle spalle tenute alte e arretrate, negli occhi strizzati, quasi chiusi, che mi fissavano in modo diretto. L’uomo, o la donna, portava un bastone in cima al quale erano appese delle penne che ondeggiavano, ma non per il vento. L’individuo tremava. Non riuscivo a capire se il movimento fosse intenzionale.

La persona disse qualcosa. Il suono delle sue parole era incollerito.

Il mio ospite rispose seccamente.

Le persone attorno a me incominciarono ad alzarsi e a indietreggiare. Era una qualche specie di conflitto di poteri ed ebbi la sensazione di trovarmici al centro.

L’individuo con il bastone disse ancora qualcosa. Il mio ospite serrò la mano a pugno e l’agitò, poi indicò la porta. Questo era abbastanza chiaro. "Tu, tal dei tali, vattene!"

L’individuo con il bastone lanciò un’occhiata astiosa e se ne andò. Gli altri lo seguirono alla spicciolata finché rimasero solo in tre: il mio ospite, il suonatore di flauto e una persona dal pelame bruno rossiccio che luccicava come rame alla luce del fuoco.

— Uh! — disse il mio ospite.

Gli altri fecero dei gesti che probabilmente significavano la loro approvazione.

Mi sentivo stanca e stordita. Avevo preso troppo di qualcosa, con molta probabilità del liquido. Dovevo andare cauta nel berlo in futuro. Mi strofinai il viso.

Il mio ospite mi guardò, poi gesticolò. Raccolsi il mio zaino. Lui, o lei, mi condusse fino a un’estremità della stanza, dove c’era un mucchio di pellicce. Il mio ospite gesticolò di nuovo. Mi coricai.

— È stata una bella festa. Buonanotte.

Il mio ospite se ne andò. Io sistemai il mio zaino in modo che si trovasse fra me e la parete e mi misi a dormire.

Mi destai con un mal di testa e una sensazione di disorientamento, mi drizzai a sedere e mi guardai attorno, e scoprii che mi trovavo in un vasto spazio interno. La luce penetrava da un’apertura sopra di me e da una porta aperta. Era gialla, il colore della luce del sole a pomeriggio inoltrato. Ma ero quasi certa che fosse mattina.

Una voce parlò poco lontano. Guardai in direzione del suono. Era la persona anziana, il mio ospite. Indossava una lunga veste color arancione scuro e un’alta cintura fatta di rame. In una mano teneva un bastone di legno decorato con pezzetti di conchiglia. L’altra mano era tesa verso di me, con il palmo all’insù. Giudicai che si trattasse di un saluto. A quel punto mi ero ormai ricordata dove mi trovavo in quel momento.

L’anziano individuo venne più vicino e si sedette. Parlò di nuovo, in tono sommesso e cortese.

Io mi misi una mano sul petto e dissi il mio nome. — Lixia.

Dopo un momento, il mio ospite disse: — Li-sa — e puntò il dito verso di me.

— Lixia — ripetei.

Il mio ospite si portò la mano ossuta al petto. — Nahusai.

Lo additai a mia volta. — Nahusai.

La risposta fu un gesto, un rapido movimento della mano. Il mio intuito mi disse che significava "sì".

Bene, allora. Conoscevo una parola. Si riferiva al mio ospite, ma che cosa significava? Era un nome, un titolo o un termine generico come "essere umano"?

Col tempo l’avrei capito.

Entrò una persona: il suonatore di flauto. Indossava la stessa tunica della sera precedente e gli stessi braccialetti di rame.

— Yohai — disse il mio ospite e puntò il dito.

Il suonatore di flauto ci guardò.

Era un nome. Ne ero quasi certa.

Yohai preparò la colazione: una poltiglia di un bruno grigiastro. Aveva un gusto aspro. Ne appresi il nome: atsua. Finito di mangiare, Yohai andò verso l’uscio e fece un gesto. Io presi il mio zaino, seguendolo attorno alla casa. C’era uno spiazzo aperto sul retro, dove cresceva della vegetazione. Era in gran parte azzurrognola con fiori bianchi o gialli.

Che fosse un giardino? Pensai di no. Le piante crescevano in modo disordinato e avevano un aspetto selvatico. Era uno spiazzo invaso dalle erbacce.

Al centro di quel terreno aperto sorgeva una costruzione delle dimensioni più o meno di uno sgabuzzino. Non appena vi arrivai vicino, mi resi conto di che cosa fosse. Una latrina. Puzzava tremendamente. Ci pensai su per un po’, quindi me ne servii. Dopo chiesi come lo chiamassero.

— Hana - rispose Yohai. O forse hna. Non ero sicura di aver sentito una vocale nella prima sillaba.

Yohai gesticolò di nuovo e io lo seguii. Attraversammo il villaggio. Le strade erano piene di bambini. Incontrammo solo alcuni adulti. I bambini smettevano di giocare e mi fissavano. Gli adulti facevano finta che non ci fossi. Avevo la sensazione che Yohai fosse a disagio e mi sentivo un po’ a disagio anch’io. Ma la giornata era bella, mite e radiosa. Soffiava un leggero vento incostante che portava il profumo della foresta e quello molto debole dell’oceano. Non era una giornata in cui stare in ansia, e non lo feci.

Arrivammo alla fine del villaggio. Lì c’erano degli orti: appezzamenti rettangolari lunghi e stretti che si estendevano fra le case e la foresta. Ciascuno di questi era recintato da uno steccato di legno, abbastanza basso da poter vedere al di sopra. All’interno degli steccati c’erano persone che lavoravano, una o due in ogni orto. Si muovevano fra file di piante. Alcune strappavano le erbacce. Altre raccoglievano. Altre ancora versavano acqua da recipienti che somigliavano ad anfore.

Ecco la risposta a uno dei miei interrogativi. Quella società era agricola, almeno in una certa misura.

Entrammo in un orto. A un’estremità c’era un albero. Yohai mi condusse alla sua ombra e indicò il terreno. Mi sedetti.

Il mio compagno, o compagna che fosse, incominciò a lavorare mentre io mi guardavo attorno. In lontananza, verso est, c’erano cumuli frastagliati nel cielo. Un temporale per quella sera. Nell’orto accanto c’era un bimbo, piccolo e peloso, seduto sotto una pianta. Mentre lo osservavo, sollevò la manina cercando di afferrare una delle foglie. Ma la foglia era troppo in alto.

A poca distanza, un adulto versava acqua. Svuotò il recipiente, poi si sedette, si rassettò e si girò. Sotto la sua tunica scorsi il rigonfiamento dei seni. Due seni. Era la prima persona che vedevo che non avesse il torace piatto. Era chiaramente una madre che allattava.

La donna mi guardò, poi fece un gesto: un fendente verticale. Ebbi la sensazione che fosse ostile, così distolsi lo sguardo.

A mezzogiorno Yohai mi raggiunse. Sedemmo insieme e mangiammo del pane. Il pane era piatto e dal gusto aspro. Più tardi Yohai mi insegnò alcune parole: pane, cielo, albero.

Tornammo verso casa. Il mio ospite era lì. Yohai se ne andò. Mi sedetti e imparai altre parole. Nel tardo pomeriggio sentii il brontolio del tuono. Incominciò a piovere; dapprima una pioggerellina, poi un vero acquazzone. Io e il mio ospite cenammo. Era la stessa roba della colazione: atsua. Poltiglia grigia. Non mangiai molto.

Più tardi restammo seduti senza parlare. Il sole era tramontato. La pioggia luccicava, illuminata dalla luce del fuoco: una cortina argentea contro la porta. Mi appoggiai a un palo. Il mio ospite se ne stava chino accanto al fuoco, raggomitolato nella veste arancione. Ogni tanto muoveva una mano. Rigirava un braccialetto o picchiettava sul terreno. Era una persona con un problema grave, e avevo la sensazione che fossi io il problema. Yohai mi aveva dato l’impressione di un’audacia nervosa, di qualcuno che ritenesse doveroso fare una cosa che non desiderava fare. "Vedete che cosa abbiamo qui. Vedete il nostro ospite. Vedete la persona di cui non ci vergognamo." Quello era stato il messaggio che intendeva trasmettere quando mi aveva condotta nell’orto. Che cosa stava succedendo esattamente? Decisi di non fare congetture. Le informazioni che avevo erano troppo scarse e non potevo essere sicura di comprendere qualcosa di quel popolo.

Il giorno seguente ci fu ancora pioggia. Io e il mio ospite lavorammo sulla terminologia: oggetti casalinghi per lo più, e alcuni verbi di uso comune. Nel pomeriggio Yohai tirò giù un piccolo telaio che stava appeso alla parete e incominciò a tessere una striscia di stoffa. Il filato era bianco e blu. Io osservavo. Yohai lavorava rapidamente. Ben presso iniziai a distinguere un disegno; era geometrico, pieno di angoli acuti. Secondo me, aveva qualcosa di ostile ed era di gran lunga troppo intricato. Che significato poteva avere? Quella cultura era forse bizantina? O ero io a soffrire di paranoia?

Mi alzai e mi misi a fare degli esercizi di yoga. Il mio ospite mi guardò, sgranando gli occhi.

Mi interruppi. — Non è niente di dannoso o maligno — dissi in tono cordiale. — Lo faccio per impedire che mi faccia male la schiena e per mantenere la mente abbastanza serena.

Continuai i miei esercizi. Il mio ospite stava a guardare. La pioggia diminuì. Ormai non era che una pioggerellina.

— Scusatemi. — Presi il mio zaino e andai alla latrina. Puzzava come sempre. Entrai e mi sedetti, poi tirai fuori la mia radio e chiamai la nave.

— Sì? — fece la radio. La voce era profonda e un po’ arrochita. Stavo parlando con il dottor Edward Antoine Turbine di Vento, autore di opere quali La società indigena americana nella riserva e Modelli di sopravvivenza nel tardo Ventesimo Secolo, già eminente professore presso l’Università di Duluth — si era dimesso dalla carica quando aveva lasciato la Terra — e da parecchi anni mio collega presso il Dipartimento di Studi Interculturali.

— Sono Lixia — gli dissi. — Chiamo da un gabinetto esterno, così sarò sbrigativa.

Eddie rise.

— Mi serviva un posto riservato.

— Okay — disse Eddie.

Appoggiai la radio sulle ginocchia, poi tolsi il medaglione dalla catena e lo infilai in una fessura nella radio.

Il piccolo computer posto nel medaglione comunicò con il computer appena poco più grande posto nella radio, e questo a sua volta comunicò con un computer a bordo della nave. Ci volle soltanto un minuto. La radio emise un bip e io tirai fuori il medaglione. Tutto quello che il medaglione aveva registrato, tutto quello cioè che mi era successo negli ultimi due giorni, adesso si trovava nel sistema informativo sulla nave.

Directory: Prima spedizione interstellare

Subdirectory: Sigma Draconis II

Sub-subdirectory: Rapporti da luogo operazioni — Scienze sociali

Nome file: Li Lixia

La radio chiese: — C’è dell’altro?

— No.

— Okay. Altri tre si sono messi in contatto. Nessun problema finora. Ma sii prudente e chiama il più presto possibile. Dovrei avere qualche informazione effettiva fra un paio di giorni.

Spensi la radio, la rimisi nello zaino e uscii. Aveva ripreso a piovere forte e dovetti correre fino alla casa.

L’indomani il tempo era sereno. Io e Yohai ci recammo nell’orto. Il terreno era ancora bagnato. Gocce d’acqua luccicavano sulle foglie. Yohai mi insegnò a strappare le erbacce. Lavorammo per tutta la mattinata. A mezzogiorno ci riposammo sotto l’albero. Negli altri orti, le persone si muovevano qua e là, parlando fra di loro, ma nessuno venne a farci visita. Interessante. Avevo di nuovo la sensazione che venisse compiuto un atto doveroso e che Yohai non desiderasse compierlo. Addentai un ortaggio giallo; era succoso e dal gusto dolceamaro.

Alla sera sedetti insieme a Nahusai. Yohai andò fuori, ma non seppi dove. Imparai altri verbi e parecchie preposizioni: il tormento di ogni lingua, ma tenevano insieme e rendevano coerenti tutte le informazioni. A. Da. In. Di. Fra.

Il giorno seguente era il quinto che trascorrevo su quel pianeta. Il cielo era di nuovo limpido. Lavorai con Yohai nell’orto e imparai i nomi di diverse piante. Yohai mi spiegò che era una donna; non una madre, però. E mentre me lo diceva, sembrava infelice.

— Nahusai? — chiesi.

Lei fece il gesto che significava "sì". — Madre — disse, poi si mise la mano sul petto. — Madre me.

Ah, bene. Un rapporto di parentela. Il primo che mi capitava. Incominciai a pensare che stavo arrivando a qualcosa.

L’indomani Yohai mi portò al fiume, che scorreva fra gli orti e la foresta. In quel periodo dell’anno, la piena estate, l’acqua era bassa e scorreva attorno a pietre gialle. Yohai entrò e rivoltò un sasso, poi afferrò qualcosa. — Tsa!

Mi porse quella cosa. Era lunga forse dieci centimetri, verde e dura, con otto zampe. La tenni con circospezione. Le zampe si muovevano. A una estremità c’erano due lunghi peduncoli. Erano occhi? Oppure antenne? Guizzavano avanti e indietro.

— Noi mangiamo — disse Yohai.

— Oh, davvero? — Feci il gesto che significava incertezza o confusione.

— Tu vedi. — Yohai afferrò la creatura e la gettò in una pentola. — Tu qui. — Mi fece cenno di raggiungerla.

Mi tolsi gli stivali, mi arrotolai i pantaloni ed entrai nell’acqua. Lei aveva preso un’altra creatura e anche questa finì nella pentola. — Tu.

Infilai le mani nell’acqua e rigirai un sasso. Qualcosa mi scivolò fra le dita. Cercai di afferrarlo, ma me lo lasciai sfuggire.

— Dannazione. — Trovai un altro sasso e provai di nuovo.

Passammo tutta la mattina nel fiume. Yohai prese una ventina di quegli animali, io solo due.

Alla fine lei uscì dal fiume e restò a fissarmi con aria perplessa.

— In che cosa sono brava? — dissi in inglese. — Domanda interessante. Sono molto brava a imparare le lingue e abbastanza brava a capire come pensano gli altri. Anche se non sempre riesco a spiegarmi come faccio a sapere quello che so. È di qualche utilità?

Yohai raccolse la pentola. Quelle cose verdi erano ancora vive. Strisciavano l’una sull’altra, cercando di uscire.

— Vieni. — Mi fece cenno di seguirla.

Raccattai i miei stivali. Procedemmo per un po’ seguendo la corrente del fiume. Dopo alcuni minuti gli orti erano spariti e tutt’attorno a noi c’erano alberi. L’aria odorava di chissà cosa: la fragranza della foresta, penetrante e caratteristica, per la quale non avevo un nome.

C’erano rapide nel fiume. Niente di eccezionale. L’acqua scrosciava superando una serie di piccoli salti. Qua e là vidi un po’ di schiuma. In fondo all’ultima cascatella c’era un laghetto. Qui l’acqua era calma, verde e profonda.

La mia compagna mise giù la pentola che aveva in mano. Si tolse con un calcio i sandali e si sfilò la tunica dalla testa. Il suo corpo era grazioso, scuro e lucente. Mi ricordava le lontre e gli orsi e anche la mia stessa specie. Era sorprendentemente umanoide. La sola differenza notevole era la pelliccia. Certo, anche gli occhi erano un po’ insoliti. Le pupille erano fessure verticali. L’iride, che era di un giallo chiaro, riempiva l’occhio e non riuscivo a vedere assolutamente il bianco. Le mani avevano tre dita e un pollice. I piedi avevano quattro dita. Se si escludeva questo e il torace piatto, somigliava al nostro primo pilota, Ivanova.

Lei puntò il dito verso di me. — Tu. Li-sha.

Mi svestii.

— Tsa! - Mi toccò la spalla nuda. — Cosa?

Rimasi immobile. Lei mi girò intorno e si fermò alle mie spalle. — Uh! — Sentii il tocco della sua mano, molto leggero, su una scapola. Rabbrividii. Poi venne a fermarsi di fronte a me e fissò il mio torace. Per una donna umana, ero abbastanza piatta. Tuttavia, i miei seni erano di gran lunga più evidenti dei suoi.

— Madre? Tu? — domandò.

— No.

Mi guardò dritto negli occhi, aggrottando la fronte. — Tu cosa?

Le risposi in inglese. — Non riesco a spiegarlo, Yohai. Non ancora. Non so come voi dite "mondo", o "stella", o "amico". Ma non c’è niente di sbagliato in me. Non sono pericolosa. Non ho cattive intenzioni.

Yohai mi fissò ancora per un minuto, poi si voltò e si tuffò nel laghetto. Era un’eccellente nuotatrice. La vidi scivolare nell’acqua verde con l’eleganza di una foca.

Mi tuffai a mia volta, ma scivolai col piede sull’argine e il mio tuffo si trasformò in una tremenda panciata. Tornai a galla, tossendo e sentendomi imbarazzata. Yohai emise un suono scoppiettante. Una risata?

Nuotai verso il centro del fiume, mi girai sulla schiena e mi lasciai galleggiare. L’acqua era fresca e non c’era quasi corrente. Alto nel cielo sopra di me si librava un uccello. Ah!

Dopo un po’ di tempo nuotai verso riva. Mi inerpicai sulla sponda e lavai i miei vestiti, usando un paio di pietre, una tecnica che avevo appreso dagli aborigeni della California. Poi li appesi ad asciugare su un cespuglio.

Yohai mi raggiunse, strofinandosi via l’acqua dalla pelliccia. Sedemmo insieme sulla riva del fiume. Teneva gli occhi semichiusi e il suo pelame luccicava alla luce del sole. Aveva un’aria così serena! Perché io non riuscivo a rilassarmi così? Forse avrei dovuto seguire un altro corso di yoga.

Yohai si scosse dal torpore e mi disse il nome degli animaletti nella pentola.

Quella sera imparai a uccidere e a sgusciare quegli animali. Non lo trovavo divertente, ma lo feci. Yohai bollì quel che ne restava. Il risultato era delizioso. Mangiai troppo. Poi mi sedetti sulla soglia. Nella strada c’erano bambini intenti ai loro giochi. Sembrava che giocassero a rincorrersi. Li osservavo, sentendomi più o meno appagata, anche se avrei bevuto volentieri qualcosa per completare la cena. Qualcosa di leggero e secco. Magari del vino bianco.

La mattina seguente feci un’altra lunga visita alla latrina. Chiamai la nave e trovai di nuovo Eddie.

— Ho delle notizie per te — disse. — Ma prima trasmettimi le tue informazioni.

Infilai il medaglione nella radio e attesi. C’era una mezza dozzina di insetti nella latrina; due mi ronzavano attorno alla testa. Li scacciai con la mano. La radio emise un bip. Tirai fuori il medaglione.

— C’è dell’altro?

— Sì. Abito da due persone. Nahusai e Yohai. Nessuno viene a far loro visita. Quando io e Yohai lavoriamo nell’orto, nessuno ci rivolge la parola. Credo di essere io il problema.

Ci fu una pausa. — Credi che la situazione sia pericolosa? Vuoi venir via?

— No. Non ancora.

Un’altra pausa. — Di solito il tuo intuito è eccellente. Okay. Ma voglio che chiami più spesso.

— Cercherò, ma non sarà facile. Non c’è molta intimità qui.

— Fa’ quello che puoi. Ora, per tua conoscenza, Harrison Yee è stato scacciato dal suo villaggio. Sono stati cortesi, ma categorici. È successo dopo che ha fatto un bagno. Pensiamo che abbia violato un qualche tabù sulla nudità o uno contro il lavarsi nell’acqua corrente o magari solo in quel particolare fiume. Cerca di scoprire come si lava la tua popolazione, prima di fare un bagno.

— Ne ho già fatto uno, Eddie.

— Davvero? Dove?

— Nel fiume più vicino.

— Da sola?

— Insieme a Yohai. La figlia della mia ospite. È sembrata un po’ sorpresa quando mi ha vista nuda. A quanto pare, non si era resa conto che non avevo peli su ogni parte del corpo. Be’, quasi niente peli. A ogni modo, non è successo niente.

— È interessante. Naturalmente, Harrison non si trovava dalle tue parti. Tuttavia, la lingua che stai imparando è simile a quella che stava imparando lui, prima che facesse quel bagno.

— Lui si trova all’altra estremità del continente.

— Già. E la tua lingua è quasi identica a quella che sta imparando Derek. Lui sta sulla costa, più a sud di dove ti trovi tu.

Un insetto mi si posò sulla faccia. Cercai di colpirlo e lo mancai. La radio prese a scivolarmi dalle ginocchia. — Dannazione! — L’afferrai prima che potesse finire nel buco sottostante.

— Lixia?

— Niente. Che cosa significa tutto questo?

— Non lo sappiamo, ma ci sono delle teorie. Può darsi che stiate imparando un linguaggio commerciale, qualcosa di simile all’inglese delle colonie. O forse tutti i popoli contattati finora sono strettamente imparentati e fanno parte di una recente migrazione.

— Quante probabilità ci sono?

— Non molte. Il linguaggio commerciale è una buona possibilità, o almeno così pensiamo al momento.

Chiusi il collegamento e uscii dalla latrina. Fuori, a un paio di metri di distanza, c’era una persona in attesa. Portava una lunga veste e un alto cappello. La veste era coperta di ricami e il cappello ornato di conchiglie. Dopo un attimo riconobbi l’inividuo, era lo stesso che aveva interrotto la festa di Nahusai.

— Sì? — feci nella lingua del posto.

L’individuo fece un gesto, un fendente verticale, poi si girò e si allontanò.

Tornai verso la casa in preda a un certo nervosismo. Quella persona emanava ostilità. Chi era? Non potevo domandarlo. Non conoscevo le parole giuste.

Durante i sei giorni che seguirono il cielo si mantenne sereno. Il tempo era molto caldo. Io e Yohai lavoravamo nell’orto. Per lo più, portavamo acqua dal fiume: un pesante recipiente dopo l’altro. Versavamo l’acqua sul terreno arido, poi tornavamo al fiume. Riempivamo di nuovo i nostri recipienti e tornavamo nell’orto.

Mi dolevano le braccia. Mi dolevano le spalle. Avevo un terribile male alle reni. Cercai di ripensare al perché mi ero cacciata in quella situazione. Aveva qualcosa a che vedere con l’avventura romanzesca del viaggio interstellare. O era la ricerca della conoscenza?

Nel pomeriggio tornavamo a casa a riposarci. Alla sera Yohai usciva: tornava nell’orto o forse andava da qualche altra parte. Io restavo con Nahusai. Lei mi insegnava qualcosa di più della lingua. Cominciavo a capire delle frasi complete.

Non mi lasciavano mai sola, a parte quando andavo alla latrina. Non ero certa del perché. Nahusai e Yohai avevano forse paura di me? O temevano che qualcuno potesse cercare di farmi del male?

Non mi sentivo del tutto al sicuro, neppure nella latrina. Forse qualcuno mi osservava. Senza dubbio l’individuo col cappello l’aveva fatto. Le persone potevano notare se passavo parecchio tempo là dentro. Potevano decidere di avvicinarsi di soppiatto e ascoltare. Non avrebbero compreso la mia conversazione, ma avrebbero capito che parlavo con qualcuno che non era presente.

Andò a finire che chiamai dalla casa una notte in cui le mie compagne si addormentarono presto.

— Dove diavolo sei stata? — domandò Eddie.

Abbassai il volume e spiegai la situazione.

— Lixia, devi tenerti in contatto. Eravamo preoccupati. La Ivanova comincia a parlare di venire a cercarti. Riesci a immaginare la scena? Piomberebbe lì come il Settimo Cavalleria, e noi dovremmo trovare il modo di rimediare allo scompiglio che provocherebbe.

— D’accordo — dissi e abbassai ancora di più il volume. All’altra estremità della casa, Yohai e Nahusai russavano. Sembravano quasi del tutto umane.

Eddie mi riferì le notizie. Harrison Yee era tornato sulla nave e altrettanto aveva fatto Antonio Nybo. Tony era stato nell’arcipelago. Vi aveva trovato numerosi luoghi cerimoniali: massi sistemati in modo da formare dei cerchi e rocce con pittogrammi, ma nessun abitante. La sua isola era deserta.

— Di interesse esclusivamente archeologico — disse Eddie. — Lo abbiamo richiamato a bordo.

C’erano altre cinque persone della Terra ancora sul pianeta. Quattro di loro si trovavano in villaggi più o meno simili al mio. La quarta, Gregory, stava con un popolo delle montagne occidentali.

— Allevano greggi e fanno fantastici lavori di tessitura, o così almeno mi dice Gregory.

— Uhu.

— Non sembra che ci siano grandi centri abitati. Non sappiamo ancora il perché. Non abbiamo neppure delle teorie in proposito.

— Una situazione disperata — commentai.

Eddie rise.

Yohai si lamentò e si rigirò.

Dissi: — Devo andare.

Il quattordicesimo giorno del mio soggiorno nel villaggio decisi che dovevo chiamare di nuovo. Attesi finché non si fece buio, poi andai alla latrina. L’unica grande luna del pianeta stava sorgendo. Era sospesa sopra i tetti, di un arancione intenso, all’ultimo quarto. Lasciai aperto l’uscio della latrina. Entrando, il chiarore lunare, mi permetteva di vedere abbastanza bene per far funzionare la mia radio.

Quella sera Eddie aveva una nuova e interessante notizia.

— Yvonne sostiene che non ci sono uomini adulti nel suo villaggio. Ci sono alcuni vecchi. Vivono ai margini del villaggio, a quanto dice, ciascuno per proprio conto. E ci sono ragazzi, bambini di sesso maschile. Ma nessuno nell’età di mezzo.

Riflettei per un momento. — Conosco la parola che significa "ragazzo" e ho visto dei ragazzini giocare nella strada. I bambini più piccoli non portano indumenti. Il sesso è evidente, e un interessante esempio di evoluzione parallela. Ma non conosco il termine per "uomo". — Mi morsicai il labbro per uno o due minuti. — Lascia che indaghi su questo fatto.

— Okay — disse Eddie.

Chiusi il collegamento e mi appesi la radio alla spalla, quindi uscii dalla latrina. La luna era proprio sopra di me. Era più piccola della nostra Luna, ma più prossima al suo pianeta principale, con un’albedo assai maggiore. Illuminava l’area circostante: lo spiazzo di erbacce, la latrina e una mezza dozzina di abitazioni.

Mi incamminai verso la casa di Nahusai. Qualcosa si mosse nell’ombra lungo la parete.

— Sì? — chiamai. — Che cosa c’è?

Qualcos’altro si mosse alla mia destra, nei pressi di una delle case circostanti. Mi voltai. C’era una persona ritta nel chiarore lunare. Indossava una veste lunga.

— Che cosa c’è? — domandai.

— Sono Hakht — fece una voce aspra. O forse la voce disse "Akht". Non ero certa dell’aspirazione iniziale.

Altre figure emersero dall’oscurità. Erano una mezza dozzina e due portavano dei bastoni. Si disposero in cerchio attorno a me, a una certa distanza. Nondimeno, mi impedivano ogni via di uscita dal cortile.

— Ti abbiamo sentita. Tu vai lì… — La figura con la veste lunga additò la latrina. — Tu parli. Tu fai… — Disse qualcosa che non riuscii a capire, ma sembrava un’accusa.

— Non ho fatto niente di male — dissi.

L’individuo fece un gesto che significava "no" o "non sono d’accordo", ne ero abbastanza sicura. — Sei una qualcosa. Ti ordino di andartene!

— Non capisco — ribattei.

— Vattene! — urlò l’individuo.

Mi guardai attorno. Nessuno si avvicinava. Che cosa supponevano che fossi? Uno spirito maligno? Feci un passo avanti. Le persone davanti a me si spostarono su entrambi i lati.

— Grazie — dissi in inglese.

Alle mie spalle l’individuo dalla veste lunga sbraitò: — Qualcosa! Vattene!

Girai intorno alla casa finché non arrivai sul davanti ed entrai. Nahusai era andata a letto. Yohai sedeva accanto al fuoco. Tesseva, usando il piccolo telaio a mano. Alzò gli occhi.

— Una brutta faccenda — dissi. — Una persona chiamata Hakht o Akht.

— Tsa! - Si alzò, aiutandosi con le mani. — Che cosa?

— Ero nella latrina. Sono uscita. Hakht era lì. Hakht ha detto: "Vattene".

— Uh! — Yohai si precipitò dalla madre e scosse l’anziana donna per svegliarla. Parlarono sottovoce e in fretta. Mi morsi l’unghia del pollice.

— Nahusai! — fece una voce alle mie spalle. Era Hakht, naturalmente. Se ne stava ritta nel vano della porta, tenendo un bastone con una mano e un sonaglio con l’altra. Il sonaglio era dipinto di bianco e dall’impugnatura penzolavano delle penne nere.

— Che cos’è questa storia? — s’informò Nahusai.

Lanciai un’occhiata all’anziana donna. Adesso era in piedi. Yohai reggeva una cintura fatta d’argento. La vecchia si sistemò la lunga veste, poi prese la cintura e se la mise. Dopo di che, aprì una scatola e tirò fuori una mezza dozzina di collane. Erano in argento, rame, bronzo e conchiglie. Le indossò. Yohai le porse un bastone. Lei venne verso di noi camminando adagio, con dignità, appoggiandosi al bastone.

— È notte, figlia di mia sorella — disse rivolta a Hakht. Parlava con voce lenta e chiara. Avevo l’impressione che volesse che capissi anch’io. — Che cosa ci fai qui?

Hakht agitò il sonaglio nella mia direzione. Fece un suono ronzante. — Quella se ne andrà.

— No — rispose Nahusai.

— È una qualcosa! — dichiarò Hakht.

— No. Che cosa ti ho insegnato, figlia di mia sorella? Come riconosciamo un qualcosa? — Nahusai alzò un dito. — A loro non piace mangiare. — Alzò un secondo dito. — Non dormono mai. — Alzò un terzo dito. — Non entrano in acqua. Non è così?

Nahusai fece un cenno nella mia direzione. — Questa dorme. Mangia… — La mia ospite fece un ampio gesto, indicando che mangiavo in abbondanza. — Usa la latrina. È stata nell’acqua. L’ha vista Yohai. Non è una qualcosa. Dici una cosa sbagliata, figlia di mia sorella. Non è la verità.

Hakht si accigliò e aprì la bocca per rispondere.

Nahusai additò la porta. — Non intendo parlare di notte. Vattene!

Dopo un istante, Hakht si girò e uscì lentamente, con palese riluttanza. Teneva la schiena rigida e la mano che reggeva il sonaglio si muoveva leggermente. Udii un debole ronzio discontinuo.

Quando se ne fu andata, Yohai incominciò a gemere.

— Tsa! - esclamò la donna anziana.

Mi scoprii a tremare. Mi sedetti e per poco non caddi nel piegarmi. Nahusai e Yohai si misero a parlare fra loro e c’era tensione nelle loro voci. Non riuscii a capire una parola della conversazione.

Che cosa era successo, in ogni modo? Hakht mi aveva accusata di essere una qualche specie di creatura soprannaturale. Un mostro, uno spirito maligno, uno spettro. Nahusai aveva detto che non ne avevo le caratteristiche distintive, di qualunque cosa si trattasse. Aveva parlato come se fosse un dottore che discute i sintomi di una malattia. Doveva essere una maga o una sacerdotessa, e anche Hakht doveva esserlo. Una specialista rivale. In tutti i casi, Hakht si era tirata indietro, sconfitta, almeno per il momento. Ma ero abbastanza certa che la disputa non sarebbe finita lì. Dovevo chiedere a Eddie di venirmi a prelevare? Mi mordicchiai un’unghia. Non ancora.

La mia ospite parlò, con voce calma e decisa. Qualunque cosa stesse dicendo, sembrava irrevocabile. Yohai fece un gesto che io non compresi del tutto, ma pensavo che significasse "così sia".

Nahusai sospirò. Appoggiò di nuovo il bastone alla parete, poi si tolse i monili. Aveva un’aria sfinita.

— Li-sha. — Era Yohai.

— Sì?

— Dormi. — Yohai indicò col dito il mio mucchio di pellicce.

Ubbidii, ma non riuscii a prendere sonno per ore.

All’alba Yohai mi scrollò. — Svegliati. Mangia.

Mi tirai su a sedere. Il fuoco ardeva con una vivida fiamma. Sopra era appeso un paiolo, e lì accanto era seduta la mia ospite.

— Vieni — fece Yohai. — Adesso.

Andai per prima cosa alla latrina. Fuori faceva freddo. Il terreno era bagnato di rugiada e il cielo era del colore indefinibile dell’alba. Perché ero già in piedi a quell’ora? Altri guai, conclusi. Usai la latrina e tornai verso la casa. C’era dell’acqua in una grossa catinella accanto alla porta. Mi lavai ed entrai.

La colazione consisteva nella solita poltiglia. Pareva che fosse il loro cibo preferito. Finito di mangiare, la mia ospite mi guardò. La sua espressione era grave. — Li-sha. — Fece una pausa e aggrottò la fronte. — Hakht dice cose cattive. La gente ascolta. Dicono: "Sì. Li-sha è una qualcosa. È cattiva". S’interruppe di nuovo e restò a fissare il fuoco, poi tornò a rivolgersi a me. — Io sono vecchia. Loro sanno che andrò… — Batté leggermente sul pavimento. Il gesto significava sotto terra. — Io parlo. Loro non mi ascoltano. Va’ con Yohai.

— Dove?

— Un buon posto. Va’.

Misi le mie cose nello zaino, poi me lo caricai sulle spalle. Yohai indossò una semplice tunica marrone e una cintura di cuoio, alla quale era appeso un fodero, e nel fodero c’era un coltello. Aveva un manico fatto di ottone e corno.

— Vieni — disse Yohai.

Mi fermai di fronte a Nahusai. Non conoscevo la parola per dire "grazie", ma esisteva un gesto. Mi toccai il petto, poi girai la mano con il palmo rivolto verso Nahusai.

Lei ricambiò il gesto.

Le porsi un dono: una scatola. Era fatta con il legno proveniente da una delle Isole Deserte, intarsiato con frammenti di conchiglia. Erano di un rosa e di un verde iridescenti, più belle dell’aliotide e della madreperla.

Nahusai prese la scatola.

— Addio — dissi in inglese, poi seguii Yohai fuori dalla porta.

Il sole stava appena facendo la sua comparsa. Guardando verso est, lo vidi: una striscia di luce arancione sopra i tetti. Il cielo era sereno. La strada deserta, fatta eccezione per un ki giallo: un volatile domestico, qualcosa di simile a una gru. Era a caccia di insetti fra le erbacce lungo la parete di una casa. Lo spaventammo. Il volatile si allontanò impettito e noi ci affrettammo nella direzione opposta.

Quando il sole si fu levato del tutto, noi ci trovavamo già nella foresta. I tronchi s’innalzavano da tutti i lati come pilastri in una cattedrale dei tempi antichi. Molto più sopra di noi c’erano i rami e le loro foglie scure nascondevano il sole. Ogni tanto arrivavamo in una radura, illuminata dal sole e piena di insetti volanti. Doveva esserci una nidiata, oppure stavo assistendo a una migrazione? In ogni caso, gli insetti erano tutti della stessa specie. Il corpo era di un blu elettrico, le ali trasparenti e incolori, fatta eccezione per due grosse chiazze rosse.

In una radura gli insetti erano particolarmente numerosi. Si libravano tutt’attorno a noi. Uno mi si posò sul braccio. Mi fermai, affascinata. L’insetto agitò le ali. Contai otto zampe e due antenne.

— Vieni — mi sollecitò Yohai.

Mi affrettai a seguirla. L’insetto volò via.

A mezzogiorno giungemmo nei pressi di una costruzione che sorgeva in una radura più vasta del consueto. Tutt’attorno crescevano erbacce e sul retro scorreva un torrente. Udivo il rumore dell’acqua corrente.

— È questo il posto — mi disse la mia compagna.

La costruzione era piccola e vecchia. Un tronco sosteneva una parete e il tetto era di cuoio. Ero abbastanza certa che non fosse il tetto originario, ma piuttosto una riparazione di fortuna, fatta da qualcuno che non era un carpentiere. Su un lato, a poca distanza, c’era una seconda costruzione, una specie di capanno dal quale proveniva del fumo. Che cosa poteva essere? Ebbi la risposta un momento dopo: il suono di un martello. Una fucina.

La mia compagna si diresse verso il punto da cui proveniva il suono e io la seguii. Ci fermammo davanti all’entrata del capanno e guardammo dentro. Un fuoco ardeva in una fucina di pietra e c’era una persona china sopra un’incudine di ferro. C’era del metallo sull’incudine, di un intenso giallo incandescente. La persona sollevava un martello, poi lo abbatteva, lo sollevava e lo abbatteva di nuovo.

Yohai alzò una mano in un cenno di ammonimento. "Aspetta" significava quel gesto. E io aspettai.

Dòpo un po’ la persona mise giù il martello, si raddrizzò, si stiracchiò, emise un mormorio e infine si girò e ci vide. — Uh!

Yohai disse qualcosa che non compresi.

Il fabbro, uomo o donna che fosse, fece un gesto.

Yohai disse ancora qualcosa. Intanto io osservavo con attenzione il fabbro. Indossava sandali e un grembiule di cuoio; nient’altro. Lo guardai bene: ampie spalle, un grande torace, braccia possenti. Era una creatura imponente. Il pelame che la ricopriva era di un bruno rossiccio, un colore insolito. Non c’era stato qualcuno di simile alla festa la sera in cui ero arrivata?

Yohai smise di parlare.

Il fabbro fece un altro gesto, poi mi guardò. — Io sono Nia. Resterai qui.

Feci il gesto dell’assenso.

Yohai disse qualcosa rivolta a me. Era un addio? Si voltò e si allontanò, camminando in fretta. Nel giro di uno o due minuti era sparita.

— Siediti — mi disse Nia. — Io… — Fece un cenno in direzione del fuoco.

— Capisco.

Mi sistemai in un angolo. Nia aggiunse altra carbonella al fuoco, poi cominciò ad azionare il mantice: una grossa sacca fatta di cuoio con attaccato un bastone. Nia alzava e abbassava il bastone. La sacca si riempiva e si svuotava. Il fuoco si ravvivò. Dopo qualche istante, Nia raccolse le tenaglie e depose il metallo nel fuoco.

— Che cos’è quello? — domandai, indicandolo col dito.

Nia mi disse la parola che significava ferro, poi riprese a lavorare. Batté il pezzo di ferro finché non fu piatto, poi lo riscaldò e lo ripiegò, quindi ricominciò a batterlo fino ad appiattirlo. L’operazione si ripeté più e più volte. Mi stancai di osservare.

A un certo punto del pomeriggio Nia smise di lavorare. Tirò un sospiro e si stiracchiò. — Cibo.

— Sì. — Mi alzai in piedi.

Andammo nell’altra costruzione. L’interno era vuoto, a parte un mucchio di pellicce e un paio di recipienti. Nia si tolse il grembiule, poi rovistò fra le pellicce e trovò una tunica. Se la mise.

— Ecco. — Tirò fuori del pane da un recipiente. L’altro era pieno di un liquido: il narcotico dal gusto acre che avevo bevuto alla festa.

Ci sedemmo sulla soglia e mangiammo e bevemmo.

— Da dove vieni? — s’informò Nia. Aveva la bocca piena di cibo e non riuscii a capirla, così lei dovette ripetere la domanda.

— Non sono di queste parti — risposi.

— Io appartengo al Popolo del Ferro — fece lei. — Si trova molto lontano. Laggiù. — Puntò il dito in direzione del sole. — Tu?

Feci un cenno nella direzione opposta, verso oriente.

— Già. — Bevve altro liquido. — Questa gente è difficile da capire. — Si alzò e tornò nella fucina.

Io rimasi dov’ero finché non sentii il rumore del martello di Nia. Poi tirai fuori la radio e chiamai Eddie.

Quando ebbe ascoltato ciò era accaduto, lui disse: — Dovrei tirarti fuori di lì.

— No.

— Perché no?

— Non credo di correre alcun pericolo, e se così fosse… Eddie, sapevamo tutti quanto potesse essere pericoloso. Avremmo potuto mandar giù dei robot. Abbiamo mandato delle persone perché volevamo quello che solo le persone possono apportare a una situazione. La prospettiva umana. Abbiamo deciso con una votazione di correre il rischio e c’è stata una netta maggioranza a favore.

Eddie restò in silenzio.

— Io voglio restare. È la mia prospettiva umana. È la ragione per cui ho lasciato la Terra, non per starmene seduta in una sala in una dannata nave. Finalmente sono in grado di portare avanti una conversazione, e comincio a imparare come gli indigeni lavorano il ferro. Lo sai che mi interessa la tecnologia.

Ci fu ancora silenzio, poi un sospiro. — Mi sono opposto all’impiego di robot perché ero convinto che sarebbero stati più dirompenti delle persone. D’accordo. Rimani. Ma credo che tu abbia torto.

— Riguardo a che cosa? La situazione?

— No. La tecnologia. È un tipico preconcetto occidentale. Tu credi che un utensile sia più importante di un sogno perché un utensile può essere misurato e un sogno no.

Feci un suono evasivo.

— La colpa è dei greci — disse Eddie.

— Che cosa?

— Sono stati loro a sentenziare che la realtà era matematica. Un’idea folle! Un valore etico non è come un triangolo. Un concetto religioso non si può ridurre a una formula. E tuttavia sono entrambi reali. Sono entrambi importanti.

— Non avrai modo di litigare con me. Non ne so abbastanza della filosofia occidentale per difenderla. E devo chiudere la trasmissione.

— Chiamami domani.

— D’accordo.

Nia tornò al crepuscolo. Divise in due il suo mucchio di pellicce. — Tu dormi lì. — Indicò uno dei mucchi.

Mi svegliai al levar di sole. Nia era già in piedi e si stava mettendo il grembiule. — Yohai dice che puoi imparare. Vieni.

Andammo nella fucina. Nia accese il fuoco, poi mi insegnò ad azionare il mantice. Quella mattina fece la lama per una zappa. Era appuntita e aveva due barbigli sulla parte posteriore: per sarchiare, decisi, anche se dava l’impressione di poter essere usata come arma.

Non avevo visto nessuna autentica arma. Nessuna spada. Nessuna picca. Non una scure né una mazza da combattimento. Niente che fosse palesemente concepito per fare del male a un’altra persona.

Era una cosa interessante. Forse gli uomini, ovunque si trovassero, avevano gli strumenti per uccidere.

A mezzogiorno ci interrompemmo per mangiare. Domandai a Nia il nome di parecchi oggetti: la lama della zappa, il martello, e così via. Lei aggrottava la fronte e me lo diceva. Avevo la sensazione che non sarebbe stata un’insegnante molto brava. Sembrava laconica per natura.

Tornammo al lavoro. Presto cominciarono a dolermi le braccia, poi la schiena e infine le gambe. Il fumo mi irritava gli occhi e non ero troppo entusiasta delle nuvole di vapore prodotte quando Nia immergeva la lama incandescente in un secchio d’acqua. Lo fece due volte. Alla fine portò fuori la lama. La esaminò alla luce del sole, poi fece il gesto che significava "sì".

— Va bene? — domandai.

— Sì. Ne farò un’altra.

Maledizione a lei. La fece. Quando ebbe finito, io ero ormai esausta. Andai fuori e mi sdraiai per terra mentre lei riduceva il fuoco e metteva via gli utensili. Era ordinata fin quasi alla pignoleria nel lavoro. La casa, al contrario, era in un totale disordine. Per la prima volta notai che la giornata era fresca e luminosa. Una bella giornata, quasi finita ormai. Decisi di non chiamare Eddie. Era uno sforzo troppo grande. Invece me ne andai a letto.

Il giorno seguente Nia fabbricò del filo metallico. Io lavorai al mantice e imparai una nuova frase: "Aziona in modo costante, idiota!".

Quella sera restammo sedute nella casa di Nia a bere il liquido acre. Alla fine eravamo entrambe un po’ ubriache. Nia incominciò a cantilenare fra sé e sé, battendo una mano sulla coscia per tenere il tempo. Aveva gli occhi socchiusi e un’aria trasognata.

Io ero appoggiata alla parete e osservavo il fumo che saliva dal fuoco. Era un cambiamento in meglio, decisi. Nia era taciturna e irascibile, ma non era malinconica. Nahusai era solita passare parecchio tempo seduta a rimuginare e Yohai era quasi sempre indaffarata. L’avevo trovato irritante.

Nia smise di cantilenare. La guardai. Adesso era coricata e un minuto dopo incominciò a russare. Una compagna distensiva, mi dissi.

Durante i dieci giorni che seguirono non accadde niente di rilevante. Aiutavo Nia nella fucina e la sera parlavo con Eddie.

— Non ci sono dubbi sulla tua lingua — mi disse una sera. — È una lingua franca, il che spiega perché è così facile da imparare. Anche il continente grande ha un linguaggio commerciale, uno diverso, che non è assolutamente collegato con il tuo. Yvonne e Santha lo stanno imparando. Meiling impara qualcos’altro, un linguaggio locale, terrificante nella sua complessità.

— E Gregory? — m’informai.

— Un altro linguaggio locale, ma meno difficile. Oh, a proposito, a Gregory è successa una cosa interessante…

Attesi con impazienza. Avevo imparato che Eddie tendeva a serbare le informazioni veramente importanti per la fine di una conversazione.

— Gli individui fra cui si trova hanno scoperto che è un maschio. Gli hanno detto di andarsene. Lui ha chiesto il perché. Pare che la domanda li abbia lasciati interdetti. Non riuscivano a credere che l’avesse fatta. Alla fine, però, glielo hanno spiegato. Nella loro società gli uomini vivono per proprio conto, su fra le alte montagne. Badano alle greggi e non si recano mai nelle case dove abitano le donne. L’idea stessa è ignobile. Gregory dice di non essere riuscito a pensare a un modo garbato per informarsi sulla procreazione.

— L’hanno cacciato via?

— No. Ha detto loro che non sapeva come restare vivo da solo fra le montagne. Hanno discusso a lungo, poi hanno deciso di lasciarlo restare in una delle costruzioni esterne, una specie di granaio. Ed è rimasto lì. J’y suis, j’y reste, dice.

— Gli uomini vivono totalmente da soli?

— Secondo Gregory, sì. Le donne sostengono che gli uomini hanno un brutto carattere. Non amano la compagnia.

— Ah, sì? Questo spiega ciò che è successo a Harrison.

— Uhu. Ho avvertito Derek e Santha. Yvonne parlerà con la sua ospite; è l’informatrice ideale, una cronachista tribale che non smette mai di parlare.

Feci il gesto dell’intesa, poi sorrisi e dissi: — Sì.

— Tu parlane con Nia. Chiedile informazioni sugli uomini della sua società.

Promisi che l’avrei fatto, ma non lo feci. Non era mai facile parlare con Nia. Spesso si interrompeva nel bel mezzo di una frase e restava a fissare il vuoto oppure cambiava argomento. Avevo l’impressione che vivesse da sola da troppo tempo. Aveva dimenticato come si teneva una conversazione. Mi concentrai sul compito di carpirle informazioni sulla grammatica. Le domande sulle tradizioni popolari potevano aspettare ancora un po’.

Una mattina Nia rovistò fra le travi della sua casa e tirò giù due asce.

— Vieni — mi disse. — Andiamo a far legna.

Trascorremmo tutta la mattina nella foresta. Nia abbatté un albero che era alto forse dieci metri. Il tronco era diritto, i rami spogli, a parte alcune foglie appassite. L’albero era evidentemente morto, e da un po’ di tempo.

Quando l’albero fu a terra, Nia disse: — Fallo a pezzi.

— Farò del mio meglio.

Cominciai a spaccarlo. Nia si allontanò. Quando mi interruppi per fregarmi le mani, sentii la sua ascia a breve distanza. Stava abbattendo un altro albero.

A mezzogiorno ci prendemmo un po’ di riposo.

— A che cosa serve? — le domandai

— Carbonella. — Masticò un pezzo di pane. — Questo legno è già secco. Domani lo mettiamo sotto terra. Brucerà per nove, dieci giorni, adagio, sotto terra. Allora diventerà carbonella.

Si alzò, si stiracchiò e fregò le palme delle mani sulle cosce. — È ora di tornare a lavorare.

Emisi un gemito e presi la mia ascia.

Dopo qualche minuto la vescica che avevo sulla mano destra si ruppe. Misi giù l’ascia e mi guardai la vescica. C’era del sangue. Avrei dovuto medicarla. Tornai verso la casa di Nia e aprii il mio zaino. Era meglio lavare la ferita? Decisi di non farlo. Appariva pulita e non sapevo che genere di microbi vivessero nei corsi d’acqua, soprattutto quelli in prossimità di un villaggio. In teoria, niente su quel pianeta poteva nutrirsi di me. La nostra materia genetica era troppo diversa e nessun virusoide locale avrebbe potuto usare il mio Dna per riprodursi. Nessun batterioide locale avrebbe potuto usare le mie cellule per alimentarsi. Tuttavia…

Tirai fuori il barattolo del bendaggio e mi spruzzai una piccola e sottile fasciatura. Bruciava. Sarebbe servita da disinfettante. Mi sedetti e aspettai che la fasciatura si asciugasse. Era lucida e color bruno scuro: color carne, stando all’etichetta sul barattolo, e prodotto nella Confederazione Sudafricana.

— Nia! — gridò una voce.

Alzai lo sguardo. Yohai usciva dalla foresta, camminando in fretta.

— Dov’è Nia?

— Laggiù. — Glielo indicai col dito. — Puoi sentire il rumore dell’ascia.

— Cattive notizie! Devo informarla. — Corse via.

Pensai di seguirla, ma poi decisi di no, misi via il barattolo del bendaggio e feci un po’ di lavori di casa. Quel disordine incominciava a farmi impazzire. Appesi gli indumenti di Nia e sistemai le pellicce su cui dormivamo in due mucchi ordinati. Quando ebbi finito, uscii. Non riuscivo a sentire i colpi dell’accetta né alcun altro suono all’infuori dello stormire delle foglie. Il sole splendeva nel cielo, quasi radioso come il nostro Sole, e l’aria era torrida. Mi sedetti all’ombra di una parete e attesi. Dopo mezz’ora, arrivarono Nia e Yohai.

— È ora che ti dica che cosa sta succedendo — fece Nia.

— Mi farebbe piacere.

Si accosciarono entrambe. Nia depose per terra le sue due accette, poi si grattò il naso. — Nahusai si trova a letto. Non riesce ad alzarsi. Non riesce a mangiare. Hakht dice che sei stata tu a far questo. Hakht dice che devi essere cacciata. Altrimenti Nahusai morirà e altra gente dopo di lei. Tu fai delle canzoni. Le canzoni fanno del male. Rubano il respiro dalla bocca. Fanno diventare duro come pietra il sangue dentro la pancia. — Nia rivolse un’occhiata a Yohai. — È questo che hai detto.

Yohai fece il gesto dell’approvazione. — Credo che sia stata Hakht a comporre le canzoni. È lei quella che sta facendo del male. Mia madre è vecchia. Non può difendersi. Io non ho il potere. Le persone che non sono più qui non parlano con me. Non posso difendere mia madre.

Bene, la cosa era abbastanza chiara. Nahusai era ammalata. Hakht mi stava accusando di aver gettato un incantesimo sull’anziana donna. Ero una strega, secondo Hakht, in ogni caso.

— Perché Hakht sta facendo questo?

Fu Nia a rispondermi. — Non sa aspettare. Vuole essere la donna più importante del villaggio. E lo sarà, quando Nahusai andrà… — S’interruppe, poi batté con la mano sul terreno. — Le ha insegnato Nahusai. Nahusai ha detto: "Questa sarà quella che verrà dopo di me". Ma lei non sa aspettare. — Nia aggrottò la fronte. Dopo un momento, aggiunse: — Ci sono persone così.

Feci il gesto dell’approvazione.

— Lei cerca di immischiarsi in ogni cosa. Se Nahusai dice "sì" a qualche cosa, quella donna dice "no". Nahusai ti ha accolta. Per questo Hakht dice che sei un demonio.

— È la verità — disse Yohai.

— Che cosa facciamo? — domandai.

— Riesco a pensare a una cosa soltanto — disse Nia. — Dobbiamo aspettare. Se Nahusai starà meglio, farà tacere Hakht. Se non… — Nia fece un gesto che non riconobbi.

— Che cosa significa?

— Chi può dirlo?

Stavo per ripetere la mia domanda quando mi resi conto che Nia aveva già risposto. Il gesto, la mano tesa, poi inclinata di qua e di là, significava "chi può dirlo?".

Nia si alzò in piedi. — Yohai, tu torna a casa. Io e Li-sa saremo prudenti. Grazie per l’avvertimento.

Yohai fece il gesto dell’intesa, quindi se ne andò. Attesi finché non fu partita, poi guardai Nia. — Credi che abbia ragione?

— In che senso?

— È stata Hakht a provocare tutto questo? Ha fatto del male a Nahusai?

Nia aggrottò la fronte. — Io non so se le canzoni facciano qualcosa. O se le persone che non sono più qui ascoltino qualcuno. Ma una donna come Hakht conosce cose da mettere nel cibo. È una brutta situazione. — Serrò il pugno e colpì la parete sopra di me. — Odio questo posto! Sono stanca degli alberi scuri. Sono stanca delle persone. Stanno sempre a raccontarsi storie sull’una o sull’altra. Stanno sempre a progettare come farsi del male a vicenda. — Si chinò e afferrò un’ascia, poi se ne andò. Un po’ più tardi sentii il rumore di un’accetta. Nia stava abbattendo un altro albero.

Pensai di chiamare Eddie, ma poi decisi di no. Dieci a uno che avrebbe voluto farmi tornare sulla nave. Non pensavo che la situazione fosse pericolosa e volevo sapere che cosa sarebbe successo in seguito.

Me ne andai sulla riva del fiume e feci i miei esercizi di yoga. Quindi meditai, osservando l’acqua corrente. Al crepuscolo comparvero degli insetti: erano piccoli, simili a zanzare. Non morsicavano, ma mi s’infilavano nel naso e negli occhi. Mi alzai e tornai verso casa, sentendomi rilassata. La mia mente, solitamente attiva e un po’ ansiosa, ora sembrava sgombra e serena come il cielo sopra di me. Mi fermai e guardai in su. C’era una luna sopra la foresta, una sottile falce, meno di un quarto. Era di un giallo tenue e brillava della luce di un sole sparito. Tutt’a un tratto mi sentii colma di una gioia intensa. Da un momento all’altro le cose avrebbero cominciato ad avere senso, avrei visto il disegno nei fenomeni rilevabili, o al di là di questi, avrei capito il mistero della vita, il segreto dell’universo.

Poi la sensazione sparì. La luna era solo una luna. Scrollai le spalle. Una volta ancora non ero arrivata fino in fondo. A che cosa, in ogni caso? Non ero davvero sicura che questi momenti di quasi rivelazione significassero qualcosa.

Entrai e trovai Nia che preparava la cena: una pappa d’aveva brodosa con mescolate dentro delle bacche. I suoi movimenti erano bruschi e il suo corpo pareva teso. Era ancora infuriata. Decisi di restare in silenzio. Mangiammo e andammo a dormire.

Mi svegliai, sentendo un rumore: un sommesso tum-ta-tum. Proveniva dall’esterno. Un tamburo.

Chiamai: — Nia?

Lei uscì carponi dal letto. Un istante dopo era sulla porta e l’apriva. Entrò una luce grigia. Nia se ne stava ritta nel vano della porta. Era nuda e teneva in mano un’ascia.

Mi alzai e mi avvicinai alle sue spalle.

Mancava poco al sorgere del sole e c’era luce a oriente. Nella radura di fronte alla casa ardevano cinque torce. Avevano un che di suggestivo mentre ondeggiavano al vento, ma servivano ben poco a illuminare. Vidi delle figure scure e compresi che doveva trattarsi di persone. Ma non sapevo chi fossero e neppure quante ce ne fossero. Venticinque? Trenta? Forse di più.

Nia brontolò qualcosa e uscì dalla porta. Io la seguii. Una persona venne verso di noi. Teneva in mano un sonaglio e lo muoveva in continuazione. Faceva un rumore simile a un serpente a sonagli impazzito.

— Finiscila con quel baccano — disse Nia. La sua voce aveva un suono rabbioso.

— Benissimo. — Il rumore cessò. — Siamo venute per il demonio. — Riconobbi la voce. Forte, stridula e arrogante, apparteneva a Hakht.

Nia si lanciò un’occhiata attorno. — Che significa tutto ciò? Nahusai è morta?

— È morta la notte scorsa. Ero nella mia casa e componevo una canzone per allontanare la malasorte. Ho sentito gridare Yohai. Ho capito che la vecchia se n’era andata.

— E Yohai? — domandò Nia. — Yohai è qui?

Il cielo si andava schiarendo e vidi il gesto che fece la fattucchiera. Significava "no".

— Ci sono cerimonie che vanno celebrate. Lei le ha cominciate. — Hakht alzò la voce. Aveva un tono di trionfo. — Lei non vi aiuterà. Le ho detto che è stata lei a causare la malasorte. Ha suscitato la collera delle persone che non sono più qui. Le ho detto che tutto questo deve finire. Mi ha dato ascolto, o Donna del Popolo del Ferro. Farà quello che dico io. E adesso — Hakht sollevò la mano e la puntò — il demonio. Consegnamelo.

— No.

Hakht fece un passo avanti. Nia sollevò l’accetta. — Ascoltami, fattucchiera. Io non ho alcun rispetto per te. Non temo il tuo potere. — Fece una pausa. Di solito le sue spalle erano arrotondate, ma adesso si teneva eretta. — Tutte voi, ascoltate! Ho fatto qualcosa che pochissime donne hanno mai fatto. Ho ucciso una persona.

Ci fu del movimento fra le abitanti del villaggio. Nessuna parlò.

— A ovest di qui, sulla pianura, ci sono le ossa di un individuo che mi aveva fatta arrabbiare. Non l’ho neppure seppellito. — Si guardò attorno. — Sono disposta a farlo di nuovo.

Hakht aprì la bocca.

— Sta’ zitta! Lasciami finire!

Hakht richiuse la bocca. Era accigliata.

Nia proseguì. — Non voglio restare più qui. Sono stanca dell’oscurità sotto gli alberi. Voglio vedere di nuovo il cielo. Me ne andrò e porterò con me il demonio. Non resterà nessuno a tenerti testa, Hakht. Allora potrai essere contenta. — Il disprezzo nella sua voce era palese. — Dammi solo un giorno, o fattucchiera. Vattene e ritorna domani mattina. Io me ne sarò andata con il demonio e nessuno si sarà fatto male.

Ci fu un lungo silenzio. Nia mantenne il suo atteggiamento, tenendosi molto eretta, l’ascia sollevata. Hakht la fissò e aggrottò la fronte. Infine disse: — Benissimo. Torneremo domani. — Si voltò e si allontanò. Il resto del villaggio la seguì. Nel giro di uno o due minuti se ne erano andate, sparite nella foresta.

Nia sospirò. Le sue spalle si afflosciarono. Fece un passo indietro e si appoggiò alla parete della casa.

— Hai ucciso davvero una persona?

Nia fece il gesto dell’affermazione. — Ero molto arrabbiata. — Guardò in direzione della foresta. — Vorrei uccidere Hakht, ma non sono abbastanza arrabbiata. — Lasciò cadere l’accetta. — Va’ dentro. Preparati a partire. Io verrò non appena avrò smesso di tremare.

Entrai e preparai i bagagli. Dopo un po’ arrivò Nia. Riscaldò gli avanzi della cena e mangiammo.

— Forse questo è un bene — disse. — Forse sarei rimasta qui finché un giorno mi sarei ritrovata vecchia. Ora vedrò di nuovo la pianura. — Si alzò e tirò giù una sacca dalle travi. — Dovrò lasciare qui la mia incudine e la maggior parte dei miei utensili. Aiya!

Si diresse verso la fucina. Io mi recai al torrente a lavarmi. Quando tornai, si stava vestendo. La sacca era posata ai suoi piedi. Era mezza piena e bozzoluta.

— Che cosa ci hai messo dentro?

— Il meno possibile. E niente di veramente voluminoso. I tipi di utensili che uso non sono leggeri. Quando l’avrò portata da un po’, la sacca incomincerà a sembrare molto pesante. — S’interruppe e fece il gesto che significava "così sia". — Non sono disposta a lasciarmi tutto alle spalle.

Finì di vestirsi e ripiegò un mantello fatto di pelle. Anche questo entrò nella sacca, seguito da tutto il pane che c’era in casa. Dieci pezzi. — Andiamo. Hakht potrebbe cambiare idea. — Mi porse una delle accette, poi raccolse l’altra e si caricò la sacca sulla spalla. Io indossai il mio zaino. Ce ne andammo dalla casa.

Il sole era sorto. Il cielo era sereno e soffiava un vento freddo.

— Una buona giornata — osservò Nia.

— Che cosa accadrà a Yohai? — domandai.

— Darà ascolto a Hakht. Per un po’ sarà dura per lei, ma poi ci si abituerà. E Hakht diventerà amichevole quando vedrà che Yohai non fa nulla contro i suoi desideri. Alla fine andranno d’accordo. Lo scontro non è mai stato fra loro due. Era fra Hakht e Nahusai. O comunque è così che la penso.

Prendemmo il sentiero che conduceva al villaggio, camminando in fretta, e arrivammo al fiume prima di mezzogiorno. Mi guardai attorno. Sull’altra riva del fiume c’era uno steccato, basso e fatto di legno. Al di là c’era un orto. Foglie azzurre luccicavano alla luce del sole. Non vidi nessuno lavorare nell’orto e questo era abbastanza strano. Sembrava che le abitanti del villaggio passassero ogni giorno buona parte della mattina nei loro orti.

In lontananza ci fu un suono che ricordava una tromba. Uno strumento musicale, forse un corno. Udii delle voci che si lamentavano e strillavano.

— Le cerimonie — disse Nia. — Stanno girando attorno ai margini del villaggio, facendo baccano per scacciare Nahusai, nella terra lontana. — Nia si accigliò. — La mia gente non è così. Noi non abbiamo paura dei morti, solo della morte, che è un evento infausto. Naturalmente, devono esserci delle cerimonie…

Il corno risuonò di nuovo. Pareva più vicino. Nia s’interruppe e restò in ascolto, poi continuò.

— Le cerimonie scacciano la malasorte. Purificano il villaggio. Ma noi non abbiamo paura dei nostri amici e parenti solo perché questa brutta cosa è capitata a loro. Loro sono… devono essere… le stesse persone che erano prima. — Tornò a sistemarsi la sacca sulla spalla, poi si mise in cammino.

Pensai di chiederle altre informazioni sulle cerimonie funebri, ma lei camminava veloce. Dovetti affrettarmi per raggiungerla, e non avevo fiato da sprecare.

Enshi

Seguimmo un nuovo sentiero che risaliva il fiume. Avevamo il sole sempre davanti a noi, o così sembrava, comunque. Stavamo viaggiando verso ovest.

All’incirca a metà pomeriggio prendemmo un’altra pista. Conduceva a nord in una zona di basse colline. Il terreno era sabbioso, gli alberi bassi e stentati. Qui e là incontravamo affioramenti di roccia sabbiosa di un colore giallo e arancione spento. La pista si vedeva a stento: una linea indistinta che si snodava fra le rocce e gli alberi. Finalmente, nel tardo pomeriggio, arrivammo a una capanna fatta di lunghi rami e addossata a una roccia. Sui rami erano stese delle pelli e del fumo usciva da un’apertura. Una ben misera e triste dimora!

Nia si fermò. — Portiamo doni! — gridò.

Una voce profonda rispose: — Andatevene.

— Sono Nia, la lavoratrice del ferro. Vuoi un coltello? Ha una lama tagliente. L’impugnatura è in osso. Un’ottima fattura, secondo me.

Ci fu un lungo silenzio. — Metti giù il coltello. Vattene. Torna quando il sole sarà sparito.

— Sì — rispose Nia. Rovistò nel proprio sacco e tirò fuori un coltello, che posò sul terreno. Poi si voltò e si allontanò. Io la seguii.

Percorremmo soltanto un breve tratto. Nia mise giù il sacco. — È una distanza sufficiente. Lui non può vederci qui. Mi sedetti. — Chi era?

— Non conosco il suo nome.

— È un… — Esitai. Non conoscevo il termine che significava uomo — È ciò che diventa un ragazzo?

— Un uomo. Sì. Chi altri vivrebbe qui da solo? L’ho già incontrato prima d’ora. È più amichevole della maggior parte degli uomini.

— E questo lo chiami essere amichevole?

— Sì. Gli uomini da queste parti non conoscono le buone maniere. Le loro madri li tirano su male, e i vecchi che dovrebbero insegnare loro come comportarsi quando lasciano il villaggio, questi vecchi sono scorbutici e meschini. Non hanno rispetto di se stessi. Questa è comunque la mia opinione.

— Perché gli uomini lasciano il villaggio?

Nia mi fissò a occhi sgranati. — Che genere di domanda è questa?

— Tutti gli uomini lasciano il villaggio?

— Sì. Naturalmente. — Aggrottò la fronte. — Che specie di persona sei? Perché fai una domanda del genere?

Ci pensai su un momento. — Vengo da molto, molto lontano. La mia gente è diversa dalla tua. Non saprei dire quanto diversa. Forse le differenze sono di poco conto, cose superficiali, come la pelliccia che tu hai e io no. Forse sono differenze notevoli. In ogni modo, fra la mia gente uomini e donne vivono insieme.

Nia corrugò di nuovo la fronte. — Ma com’è possibile? Dopo il cambiamento, nessun uomo può sopportare di stare insieme ad altre persone, fuorché nel periodo degli accoppiamenti, naturalmente, e a eccezione di Enshi.

— Enshi? — domandai.

Nia guardò fisso il cielo. — Il sole è quasi sparito. Possiamo tornare indietro.

Tornammo alla capanna. Attraverso le aperture fra le pelli si vedeva brillare la luce di un fuoco. Non vidi nessuno, né dentro né fuori. Il coltello era sparito e al suo posto c’era un canestro pieno di pesce affumicato.

— Questo è buono! — esclamò Nia. — Adesso non moriremo più di fame.

Il canestro aveva un coperchio. Nia glielo mise e lo chiuse, poi ficcò tutto quanto dentro il sacco. — Muoviamoci. Torneremo verso il fiume e troveremo un posto dove accamparci. A quest’individuo non piacerà che restiamo qui.

— È vero — fece la voce profonda. — È un buon coltello, Nia.

Nia lanciò un’occhiata alla capanna. — Il pesce ha un buon odore. Grazie.

Ci allontanammo. Il cielo si fece scuro e comparvero le stelle insieme a una luna: un punto luminoso che saliva rapidamente dall’orizzonte orientale. Ci fermammo in un avvallamento. Nia accese un fuoco e mangiammo un paio di porzioni di pesce. Era oleoso e pieno di lische, con un forte gusto affumicato. Non mi piacque in modo particolare.

— Chi è Enshi? — domandai.

Nia teneva lo sguardo fisso sul fuoco; il suo viso aveva un’espressione triste e meditabonda. Alla fine alzò gli occhi. — Ho composto una poesia su Enshi quando mi trovavo da queste parti ormai da un anno. Dice così:

"Io mi trovo in questo luogo buio,

questa foresta.

"Lui si trova in quel luogo buio,

quella tomba."

— È morto?

Nia fece il gesto dell’affermazione. — Non voglio parlare di lui. I vostri uomini vivono davvero insieme alle donne?

— Sì.

— È una cosa molto strana. È giusto?

La parola che aveva usato aveva diversi significati: "consueto", "ben fatto", "morale".

— Noi pensiamo di sì. Siamo sempre vissuti in questo modo.

Nia emise un suono scoppiettante. — Se Hakht lo sapesse, avrebbe la certezza che tu sei un demonio. Naturalmente, la sua gente fa parecchie cose che non sono giuste.

— Che cosa? — domandai.

Nia aggrottò la fronte, poi si grattò il naso. — A loro non piacciono gli uomini, neppure i propri figli. "Un figlio è una bocca", dichiarano. Intendono dire che un figlio è qualcosa che mangia cibo, fa baccano e non combina niente di utile.

— Ah! — osservai.

Nia fece il gesto dell’approvazione. — È una cosa molto scorretta. Ma c’è dell’altro… — Esitò. — A loro non va di accoppiarsi con gli uomini. Spesso in primavera si allontanano dal villaggo, due donne insieme. Se ne stanno nella foresta. Fanno cose con le mani. — Nia rabbrividì. — La tua gente fa delle cose del genere?

— Alcuni di noi sì. Io no.

— Credi che sia giusto?

Ci pensai su un momento. — È comune. Non credo che sia sbagliato. — Usai una parola che significava "insolito", "immorale", "mal fatto", o "fatto in modo gravemente insensato".

Nia rabbrividì di nuovo. — Io l’ho fatto una volta. Yohai continuava a chiedermelo. Una primavera sono andata con lei. Non so perché. Non mi è piaciuto. Ho provato un senso di vergogna. Aiya! - S’interruppe per un momento. — Quanto vorrei che avessimo qualcosa da bere.

Il giorno seguente facemmo ritorno al fiume e continuammo a seguirlo, dirette verso ovest. Il territorio era pianeggiante e coperto di foreste. Non c’era una nuvola nel cielo e il fiume scintillava. Creature simili a uccelli svolazzavano da un albero all’altro e altre cose, che non riuscivo a vedere, si aggiravano nel sottobosco. Ne scorsi una che ci attraversò il sentiero: un guscio bronzeo lungo più o meno mezzo metro con sotto parecchie piccole zampe che si muovevano rapide. Dalla parte superiore sporgevano due enormi occhi sfaccettati.

— Che cos’è? — chiesi mentre l’animale spariva.

— È chiamato wahakh - rispose Nia. — Può vivere sia nell’acqua sia fuori. La gente di qui sostiene che porti messaggi degli spiriti e qualche volta faccia da guida alle donne impegnate in viaggi dello spirito. Non lo mangiano mai, sebbene sia delizioso cotto arrosto. — Fece una pausa. — Lo lasceremo in pace.

Verso sera arrivammo a un lago. L’acqua era limpida e di un verde scuro. Lungo i bordi crescevano giunchi.

Nia si guardò attorno. — Sono stata qui prima d’ora, quando sono venuta a est, dopo aver lasciato il mio popolo. Ricordo che questo posto mi faceva venire in mente un lago della mia terra. Il Grande Lago dei Giunchi. Questo è più piccolo, naturalmente. Aiya! Come passano gli anni!

Ci accampammo. Nia trascorse la sera con lo sguardo fisso sul fuoco. Io mi allontanai, chiamai Eddie e gli riferii quello che era successo in quegli ultimi giorni.

— Tu corri dei rischi, non è vero? — disse lui.

— Qualcuno. Non molti.

— Quella pazza di una sciamana potrebbe aver deciso di ucciderti.

— Non credo che sia probabile. Ho la sensazione che queste persone non siano violente.

— Aha! Vallo a raccontare a Derek.

— Che cos’è successo?

— Ha deciso che doveva rivelare alla gente del suo villaggio che era un uomo, per vedere che cosa sarebbe successo. Ricorderai che è estremamente curioso. Hanno cercato di lapidarlo. Ha afferrato la sua radio ed è scappato.

— Sta bene?

— Sì. Ma che cosa sarebbe accaduto a qualcun altro, qualcuno che non fosse stato in grado di correre come lui?

Ci pensai per un po’. Derek era alto e biondo e veniva dalla California meridionale, un aborigeno che aveva trascorso l’infanzia viaggiando a piedi nel deserto. Quando aveva 15 anni, c’era stata una siccità. Lui era arrivato a una base commerciale sulla costa e aveva detto: "Sono stanco di vivere così. Insegnatemi qualcos’altro".

Lo mandarono a scuola e lui si dedicò alla corsa come attività sportiva. Era bravo sulle distanze brevi. Sulle lunghe distanze era imbattibile.

— Dov’è adesso? Sulla nave?

— No. Si sta dirigendo verso ovest. La regione, a quanto dice, è piacevole. Colline ondulate, foreste, qualche prateria. C’è selvaggina in abbondanza, assai più che in California. Ha intenzione di costruirsi un arco.

Un insetto mi svolazzò accanto. Cercai di colpirlo e lo mancai. — Come sta Gregory?

— Bene. Ma dice che la sua gente lo tratta in modo diverso. Gli parlano adagio e in tono risoluto e gli danno un sacco di ordini. Ordini molto semplici. È convinto che abbiano stabilito che non è molto intelligente. Quale altra spiegazione potrebbe esserci? Non conosce il comportamento corretto e non è in grado di badare a se stesso.

Sorrisi.

— Un’altra cosa — disse Eddie.

Aha, pensai. Il lavoro per oggi. — Di che si tratta?

— Gregory sostiene che dev’esserci dell’oro nelle montagne. La sua gente porta un sacco di gioielli, e per lo più sono in oro.

— Che cosa c’è di tanto interessante in questo?

— I planetologi pensano che possa essere rilevante. Il pianeta ha una densità maggiore della terra e ci sono abbondanti prove di attività vulcanica. A quanto dicono, ci sono buone probabilità di trovare metallo in prossimità della superficie. Non soltanto oro, ma argento, platino, stagno, iridio, cromo, per nominarne alcuni. — La sua voce aveva un suono particolare: piatto e attento.

— Che cosa sta succedendo?

— Quassù incominciano a mostrare interesse. Soprattutto i membri dell’equipaggio. Non credo che abbiano abbastanza da fare. Parlano di possibilità. Se qui c’è il metallo, se è di ottima qualità, se è vicino alla superficie, forse addirittura in superficie, allora lo si potrebbe estrarre.

Mi dondolai all’indietro sui calcagni e guardai la radio. Naturalmente non potevo vederla davvero. La notte era troppo buia. — Una colonia mineraria? A diciotto anni luce da casa? Hanno idea di quanto costerebbe il trasporto?

— Stanno pensando a un centro industriale. Una colonia per costruire navi.

— A nessuno verrà mai in mente di costruire una nave in fondo a un pozzo di gravità, a meno che tu non stia parlando del genere di nave che viaggia sull’acqua, e non credo che sia così.

— L’assemblaggio finale verrebbe fatto nello spazio.

— Mmm! — dissi.

— Ci sono dei problemi — continuò Eddie. — Tutti riconoscono che ci sono parecchie difficoltà, ma non smettono di parlarne. Sono assolutamente affascinati dall’idea di tutto quel metallo.

La cosa non era affatto sorprendente. I nostri antenati si erano dati da fare sulla Terra. La maggior parte del metallo, del carbone e del petrolio che era facile raggiungere era esaurita, così come altre risorse. Buona parte dell’acqua. Buona parte del suolo. Centinaia, no, migliaia di specie di piante e animali.

Eddie proseguì. — Stavo pensando a Cortés e a ciò che accadde quando scoprì l’oro nel Messico.

— Ti preoccupi troppo.

— Uuh. Scommetto che è ciò che Montezuma disse ai suoi consiglieri.

Mi fregai gli occhi e mi sforzai di pensare. Ero sfinita. — Eddie, devo dormire.

— È notte lì giù da te? Immagino di sì. Sogni d’oro, Lixia.

Tornai all’accampamento e mi coricai. Nel cielo sopra di me brillavano le stelle. Da qualche parte lassù c’era un satellite ripetitore e molto più lontano, verso sud, oltre il centro dell’oceano, c’era la nave interstellare Number One. La vedevo con l’immaginazione, girare alla luce del pianeta principale di questo sistema, con solo un lieve luccichio: un enorme pezzo di idruro di litio a forma di sigaro. La superficie era butterata e scolorita. Più di metà della massa si era consumata. L’idruro di litio era stato il nostro combustibile oltre che la nostra protezione principale contro le radiazioni.

A un’estremità del sigaro c’era una serie di serpentine di metallo e ceramica. Erano i magneti che contenevano e controllavano la reazione della fusione che faceva funzionare la nave. L’altra estremità era vuota. Quando avevamo lasciato la Terra c’era stato un ombrello fatto di cermet, protezione aggiuntiva contro la minuscola quantità di materia fra le stelle. Avevamo lasciato cadere l’ombrello quando ci eravamo girati. Da quel punto in avanti, era il motore ad agire da protezione, bruciando qualunque frammento di detriti spaziali potesse trovarsi davanti a noi e riducendolo in vapori ionici, che i magneti allontanavano.

Tutto qui: un sigaro di un bianco sporco e una serie di anelli, neri, marrone chiaro e grigi. Gli alloggiamenti erano invisibili, nascosti al centro del sigaro: un cilindro fatto di ceramica, rivestito di sale.

Era quella la parte della nave che conoscevo: i locali e i corridoi rivestiti internamente di piastrelle, che davano alla nave uno dei suoi numerosi soprannomi: il mio preferito, il Clipper di Porcellana.

Naturalmente non aveva vele. Quell’idea era stata abbandonata fin dall’inizio. E non c’era molta porcellana a bordo. Il materiale delle pareti mi ricordava la terracotta. Era opaco e un po’ ruvido, di un colore arancione chiaro. In alcuni punti era smaltato a vetro, di solito bianco e blu.

Era un ottimo materiale: leggero, forte e durevole, immune dalla corrosione, resistente al calore e un eccellente isolante. Eddie era un fanatico. Non eravamo andati fra le stelle in un barattolo di latta. Eravamo andati in qualcosa fatto di argilla e di sale. C’era abbondanza di entrambi nel posto dal quale venivamo. Non avevamo bisogno del metallo su questo pianeta.

Nei tre giorni successivi io e Nia proseguimmo sempre verso ovest. La terra saliva. Ci addentrammo in un canyon. Sul fondo c’era un corso d’acqua stretto e poco profondo. In primavera doveva essere un fiume notevole, poiché scorreva al centro di un ampio letto. Perfino ora l’acqua si muoveva rapida e, qua e là, era striata di schiuma.

Su entrambi i lati s’innalzavano pareti rocciose. Erano di un grigio scuro e screziate da qualcosa che luccicava alla luce del sole. Era forse mica?

Vidi una nuova specie di animale. Era minuscolo e di un color grigio scuro, lo stesso delle scogliere. La sua pelle, o il guscio, luccicava come se fosse screziato di mica. Quasi ovunque nel canyon l’animale sembrava essere raro, ma in un tratto c’erano centinaia di quelle piccole creature. Immobili, erano invisibili. Le vedevo quando si muovevano, guizzando via da sotto i miei piedi e correndo su per una qualche roccia per allontanarsi da me. Pareva quasi che frammenti di roccia prendessero vita, trasformandosi in… cosa? Lucertole? Non esattamente. Per prima cosa avevano sei zampe. Sulla Terra questo ne avrebbe fatto degli insetti. Ma non somigliavano a insetti e inoltre, a quanto pareva, gli insetti di questo pianeta avevano almeno otto zampe.

— Non so che cosa siano — disse Nia. — E non so perché ce ne siano tanti. Questo non è il mio territorio. Fammi domande quando arriviamo nell’aperta pianura.

Feci il gesto dell’intesa.

Il terzo giorno, sul tardi, Nia disse: — C’è una persona che ci segue.

— Che cosa? — Mi voltai a guardare indietro.

Il canyon era in ombra e non riuscivo a vedere lontano, ma per quello che potevo vedere il sentiero era deserto.

Nia mi afferrò per il braccio e tirò con forza. — Continua a camminare. Non fargli capire che sappiamo.

Proseguimmo arrancando.

— L’ho visto due volte oggi, questa mattina e poco tempo fa. Se ha intenzione di fare del male, agirà questa notte.

— Male? — domandai.

— Ci sono uomini che escono di senno. Diventano violenti. Aggrediscono altre persone.

— Perché?

— Non lo so. Ma alcuni uomini, quando passano attraverso il cambiamento, diventano come animali. Non riescono a controllarsi. E ci sono altri uomini che sono buoni finché non invecchiano. Allora diventano deboli, non riescono a procurarsi donne e questo li rende furiosi. Ne ho incontrato uno del genere. Non attaccano gruppi numerosi di donne, ma se una persona viaggia da sola o in gruppetti di due o tre… è come andare in cerca di guai! — Mi lanciò un’occhiata. — Dobbiamo trovare un posto per accamparci.

Proseguimmo finché non arrivammo in un punto dove il fondo del canyon si allargava più del normale. Il torrente si apriva. All’altra estremità la parete del canyon era accidentata. C’erano fenditure ed enormi massi neri. Una cascata precipitava fra le rocce e c’era della vegetazione: arbusti e qualche alberello.

— Ci accamperemo sull’altra sponda del fiume — disse Nia. Si tolse i sandali e li prese in mano.

La seguii fino alla riva del corso d’acqua. Lei lanciò un’occhiata indietro, con noncuranza. — Adesso è vicino. È convinto che l’oscurità lo nasconda, ma io ho buoni occhi.

Entrò sguazzando nell’acqua e io la seguii. Come promesso dagli addetti all’approvvigionamento, i miei stivali erano impermeabili.

A metà del fiume l’acqua si fece più profonda. Nia affondò fino alle ginocchia. Mi fermai e riflettei su cosa fare. Non potevo togliermi gli stivali lì dov’ero e non mi andava l’idea di tornare indietro per la strada da cui ero venuta. Il sole era tramontato e il canyon era ormai quasi avvolto nell’oscurità. Da qualche parte, fra le ombre, si nascondeva l’uomo. Non avevo alcuna voglia di imbattermi in lui, soprattutto da sola. Andai avanti. Gli stivali mi si riempirono d’acqua.

Nia era già arrivata sull’altra sponda. Si chinò e si strofinò la pelliccia delle gambe, poi pestò i piedi. Mi inerpicai sulla riva accanto a lei e mi tolsi gli stivali, capovolgendoli. L’acqua si riversò in grande quantità.

Nia fece un balzo. — Non addosso a me, idiota! Mi sono appena asciugata la pelliccia!

— Mi dispiace. — Mi tolsi i calzini e li strizzai. — E adesso che cosa facciamo?

— Ci accamperemo qui. — Indicò con un cenno della mano i massi precipitati al suolo. — L’uomo dovrà avvicinarsi per vederci. Ho intenzione di restare in attesa.

Fra le rocce c’era un avvallamento, uno spazio sgombro. Mettemmo giù il nostro bagaglio. Alle ultime luci del giorno raccogliemmo della legna.

— Ora — disse sottovoce Nia — tu accendi il fuoco. Ma non prima che te lo dica io.

Mentre mi davo da fare, la sentivo muoversi vicino a me, invisibile nell’oscurità fra le rocce. Il rumore che faceva cessò. Restai in ascolto. Un uccello zufolò e riuscivo a sentire il rumore della corrente. Nient’altro.

Alle mie spalle risuonò una voce: — Accendi il fuoco.

Tirai fuori l’accendino. Le foglie secche presero immediatamente fuoco. Fiamme gialle guizzarono attorno ai rami. Riuscivo a vedere. Sull’altro lato dell’avvallamento c’era il sacco di Nia e qualcosa che somigliava a una persona che giaceva lunga distesa sul terreno, avvolta in un mantello o in una coperta. Ma avevo sentito la voce di Nia alle mie spalle. Ne ero sicura. Qualunque cosa ci fosse sotto quel mantello, non era la mia compagna.

— Ti sei già messa a dormire? — dissi. — Va bene. Buonanotte. — Misi un altro ramo sul fuoco. Avevo sete, ma era troppa la paura per andare fino al fiume. Pensai di mangiare. Il pane era secco e il pesce salato. Se avessi mangiato l’uno o l’altro, avrei avuto ancora più sete. In ogni caso, il mio stomaco era in subbuglio.

Il fuoco si affievolì. Aggiunsi altri rami. Avevo la sensazione che qualcuno mi stesse osservando. La pelle della schiena mi formicolava e incominciavo a sudare. Mi alzai e mi stiracchiai, poi mi guardai attorno con noncuranza. Non si vedeva niente, a parte un mucchio di pietre. Mi sedetti. Un sasso sbatacchiò. Balzai di nuovo in piedi. Che cos’era stato? Restai in ascolto, ma non sentii niente.

Tornai a sedermi. Dopo un minuto mi misi a fare i miei esercizi di respirazione. Inspirai e pensai alla sillaba so. Espirai e pensai alla sillaba hum. Pian piano mi rilassai. Mi resi conto che era una bellissima notte. L’aria era fresca e secca. Il cielo era limpido e le stelle splendevano luminose. Oltre il limitare del canyon stava sorgendo una luna: un punto di luce rossastra. Continuai a respirare in modo lento e profondo. So. Hum. So. Hum.

Un grido! Balzai in piedi, guardandomi attorno. Qualcosa si mosse dietro un masso. Afferrai la mia ascia e corsi.

Due corpi lottavano nell’oscurità. Erano entrambi scuri, entrambi pelosi. Non riuscivo a distinguerli l’uno dall’altro. Rotolarono fuori dall’ombra piombando nel campo di luce del fuoco. Vidi levarsi una mano che teneva un coltello. Attorno al polso aveva un alto bracciale di rame. Nia non portava gioielli. Sollevai l’ascia e la feci roteare, abbattendo la parte piatta contro il braccio dell’individuo. Ci fu un gemito. La mano si aprì. Il coltello cadde. Indietreggiai.

I due ruzzolarono di nuovo, finendo quasi nel fuoco. Nia era in cima. In una mano teneva un martello mentre con l’altra cercava di afferrare la gola dell’uomo. Lui le agguantò la tunica con entrambe le mani, poi inarcò la schiena e si sollevò. Nia venne scagliata verso l’alto. Era a mezz’aria. Non riuscivo a crederlo. Come poteva essere tanto forte? Nia atterrò nel fuoco. Volarono scintille. I rami in fiamme si sparpagliarono per il terreno. Nia strillò.

L’uomo si drizzò di scatto e afferrò un ramo. Era in fiamme da un’estremità all’altra. Come faceva a tenerlo in mano? Era pazzo? Si diresse verso di me. La sua espressione era senza dubbio quella di un folle. Gli occhi guardavano fissamente e la bocca era spalancata. Ululava.

Sollevai la mia ascia. Lui roteò il ramo. Bloccai il colpo. Sentii la scossa lungo il braccio dal polso alla spalla. L’uomo arretrò e sollevò di nuovo il ramo. Stava ancora bruciando e l’uomo continuava a ululare.

Il ramo si abbatté, ma lo bloccai di nuovo. L’uomo lo lasciò andare. Il ramo cadde fiammeggiando e lui afferrò il manico della mia ascia, torcendo e tirando con violenza. Persi la presa.

Lui fece roteare l’ascia in un unico, rapido movimento, e la sollevò sopra la testa. Faceva un verso simile a un segnale di evacuazione, un grido acuto e uniforme.

Non c’era il tempo di sottrarsi. Aveva raggiunto il massimo dello slancio. La lama dell’ascia balenò. Sentii in bocca il gusto della bile.

Il grido s’interruppe di colpo, l’uomo grugnì e poi, con un’espressione sorpresa, si accasciò.

Nia era ritta dietro l’uomo: una sagoma scura contro la luce del fuoco sparpagliato. Teneva ancora in mano il martello.

Tirai un respiro profondo.

Lei domandò: — In che condizioni è? Ho colpito più forte che ho potuto.

Mi inginocchiai e gli tastai la gola. Non c’erano pulsazioni. Era normale? Non ne avevo idea. Gli misi la mano sulla bocca; non c’era respiro. — Dove l’hai colpito?

— Alla testa. Con questo. — Sollevò il martello.

Gli tastai la parte posteriore del capo e trovai un punto dove c’era una rientranza nel cranio. Tirai indietro la mano. Avevo del sangue sulle dita e anche qualcos’altro: un oggetto, attaccato alla punta del mio dito medio. Era duro e triangolare, con i bordi ruvidi. Non ero in grado di vedere il colore, ma ero quasi certa di sapere di che cosa si trattava. Un frammento d’osso. Mi ripulii la mano sul gonnellino dell’uomo, poi guardai Nia. — Credo che tu l’abbia ucciso.

— Aiya! Un altro. — Lasciò cadere il martello e si massaggiò la faccia. — Devo sedermi.

Mi alzai e le tesi una mano. Lei crollò contro di me. L’afferrai, ma era troppo pesante. Non riuscivo a tenerla diritta. Caddi e piombai sull’uomo morto, e Nia mi rovinò addosso.

Dannazione!

— Nia? — Lei non rispose. Spingendo e contorcendomi, riuscii a liberarmi dai due corpi pelosi, mi alzai in piedi e rigirai Nia. Non fu una cosa facile. Il suo corpo era floscio. Un peso morto.

Le tastai la gola. Ah! C’erano pulsazioni, forti e regolari, forse un po’ frequenti. Non potevo esserne sicura. Mi avvicinai al fuoco, trovai un ramo che bruciava ancora e me lo portai dietro. Che cosa c’era che non andava? La tunica di Nia era stracciata e uno dei bordi strappati bruciava ancora senza fiamma, ma non vidi altri segni di bruciature. Mi inginocchiai e le esaminai le mani. Un palmo era gonfio. Forse quella era una bruciatura. Toccai il palmo. Nia trasalì ed emise un gemito.

— Sei sveglia?

Lei batté le palpebre.

— Dove ti fa male?

Nia corrugò la fronte. — La mano e la gamba.

Le tastai le gambe. Non c’era sangue. Non trovai ferite.

— La caviglia — disse.

Le toccai la caviglia sinistra. Lei trasalì di nuovo. La premetti. Nia si lamentò. Qualcosa non andava in quel punto. Ma che cosa? Come facevo a capire se c’era qualcosa di rotto o fuori posto? Non sapevo come dovesse essere al tatto una caviglia. Non su quel pianeta. Non la caviglia di un’aliena. Riflettei un momento. C’era sempre una simmetria bilaterale. Esaminai la caviglia destra, poi tornai a controllare la sinistra.

— Sembrano uguali al tatto.

Nia si accigliò. — A te. Non a me. Su che cosa sono sdraiata?

— Sull’uomo.

— Aiya! - Si sollevò su un gomito. — Aiutami.

— Non voglio che tu ti muova.

— E io non voglio stare sdraiata su un cadavere.

Corrugai la fronte, cercando di ricordare le mie cognizioni di pronto soccorso. Sarebbe stato giusto muoverla? Facevo fatica a concentrarmi, forse perché avevo appena contribuito a uccidere qualcuno e il corpo si trovava proprio di fronte a me.

Nia si stava sforzando di mettersi seduta. Misi giù la mia torcia elettrica e l’aiutai a sollevarsi dal morto. — La tua schiena è a posto? — m’informai. — Ti sei fatta male da qualche altra parte? Senti qualche altro dolore?

— Te l’ho detto. Alla mano e alla gamba. Nient’altro. Credo che mi sdraierò.

La feci coricare al suolo con cautela. Lei giacque lunga distesa accanto al morto. Mi alzai e afferrai l’uomo per le braccia. Era pesante, molto più pesante di Nia, e completamente floscio. Riuscii a tirarlo per circa un metro, poi rinunciai e lo lasciai andare. Le sue braccia colpirono il suolo con un tonfo sordo. — Questo è tutto. Se ne resta lì.

— Non mi sento bene — si lamentò Nia.

Non pensavo che avesse una gamba spezzata, ma non ne ero certa. Meglio applicare una stecca, e procurarmi dell’acqua fredda per la mano. E un mantello. Poteva benissimo trattarsi di un collasso.

— Avrò bisogno della tua pentola per cucinare.

— Prendila. Che uomo forte! Ho fatto un errore. Pensavo che fosse vecchio o molto giovane. Non sono intelligente come mi ritenevo.

Presi il suo mantello e la coprii, poi andai al fiume con la pentola per cucinare, la riempii d’acqua e la riportai indietro. — Mettici dentro la mano. Farà bene alla bruciatura. Io riaccendo il fuoco.

Nia fece il gesto dell’assenso. Andai a raccogliere legna. Quando il fuoco si fu ravvivato, preparai una stecca. Avevo una fasciatura elastica nella mia cassetta del pronto soccorso. Come imbottitura usai la mia maglietta e un paio di calzini di ricambio.

— Spero che sia una cosa temporanea — dissi. — Ho bisogno di quei calzini. Come va la mano?

— Meglio, ma ora mi fa male la spalla.

Tirai indietro il mantello. La pelliccia su una spalla era arruffata. La toccai e mi guardai la mano. Le dita erano rosse. — Un’altra ferita. Quell’individuo ti ha conciata ben bene.

— Ho capito quando l’ho visto che ero nei pasticci. Ma era troppo tardi per cambiare il mio piano. È una brutta ferita?

Presi un pezzo di garza e pulii dal sangue la ferita. — È un’incisione. Deve averti raggiunta con la punta del coltello. — Esaminai il contenuto della mia cassetta del pronto soccorso. Che cosa potevo usare che non fosse pericoloso? Nia non era umana. Non avevo idea di come avrebbe reagito a un qualunque farmaco umano.

Ebbi brevi e terribili fantasie su reazioni allergiche, reazioni tossiche, collasso e morte.

Ma la ferita andava protetta. Non pensavo che una fasciatura potesse essere in alcun modo dannosa.

Tirai fuori il barattolo. — Questo brucerà soltanto un pochino. — Schiacciai il pulsante.

— Aiya! - esclamò Nia.

La ferita sparì. Al suo posto c’era una piccola pezza scura di plastica. La pezza era grumosa e da sotto sporgevano ciuffi di peli, ricoperti da uno strato di plastica. Idiota! mi dissi. Avrei dovuto radere la zona attorno alla ferita. Be’, non l’avevo fatto, e ormai la cosa migliore da fare era di lasciare in pace la ferita. Mi dondolai all’indietro sui talloni. — Qualcos’altro?

— No. — Nia tirò fuori la mano dalla pentola, poi fece una smorfia. — Questa fa ancora male.

— Vado a prendere altra acqua.

Mi recai al fiume, riempii di nuovo la pentola e la portai indietro. Nia vi immerse la mano. I suoi occhi erano quasi chiusi. Ebbi l’impressione che fosse sfinita. Le rimboccai il mantello attorno al corpo.

— Grazie. — Aveva la voce assonnata. Chiuse gli occhi.

Misi altra legna sul fuoco, poi tirai fuori il poncho dal mio zaino. Era leggero e impermeabile con un rivestimento interno termico rimovibile. Decisi di non togliere la fodera. Invece mi avvolsi nel poncho, mi coricai e mi addormentai.

Mi svegliai più tardi, sentendo freddo. Il fuoco si era quasi spento. Mi alzai e misi dei rami sui tizzoni. Subito guizzarono le fiamme. Com’era silenzioso il canyon! Sentivo il rumore dell’acqua, ma nient’altro. Nel cielo sopra di me splendevano le stelle. Riconobbi l’Orsa Maggiore. Era come me la ricordavo, forse un po’ più luminosa. Dipendeva di certo dall’aria del canyon, che era secca ed estremamente limpida.

Mi avvicinai a Nia. Aveva ancora la mano nella pentola e c’era un’espressione di dolore sulla sua faccia. Ma stava dormendo e respirava in modo lento e regolare.

Le controllai la gamba. Il gonfiore si era arrestato. La fasciatura non era stretta. Nia si lamentò quando la toccai, ma non si svegliò. Tornai vicino al mio zaino e tirai fuori la radio.

Questa volta trovai Antonio Nybo. Un altro nordamericano. Ce n’erano parecchi nel team di sociologi, forse perché c’erano tante società diverse nell’America del Nord. Tony veniva da qualche parte della Confederazione degli Stati Spagnoli. In quel momento non riuscivo a ricordare esattamente dove. Non la Florida. Forse il Texas. O Chicago. Gran parte del suo lavoro era stato fatto nella California meridionale, studiando gli agricoltori ispano-americani che stavano tornando nel deserto californiano e interagivano, non sempre in modo facile, con gli aborigeni.

— Lixia! Come stai? — La sua voce era gaia e piacevole, con un leggero accento.

— Ho avuto una giornata interessante. — Gli raccontai l’accaduto, poi aggiunsi: — Ora arriviamo al problema. Non credo che la gamba sia rotta, ma non ne sono sicura. C’è un modo di scoprirlo anche senza un’esplorazione?

— Chiederò al team medico. Va bene se ti richiamo?

— Sì.

Concluse la trasmissione. Io mi alzai e mi stiracchiai, poi mi toccai cinque volte le dita dei piedi. Il mio stomaco gorgogliava e mi ricordai che non avevo cenato. Presi un pezzo di pane. Era stantio. Lo gustai comunque.

La radio emise un suono. L’accesi.

— Per prima cosa dicono che hanno bisogno di ulteriori informazioni. — Riuscivo a sentire la nota divertita nella voce di Antonio. — Dicono anche che una frattura dovrebbe provocare un’emorragia maggiore… di una distorsione, voglio dire. E un’emorragia produce lividi, di solito. O hanno detto "spesso"? In ogni caso, se nei prossimi tre giorni il suo piede diventerà nero e blu, può darsi che abbia una frattura. Ma anche una brutta distorsione può produrre dei lividi.

— Che cosa mi stai dicendo?

— Il solo modo di esserne certi è di fare un’esplorazione. I medici propongono di venire giù con la necessaria attrezzatura.

— Oh.

— Pensano che dovrebbero venire — disse Tony a bassa voce. — E a loro piacerebbe, piacerebbe terribilmente, mettere le mani su un nativo. È interessante ciò che si scopre quando si fa una domanda apparentemente semplice. Gli alieni non sono abbastanza alieni.

— Che cosa?

— Non mi riferisco al livello cellulare. In quello dobbiamo presumere che siano come il resto della vita sul pianeta. I biologi sostengono che è fuori di dubbio che gli organismi che hanno esaminato siano alieni e appartengano a una diversa linea evolutiva. È per questo che sono in grado di affermare, con tanta fiducia, che non possiamo prenderci le malattie locali. E non possiamo neppure contagiare le nostre malattie a nessun essere di questo pianeta. — Antonio fece una pausa. — Forse ti interesserà sapere che Eddie ha chiesto al team medico di controllare due volte questo fatto.

— Perché?

— Un’indigena è morta subito dopo che sei arrivata al tuo villaggio.

— Ho spiegato a Eddie di che cos’è morta la donna. Vecchiaia, veleno o magia. Non c’è stato niente di innaturale nella sua morte.

Antonio rise. — Eddie era preoccupato dei batteri inseriti nel tuo intestino. Quelli destinati a metabolizzare gli alimenti locali. Il team biologico l’ha negato categoricamente. I batteri non possono vivere al di fuori di un umano. Il team biologico si è offeso e ha parlato di gente che si muove al di fuori della propria area di competenza, soprattutto gente delle scienze sociali che, come tutti sanno, non sono scienze reali come la biologia e la chimica.

— Ohi.

— Il problema non è al livello cellulare. È il fatto che gli indigeni somigliano a noi. E non dovrebbero, secondo tutte le migliori teorie. Dovremmo avere a che fare con aragoste intelligenti o alberi parlanti.

"Secondo il team biologico, i nativi sono un esempio di evoluzione parallela, come la tigre marsupiale dai denti a sciabola del Sud America. Ma nessuno è davvero soddisfatto di questa spiegazione. Abbiamo bisogno di altre informazioni. Quelli del team medico vogliono dei campioni di tessuto, e vogliono sapere che cosa succede ai livelli intermedi, fra l’intero organismo che somiglia a noi e la biochimica che è quasi certamente aliena. Come sono gli organi? I muscoli e lo scheletro? Il sistema endocrino? La chimica del cervello? In breve, vogliono entrare in un indigeno e dare una gran buona occhiata attorno. Intendo riferire la cosa al comitato per l’amministrazione giornaliera."

— Okay.

— Nel frattempo, i medici dicono di trattare la ferita come una frattura.

— Okay. — Spensi la radio.

— Li-sa?

Era Nia. Le lanciai un’occhiata. Se ne stava sollevata su un gomito e mi fissava. I suoi occhi riflettevano la luce del fuoco. Brillavano come oro.

— Sì.

— C’è un demonio in quella scatola?

Diedi un colpetto alla radio. — Questa?

Nia fece il gesto dell’affermazione.

— No.

— Allora come fa a parlare?

— Un’ottima domanda. — Ci pensai per un momento. — È un modo con cui le persone possono parlare quando sono lontane fra di loro. Il mio amico ha una scatola come questa. Quando vi parla dentro, la sua voce esce da qui. — Tocccai di nuovo la radio. — Io posso rispondere parlando dentro la mia scatola.

Nia corrugò la fronte. — Fra il Popolo del Rame, il popolo di Nahusai, ci sono canti di richiamo. Quando Nahusai voleva qualcosa, pioggia o sole o uno spirito, faceva un disegno che raffigurava la cosa che voleva. Poi cantava al disegno. La cosa che voleva avrebbe sentito il suo canto e sarebbe venuta. Questo è quanto mi ha detto, in ogni modo.

Feci il gesto del dissenso. — Questa non è una cerimonia. È un utensile, come il tuo martello.

— Hakht non ci crederebbe.

— Che cosa ne sa?

Nia emise un suono iroso. — Questo è vero. Bene, allora, la scatola è un utensile, anche se è un genere di utensile che non ho mai visto prima. Non ho mai sentito neppure parlare di un attrezzo come quello. — Fece una pausa. — Sembra utile. Ora torno a dormire.

Al mattino mi svegliai prima di Nia. Il cielo era limpido e la luce del sole illuminava l’orlo del canyon. Andai fra le rocce e feci i miei bisogni, poi mi recai al fiume e mi lavai. Nel tornare passai accanto all’uomo morto. Era disteso sulla schiena, le braccia tese sopra la testa. Era grande e grosso, non alto, ma robusto e muscoloso, con una pelliccia lunga e ispida. Il suo gonnellino era marrone con ricami color arancione, e la sua cintura aveva una fibbia di rame.

Aveva la bocca spalancata. Gli vidi i denti, che erano gialli, e la lingua, che era spessa e scura. Gli occhi, anch’essi aperti, avevano l’iride color arancione.

Mi resi conto che avrei dovuto seppellirlo. Gli insetti si stavano già ammassando. Maledizione. Non avevo neppure un badile. Lanciai un’occhiata a Nia. Dormiva ancora. Mi chinai, afferrai una pietra e la deposi accanto al corpo. Puzzava di urina. Povero stupido. Che modo di andarsene! Ma c’era un bel modo? Andai a prendere altre pietre.

Gli insetti mi ronzavano attorno. Le nuvole si spostavano lente nello stretto cielo. Erano piccole e rotonde come batuffoli di cotone. Incominciava a farmi male la schiena. Mi scorticai una mano sul bordo ruvido di una pietra. La ferita non era grave. Non sanguinava nemmeno, ma bruciava.

Finalmente l’uomo sparì, nascosto dalle pietre. Era sufficiente. Non era necessario che gli facessi un tumulo. Mi raddrizzai. Ormai le nuvole erano scomparse e la luce del sole penetrava obliqua nel canyon. Nia si stava tirando su a sedere.

— Bene — disse. — Il suo spirito dovrebbe avere una casa. Altrimenti il vento lo prenderà e lo trasporterà in giro per il cielo. Nessuno merita un tale destino.

— C’è qualche cerimonia che bisognerebbe celebrare?

— No. Se ci fosse qui una sciamana, canterebbe. Questo scaccerebbe la malasorte. Ma non so le parole giuste e neppure che cosa bruciare nel fuoco. — Aggrottò la fronte e si grattò il naso. — Dovrei fare qualcosa. Gli darò un coltello. Un dono d’addio.

— D’accordo — dissi.

Facemmo colazione, poi fasciai la mano di Nia. Non parlammo molto. Nia aveva l’aria stanca e io mi ritrovai a pensare all’uomo morto sotto il mucchio di pietre.

All’incirca a metà mattina la mia radio ronzò.

— La tua scatola — disse Nia. — Vuole parlare con te.

Accesi la radio. — Sì?

— Lixia? Sono Antonio. Ho parlato con il comitato per l’amministrazione giornaliera.

— Sì?

— Hanno votato per il no. E poi hanno deciso che questo non era un problema amministrativo. Era una questione di politica. Io non ero presente alla riunione, ma dev’esserci stato qualcuno del comitato che si è irritato per il voto e ha sollevato la questione della politica per avere un’altra opportunità.

Assentii col capo alla radio.

— Così la questione è stata rimessa al comitato rappresentativo dell’intera nave. Abbiamo fatto la riunione. Una seduta di emergenza, ma nondimeno una buona riunione.

— Che cosa è successo?

— Eddie, naturalmente, è contrario a qualunque tipo di intervento. Conosci le sue argomentazioni. Non starò a ripetertele. La Ivanova si è dichiarata d’accordo con lui.

— Davvero?

— Secondo lei, abbiamo deciso di non manifestarci alle popolazioni di qui finché non avessimo saputo di più su di loro. Ci sono buone ragioni a favore della nostra decisione: la nostra stessa sicurezza e il timore di mettere in pericolo la cultura indigena a causa dell’ignoranza. Come facciamo a sapere che genere di informazioni sono in grado di recepire?

"Ora, secondo la Ivanova, ci viene chiesto di abbandonare una linea di azione elaborata con gran cura, decisa in modo democratico e di importanza storica. E tutto a causa di una piccolissima frattura. Una probabile piccolissima frattura.

"Avrebbe un’opinione diversa se fosse uno dei nostri a essere in pericolo. Ma la persona ferita è una nativa, e la ferita non è affatto pericolosa."

— Già — dissi.

— Quanto ai nostri amici della Repubblica Cinese. — Antonio fece una pausa a effetto.

— Sì?

— Loro sostengono che tutto questo non sarebbe mai accaduto se i membri del team esplorativo fossero stati addestrati in modo appropriato.

— E questo che significa?

— Avresti dovuto seguire un corso di medicina socialista. Agopuntura, nozioni di erboristeria e ideologia marxista. Per quanto riesco a capire, dovresti infilzare di aghi la tua compagna e leggerle alcuni brani scelti dal Manifesto comunista.

— Chi ha tirato fuori questa splendida linea di ragionamento?

— Chi ti viene in mente? È un vecchio argomento cinese perfettamente conservato e viene da un vecchio cinese perfettamente conservato, il signor Fang.

I cinesi avevano sostenuto che sarebbe stato difficile andare fra le stelle senza bambini, e folle andarci senza persone di età ed esperienza. Il resto di noi era rimasto irremovibile riguardo ai bambini. Non ce n’erano sulla nave. Ma avevamo accettato un certo numero di persone sopra i sessant’anni e alcuni sopra i settanta. Il signor Fang era prossimo all’ottantina, un uomo magro con lunghi capelli bianchi e folte sopracciglia grigie. Veniva da Zhendu nello Sichuan, un esperto lavoratore del vimini ed esperto giardiniere, responsabile della sala principale del giardino della nave. Vi cresceva del bambù, una dozzina e più di varietà. Lungo le pareti c’erano graticci coperti di palme rampicanti. Erano la materia prima per l’arredamento. La maggior parte della mobilia della nave era di bambù e canna. Il signor Fang la riparava quando si rompeva e ne fabbricava di nuova quando era necessario.

Mi piaceva. Avevo trascorso parecchie ore nella sua officina a vederlo lavorare. Di quando in quando discutevamo di filosofia. Amava in particolare gli antichi Taoisti e Carlo Marx.

"Loro rispettavano, almeno in teoria, la saggezza del popolo. Questo è ciò che conta, Lixia. Un filosofo che teme o disprezza la gente uscirà con idee mostruose."

— Qual è stato il risultato della votazione? — chiesi a Tony.

— Tu che cosa ti aspetti? Abbiamo parlato per ore e siamo finiti dove avevamo cominciato. Per il momento ci atterremo alla nostra decisione originaria. Non scenderemo sul pianeta, se non forse per aiutare la nostra gente. Tu sei una dei nostri. Il team medico non è soddisfatto.

— Ah, bene. — Mi grattai la testa. — E adesso che faccio?

— Continua a curare la ferita come se fosse una frattura. Tienila ferma con una stecca. Impedisci alla tua amica di usare quel piede. Il tempo guarisce tutte le ferite.

— Splendido. Se sono tutti qui i consigli che hai da offrire, posso interrompere la trasmissione.

— Buona fortuna.

Spensi la radio, poi lanciai un’occhiata a Nia.

— Che cosa ha detto la tua scatola?

— Dovresti stare ferma finché la caviglia non sarà guarita.

Lei fece una smorfia. — E come posso farlo? Siamo quasi senza cibo, e qui non c’è niente da mangiare. Dobbiamo arrivare a un villaggio.

— Ce n’è uno nelle vicinanze?

— Sì. A una giornata da qui. Meno di una giornata. Vi abita il Popolo del Rame delle Pianure. — Nia serrò un pugno. — Che sfortuna! — Si colpì la coscia, poi sussultò. — Potrei percorrere una breve distanza se avessi un bastone a cui appoggiarmi, ma non riuscirò a camminare fino al villaggio. E c’è anche da inerpicarsi. Il sentiero sale nel punto in cui l’acqua cade. — Corrugò la fronte. — Va’ tu, Li-sa. Racconta alla gente del villaggio quello che è accaduto. Chiedi alla loro sciamana di venire a portarmi la medicina. Le farò un bel dono. Dille che sono una lavoratrice del ferro. Una molto brava, del Popolo del Ferro. Posso fabbricare un coltello in grado di tagliare qualsiasi cosa all’infuori della pietra. — Rifletté un momento. — Non taglierà neppure il ferro. Ma qualsiasi altra cosa.

— Okay.

— Che cosa? — domandò.

— Ci andrò.

— Che cos’è quella parola? Ok…?

— Okay. Significa "sì" oppure "sono d’accordo".

— Okay — disse Nia. — Adesso va’. Se camminerai in fretta, sarai al villaggio prima di notte. Torna domani. Fino ad allora me la caverò.

Presi il mio zaino e mi misi in cammino. Sull’altra riva del fiume mi fermai per asciugarmi i piedi. Non riuscivo a vedere Nia, ma scorgevo il fumo che saliva dal nostro fuoco, e vedevo la tomba dell’uomo pazzo. Pensavo di vederla. Forse era solo un altro mucchio di pietre.

Mi infilai i calzini e gli stivali. Poi mi voltai e mi allontanai.

Una cosa curiosa riguardo al canyon. Viste da lontano, le pareti apparivano spoglie, e il fondo del canyon era pietra grigia. Avvicinandomi, però, scorgevo fiori e insetti dai vivaci colori. Gli animali a sei zampe erano spariti. Ora vedevo creature che sembravano uccelli o forse minuscoli dinosauri. Si tenevano eretti sulle zampe posteriori ed erano coperti di penne. Ma avevano braccia al posto delle ali. Ne vidi uno catturare un insetto. Afferrò l’insetto con le piccole mani fornite di artigli e aprì la bocca. Scorsi file di denti. Un attimo dopo, uno scricchiolio! E l’insetto era sparito.

Il cacciatore inclinò il capo e mi guardò. Ricambiai lo sguardo. Il corpo della creatura era ricoperto di penne azzurre all’infuori del ventre e della gola. Il ventre era bianco, la gola di un giallo sulfureo.

La creatura sibilò nella mia direzione.

— Oh, sì? — dissi.

Quella fuggì.

A mezzogiorno mi fermai a mangiare. Sopra di me gli uccelli si libravano nel vento. Un pesce saltò nel fiume. Mi riposai un momento, poi proseguii. Il fiume si fece più turbolento. Il sentiero prese a salire e a scendere, serpeggiando attorno a grossi blocchi di pietra nera e grigiastra, dalla forma irregolare. Davanti a me vidi la fine del canyon: una parete di pietra, malamente frastagliata, piena di fenditure. L’acqua scendeva fra le fenditure, comparendo e scomparendo. Alla sommità, l’acqua si trovava alla luce del sole. Luccicava come argento. Più in basso, in ombra, era grigia. In fondo alla scogliera c’era una pozza d’acqua, seminascosta da una nebbiolina.

Perfino in distanza riuscivo a sentire il rumore dell’acqua. Era uno scroscio sommesso e continuo.

Continuai a camminare. La pista seguiva un lato della pozza. Accanto a me c’era la parete del canyon. Nella roccia erano stati incisi dei disegni: spirali e triangoli e figure di animali.

Aha! pensai. Un luogo sacro. Ma sacro a che cosa? Le spirali potevano rappresentare il sole. Da noi sulla Terra il triangolo era spesso un simbolo di fertilità o di sessualità femminile. Gli animali erano specie locali, o così almeno supponevo. Un quadrupede con le corna. Un bipede con un collo simile a uno struzzo e lunghe braccia striminzite. Venivano adorati oppure cacciati? O entrambe le cose?

Il vento spingeva verso di me gli spruzzi della cascata. Il sentiero si era fatto scivoloso. Decisi di concentrarmi su dove mettevo i piedi.

La pista girava attorno a un’alta roccia ricoperta di pittogrammi. Sull’altro lato c’era un uomo. Non c’era alcun dubbio sul suo sesso. Era nudo e il suo membro maschile era abbastanza grosso da essere ben visibile. Stava danzando, saltellando da un piede all’altro. Teneva in mano una pertica. In cima c’erano un paio di corna, verdi a causa della corrosione. Quasi certamente rame. L’uomo fece una piroetta e agitò il lungo bastone, poi tornò a girarsi, trovandosi così faccia a faccia con me. Ora mi resi conto che una cosa la portava: un filo di grosse perline rotonde e di un azzurro intenso. Mi ricordavano le perline di faenza provenienti dall’Egitto.

Lui smise di danzare e mi fissò. Rimasi immobile, guardando indietro. Era grande all’incirca quanto me, forse un po’ più robusto. La sua pelliccia era marrone scuro, lunga e ispida; gli occhi grandi e di un giallo chiaro.

Disse qualcosa che non compresi.

— Non conosco quella lingua — risposi.

— Tu parli il linguaggio dei doni — fece lui. — Devi essere una straniera. Ho pensato che fossi un demonio, ma un demonio mi avrebbe capito. — Corrugò la fronte. — Immagino che potresti essere un demonio che viene da molto lontano. Un demonio che viene da lontano potrebbe non sapere la lingua del mio popolo. È questo che sei?

— Un demonio? No. Sono una persona. Mi chiamo Lixia. E tu chi sei?

L’uomo parve sorpreso. — La Voce della Cascata. Non hai sentito parlare di me?

— No.

— Devi venire da molto, molto lontano.

— Sì.

— Io parlo per lo spirito della cascata. Esso è molto potente e conosce quasi ogni cosa. — L’uomo si mise a cantare:

"Conosce

ciò che dicono i pesci

nell’acqua.

"Conosce

ciò che dicono gli uccelli

nel vento.

"Conosce

ciò che dicono i demoni

nelle viscere della terra…

"Quelli che muovono,

quelli che scuotono,

quelli che mandano su fuoco…

"Conosce

ciò che si dicono

l’un l’altro".

— La gente mi fa domande. Mi chiede che cosa sento nel rumore dell’acqua. — Saltellò su un piede e si girò, sempre saltellando. Poi barcollò e appoggiò entrambi i piedi per terra. — Che cosa vuoi? Perché sei qui?

— Sto viaggiando con una del tuo popolo. È ferita e sto cercando aiuto.

L’uomo aggrottò la fronte. Agitò il suo bastone e gridò:

"O cascata,

dimmi,

dimmi come interpretare tutto ciò".

Inclinò il capo e rimase in ascolto. Ascoltai anch’io, ma non sentii niente all’infuori dello scroscio dell’acqua.

— La cascata dice che probabilmente parli con sincerità. In ogni caso, dice la cascata, porta sfortuna molestare i viandanti o coloro che chiedono aiuto. Pertanto ti aiuterò. Vieni con me. — Si voltò e s’incamminò su per il sentiero. Esitai un momento, poi lo seguii. Non era mai una buona idea discutere con un oracolo, soprattutto uno di una società che non si comprendeva. Ben presto ci trovammo a una buona distanza sopra la pozza. Guardai giù e vidi l’acqua spumeggiante. Nella foschia splendeva, tenue, un frammento di arcobaleno.

La pista si addentrava in una fenditura. Procedemmo fra nere pareti di roccia lungo le quali gocciolava l’acqua. Sulla roccia c’erano chiazze di una sterposa vegetazione color arancione. Una creatura camminava fra le chiazze. Era all’altezza della mia spalla e si muoveva lenta, dell’azzurro del cielo terrestre e con almeno una dozzina di zampe. Dal davanti spuntavano due antenne che ondeggiavano lievemente. Altre due antenne spuntavano sul dietro e anche queste ondeggiavano appena. Non riuscii a scorgere né una bocca né occhi.

Immaginai che l’animale stesse procedendo in avanti, ma non avevo modo di giudicarlo. Pensai di raccoglierlo. Forse c’erano organi visibili nella parte inferiore. Ma non mi erano mai piaciuti gli animali con più di otto zampe.

La mia guida si muoveva rapida. La seguii, scivolando di quando in quando sulla pietra bagnata.

Stavamo arrivando alla fine del passaggio. Le pareti erano alte solo un paio di metri e in cima vi crescevano delle piante. Vidi foglie, steli e fiori.

L’altezza delle pareti diminuì ulteriormente. Ormai riuscivo a vedere al di là di queste e della vegetazione. Stavamo emergendo su una pianura.

Su un lato, in lontananza, c’era una rupe, piuttosto bassa e costellata di alberi. In tutte le altre direzioni la terra era pianeggiante e coperta da una specie di pianta dalle foglie lunghe, sottili e flessibili. La pianta era alta circa un metro. Il suo colore variava: verde e verdeazzurro, gialloverde e un grigio-verdeazzurro argenteo. Non avrei saputo dire che cosa significassero le differenze nel colore. C’era più di una specie di pianta che cresceva sulla pianura? O il colore rappresentava variazioni all’interno di una specie?

— Ecco. — L’uomo indicò la rupe. — Il fiume è laggiù. La pista corre lungo il fiume. Seguila. All’imbrunire arriverai a un villaggio. Chiedi della sciamana e dille che hai un messaggio della Voce della Cascata. Dille che la cascata ordina di dare a questa persona ciò che chiede. Di’ che non c’è nessun male in questo. Lo so. Me l’ha detto la cascata.

"Non rifiutare di credermi,

o popolo.

Io so ciò che sa il fiume.

"Conosco i segreti

scoperti

dalla pioggia."

Agitò il suo bastone e danzò di lato, poi fece una piroetta e indicò la pista più sotto. — Va’!

Ubbidii. Quando arrivai in cima alla rupe, mi guardai indietro. Scorgevo la pista che serpeggiava fra la pseudo-erba, ma non riuscivo a vedere l’uomo. Doveva essere tornato nel canyon presso la cascata.

Scesi faticosamente lungo il pendio in direzione del fiume, che in quel punto era ampio e poco profondo, ombreggiato da alberi dalle foglie di un azzurro scuro.

Al centro del fiume c’era un banco di ghiaia sul quale si riposavano una mezza dozzina di creature: grossi quadrupedi privi di pelo e con la coda. Uno di questi sollevò il capo e mi fissò, poi emise un brontolio di avvertimento. Si alzarono tutti quanti ed entrarono pesantemente nell’acqua.

Forse lucertole? Il nome sembrava appropriato e mi offriva una sommaria qualificazione, anche se avrei dovuto ricordare che queste creature non erano autentiche lucertole.

Arrivai al villaggio al tramonto. Sorgeva in cima alla ripida scogliera del fiume, e tutto ciò che riuscii a vedere in un primo tempo fu una barriera fatta di tronchi oltre la quale saliva del fumo. Fuochi per cucinare. Parecchi. Sulla palizzata c’erano insegne come quella che aveva tenuto in mano l’oracolo: lunghe pertiche che terminavano in corna di metallo. Le corna rosseggiavano alla luce del sole. Rame lucidato, mi dissi.

Mi inerpicai su per il sentiero fino al cancello. C’era una donna lì ferma, che osservava il sole che calava. Era scura come i due uomini nel canyon e indossava una tunica di un azzurro acceso.

— Dammi il benvenuto — dissi.

La donna si girò.

— Chi sei?

— Una viandante. La Voce della Cascata mi ha detto di venire qui.

— Davvero? Entra. Sei arrivata appena in tempo.

Entrammo. Lei chiuse il cancello e vi mise una sbarra di traverso. — Ecco! — Si ripulì le mani. — Vieni con me. Ti condurrò dalla sciamana.

La seguii lungo una strada stretta che si snodava avanti e indietro fra le case. Queste erano costruzioni ottagonali, fatte di tronchi. Gli interstizi fra i tronchi erano stati riempiti con una pianta gialla e lanuginosa che sembrava essere viva e in crescita. I tetti erano spioventi e s’innalzavano dai bordi verso il centro, dove c’era un’apertura per il fumo. Non ero in grado di vedere queste aperture, ma il fumo era ben visibile e saliva da quasi tutte le case. I tetti erano ricoperti di terriccio, un eccellente tipo di materiale isolante, e nel terriccio crescevano alcune piante. Erano piccole e scure. Mi protesi e colsi una foglia. Era rotonda, spessa e simile a cera. La schiacciai e ne sprizzò dell’acqua. Una pianta grassa o qualcosa di molto simile. Era probabile che non bruciasse, il che costituiva un grosso vantaggio. Dal foro per il fumo uscivano senza dubbio scintille e se fossero finite su una pianta secca, queste persone avrebbero avuto un incendio della prateria che infuriava proprio sulle loro teste. A che cosa serviva quella pianta? Era commestibile? O soltanto ornamentale?

La donna si fermò davanti a una casa particolarmente grande. — O sciamana, vieni fuori!

La porta si aprì. Uscì una donna, bassa e grassa, che indossava una lunga veste tutta macchiata. La veste era biancastra e le macchie si vedevano facilmente. Una scelta infelice per una persona evidentemente rozza. Aveva addosso almeno una dozzina di collane. Alcune erano comunissimi fili di perline, altre erano elaborate, con catene, campanelle e ciondoli a forma di animali. Erano tutte di rame, e tutte aggrovigliate. Pensai che in nessun modo la donna si sarebbe potuta togliere una sola collana.

— È arrivata questa stranissima persona, o santa. Sostiene di avere un messaggio della Voce della Cascata.

La sciamana mi scrutò con attenzione. — Dov’è la tua pelliccia? Sei stata ammalata?

— No. Vengo da molto lontano. La mia gente è priva di pelliccia.

— Aiya! Ciò è davvero strano. Qual è il tuo messaggio?

— La Voce della Cascata dice che vuole che tu mi aiuti.

— No.

— Che cosa?

— Quell’uomo non può aver detto così. Lui non ha desideri. Non ha opinioni. Egli è la Voce della Cascata. Quando parla, è la cascata che parla. Perciò, quello che hai detto era sbagliato. Non è quell’uomo che vuole che io ti aiuti. È la cascata che vuole che ti aiuti.

L’altra donna fece il gesto dell’approvazione.

— Di che cosa hai bisogno? — domandò la sciamana.

— Ho un’amica che è stata ferita. Si trova a una giornata da qui, verso est, nel canyon. Vuoi andare a cercarla?

La sciamana corrugò la fronte e si grattò il mento. Poi fece il gesto dell’assenso. — Domani. — Si voltò e tornò in casa. La porta si chiuse.

— Aiya! - esclamò l’altra donna. — È una cosa che lei non fa mai. Non va mai dalle persone, sono loro che devono venire da lei. Ma tutti ascoltano la Voce della Cascata. E quell’uomo un tempo era suo figlio, e lei gli voleva molto bene. Vieni con me.

La seguii fino a un’altra casa. All’interno c’era un unico, vasto locale con grossi pilastri che sostenevano il tetto. Erano stati intagliati e dipinti di rosso, bianco, nero e marrone. I disegni erano complessi, costituiti da linee ricurve. Sembravano raffigurare degli animali. Qui e là vidi delle facce e delle mani munite di artigli. Le facce avevano occhi di rame e lingue di rame che sporgevano arrotolate dal pilastro.

Al centro della casa un fuoco ardeva in una buca e lì vicino erano sedute tre persone. Erano bambini abbastanza grandicelli. Stavano facendo un gioco. Uno scagliava una manciata di bastoncini, un altro si chinava a osservare il disegno che avevano formato. — Aiya! Che fortuna che hai!

Il terzo guardò nella nostra direzione. — E questa che cos’è?

— Una persona. Sii cortese. Portaci qualcosa da mangiare.

Ci sedemmo. La donna disse: — Io sono Eshtanabai, la mediatrice. È stata una fortuna che ci fossi io al cancello invece di una donna qualunque.

— Tu sei che cosa?

I bambini ci portarono delle scodelle di poltiglia e una caraffa piena di liquido. Il liquido era aspro. La poltiglia era quasi insapore. Mangiammo e bevemmo. Eshtanabai mi spiegò.

— Le persone si arrabbiano le une con le altre. Non si parlano. Se ne stanno sedute nelle loro case e tengono il broncio. Io vado da ciascuna di queste persone. Ascolto ciò che hanno da dire. Dico: "Questa controversia non è bene. Non c’è un modo per mettervi fine? Che cosa vuoi? Quale soluzione ti soddisferà?". Allora vado avanti e indietro, avanti e indietro finché tutti sono d’accordo su ciò che andrebbe fatto. È un lavoro difficile. Mi causa dei gran mal di testa.

— Posso immaginarlo.

— Qualcuno deve farlo. La sciamana è troppo santa. La Voce della Cascata non sempre parla in modo logico. Come potrebbe un uomo, perfino quell’uomo, appianare una controversia?

Non avevo una risposta a quell’interrogativo. Finimmo di mangiare, poi mi coricai, usando il mio zaino come guanciale. Uno dei bambini mise altra legna sul fuoco. Un altro bambino incominciò a suonare un flauto. La melodia era dolce e malinconica. Chiusi gli occhi e ascoltai. Un momento dopo mi addormentai.

Mi svegliai nel cuore della notte con un terribile torcicollo. Il fuoco era quasi spento. Attorno a me, nella casa buia, sentivo il suono del respiro. I miei compagni dormivano. Mi tirai su a sedere e mi massaggiai il collo, poi tornai a coricarmi. Questa volta non usai lo zaino come guanciale. Quando mi svegliai di nuovo era mattina. La luce del sole splendeva attraverso la porta aperta. Eshtanabai era seduta accanto al fuoco. I bambini erano spariti.

— La sciamana ha lasciato il villaggio — mi disse. — Con lei sono andate altre persone. Porteranno qui la tua amica.

— Bene. Quando?

— Domani o il giorno dopo.

Feci colazione, ancora poltiglia, poi uscimmo. Il cielo era sereno, l’aria tiepida. Odorava di mucchi di letame. Decisi di dare un’altra occhiata alla pianura. Trovai il cancello del villaggio e lo varcai.

Una pista conduceva attorno al villaggio. La seguii. La pianura si estendeva verso sud e verso est, quasi assolutamente piatta. C’erano animali in lontananza: puntini neri che di quando in quando si muovevano. Mi riparai gli occhi con la mano, ma non riuscii a distinguerli.

Sul lato settentrionale del villaggio c’erano orti che somigliavano in tutto e per tutto agli orti del villaggio di Nahusai. Mi fermai nei pressi di uno degli orti.

Una donna alzò lo sguardo. — Sei tu la straniera.

— Sì.

— Sei certamente strana.

Indicai con la mano gli animali sulla pianura. — Che cosa sono quelli?

Lei sgranò gli occhi. — Non lo sai?

Feci il gesto che significava "no".

— Com’è possibile che qualcuno sia così ignorante?

Non dissi nulla. Dopo un momento la donna parlò. — Sono cornacurve. Il grosso della mandria è a nord. In autunno gli uomini li porteranno indietro. Allora l’intera pianura sarà nera.

— Dove sono gli uomini adesso?

Lei si accigliò. — Ma non sai proprio niente? Sono con la mandria. Dove altro dovrebbero essere?

— Grazie. — Proseguii.

Il giorno seguente il cielo era nuvoloso. Scesi al fiume, portando con me il mio zaino. Mi sistemai ai piedi di un albero e tirai fuori la radio.

Eddie era tornato. — Come sta la tua amica? — s’informò.

— Non lo so. Sono andata in cerca di aiuto, e l’aiuto è andato in cerca di Nia. Scoprirò come sta nel corso della giornata.

— Tu dove sei?

Gli descrissi l’ubicazione del villaggio e gli riferii il mio incontro con la Voce della Cascata.

— Be’, sembra proprio affascinante. — Tacque per un minuto o due, poi disse: — Non ne so molto sugli oracoli. Erano importanti in Grecia, non è vero?

— Sì.

— Forse dovrei leggere un po’. Com’è il villaggio?

Glielo descrissi. — Per quanto sono in grado di stabilire, tutti gli adulti sono donne. Gli uomini si trovano su al nord e si prendono cura di una mandria di animali. Sono migratori. Le donne invece non si spostano. Come va la nave?

— Più o meno come sempre. Abbiamo ricevuto un messaggio dalla Terra.

— Ah, sì? — Provai la consueta eccitazione. — Qualcosa di interessante?

— C’è una nuova colonia spaziale e gli ucraini stanno incominciando a colonizzare la regione selvaggia attorno a quella che un tempo era Kiev. E qualcuno ha inventato una radio funzionale più veloce della luce. Ci hanno inviato i progetti.

Mi dondolai all’indietro sui calcagni. Non saremmo stati più isolati. Non avremmo più dovuto aspettare per quarant’anni la risposta a una domanda. — Quanto tempo ci vorrà per fabbricare quell’oggetto?

Eddie scoppiò a ridere. — Noi possiamo fabbricare l’apparecchio radioricevente. Gli ingegneri ne sono quasi certi. Ma per inviare messaggi dovremo poter produrre una nuova e stranissima particella, e la macchina che può farlo è grande.

— Merda.

— Esattamente il mio pensiero. Forse ti interesserà sapere che la particella è stata chiamata fred. Non in onore di Frederick Engels. Su questo il messaggio era molto chiaro. — La voce di Eddie aveva il tono che usava quando descriveva una manifesta follia. — È stata scoperta… no, teorizzata, da due persone più o meno nello stesso tempo. Tutto in questa particella succede in serie di due, secondo il messaggio. La persona di Pechino voleva darle il nome di guanyon in onore della dea cinese della misericordia, Guan Yin. A quanto sembra, la dea le è apparsa in sogno, ritta su un fiore di loto e con in mano l’equazione decisiva scritta su un ventaglio.

"La persona di Santiago voleva dare alla particella il nome di pablon in onore del poeta Pablo Neruda. Non so perché. Forse ha avuto un’equazione in sogno. Nessuno dei due era disposto a cedere. Così la particella viene chiamata fred. Si presenta sempre come una di una coppia. Così l’altra particella è stata chiamata frieda.

— Suppongo che questo sia un altro esempio della terribile bizzarria dei fisici — osservai.

— Aha.

— Perché hanno mandato i progetti se non possiamo usarli?

— Per nostra informazione e nell’eventualità che ci imbattessimo in una grande quantità di metallo, una grande quantità di silice e una moderna società industriale. Bisogna essere sempre preparati, come ha detto qualcuno. Forse Frederick Engels.

Mi grattai il naso. — Che cosa ti preoccupa?

— A parte il fred? Derek ha scoperto un blocco di rame. È largo un metro e, per quanto è in grado di stabilire, è puro. Si trovava sulla riva di un fiume. Depositato semplicemente lì in piena vista. Quassù dicono che forse potremo trovare le risorse per costruire il nuovo trasmettitore. Voi laggiù state scoprendo troppo. Perché non state zitti?

— Andiamo, Eddie. Sai che non possiamo farlo. La segretezza è nemica della democrazia. Ci sono altre notizie?

— Derek si sta spostando verso nord e verso ovest. Si trova solo a un centinaio di chilometri da te. Vorrebbe unirsi a te. Pensi che la tua amica sarebbe contraria a viaggiare con un uomo?

— Sì.

— Era quello che temevo.

Vidi qualcosa muoversi con la coda dell’occhio. — Devo andare. — Spensi la radio e la ficcai dentro lo zaino, poi mi guardai attorno e scorsi un animale bipede abbastanza simile a quello che avevo visto nel canyon. Questo, però, era di una nuova varietà, alto come me con una schiena color blu scuro. Il ventre era bianco panna, e aveva una cresta: un ciuffo di piume lunghe che risplendevano azzurre alla luce del sole. L’animale era intento a mangiare da un albero ricoperto di bacche, protendendo le lunghe braccia e strappando le bacche, una manciata alla volta. Si riempiva la bocca di bacche, poi inghiottiva e ne coglieva altre. Mi alzai. L’animale girò il lungo collo e mi fissò, poi riprese a mangiare. C’era qualcosa di stranamente umano nei suoi movimenti. Non poteva essere intelligente. La sua testa munita di cresta era piccolissima. Nondimeno, restai a osservarlo finché non ebbe finito di mangiare e non si fu allontanato. Poi tornai al villaggio.

Alla sera la sciamana tornò. La vidi entrare nel villaggio. Indossava una lunga Veste azzurra e un cappello fatto di penne. Cinque donne la seguivano. Due di loro portavano una barella sulla quale era distesa Nia. Aveva gli occhi chiusi. Sembrava addormentata.

— Non preoccuparti — mi disse Eshtanabai. — La nostra sciamana curerà la tua amica.

— Lo spero.

La sciamana disse: — Portate la donna nella mia casa. Andrò a raccogliere erbe medicinali.

Eshtanabai mi toccò il braccio. — Vieni con me. La sciamana non vorrà visitatori, fatta eccezione per i santi spiriti. E a te non piacerebbe incontrarli. Non è prudente.

— D’accordo.

Trascorsi la sera in casa di Eshtanabai. Mi sentivo irrequieta e turbata. Che cosa stava succedendo a Nia? Mi mordicchiavo le unghie e osservavo il fuoco. Eshtanabai giocava con i bambini. Dopo un po’ me ne andai fuori. Il villaggio era silenzioso salvo per il suono di un tamburo. Era forse la sciamana? Non lo sapevo. Guardai in su. Il cielo era limpido e le stelle splendevano luminose. Un vento fresco soffiava dalla pianura. Era un bel pianeta: puro e pulito, e quasi disabitato. Noi stavamo lavorando al nostro pianeta da oltre un secolo quando la nave era partita e il lavoro era continuato. Erano già due secoli. C’erano ancora sfregi ovunque: montagne spogliate, paludi avvelenate, vaste distese dove la terra era inutilizzabile, almeno per gli umani: erosa, arida o piena di sale, l’acqua esaurita, pompata completamente e utilizzata nel Ventesimo Secolo.

Che cosa avevano avuto in mente le popolazioni di allora? Avevano lasciato i loro discendenti quasi privi d’acqua e con enormi montagne di uranio. Che genere di eredità era mai quella? Come pensavano che saremmo sopravvissuti?

Ce l’avevamo fatta senza molto aiuto da parte loro. Era sorprendente quante persone eravamo riusciti a salvare. Quando pensavo alla Terra, mi venivano in mente masse di gente. Soltanto l’oceano era veramente disabitato, così come le calotte polari e le terre distrutte.

Guardai in su verso il cielo stellato e provai un terribile senso di perdita.

Non che la mia società non mi andasse a genio. Era sana, decorosa, umana, la migliore società che la Terra avesse mai conosciuto. Ma era enormemente complessa. Non c’era nulla di facile. Nulla di chiaro e lineare. Per la prima volta la storia era un processo consapevole. Per la prima volta gli individui potevano plasmare deliberatamente la propria vita, con la consapevolezza di ciò che facevano.

Discutevamo ogni punto. Votavamo. Venivamo a compromessi. Costituivamo fazioni e coalizioni. Pensavamo sempre alla giustizia e all’equità, alle conseguenze di quello che facevamo, al futuro.

Il tamburo s’interruppe. La brezza cambiò direzione. Ora sentivo gli odori dei fuochi per cucinare e delle latrine. Decisi di tornare dentro.

L’indomani mattina mi recai alla casa della sciamana.

Mi accompagnava Eshtanabai. — O santa — gridò. — La persona senza pelo è venuta a far visita.

La porta si aprì. La sciamana fece capolino. — La tua amica è ammalata. Brucia. Sento il calore nei punti in cui la sua pelliccia è sottile. Ed è debole. Ma la curerò. Non temere.

— Posso entrare?

La sciamana si accigliò, poi fece il gesto dell’assenso e aprì di più la porta.

Il fuoco era spento. La sola luce penetrava dall’apertura per il fumo: un raggio di luce dorata che scendeva obliquo e illuminava un vecchio canestro, scolorito e sformato. Ogni altra cosa nella casa era nascosta dall’oscurità. Vidi dei mucchi di roba, ma non avrei saputo dire di che cosa si trattasse.

— Nia? — Mi guardai attorno.

Uno dei mucchi si mosse e sollevò una mano. Mi avvicinai. Era Nia, che giaceva avvolta in una coperta.

— Come stai?

— Mi sento in modo orribile. Siediti. Tienimi compagnia.

Lanciai un’occhiata alla sciamana. Lei fece il cenno dell’assenso, così mi sedetti.

Nia chiuse gli occhi. Per un po’ di tempo non disse niente, infine parlò. — La sciamana è brava? Lo sai?

— Sembra che abbiano una buona opinione di lei.

— Bene. Forse allora vivrò. — Aprì gli occhi. — Enshi è venuto da me la notte scorsa. Porta male sognare i morti. Ma lui non mi ha minacciata. Scherzava e mi ha detto come si sta a vivere nel cielo. Non male, ha detto, anche se di quando in quando soffre la fame. È sempre stato un pessimo cacciatore. Perfino quando sono gli animali ad andare da lui, come fanno in quella terra, gli capita di mancare il bersaglio. Che uomo inutile! Ma raccontava delle belle storie, e aveva un carattere meraviglioso. Non si adirava mai. — Chiuse gli occhi. Attesi. Riaprì gli occhi. — Abbiamo fatto una cosa vergognosa.

Diedi un’occhiata attorno. La sciamana era sulla porta e stava parlando con Eshtanabai. Era troppo lontana per sentire.

Nia sollevò il capo e guardò le due donne, poi tornò a coricarsi. — Non voglio parlartene. Non qui. Non sono pazza. Sono stanca. Voglio dormire.

La lasciai e trascorsi la giornata a gironzolare per il villaggio, osservando i bambini che giocavano nelle strade e chiacchierando con madri e nonne. Erano persone cortesi e amichevoli. Una lavoratrice del rame mi mostrò come lavorava il metallo. Un’anziana donna mi raccontò come fosse stato creato il mondo da un seme lasciato cadere dall’uccello che vive sull’albero del sole. Alla sera cenai con Eshtanabai.

— La tua amica si rimetterà. Me l’ha detto la sciamana. La sciamana sostiene che la tua amica lavora il metallo. Le ha promesso un coltello.

Feci il gesto dell’affermazione, seguito da quello dell’approvazione.

— Appartiene al Popolo del Ferro?

— Sì.

— Loro vivono più a ovest, oltre il Popolo dell’Ambra. Ho sentito dire che sono violenti.

— Non saprei.

— A detta del Popolo dell’Ambra, litigano parecchio e quando fanno un dono, si assicurano sempre che il dono che ricevono in cambio sia altrettanto buono.

Feci il gesto che significava "può darsi" o "se lo dici tu".

L’indomani vidi di nuovo Nia. Nella buca ardeva un bel fuoco e la casa della sciamana era piena di fumo aromatico. La mia amica si era tirata su a sedere, la schiena appoggiata a un palo. Mi sedetti anch’io. La sciamana se ne andò, chiudendosi l’uscio alle spalle.

— Gliel’ho chiesto io — disse Nia. — Ho fatto un altro sogno. Ho visto Hua, la donna che mi ha allevata. È morta prima che qualcuno sapesse ciò che avevo fatto. Ma adesso lo sa. Ed è furiosa. Mi ha detto parole taglienti. Aiya! Se facevano male!

"Le ho risposto che ciò che avevo fatto non la riguardava affatto. E, in ogni caso, non avevo fatto niente di malvagio. E lei: ’Sono tutti d’accordo con me. È stata una cosa cattiva’. E io ho ribattuto: ’Racconterò la cosa a Li-sa. Lei viene da molto lontano. Sa come vengono fatte le cose in luoghi diversi. Lasciamo decidere a lei se la cosa che ho fatto era malvagia oppure no’. Poi mi sono svegliata." Nia mi guardò. Trovavo difficile decifrare l’espressione del suo viso, ma ebbi l’impressione che fosse stanca e infelice.

Le dissi: — Raccontami la tua storia, se lo desideri.

Nia aggrottò la fronte e si grattò il naso. Poi incominciò. Fino a quel momento l’avevo giudicata un tipo forte e di poche parole. Non aveva mai parlato molto, ma ora le parole le uscivano facilmente. Doveva essersi esercitata a ripetere la sua storia. Me la figurai mentre la raccontava, molto probabilmente a se stessa. Doveva averla provata più e più volte, cercando di dare un senso a quanto era accaduto.

— Il primo errore è stato questo: ho aiutato Enshi a incontrare sua madre. Non so perché l’ho fatto. Lui è sempre stato molto bravo con le parole. Riusciva sempre a far sembrare giusto e ragionevole quello che voleva.

"Lo accompagnai fino dentro il villaggio, di notte, naturalmente, e aspettai fuori della tenda. Lui e sua madre parlarono. Sua madre gli diede dei doni. Enshi aveva perduto i doni che aveva ricevuto in precedenza. Era tipico di lui. Quando ebbe finito, andai con lui ai margini del villaggio. E ora viene il secondo errore." Nia serrò una mano e colpì il terreno. — Enshi voleva tornare di nuovo. Si sentiva solo sulla pianura. Disse che sarebbe morto là fuori in quel deserto se non avesse avuto qualcosa da aspettare con ansia. Il fuoco caldo nella tenda di sua madre, buon cibo, nuovi indumenti. Come sapeva parlare bene! Accettai di aiutarlo. — Nia si massaggiò la faccia. — Che sciocca sono stata!

"Sua madre incominciò a lamentarsi delle sue vicine. Diceva che c’era troppo baccano nel villaggio. Era stufa dell’odore della cucina delle vicine. C’erano troppe immondizie. C’erano troppi insetti. Incominciò con il montare la propria tenda lontano da tutte le altre. L’avevano progettato insieme loro due. Adesso era facile per Enshi trovare la tenda della madre, ed era improbabile che qualcuno lo vedesse.

"Ma avevano bisogno di qualcuno che portasse messaggi dentro e fuori il villaggio. Avevano bisogno di qualcuno che stesse di guardia quando lui veniva. Lo feci per tutta l’estate e tutto l’autunno. In inverno lui non poteva entrare nel villaggio. La gente avrebbe visto le sue impronte nella neve. Andavo io a cercarlo, portandogli cibo e un mantello nuovo, un mantello folto fatto di pelliccia. In primavera ci incontrammo e ci accoppiammo. Avvenne fra le colline. Era lì che stavano i giovani. Lui aveva il peggior territorio possibile. Era tutto pietre, tutto un salire e scendere. Lì non c’era niente da mangiare. Nondimeno, andai da lui." Diede di nuovo una botta sul terreno. — Forse Hua ha ragione. Forse sono davvero una pervertita.

Non dissi una parola. Nia continuò. — Non aveva niente di valore da donare. Raccoglieva delle cose: penne da un cespuglio o pietre che luccicavano alla luce del sole. Componeva delle poesie. Che genere dj dono è mai quello? Era un uomo inutile! — S’interruppe un momento. Aveva un’aria perplessa. — Quando mi trovavo con lui, sentivo… non so come definire quel sentimento. Avevo la sensazione di aver trovato una nuova parente, una sorella o una madre. Qualcuno con cui stare seduta alla sera, qualcuno con cui chiacchierare. Mi sentivo soddisfatta. Quando il periodo della smania fu terminato, rimasi ancora. Mi piaceva restare lì. Mi trattenni altri dieci giorni. Poi tornai a casa, e le persone mi chiesero che cosa fosse successo. Risposi che il mio cornacurve si era azzoppato. Raccontai loro che ero stata costretta a fare a piedi buona parte della strada del ritorno. Ormai ero una bugiarda. — Aggrottò la fronte. — Che cosa accadde in seguito? Ci spostammo a nord e piantammo le nostre tende nella regione dell’estate. La vecchia Hua si fece male. Si provocò una bruciatura mentre lavorava alla fucina. La bruciatura non guarì. La sua gamba incominciò a marcire. Alla fine morì.

"Tutti dissero che era morta come si conviene a una donna, senza lamentarsi o fare un gran baccano. Gli spiriti erano contenti di lei. È quello che diceva la gente. Io lo trovavo difficile da sopportare.

"Dopo che fu sottoterra, la sciamana eseguì le cerimonie della purificazione e le cerimonie per scacciare la sventura."

— Perché? — chiesi.

Nia parve sorpresa. — Tutte le morti sono infauste, e Hua era morta inaspettatamente. Era vecchia ma forte, e si era già bruciata parecchie volte prima di allora. Le bruciature erano sempre guarite.

Feci il gesto che significava "capisco" o "vedo".

— La cattiva sorte rimase — proseguì Nia. — Dapprima non sembrava che fosse così. L’estate era propizia. C’era abbastanza pioggia. I fiumi erano pieni di pesci e gli arbusti avevano tante di quelle bacche che i loro rami si piegavano fino a toccare il suolo. Avevamo da mangiare in abbondanza.

"Alla fine dell’estate arrivarono al villaggio persone provenienti da occidente. Portarono stagno e pellicce bianche. Una di loro si ammalò, poi morì. La nostra sciamana morì. Io mi ammalai e lo stesso accadde a Nuha. Era la madre di Enshi. Era uscita di senno e continuava a gridare: ’Enshi! Enshi!’. Poi chiese agli spiriti di perdonarla. Disse che era tutta colpa mia. Suo figlio non avrebbe mai fatto niente di sbagliato. L’avevo spinto io a comportarsi in modo vergognoso. Avevo fatto infuriare gli spiriti. Promise a tutti che se fosse morta non se ne sarebbe andata via. Il suo spirito sarebbe rimasto nel villaggio e avrebbe trovato il modo di vendicarsi di me.

"Nuha morì. Io mi ristabilii, anche se per qualche tempo pensai che sarei morta anch’io. Quando fui in grado di alzarmi e di camminare, le vecchie del villaggio mi invitarono ad andarmene.

"Aiya! Quanto era difficile! Chiesi loro di lasciarmi restare. Le supplicai. Ma loro dissero: ’Vattene’.

"Andai in cerca di Enshi, e noi due insieme ci dirigemmo a sud finché non arrivammo alle Colline del Ferro. Erano a metà strada fra la terra dell’estate e la dimora invernale. Laggiù il suolo è rosso. I fiumi e i torrenti sono marroni come la ruggine. Ogni anno alcune donne vanno laggiù a estrarre il ferro. Restano fino all’autunno, scavando il ferro e fondendolo per ricavarne delle barre. Poi si ricongiungono con il villaggio. Quando arrivammo fra quelle colline, le donne stavano ormai facendo i bagagli. Ci nascondemmo fra i cespugli. Esse caricarono i loro carri e finalmente se ne andarono.

"Trovammo un riparo all’entrata di una miniera. Era costruito di legno e di pietra e la donna che l’aveva fabbricato si era lasciata dietro alcuni dei propri utensili. Trovammo un’ascia, un piccone e un badile. C’era anche un’incudine, una grossa incudine, troppo pesante da trasportare.

"Restammo lì tutto l’inverno. Rischiammo di morire di fame. Avevo un bambino dentro di me, ma morì e venne fuori come sangue. Enshi riteneva responsabile la propria madre. La pregò di andarsene, poi le disse: ’Fa’ del male a me! Fa’ del male a me! Sono io che ho agito in modo ignobile’."

Nia smise di parlare. Io cambiai posizione e mi massaggiai le gambe. Incominciavo a sentirle intorpidite.

— In primavera ci addentrammo di più fra le colline. Le donne tornarono. Rubavamo a loro. Enshi era bravo in questo. O almeno era più abile di me.

"Trovammo un fiume pieno di pesci: molto più dentro fra le colline, lontano da tutti gli altri. Nelle vicinanze c’era una scogliera rossa di ferro. Fabbricai delle trappole per catturare pesci. Enshi imparò a estrarre il ferro. Costruimmo un rifugio e io montai una fucina. Nuha ci lasciò in pace." Nia aggrottò la fronte. — Non provavo una particolare vergogna. C’erano giorni in cui mi pareva che ciò che facevamo fosse giusto. Che cosa c’era di sbagliato in me?

Feci il gesto che significava "nessun commento".

— Quell’inverno avevamo cibo in abbondanza. Alla fine dell’inverno io ebbi una bambina. Le diedi il nome Hua. A Enshi piaceva. La teneva in braccio e le parlava. Qualche volta lei lo faceva arrabbiare, ma lui non gridava né menava colpi. La metteva giù e andava a fare una passeggiata. Era pazzo, senza dubbio.

Io girai la mano per dirle "forse sì e forse no".

— Ho la gola secca. Vuoi portarmi qualcosa da bere? — Mi fece cenno col dito. Andai a prendere una brocca d’acqua. Nia ne bevve un bel sorso. — Aiya! Quanto è buona! Che cosa stavo dicendo?

— Hai avuto una bambina.

— Due. L’altro era un maschio. Anasu. Nacque il terzo inverno che passammo fra le colline. A quel punto mi ero abituata a stare da sola, a parte Enshi e i bambini. Mi piaceva. Mi piace ancora. Ci sono troppe chiacchiere in un villaggio. Troppi pettegolezzi. Troppe discussioni. Ma non fra le colline. Lassù è tutto tranquillo. Una volta ogni tanto Enshi diventava irrequieto e si allontanava da solo. A volte io facevo lo stesso. Quelli erano i momenti che preferivo, credo. Salivo finché non c’era più niente sopra di me all’infuori del cielo. Stavo al di sopra di tutto. Mi sedevo ad ascoltare il vento. Allora mi sentivo soddisfatta.

"Dopo di che dovevo tornare giù ad aiutare Enshi con i bambini.

"Tutto questo andò avanti per cinque inverni. Poi, una primavera, arrivò il pazzo. Si avvicinò cavalcando, una mattina. Il suo cornacurve era così magro che avrei potuto contare ogni costola. Quanto all’uomo, era lacero e grigio. Aveva perso un occhio e il suo aspetto era orribile.

"Mi trovavo nella fucina e battevo un pezzo di ferro per un piccone. Enshi era andato a caccia. E i bambini… non ricordo dove fossero. Vicino a me, immagino.

"Udii una voce. Era aspra e profonda. ’Sei pronta, donna?’

"Alzai lo sguardo. Lui smontò e venne verso di me. ’È il tempo?’ chiese.

"’No’ risposi. ’Che cosa ci fai qui?’

"Lui si fermò e inclinò la testa di lato. Ricordo questo particolare e ricordo lo sguardo del suo unico occhio. Era folle. Succede ai vecchi. Perdono il loro territorio; gli uomini più giovani li cacciano via. Ma loro non si arrendono. Rifiutano di tornare al villaggio. Invece continuano a vagabondare da soli. Non hanno un posto. Dimenticano le regole e le usanze. Sono pericolosi.

"Strinsi con forza il mio martello.

"Lui disse: ’Presto. Un altro giorno o due. So giudicarlo. Ero solito avere cinque donne, sei donne, in una stagione. Aiya! I doni che portavano e l’odore dei loro corpi’.

"’Vattene’ gli dissi. ’Non ti voglio qui.’

"’Posso aspettare’ ribatté lui. ’Ho aspettato già molto tempo. Resterò.’

"Fu allora che vidi Enshi alle spalle dell’uomo, con in mano il suo arco. ’No’ disse. ’Questa donna è mia. Vattene di qui.’

"Il vecchio si girò. ’Tu, piccola creatura pelle e ossa! Credi di poterti confrontare con me? Ho incontrato uomini grossi il doppio di te. Ed erano loro ad abbassare lo sguardo. Erano loro ad andarsene.’

"Enshi sollevò l’arco. C’era una freccia pronta, sistemata contro la corda. Incominciò a tendere l’arco. ’Ti ucciderò, vecchio. Ti conficcherò una freccia nel ventre.’

"Il vecchio disse: ’Questo è oltraggioso. Non sai come vanno fatte queste cose? Nessun vero uomo usa mai una freccia contro un altro uomo. Un coltello è l’arma appropriata. Anche una clava va bene. Ma niente che uccida da lontano. Un vero confronto avviene corpo a corpo’.

"Enshi parlò in risposta. Disse: ’Non mi importa quali siano le regole. Questa donna è mia. Farò ciò che devo per tenermela’."

Nia fece una breve pausa. Il suo viso appariva pensieroso. — Sollevai il mio martello e dissi: "Neppure a me importa delle regole. Se mi verrai vicino, ti ucciderò, vecchio. Credimi. Dico la verità".

"Che altro c’è da dire? Il vecchio rinunciò e se ne andò. Il giorno dopo ebbe inizio la smania. Enshi e io restammo insieme per tre giorni. Credo che sia giusto. Forse quattro giorni. Una mattina mi svegliai. La luce penetrava dalla porta del nostro rifugio. Enshi era vicino a me. Il vecchio gli stava sopra. Lo vidi conficcare il coltello nella gola di Enshi. Anasu gridò. Mi alzai, ma era troppo tardi. Il vecchio era completamente pazzo e forte come talvolta lo sono i pazzi. Era molto più forte di me, e io non sono una persona debole. Mi spinse a terra e ficcò il suo pene dentro di me. Cercai di liberarmi. Lui mi colpì. Il coltello che teneva in mano mi fece un taglio sulla spalla. Ho ancora la cicatrice. I bambini piangevano. Tutti e due. Il vecchio faceva dei grugniti. Lo morsicai. Mi colpì di nuovo." Nia si accigliò. — Qualche volta me lo sogno ancora. Ho del sangue in bocca. C’è del sangue per terra. Sento il vecchio sopra di me e dentro di me. Sento piangere i bambini. Nel sogno, so che Enshi è morto. Dopo un po’ mi sveglio.

"Ma allora non mi svegliai. Il vecchio restò finché la smania non fu terminata. Furono cinque o sei giorni. Ci accoppiammo più e più volte." Nia serrò i pugni. "Quando non ci accoppiavamo, mi teneva legata. Non era stupido, sebbene fosse pazzo. Sapeva che avrei preso i bambini e sarei fuggita. Diceva che ero io la pazza. Nessuna donna normale gli avrebbe ordinato di andarsene. Nessuna donna normale avrebbe cercato di respingerlo.

"I bambini avevano fame. Piangevano. Allora mi slegò in modo che potessi dar loro da mangiare. Ma non volle lasciarmi seppellire Enshi. Trascinò il suo corpo fuori dal rifugio e lo lasciò disteso lì allo scoperto, nello spiazzo fuori dalla porta. Il tempo era molto caldo. Enshi si gonfiò. Incominciò a puzzare. Arrivarono insetti e uccelli. Quando la porta della capanna era aperta, riuscivo a vederli banchettare. Hua continuava a dire: ’Che cosa c’è che non va? Che cosa è successo a Enshi?’.

"Le dissi di stare tranquilla. Avrebbe fatto infuriare il vecchio.

"Che altro potrei dire? Due uomini si erano scontrati nel periodo degli accoppiamenti. Uno aveva ucciso l’altro. Era una cosa che non accadeva spesso, ma non era sbagliata. Perché continuavo a pensare che fosse sbagliata? Perché odiavo il vecchio? Aveva il diritto di accoppiarsi con me. Aveva vinto lui, sebbene forse non in modo del tutto leale."

Nia smise di parlare. Attesi. Avevo un gusto aspro in bocca e non riuscivo a pensare a niente da dire.

— La smania finì e il vecchio se ne andò. Seppellii Enshi. Diedi da mangiare ai bambini, li pulii e li consolai. Poi sellai i nostri animali.

"Portai i bambini con me. Non potevo fare altro. Tenevo in braccio Anasu mentre Hua cavalcava il cornacurve di Enshi. Dovetti legarla alla sella. Seguimmo le tracce del vecchio. Ci vollero due giorni.

"Lo trovai ai piedi delle colline, ai margini della pianura. Si era acceso un fuoco nell’ultimo boschetto prima che iniziasse la pianura. Aiya! Ricordo quello che provai quando vidi il suo fumo salire in volute verso il cielo!

"Legai i cornacurve. Misi a terra i bambini e dissi a Hua di tenere d’occhio suo fratello. Dissi loro di non piangere, che sarei tornata presto, e scesi lungo la collina. Adesso avevo un arma. Un arco. Era lo stesso che era appartenuto a Enshi. Ricordo il momento della giornata. Appena dopo il tramonto. Il cielo a occidente era arancione. Il fuoco del vecchio brillava fra gli alberi. Mi avvicinai strisciando. Lo vidi rannicchiato accanto al fuoco." Nia s’interruppe. "Lo colpii nella schiena. Lui gridò e cadde riverso. Lo colpii di nuovo.

"Che altro c’è da dire? Mi accertai che fosse morto. Poi spensi il fuoco e tornai dai miei bambini. Erano rimasti in silenzio, nascosti in un cespuglio, come un paio di cuccioli di cornacurve. Aiya! Com’erano stati bravi! Li lodai e diedi loro da mangiare.

"In seguito mi recai a nord fino al villaggio. Affidai i bambini ad Angai. Adesso era lei la sciamana. Mi disse che li avrebbe cresciuti nel modo giusto. Io non potevo. Mi diressi verso est e finii dove mi hai trovata, nel villaggio di Nahusai."

Nia si appoggiò all’indietro e chiuse gli occhi. Doveva aver perso peso in quegli ultimi giorni. La sua faccia appariva più magra del solito ed era facile scorgere le ossa, perfino sotto la pelliccia. Aveva la mascella pesante. La fronte era rotonda e bassa. Gli zigomi erano grossi e non c’era alcuna rientranza dove il naso si univa alla fronte. Saliva diritto, ampio e piatto fino in cima. Aprì gli occhi e batté le palpebre. — Decidi tu fra noi due. Ha ragione Hua? Sono una pervertita?

Alzai lo sguardo in cerca di ispirazione. L’apertura per il fumo era scura. C’era qualcosa lassù che bloccava la luce.

Che diavolo? Mi alzai in piedi.

La cosa si mosse. Entrò di nuovo la luce del sole. Riuscivo a vedere il cielo. — Torno subito — dissi a Nia. Uscii e mi girai.

Come tutti i tetti del villaggio, anche questo era ricoperto di vegetazione. Le piccole foglie rotonde splendevano alla luce del sole e c’erano fiori arancioni. Fra i fiori svolazzavano gli insetti. Avevano ali gialle. Più o meno a metà della pendenza del tetto c’era la sciamana. La lunga veste era tirata su e potevo vederle le gambe. Erano ossute e pelose, con grosse ginocchia.

— Hai ascoltato dall’apertura per il fumo. Hai sentito quello che ha detto Nia.

— I miei occhi saranno cattivi, ma le mie orecchie sono le migliori del villaggio. Aiya! Che racconto disgustoso! Dovrei costringervi ad andarvene oggi. — Scese fino al bordo del tetto e si sedette. — Aiutami.

Mi protesi verso la donna, che si lasciò cadere fra le braccia. Era leggera e puzzava. Era un miscuglio di odori, conclusi mentre la mettevo giù. Pelo, muschio e alito cattivo. La vecchia aveva bisogno di un dentista. Feci un passo indietro.

— La Voce della Cascata ha detto di aiutarvi e quindi devo farlo. Quel pazzo! Perché non è cresciuto nel modo giusto e non è andato a raggiungere i suoi fratelli? Ma lui no, quel folle! Lui doveva sentire voci e vedere cose nei sogni. Vado a parlare con lui e quello danza qua e là e farfuglia. Nudo, per di più. Uno di questi inverni si prenderà una brutta infreddatura e morirà. Lascia che te lo dica, è duro fare la madre. Adesso, vattene via! La donna là dentro è debole. Ha bisogno di riposare.

Aprii la bocca.

— Non le dirò quello che ho sentito. Va’! Levati di mezzo!

Mi voltai e mi allontanai. Alle mie spalle la sciamana brontolava. Udii la parola "perversione" e la parola "disgustoso". Poi disse ad alta voce: — Perché queste cose capitano a me?

Continuai a camminare finché non arrivai a casa di Eshtanabai. La donna era seduta sulla soglia, appoggiata all’intelaiatura della porta, e aveva l’aria tranquilla e soddisfatta.

Mi fermai. Lei alzò lo sguardo. — Come sta la tua amica?

— Meglio. Dimmi, com’è la sciamana?

— Vecchia e bizzarra. Molti dicono che non è più quella di un tempo. Ma ricorda ancora le cerimonie. Parla del passato. Le donne anziane lo fanno sempre. E si preoccupa dei suoi figli. Non delle figlie. Queste si trovano nel villaggio. Sa come tirano avanti. Si preoccupa dei figli maschi. Ne ha avuti cinque e sono vissuti tutti abbastanza a lungo per subire il cambiamento. Quattro si trovano su a nord, se non sono già morti. Il quinto, il più giovane, l’hai conosciuto. È nato dal suo ultimo accoppiamento, quando stava già diventando vecchia. Forse è per questo che è diventato un oracolo. Le donne anziane hanno figli strani. Lo sanno tutti. Perché me lo domandi?

Feci il gesto che poteva significare qualsiasi cosa o niente, il gesto dell’incertezza.

— Non è un gran che come risposta. — Eshtanabai si alzò in piedi. — Vieni dentro. Ho un po’ di bara.

Era la bevanda alcolica indigena. O, per lo meno, la sostanza inebriante indigena sotto forma di liquido.

— Ci ubriacheremo. Non ho nient’altro da fare per oggi. — Mi precedette dentro casa.

La seguii. Perché no? Ci sedemmo accanto al fuoco. Era un mucchio di tizzoni. Vedevo un minuscolo rosseggiare in fondo al mucchio, dal quale saliva un filo di fumo che si avvolgeva in volute nel raggio di luce che penetrava dall’apertura nel soffitto. Eshtanabai riempì due scodelle e me ne porse una. Bevvi. Il liquido era amaro e mi bruciava in bocca. Tossii, poi deglutii.

— Bevine ancora — fece lei. Vuotò la sua tazza, poi la riempì. — Ascolta. — Si protese in avanti. — Credo che tu sia preoccupata per la sciamana. È una brava donna. Vecchia e stramba, ma brava. Ma non tutto quello che esce dalla sua bocca è santo. Soltanto un oracolo è santo in ogni momento, ed è una terribile tensione. La maggior parte degli oracoli muoiono giovani. Bevi ancora un po’. Ti farà bene. È dura starsene seduti ad aspettare che qualcuno che si ama si ristabilisca.

Bevvi il resto del bara.

Eshtanabai me ne versò dell’altro. — La sciamana è spesso santa, ma a volte è una vecchia sciocca, che parla dei propri figli. Noi cerchiamo di essere gentili, e non è facile. L’anno scorso abbiamo mandato via un ragazzo, e lei si è ubriacata. Non ha cantato le canzoni appropriate, le canzoni che dicono al ragazzo: "Sii coraggioso! Stai facendo quello che è giusto!". Ha cantato della donna che si è accoppiata con il vento. Quella canzone non è quella adatta.

— Di che cosa parla?

— Non la conosci? È una storia molto vecchia. È successa molto tempo fa, quando vivevamo come il Popolo dell’Ambra. Le nostre case erano tende e noi seguivamo la mandria. C’era una donna che si allontanò nel periodo dell’accoppiamento. Ci fu un terribile uragano quell’anno. I cornacurve fuggirono in preda al panico e gli uomini li inseguirono. Di conseguenza questa donna non trovò un uomo. La smania finì. Lei tornò al villaggio. Dopo un po’ di tempo si vide chiaramente che era gravida. Verso la fine dell’inverno ebbe una figlia. Era la figlia del vento. Nessuno riusciva a vedere la neonata ed era difficile da trovare. Quando aveva fame, andava dalla madre a poppare. Allora, toccandola, la madre apprese che era una femmina e coperta di soffice pelliccia. Ma per la maggior parte del tempo la bambina era irrequieta. Correva nella tenda della madre. Correva per il villaggio. Un giorno fuggì dal villaggio nella pianura. Non ritornò mai più. Sua madre sapeva che sarebbe successo. Compose una canzone per la figlia prima che se ne andasse. Fa così:

"Hola!

mia piccina.

Hola!

mia figlia del vento.

"Adesso turbini

nella mia tenda

Adesso fai svolazzare

i tendaggi.

"Presto te ne andrai

nell’immensa pianura

per sempre."

"È questa la canzone che la vecchia cantò quando allontanammo dal villaggio il ragazzo. Tutti s’infuriarono, soprattutto la madre del ragazzo. Una donna ha numerosi rituali nella sua vita. Un uomo ne ha soltanto uno: la cerimonia di addio. E la vecchia l’aveva rovinata. Ne aveva fatto una triste ricorrenza. Ma che cosa possiamo fare? Non è facile trovare una brava sciamana, e questa è eccellente. E gli spiriti mandano la pioggia per i nostri orti quando lei glielo chiede. Prendi ancora da bere."

Bevemmo. Eshtanabai mi raccontò della vecchia sciamana, quella che avevano avuto prima di questa. Era una donna avida.

— Aiya! Aveva una casa piena di oggetti. Più diventava vecchia, più pretendeva. Chiedeva più di quanto valessero le cerimonie. Noi glielo davamo. Eravamo costrette. Nessuno desiderava la malasorte o la collera degli spiriti. Ma gli spiriti si adirarono ugualmente. Le cerimonie non funzionavano.

— Perché?

Eshtanabai aggrottò la fronte. — Perché davamo troppo. Guarda. Io riempo la tua ciotola. Sono generosa. La riempio fino all’orlo. Questo è un dono adeguato. Tu ne hai abbastanza e ciò ti rende contenta. Io so che mi darai qualcosa in cambio e ciò mi rende contenta. Ma se continuo a versare e il bara trabocca, se ti bagna le mani e si rovescia sui tuoi indumenti e sul pavimento, non è un dono opportuno. È un insulto e un pasticcio.

"Un dono è un legame. Ma soltanto uno sciocco lega una corda forte a un pezzetto di cordoncino. Devi legare fra loro solo cose simili, altrimenti il nodo si scioglierà o si spezzerà."

— Ne sei sicura?

Eshtanabai batté le palpebre. — Quello che so è che gli spiriti non ascoltavano quella donna. I suoi rituali non ci facevano ottenere niente. Trovammo una nuova sciamana, una che prende ciò che è giusto e dà ciò che è giusto, anche se è mezza matta e parla dei propri figli. Ecco. Lascia che ti faccia vedere di nuovo. — Versò dell’altro liquido. — Fino all’orlo e non di più. Che cosa mi darai, o senzapelo?

Mi recai dov’era il mio zaino, tirai fuori una collana e gliela diedi. Lei mi offrì altro bara. Le diedi un braccialetto scolpito ricavato da un legno indigeno e intarsiato con i denti di una specie di pesce locale. Era stato Derek a fare il braccialetto. Era un eccellente artista. Era ormai il crepuscolo e il cielo a occidente era di un rosa arancione. Alta nel cielo c’era una delle lune: un brillante punto luminoso. Pensai che stavano succedendo troppe cose e non ne avevo più il controllo. Oh, bene. Andai nella parte posteriore della casa e crollai addormentata su un mucchio di pellicce.

L’indomani mattina tornai a casa della sciamana. Nia era seduta e mangiava una ciotola di poltiglia. — Perché hai difficoltà a camminare? — mi domandò.

— Ho fatto una cosa stupida. Ohi, la mia testa! — Mi sedetti.

— Non sei più tornata ieri.

— La sciamana mi ha detto che avevi bisogno di riposo. — Vedevo Nia sfocata. Mi fregai gli occhi.

— Non mi hai dato una risposta. — Nia mise giù la sua ciotola. C’era un grumo di poltiglia sul fondo. Lei lo raccolse con un dito e se lo mise in bocca. — Ho ragione io? Oppure ha ragione Hua?

— Che cosa?

— Sono una pervertita?

Mi massaggiai il collo. — Come faccio a saperlo? Ma posso dirti questo: le persone hanno usanze diverse. Ci sono posti in cui gli uomini e le donne vivono insieme come facevate tu ed Enshi. Ci sono posti in cui la gente direbbe che ciò che ti ha fatto il vecchio è stata una cosa orribile.

— Ah! — esclamò Nia. — Dove sono quesi posti?

— Molto lontano da qui.

— Forse un giorno andrò in un posto così.

Non dissi una parola. Il mio mal di testa stava peggiorando e avevo difficoltà a concentrarmi.

Nia si grattò il naso. — Ma forse non mi piacerebbe un posto simile.

— Forse no.

Alla sera mi recai al fiume. Faceva molto caldo ed era umido e afoso laggiù. L’aria brulicava di insetti. Feci una chiamata a Eddie e gli raccontai la storia di Enshi.

— Interessante. Sembra che abbiano inventato la monogamia. Mi riferisco a Nia e a Enshi.

— E il vecchio ha inventato lo stupro.

— Uhu. — Non disse più nulla per un minuto o due. Lo stupro era un argomento che rendeva nervosa la maggior parte degli uomini. Finalmente parlò. — Abbiamo fatto un altro rilevamento col satellite. Non ci sono città. Nemmeno una. Secondo Tony, la cosa ha senso. Gli uomini non possono sopravvivere in un’area urbana. E gli uomini devono essere vicini alle donne. Altrimenti l’accoppiamento sarebbe difficile, forse impossibile. L’intera specie è ferma a uno stadio di sviluppo pre-urbano, e lo sarà sempre.

Un insetto mi volò su per il naso. Sbuffai e tossii. Un secondo insetto mi volò in bocca. Lo sputai fuori. — Eddie, non posso restare qui. Ci sono insetti dappertutto.

— Okay. Harrison vuole che ti informi sulla guerra. Non crede che esista su questo pianeta.

— Okay. — Corsi al villaggio. Il cancello era chiuso. Dovetti gridare e picchiare sul legno finché non arrivò qualcuno che mi fece entrare.

Il giorno seguente parlai con Eshtanabai. Lei non aveva mai sentito parlare di violenza organizzata. — Come potrebbe accadere una cosa del genere? Capita talvolta che due uomini si incontrino e nessuno dei due accetti di cedere. Allora si battono. E ci sono donne folli che litigano con le loro vicine. Ma nessuno si schiererà con una donna litigiosa. E nessuno prenderà mai le parti di un uomo.

Mmm, pensai. Mi trovavo su un pianeta dove non esistevano guerre, né città, né amore sessuale. Era un bene o un male? Non avrei saputo dirlo.

Eshtanabai mi tese una scodella. — Prendi un po’ di bara. Beviamo e parliamo di qualcosa che abbia senso.

Dopo un po’ domandai: — Perché avete palizzate attorno al vostro villaggio?

— Ci sono animali sulla pianura. Assassini. Seguono la mandria. E quando la mandria arriva a sud, si aggirano in cerca di prede. Cercano qualsiasi cosa si possa mangiare. Rifiuti. Bambini. La palizzata è per tenerli fuori.

— Aiya!

— Inoltre, a noi piacciono le palizzate. Ci sentiamo più a nostro agio quando ci guardiamo attorno e vediamo che siamo rinchiuse.

La cosa aveva un significato logico per me. Ero cresciuta su un’isola. Il vasto oceano non mi disturbava, ma non mi ero mai sentita del tutto felice nella pianura centrale americana. Ce n’era troppa. Non mi sentivo a mio agio ritta su un pezzo di terra che si estendeva, apparentemente, senza fine.

Chiacchierammo di altre cose. Mi mantenni più o meno sobria. Eshtanabai era chiaramente confusa. Aveva forse un problema con le sostanze inebrianti? In questo caso, perché? La tensione di fare la mediatrice? Oppure c’era qualche altro problema, psicologico o fisico, del quale non sapevo nulla?

Dormimmo. Mi svegliai con la luce del sole. Nia venne a farmi visita, zoppicando e appoggiandosi a un bastone.

— Sono pronta a partire — dichiarò. — Questo posto mi rende irrequieta, e la sciamana mi rivolge delle occhiatacce molto brutte.

— Riesci a camminare a stento — le dissi.

— A questo proposito so che cosa fare. Non pensare di restare qui ancora per molto tempo.

Si allontanò zoppicando. Mi diressi verso la casa accanto. C’era un’anziana donna che sapeva tutto quello che c’era da sapere sui rapporti di parentela. Così almeno mi aveva detto la mia ospite.

Nia tornò nel tardo pomeriggio. Io ero seduta fuori dalla porta, accanto all’anziana donna. Mi stava spiegando gli obblighi fra sorelle e i figli delle sorelle.

Nia si fermò e si appoggiò al suo bastone, un rozzo pezzo di legno. Aveva ancora la corteccia e vicino alla parte superiore spuntava un ramoscello. — Partiamo domani. Ho dato i miei attrezzi alla lavoratrice del rame. Lei mi ha dato in cambio due cornacurve. Possiamo cavalcare.

L’anziana donna si accigliò. — Mi stai interrompendo. Stavo per spiegare chi offre i doni a un ragazzo quando è pronto a lasciare il villaggio. Questa persona senza pelo è sorprendente. Non sa niente di niente. Ma è disposta ad ascoltare, e non interrompe.

Nia emise un suono iroso. — Me ne vado. Ma sta’ pronta, Li-sa. Voglio partire all’alba. — Se ne andò zoppicando.

La vecchia terminò la sua spiegazione. Le diedi una collana fatta di perline di legno. Il legno veniva da un’isola dell’oceano occidentale, un luogo freddo e piovoso che mi faceva pensare a Ecotopia nel Nord America. Questo… il legno, non Ecotopia… era rosso e di grana molto sottile, pieno di pieghe e volute. La superficie lucidata luccicava.

— Aiya! - esclamò l’anziana donna. — Questa farà colpo su tutti. — Si mise la collana.

Torni a casa di Eshtanabai. La mia ospite era fuori; ritenni che stesse lavorando nel suo orto. Mi sedetti. A suo tempo tornò.

— State per partire.

Feci il cenno dell’assenso.

— Bene.

— Che cosa?

— La sciamana è furiosa. Se restate, ci sarà un litigio, molto brutto. Non c’è niente di peggio di una sciamana adirata.

— Immagino che tu abbia ragione. — Riflettei un momento. — Che cosa è successo alla vecchia sciamana? Quella avida? Doveva essere furiosa quando avete trovato qualcuno per sostituirla.

— Era furiosa. Ma non aveva potere. Gli spiriti avevano cessato di ascoltarla. Se ne è andata via sulla pianura. Con ogni probabilità è morta. O ha trovato un altro villaggio. — Eshtanabai sembrava totalmente disinteressata.

Erano gente fredda. Era forse perché non amavano come noi? Poi mi ricordai di Hakht e di Nia. Nessuna delle due era fredda.

— Questa sera mangeremo bene — disse Eshtanabai. — Pesce del fiume e un uccello grasso. Domani vi darò del cibo per il viaggio.

— Grazie.

Mangiammo bene. Il pesce era farcito di verdure e arrostito. L’uccello era cotto in umido. Bevemmo un sacco di bara. Venne gente a farci visita e a guardarmi fissamente. La vecchia della porta accanto fece sfoggio della sua collana. Uno dei bambini di Eshtanabai suonò un flauto. Un altro batté su un tamburo. Tutt’a un tratto Eshtanabai balzò su. Afferrò un ramo dal fuoco e lo fece roteare attorno alla testa. Poi corse fuori dalla casa. Tutti noi la seguimmo. Fuori nella strada la mia ospite danzava, girava e agitava la sua torcia. Le altre donne gridavano: — Hola! — I due bambini continuavano a suonare il flauto e il tamburo. Eshtanabai cantava nella sua lingua, che io non comprendevo. Incedeva impettita avanti e indietro. Le altre donne facevano gesti di approvazione e affermazione.

Che cosa stava succedendo? Mi guardai attorno. Nia era appoggiata contro la parete di una casa. Teneva le braccia conserte e la fronte aggrottata.

— Che cos’è? — domandai.

— Non so dirti le parole, ma so che cosa significano. Lei si sta vantando. Sta dicendo: "Io sono saggia. Sono prudente. Posso appianare ogni lite". Dice loro: "Io sono generosa. Voi avete mangiato il mio cibo. Io ho trovato un modo per liberarci da queste strane persone che ci hanno messe tutte a disagio. Vedrete tutto il bene che faccio per voi". È questo che sta dicendo.

Era un discorso politico. Osservai con interesse. Comparvero altre torce. Adesso danzavano tutte all’infuori di me e di Nia. I bambini si arrampicavano in cima alle case, saltavano fra il fogliame e gridavano. Eshtanabai proseguiva nella sua cantilena.

Dopo un po’ Nia disse: — Il Popolo del Rame è sempre lo stesso. Fa sempre troppo baccano. Me ne vado a dormire. — Se ne andò zoppicando.

La festa finì all’incirca un’ora più tardi. Non era rimasto più niente da bere né da mangiare. Eshtanabai aveva detto tutto quello che aveva da dire. Andammo tutti a dormire. All’alba arrivò Nia e mi svegliò scrollandomi. Io brontolai e mi girai dall’altra parte.

— Muoviti — mi sollecitò Nia.

Andai incespicando fino alla latrina. Quando tornai, Eshtanabai si era alzata. Raccolsi le mie cose e lei mi diede un sacco pieno di cibo.

— Addio, senzapelo.

Risposi con il gesto del congedo, seguito dal gesto della gratitudine.

Nia disse: — Andiamo.

La seguii fuori. In quel momento l’aria era fresca, ma somigliava alle mattine d’estate nel Minnesota o nel Wisconsin. La giornata sarebbe stata molto calda. Nia mi guidò attraverso il villaggio. Non aveva il bastone, e faceva fatica a camminare. Alla fine l’aiutai io. Arrivammo al cancello. Lei l’aprì e uscimmo. In lontananza, verso est, il sole stava sorgendo, nascosto dal villaggio. La sua luce illuminava il cielo. C’erano due animali legati presso il cancello: quadrupedi, ed erbivori, ne ero quasi certa. Avevano zampe lunghe e un ampio torace, e la coda era simile a quella dei cervi. Le loro corna erano sottili e ricurve come quelle delle antilopi. Uno degli animali mosse di scatto la testa e sbuffò; l’altro batté una zampa.

— Questi sono cornacurve — mi spiegò Nia. — Sono in condizioni abbastanza buone, sebbene uno stia invecchiando. Non sono in grado di dire granché delle selle. Dovrebbero durare finché non arriveremo ovunque stiamo andando.

Slegò uno degli animali e montò in sella. Io esitai, poi slegai l’altro animale. Questo si mosse.

— Aspetta un minuto — dissi. Misi un piede nella staffa, mi aggrappai alla sella e mi tirai su. L’animale si mosse di nuovo, facendo un passo e agitando la testa. In qualche modo riuscii a issarmi in sella, ma lasciai cadere il sacco del cibo.

— Non sai cavalcare — osservò Nia.

— Non molto bene.

Lei sollevò la gamba sopra la sella con un movimento agile e naturale come se stesse scendendo da un parapetto. Quando toccò il suolo, fece una smorfia e si lamentò. Brontolò fra sé e allungò la mano per afferrare il sacco. Un attimo dopo era di nuovo in sella al suo animale. — Sarà un lungo viaggio — mi disse.

Derek

Attraversammo a guado il fiume. Sull’altra sponda Nia trovò una pista. La seguimmo, inerpicandoci su per la scogliera e superandola, e arrivammo sulla pianura. Davanti a noi la pista conduceva verso l’orizzonte occidentale.

— Chi è stato a batterla? — domandai.

— Le donne. Quelle che portano i doni al Popolo dell’Ambra e riportano a casa altri doni. — Nia fece schioccare le redini. Il suo animale si lanciò in avanti. Il mio lo seguì e io cambiai posizione, cercando di mettermi comoda.

La giornata si fece torrida, non tradendo le aspettative. I nostri animali procedevano con passo lento verso occidente. Nia era silenziosa e io passai il tempo a osservare. Non c’era molto da vedere. La pianura era monotona, quasi priva di interesse. Il cielo era limpido e non vidi alcun animale all’infuori degli insetti.

A mezzogiorno ci fermammo e smontammo. Io feci i miei esercizi di stretching, poi bevvi un po’ d’acqua dalla ghirba di Nia. L’acqua era calda e aveva un gusto strano.

— Come ti senti? — mi domandò Nia.

— Indolenzita. Ma posso proseguire.

— È una fortuna. — Bevve e si asciugò la bocca con il dorso della mano. — Anch’io sono dolorante. Sono anni che non cavalco. Ci fermeremo presto questa sera.

Nel pomeriggio inoltrato ci fermammo presso un basso monticello. Smontai di sella, mi stiracchiai e gemetti.

— Mi occuperò io degli animali — disse Nia.

— Ne sei sicura?

Nia fece il gesto dell’affermazione. — È evidente che tu non sai niente di cornacurve.

Feci il gesto dell’assenso e salii sul monticello. Nel cielo sopra di me un unico uccello si muoveva in un ampio e lento cerchio. Feci la mia ginnastica, poi meditai. Ero talmente irrigidita che riuscii a stento a mettermi nella posizione del semiloto.

Nia finì di accudire gli animali e si allontanò gironzolando. Tornò con le braccia piene di roba. Era rotonda, grigia e friabile.

— Sterco — mi spiegò. — È rimasto dalla primavera, quando sono passate le mandrie.

Accese un fuoco, usando lo sterco come combustibile. Cenammo con pane e un pezzo di carne che aveva l’aspetto e il gusto del cuoio. Finito di mangiare, restammo sedute a osservare il fuoco.

Mi informai sulla sua caviglia.

— Fa male. E anche le altre ferite. — Fece una breve pausa. — Mi sono sentita peggio. Sopravviverò.

La parola che usò significava "durare", "mantenersi", "restare utilizzabile", "non esaurirsi".

— Bene. — Lanciai un’occhiata al monticello. Non mi dava l’idea di essere naturale. Sembrava artificiale. Che cosa ci faceva lì da solo nel bel mezzo della pianura? — Da chi è stato fatto? — Lo indicai col dito.

— Non lo so. Non è opera di animali. È troppo grande. Forse l’hanno fatto delle donne. O dei demoni. Gli spiriti non costruiscono. — Sembrava disinteressata. Che la sua gente non avesse il senso della storia? Oppure Nia era soltanto stanca?

— Dove andremo? — m’informai.

Nia corrugò la fronte. — C’è un posto nel quale desideri andare?

— Un altro villaggio. Voglio imparare altre parole e usanze.

— Le popolazioni che vivono a ovest di qui viaggiano tutte e in questo momento i loro villaggi si trovano su a nord. Ma se andiamo sempre avanti dovremmo riuscire a incontrare il Popolo del Ferro quando torna verso sud. — Esitò. — Mi è venuto in mente che mi piacerebbe vedere i miei figli.

— Ma quelle persone ti hanno scacciata. Non è probabile che lo facciano di nuovo?

— Probabilmente lo farebbero, se arrivassi da loro da sola. Ma tu sei una straniera. Chi potrebbe mai essere più estraneo? E loro sanno, assai meglio del Popolo del Rame, ciò che è dovuto agli stranieri.

— Che cosa? — domandai.

Nia parve sorpresa. — Cibo. Un posto dove dormire. Aiuto, se è necessario. Racconti e doni. Non è mai corretto scacciare una straniera, a meno che non sia violenta.

— Ma è giusto scacciare un membro del proprio villaggio?

— Sì. Che danno può venire da qualcuno di passaggio? Se un’estranea di passaggio ha idee insolite, è una cosa prevedibile. Se si comporta in modo strano, se ne andrà comunque abbastanza presto. Ma se un’abitante del villaggio è pervertita, litigiosa o pazza… Ah! Questo è un problema serio!

Uno splendido ragionamento. Sorrisi.

— Tu stai mostrando i denti — osservò Nia. — Sei arrabbiata?

— No. La mia gente mostra i denti quando è contenta.

— Aiya! Il Popolo del Ferro ci lascerà sicuramente entrare!

Il giorno successivo fu uguale al primo, e il terzo giorno fu uguale al secondo. Il tempo si manteneva caldo e sereno. La pianura si estendeva sempre piatta e coperta di pseudo-erba, e neppure questa era cambiata. Restava alta circa un metro, verde, verdeazzurra e gialla. La forma predominante di vita animale erano gli insetti. Svolazzavano e ronzavano tutt’attorno a noi.

Come faceva la storia?

Un vescovo chiedeva a un biologo: "Che cosa ti hanno insegnato i tuoi studi sul Creatore?".

E il biologo rispondeva: "Che nutre un amore smodato per gli insetti".

Dopo quattro giorni ci imbattemmo in un nuovo tipo di vegetazione: una pianta di un verde brillante che sembrava erba o pseudo-erba, se non che era alta cinque metri. Costituiva un muro che si spingeva a nord e a sud fin dove l’occhio poteva arrivare.

— Qui c’è dell’acqua — disse Nia. — Questa roba cresce presso le rive dei fiumi.

Cavalcammo verso nord lungo quella barriera. Non c’era modo di attraversarla. Gli steli crescevano troppo vicini fra loro, e le foglie avevano bordi ruvidi.

— Tagliano — mi spiegò Nia. — Ecco quello che cercavo. — Tirò le redini dell’animale e indicò col dito. — Un sentiero.

Smontammo. Io mi lamentai come sempre, ma il dolore incominciava a diminuire. Nia s’incamminò lungo il sentiero. La seguii, conducendo il mio animale, che mi sollecitava. Doveva aver fiutato l’acqua. — Finiscila! — Diedi una pacca sul muso della creatura, che sbuffò.

— Fa’ silenzio — mi ordinò Nia. — Non si può mai dire che cosa stia in attesa vicino a un fiume.

La vegetazione finì. Ci trovavamo sulla riva del fiume. Di fronte a noi uno stretto rivolo serpeggiava su un ampio letto sabbioso. Sull’altra sponda cresceva ancora quell’erba enorme. Più a valle c’era una pozza d’acqua.

— Aiya! - esclamò Nia.

Nella pozza c’era un uomo. Era nudo ed era privo di pelliccia. La sua pelle era bruna, i lunghi capelli biondi. Sulla schiena aveva un tatuaggio: un complesso disegno geometrico. Raffigurava le forze cosmiche dentro e attorno la Balena Grigia. La balena, o meglio il disegno della balena, era il totem della sua capanna. Forse avrei dovuto usare la sua terminologia. Era il mandala della sua eco-nicchia.

Aveva una canna da pesca e la stava lanciando con tutta la sua consueta abilità.

— Ho una domanda per te — fece Nia. — Sai che cos’è quello?

— Una persona. Un mio amico.

Lui si guardò attorno e tirò su la lenza, poi si avvicinò sguazzando alla riva. La barba e i peli pubici erano di un bruno rossiccio. Sul torace e le braccia aveva le cicatrici dell’iniziazione. La canna da pesca che portava era fatta a mano. Era lunga, molto lunga, e priva di mulinello.

— Come va? — chiesi in inglese.

— La canna da pesca? Non molto bene. — Sorrise. — Ma ho dei pesci. — Posò a terra la canna. — Tu sei Nia — disse nel linguaggio dei doni. — Io sono Derek. Appartengo alla tribù degli Angelinos. La casa a cui appartengo è la casa de… — Esitò un momento. — Del grande pesce. Il nome che mi sono guadagnato è Colui-che-lotta-nel-mare. Ed è meglio che te lo dica, sono un uomo.

— L’avevo pensato — replicò Nia. — Benché sia difficile sentirsi sicuri di qualcosa quando si ha a che fare con persone così diverse. Sei santo? Come la Voce della Cascata? È per questo che sei nudo?

— No. Torno subito. — Si allontanò lungo il fiume, muovendosi rapidamente, e in un attimo sparì alla vista.

Nia mi guardò. — Non credevo davvero che ci fossero altre persone uguali a te. Credevo che fossi qualcosa di particolare, come i piccoli che hanno talvolta le nostre femmine. Hanno cinque gambe o due teste. Noi li uccidiamo, e la sciamana esegue cerimonie per scacciare la cattiva sorte.

Derek tornò con indosso un paio di jeans. Aveva i capelli tirati indietro e legati sulla nuca. Portava una collana fatta di conchiglie e frammenti d’osso e un ciondolo di metallo. Era lo stesso che portavo io, un registratore audiovisivo.

Come sempre aveva quel suo aspetto aggraziato e barbaro. Aveva una laurea in antropologia ed era ordinario presso l’Università di San Francisco, in permesso al momento, naturalmente. Un permesso piuttosto lungo. Non sarebbe stato di ritorno per altri 120 anni, come minimo.

— Adesso prendiamo i pesci. — Andò al fiume e tirò fuori uno spago sul quale erano infilati sei pesci: lunghi, sottili e di un grigio argenteo. Li tenne sollevati. I pesci si dimenavano e sbattevano la coda. — Voi occupatevi dei vostri animali. Io mi occuperò dei miei.

— Bene — disse Nia.

Quando tornammo, Derek stava già aprendo l’ultimo pesce. Vicino a lui ardeva un fuoco. I restanti pesci erano distesi in una fila ordinata su una roccia, sventrati.

— Abbiamo due scelte — disse. — Possiamo infilzarli su bastoncini e arrostirli oppure avvolgerli in foglie bagnate e cuocerli fra i carboni.

— Quale modo è più rapido?

Lui sorrise. — Arrostiti. Andate a tagliare dei bastoncini.

Ci voltammo e ci dirigemmo di nuovo verso l’erba enorme.

— Dà un sacco di ordini — disse Nia. — Chi crede di essere? Una sciamana?

— Ha un incarico permanente — risposi. — Questo gli dà sicurezza di sé. — Provai una fitta di invidia. Il mio passato accademico era assai meno brillante. Il lavoro che avevo lasciato non era fisso.

— Che cos’è? La parola che hai detto?

— Un incarico permanente. Significa che ha la possibilità di tenersi stretto quello che ha.

— È come gli uomini grandi e grossi fra la mia gente — osservò Nia. — Loro si tengono i loro territori e nessuno può farli recedere, finché non diventano vecchi.

— Credo che sia proprio così.

Ci procurammo i nostri bastoncini e tornammo presso il fuoco. Derek cucinò i pesci. Mangiammo. Dopo di che io dissi: — Tu non dovresti essere qui.

— Mi sentivo solo e da quanto Eddie mi ha detto su Nia, ho pensato che avrebbe potuto sopportare un uomo.

— Può darsi — dichiarò Nia. — Ma tu non sei come Enshi, e lui è stato l’unico uomo con il quale abbia mai passato del tempo.

Guardai Nia. Lei incominciò a leccarsi la parte interna della mano, raccogliendo quel che restava dell’olio di pesce. — Se la sua presenza ti disturba, gli dirò di andarsene.

Nia alzò lo sguardo. — No. Voglio imparare come cattura i pesci. Adesso vado a lavarmi. — Si alzò e si slacciò la cintura, poi si tolse la tunica. Nuda, s’incamminò verso il fiume. S’inginocchiò e si slacciò i sandali. La sua pelliccia splendeva come rame e i suoi movimenti erano disinvolti come quelli di Derek. No, mi sbagliavo. I suoi movimenti erano più vigorosi e meno aggraziati. Lei si alzò, si liberò con un calcio dei sandali ed entrò nell’acqua.

Il mio compagno si massaggiò il naso, che incominciava un po’ a spellarsi. — Pensavo, da ciò che ha detto prima, che la nudità non fosse del tutto appropriata. O questo si riferisce soltanto agli uomini? O forse è ammissibile svestirsi per fare il bagno, non importa chi ci sia in giro.

— Quando hai dei dubbi, chiedi.

— Una buona idea. — Si alzò in piedi. — Me la immaginavo come un’anziana donna severa. Una Madre Coraggio. Invece è bellissima. — La seguì fino alla riva del fiume.

Oh, no, pensai. Derek aveva una pessima fama. Il Don Giovanni di San Francisco. L’Amante Interstellare. Aveva attraversato l’intera nave come una fiamma divoratrice. C’erano perfino voci su di lui e la Ivanova, sebbene trovassi assai improbabile una tale combinazione. Lui rifiutava di dire se le voci corrispondessero a verità, e certamente io non avevo la faccia tosta di domandarlo a lei.

Una sera, dopo che avevamo finito di fare l’amore, gli avevo chiesto il perché di quella promiscuità sessuale. Senso di colpa, mi aveva risposto.

"Fra la mia gente ci si sposa giovani. Ho avuto una moglie. Aveva forse tredici anni, era sottile come un giunco con lunghi capelli bruni. I suoi occhi erano azzurri. L’ho abbandonata quando ho lasciato la mia gente. Non la tradirò mai. Non mi sistemerò mai con una donna di fuori."

Nia era immersa nell’acqua fino alla vita e sguazzava con le braccia. Derek la chiamò. Non riuscii a capire che cosa le disse. Lei rispose. Incominciarono a parlare. Nia si avvicinò di più a riva. Grazie al cielo eravamo a metà estate. Il periodo dell’accoppiamento era trascorso. Non era assolutamente possibile che Nia si interessasse a Derek. Nonostante ciò decisi di andare a raggiungerli. Udii Nia che diceva: — La mia gente pensa che sia vergognoso andare in giro senza vestiti. Ma alle donne del villaggio di Nahusai piace nuotare. Si lavano spesso. Loro sostengono che la sola vergogna è stare nudi quando c’è un uomo. O anche un ragazzo, poiché costoro crescono e diventano uomini. Ma io faccio le cose a modo mio. — Disse quest’ultima frase in tono di sfida. — Non faccio attenzione alle opinioni delle donne anziane. Faccio quello che penso sia giusto.

Derek sorrise, poi fece il gesto dell’approvazione. Nia andò più al largo e incominciò a lavarsi la schiena.

Nel pomeriggio sul tardi lui le fece vedere come si usava una canna da pesca. Nia non pescò niente. Mangiammo carne essicata per cena. Giunse la notte. C’erano stelle cadenti.

— Compaiono in questo periodo dell’anno — spiegò Nia. — Noi le chiamiamo le Frecce dell’Estate.

Derek mise altra legna sul fuoco. Mi addormentai e sognai di lui. Eravamo in una delle cabine di ricreazione sulla nave. Le pareti erano di un lucido bianco giallognolo. Derek era nudo e rideva. Aveva il pene eretto. Si protendeva verso di me. Mi svegliai. Alla mia destra, a una certa distanza, Nia russava, e Derek era disteso dall’altra parte del fuoco. Sentivo il suo respiro lento e profondo. Restai distesa lì per un po’ a osservare il cielo notturno, poi tornai a dormire.

L’indomani mattina Derek andò a pescare. Come esca usò un insetto locale. Somigliava a un bruco: grasso e verde, con numerose zampe. C’erano centinaia di quelle creature lungo il fiume. Si nutrivano dell’erba enorme. I pesci si nutrivano di loro, e noi ci nutrivamo dei pesci.

— E in queso modo comprendiamo la grande catena dell’esistenza — osservò Derek quando ebbe finito l’ultimo pezzo di pesce.

Nia appariva perplessa. Derek aveva parlato in inglese.

— Natura rossa nei denti e negli artigli — proseguì. — È un verso di Tennyson. Ha detto anche che noi saliamo sui gradini del nostro io morto verso cose più elevate. — Mi rivolse un ampio sorriso. — Un tempo ero affascinato dalla storia dell’Ovest, soprattutto dalla storia delle società industriali. Questo accadeva quando ho lasciato per la prima volta la mia gente. Pensavo: c’è un segreto qui, in Marx e in Tennyson e nelle grandi macchine. In seguito giunsi alla conclusione che aveva ragione la mia gente. È meglio essere vicini alla balena grigia e alla pianta del peyote. Ma a quel punto ero ormai abituato a sentirmi a mio agio. Che cosa facciamo adesso, Lixia?

— Viaggiamo verso ovest. Ci sono popolazioni sulla pianura. Nomadi. Nia sostiene che può trovarceli. Intendo fare tutto il lavoro di raccolta diretta di dati che mi sarà possibile. Voglio il mio nome dappertutto nel rapporto preliminare.

Lui sorrise. — C’è questa ambizione nella piccola Lixia?

— So quello che sono. Una ricercatrice di dati di prim’ordine. Ma non sono mai stata brava nelle stronzate accademiche. L’analisi. I giochetti teorici. Se mai dovrò arrivare da qualche parte, sarà sulla base di quello che faccio qui sul campo.

— Può darsi. Non c’è alcun dubbio sulla tua abilità nel raccogliere dati. Sei in grado di imparare una lingua più in fretta di chiunque altro che io conosca.

— Salvo Gregory.

Derek fece il gesto con cui riconosceva che potevo aver ragione. — Ma senti come parli. Tu dici "stronzate accademiche" e "giochetti teorici". Ciò lascia intendere un pregiudizio. Il rifiuto di teorizzare è, di per sé, una posizione teoretica, amor mio. Purtroppo per te, non è una posizione popolare. Dove saremmo senza i nostri sistemi, le nostre gerarchie di informazioni, le nostre analisi? I nostri punti di vista e la nostra etica?

Si alzò in piedi e si stiracchiò. — Quei vostri animali non sembrano affatto più veloci dei cavalli. Posso tenere il vostro passo. — Scagliò con un calcio un po’ di terriccio sul fuoco, poi raccolse le sue cose: lo zaino e la canna da pesca, avvolta in un rotolo, un arco e mezza dozzina di frecce.

— Hai fabbricato tu l’arco?

— Naturalmente. — Si guardò i piedi. — Non posso correre in questo modo. — Si tolse gli stivali e i calzini. — Ecco. — Li consegnò a me.

Nia disse: — Se intendi viaggiare senza scarpe, resta sulla pista o, se la lasci, stai attento a dove metti i piedi. Ci sono piante che pungono sulla pianura. Non mettere i piedi su niente che abbia un aspetto insolito.

— Sempre dei buoni consigli — replicò Derek. Fece il gesto della gratitudine.

Sellammo gli animali. Io legai al mio le mie cose e quelle di Derek, poi Nia e io montammo in sella. Attraversammo il fiume sollevando spruzzi d’acqua. Sull’altra sponda trovammo una pista che serpeggiava fra l’erba enorme e ben presto ci ritrovammo sulla pianura. Si estendeva senza interruzione verso ovest, nord e sud.

In un primo tempo Derek cercò di camminare al nostro fianco, ma la pista era troppo stretta, così ci precedette, muovendosi a grandi passi. Aveva i capelli sciolti che sbattevano al vento, così come l’estremità della sua camicia. Si muoveva in modo agile e sicuro e appariva felice e rilassato.

— Quell’uomo è strano — osservò Nia. Mi rivolse un’occhiata. Io feci il gesto dell’approvazione.

— È così che sono i vostri uomini?

— No. Lui è un tipo speciale. Mette a disagio quasi tutti noi.

— Mmm!

Il terreno mutò. Adesso era ondulato. Spesso, in lontananza, vedevo fitte macchie di quell’erba enorme: alta e di un verde brillante, simile a un boschetto di alberi. Nel pomeriggio inoltrato ci accampammo in un avvallamento. Derek e Nia andarono a raccogliere sterco mentre io mi occupavo degli animali. Erano irrequieti; dovevano aver sete, decisi. Quando Nia tornò, le chiesi: — Perché non andiamo in uno di quei boschetti? Mi hai detto che crescono nelle vicinanze dell’acqua.

— C’è un animale. L’assassino-delle-pianure. Se ne sta in agguato vicino all’acqua. I cornacurve vengono ad abbeverarsi e quello gli balza addosso.

— Oh. — Riflettei un momento. — È per questo motivo che eri inquieta quando siamo arrivate al fiume.

Nia fece il gesto dell’assenso. — Sapevo che non c’era modo di aggirare il fiume. Dovevamo attraversarlo. Ma avevo paura di quell’animale.

Dopo cena chiamai la nave. Rispose Eddie.

— Perché Derek è qui?

Eddie rise. — Ce l’ha fatta, eh? Per tre ragioni, Lixia. È un ricercatore sul campo di prim’ordine, ed era sprecato se restava da solo. — Esitò un momento. — Nia è la nostra informatrice più singolare. Desideravamo una seconda valutazione di lei e delle sue informazioni. Questa è la ragione numero due. Infine, tu non chiami abbastanza spesso. Derek è lì per tenere d’occhio te e Nia.

— Oh, sì?

— Aha. Parlando dei nostri compagni dell’Asia Orientale, ci sono parecchi manifesti appesi lungo il Muro della Democrazia.

C’era un corridoio principale che attraversava gli alloggiamenti. I cinesi ne avevano rivestito una parte con tavole di sughero e l’avevano chiamato il Muro della Democrazia. Sostenevano che era necessario per la corretta espressione della volontà popolare.

Che cosa c’era di male nei computer? avevamo chiesto noialtri.

I computer isolavano le persone, ciascuna seduta di fronte al suo piccolo schermo. Il muro riuniva le persone. Potevano discutere di ciò che leggevano. Potevano guardarsi attorno e vedere come reagivano i loro vicini. Potevano distinguere chi stava ascoltando.

I computer accentuavano il pensiero lineare e la logica. Il muro, al pari dell’ideogramma cinese, usava modi lineari e non lineari di organizzare le informazioni: la costante così come la sequenza, lo spazio così come il tempo. Quando si osservava il muro, si utilizzava l’intero cervello umano.

Inoltre, era tradizionale. Gli esseri umani avevano sempre scritto e disegnato sui muri.

Era difficile mettere in discussione questo concetto, e il muro aveva un certo fascino disordinato. Non c’era modo di sapere che cosa vi avrebbero affisso le persone: un disegno ingegnoso, una stupida poesiola, una maschera di cartapesta: "Cercasi… un compagno per gli scacchi". E un sacco di ragionamenti politici. Era un modo di raggiungere quelle persone che non avrebbero mai pensato di partecipare a nessuna delle reti di discussione politica.

Eddie proseguì: — Lu Jiang, l’idraulica, ha una teoria, che ha affisso al muro. Dice quanto segue: se le informazioni che abbiamo ora sono esatte, tutte le società indigene sono ferme a uno stadio di sviluppo pre-urbano. Per quanto ne sappiamo, è impossibile sviluppare una tecnologia avanzata al di fuori delle città. Senza una tecnologia avanzata, non può esserci alcun proletariato, e senza proletariato, non può esserci alcuna rivoluzione socialista. Di conseguenza, sostiene, gli sventurati abitanti di questo pianeta non raggiungeranno mai una società socialista. Naturalmente è stata criticata per aver sottovalutato il ruolo dei contadini nella realizzazione del socialismo.

— Sembra splendido.

— È pericoloso, Lixia. C’è gente che incomincia a dire che, se Jiang ha ragione, allora forse dovremmo prendere contatti con le popolazioni autoctone del pianeta; contatti formali, dicendo loro chi siamo. Forse abbiamo da offrire loro la nostra tecnologia. Se non lo faremo, li condanneremo a un’esistenza senza possibilità di progresso. Resteranno per sempre come sono.

Mi massaggiai il naso.

Lui continuò. — Ciò che vedo verificarsi è un’alleanza fra gli altruisti e i tecnologi. Coloro che amano le persone e coloro che amano le macchine. Insieme decideranno che dobbiamo aprire il pianeta alla colonizzazione.

— Eddie, ti stai crucciando anzitempo.

— Ascoltami. Mio nonno era un uomo di medicina. Vedeva le cose prima degli altri. E ti assicuro, in questo momento ho la sua stessa capacità. Riesco a vederlo come in una visione: le miniere, le raffinerie e i proletari coperti di pelliccia, che timbrano il cartellino ogni mattina.

Decisi di mettere fine alla conversazione. Eddie si stava adirando e non volevo avere alcuna parte in nessuna delle sue collere.

— Adesso spengo questo aggeggio. Voglio fare la mia ginnastica.

— Okay. Di’ a Derek di chiamare. No. Ripensandoci, lascia perdere. Lui si ricorda sempre di farlo.

Spensi la radio e feci ginnastica. Dopo di che meditai, tenendo lo sguardo fisso sull’orizzonte orientale. Il cielo laggiù era di un azzurro intenso e limpido con una sfumatura di verde. Più in alto, dove l’azzurro si schiariva e si faceva un po’ più verde, brillava un punto luminoso. Un pianeta. Mi concentrai sulla respirazione. Dentro. Fuori. So. Hum.

Alle mie spalle sentii la voce di Derek. — Stai raggiungendo l’unità con l’universo?

Mi contrassi, poi mi guardai attorno. Era fermo a circa un metro di distanza. Mi era arrivato vicino senza fare il minimo rumore. Sorrideva. — Vuoi del peyote? Ne ho portato giù un po’.

— Mi sembrava che avessimo convenuto sull’esclusione di qualunque narcotico sulla superficie di questo pianeta. A meno che, naturalmente, non fossero stati forniti dai nativi.

— Per prima cosa, il peyote è un allucinogeno. E in secondo luogo, è necessario per la pratica della mia religione.

— Il comitato ti ha dato il consenso?

— Quale? La nave è piena di comitati.

Aprii la bocca per parlare, ma lui sollevò una mano. — Hai ragione. Non ho avuto il permesso.

— E questa che cosa sarebbe? Una specie di ribellione infantile?

— Mi sono stancato delle regole. Mi pare di capire che non vuoi del peyote.

— No.

— E del sesso che ne dici? Stavo notando che sei molto attraente quaggiù. Credo che dipenda dalla luce del sole. Non c’è niente che abbia un bell’aspetto sulla nave. Ma qui. — Fece un cenno della mano in direzione del cielo che si andava oscurando.

Ci pensai su un momento. — Okay.

Derek si sedette accanto a me e mi cinse con un braccio.

Era, come avevo ricordato, molto abile. Non frettoloso. Derek veniva da una società di cacciatori e raccoglitori e conosceva il valore della pazienza e del lavoro lento e accurato. Sapeva come usare le mani. Sapeva che cosa dire e quando. Esiste un piacere pari al vedere, o all’udire, o al sentire all’opera un artista veramente bravo?

Finimmo nudi fra la pseudo-erba spinosa. Lui era sopra di me e dentro di me.

Ci giunse la voce di Nia: — Che cosa state facendo? Non vi rendete conto che siamo in piena estate? Nessuno si accoppia in questo periodo dell’anno.

Derek disse: — Vattene, Nia. Ti spiegheremo più tardi.

— Benissimo. Ma siete delle persone ben strane voi due.

Derek sollevò il capo. — Se n’è andata. Ora, dov’ero rimasto?

Risi.

Dopo restammo distesi per un po’ fra la vegetazione. Mi sentivo in modo splendido. Ero rimasta da sola per troppo tempo. Quanti giorni? Quarantasette? Quarantotto? Avrei dovuto chiederlo a Eddie. Avevo perso il conto.

Derek si alzò in piedi e incominciò a vestirsi. Seguii il suo esempio. Cadde una meteora. Ci incamminammo verso l’accampamento. Nia era seduta accanto al fuoco, che era fioco e aveva un odore particolare. Lo sterco non bruciava come il legno. Lei alzò lo sguardo. — Avete finito il vostro accoppiamento?

— Sì.

— Siete dei pervertiti.

— Può darsi. — Derek si sedette.

Nia teneva lo sguardo fisso sul fuoco. — Sono sfortunata. Ovunque vada, incontro persone che fanno le cose nel modo sbagliato.

Derek sorrise. — Che cosa vuoi dire con questo? Qual è il modo sbagliato? Ciò che è sbagliato secondo le donne anziane? Ci hai detto che non ti importava delle loro opinioni.

— È vero. Ma lo sanno tutti che le persone provano la smania in primavera. Solo le persone ammalate hanno la smania in qualunque altro momento.

— Noi non siamo persone comuni, Nia. Devi capirlo. Siamo più estranei di quanto tu possa pensare. Ma non siamo cattivi. E non c’è niente che non vada nella nostra salute.

— Mi mettete a disagio. Vado a fare una passeggiata. — Si alzò e si allontanò zoppicando. Un attimo dopo era sparita, nascosta dalle tenebre.

Mi sedetti. Derek aggrottò la fronte. — Fino a che punto è turbata?

Feci il gesto del dubbio.

— Questo è proprio un grande aiuto.

Restammo alzati ad aspettarla per circa un’ora. Nia non tornò. Alla fine mi addormentai. Mi svegliai all’alba. Nia era distesa vicino a me, avvolta nel suo mantello, e russava piano.

Ci alzammo al levar del sole e proseguimmo verso ovest. Il tempo si mantenne sempre uguale: molto caldo e limpido. La regione si estendeva sempre ondulata. Verso nord c’era una catena di basse colline rotonde sopra le quali si libravano delle nuvole.

— Quella è la terra del fumo — ci spiegò Nia. — È un luogo sacro. L’acqua laggiù ribolle come l’acqua in una pentola per cucinare. E il fumo sale da fenditure nella roccia.

— Ah, sì?

Nia fece il gesto dell’affermazione.

Era passato da poco mezzogiorno quando Derek si fermò. Era in cima a un’altura. Andammo a raggiungerlo.

— C’è qualcuno dietro di noi — disse.

— Un uomo — osservò Nia. — Nessuna donna viaggia da sola. — Tossì. — No. Non dico la verità. Io ho viaggiato da sola. Ma di solito le donne vanno in gruppo. — Si voltò a dare un’occhiata. — Non lo vedo. Devi avere dei buoni occhi.

— Sì.

Nia si riparò gli occhi con la mano e guardò di nuovo. — Ho deciso di crederti. Qualcuno dovrà stare sveglio di notte. Se l’uomo ha deciso di avvicinarsi, lo farà allora.

Proseguimmo. Ormai c’erano nuvole per tutto il cielo. Erano piccole e soffici, disposte in file. La terra era screziata di ombre. Qua e là vedevo affioramenti di roccia scura. Forse basalto? Secondo i planetologi, le rocce su questo pianeta erano di fatto identiche a quelle sulla Terra.

Le colline a nord erano più vicine di prima. Nia continuava a lanciarvi occhiate. — Non mi piace la terra del fumo. Ci sono demoni laggiù.

— Oh.

Alla sera ci accampammo presso la sommità di una collina, sotto un’enorme massa di roccia. Era nera e ruvida. Vulcanica. Sotto di noi c’era una valle piena di cespugli. Le loro foglie erano di un verde giallognolo. Scendemmo e trovammo della legna secca. Nia accese un fuoco. La fiamma illuminava la superficie scura della roccia e i corpi dei miei compagni: Derek, magro, glabro e bruno; Nia, grossa e coperta di pelliccia.

Mangiammo. Derek si alzò. — Farò io il primo turno di guardia. — Rivolse un’occhiata attorno. — Dovrebbe esserci una buona vista da lassù. — Si diresse verso la roccia e incominciò ad arrampicarvisi, salendo in modo rapido e senza esitazioni.

Nia lo osservava. — Sa fare bene ogni cosa?

— Ci sono volte in cui credo di sì.

— Lui non ti piace.

— Non molto.

— Perché?

— Perché fa bene ogni cosa. Per me non c’è niente di facile. Lo invidio.

Nia aggrottò la fronte e guardò il fuoco. — Avevo un fratello così. Anasu. Faceva tutto quello che andava fatto, e lo faceva meglio di quasi tutti gli altri. Ormai è un uomo grande e grosso. Ne sono sicura. Non era il tipo da restarsene fra le colline con i giovani, con gli uomini come Enshi. Ormai deve avere un territorio vicino al villaggio e molte donne nella stagione degli accoppiamenti. — Nia si grattò il naso. — C’era un’altra. Angai. Una mia amica. Era difficile andare d’accordo con lei quando era giovane. Non piaceva alla gente. Ma è cambiata in meglio. È la sciamana del mio villaggio. Ha con sé i miei figli. — Alzò lo sguardo. Mi ritrovai a guardare dritto nei suoi occhi color arancione. — Non capisco che cosa mi sia successo. Ma una cosa la so. È sbagliato provare invidia. Hakht la provava. Bruciava dentro di lei come fuoco sotto terra. L’ha trasformata in qualcosa di disgustoso. Non invidierò altre persone. — Si alzò e andò a prendere il suo mantello. — Adesso me ne vado a dormire.

Si coricò. Io rimasi alzata. La grande luna era visibile a occidente: una mezzaluna alta nel cielo, di un brillante giallo limone, che illuminava nuove nuvole. Erano grandi e ondeggianti. Un nuovo sistema atmosferico? Incominciavo a sentirmi assonnata. La mia mente vagava da un argomento all’altro: l’invidia, poi il fratello di Nia. Chissà che tipo era? Che cosa significava avere un fratello nella sua cultura? Ricordavo i membri più giovani della mia famiglia. Leon. Clarissa. Charlie. Maia. Mark. Fumiko.

Fumiko era di gran lunga la più giovane. Quando ero partita lei stava terminando l’università e si preparava per il suo anno, o i suoi anni, di vagabondaggi. Io ero andata molto presto, a vent’anni. Avevo lasciato la scuola e me ne ero andata nella Grande Isola a tagliare canna da zucchero. Poi mi ero recata in Asia, lavorando su uno dei nuovi piroscafi da carico. Cucinavo e imparavo a far funzionare il computer che controllava le vele. Quello era un compito facile. Il computer funzionava quasi da solo. Ma ero quasi impazzita cercando di cucinare nella minuscola cambusa mentre tutto attorno a me si muoveva.

Bene, era accaduto molto tempo addietro e su un altro pianeta. Presi il mio poncho e mi coricai per dormire.

Fui svegliata da un grido ululante: acuto, pauroso, disumano. Un istante dopo ero in piedi. Non ricordavo come ci fossi arrivata in quella posizione. Dall’altra parte del fuoco c’era Nia. Era in piedi anche lei. Aveva gli occhi sgranati e teneva in mano il suo coltello.

— Che cos’è stato? — chiese.

— Non lo so.

Mi resi conto che lo sapevo e che mi ero sbagliata. Il suono non era disumano. Era il grido di battaglia di un aborigeno californiano. Mi guardai attorno. — Derek?

Dalle tenebre giunse un altro suono, un grido di paura nel linguaggio dei doni. — Aiuto! Aiuto! Un demonio!

Mi voltai e mi precipitai giù per la collina. Nia mi seguì. Ci facemmo strada fra la pseudo-erba. Sotto di noi la voce ripeteva: — Aiuto! Aiuto!

Derek gridò: — Smettila di lottare con me!

Li vidi, una massa che si dimenava, appena visibile nel chiarore lunare. Mi fermai. I due corpi rotolavano avanti e indietro. Derek era sopra. Vedevo agitarsi i suoi capelli biondi. La persona che stava sotto gridava: — Aiutatemi!

Nia disse: — Se hai intenzioni pacifiche, smettila di dibatterti. L’altra persona non ti farà del male. Non è un demonio.

— No? — Il corpo che stava sotto cessò di muoversi. — Sei sicura?

Derek si sollevò dall’altro individuo e lo tirò in piedi.

— Aiya! Guarda che cosa doveva capitarmi! Sei assolutamente certa che questa creatura non sia un demonio?

— Sì — rispose Nia. — E tu chi sei?

— Sono la Voce della Cascata.

— Non è possibile! Ne ho sentito parlare. Passa tutta la sua vita vicino alla cascata. Quando muore e la gente trova il suo corpo, lo getta nel fiume. Le sue ossa giacciono fra le rocce sul fondo della cascata.

— Questo è vero. Non possiamo parlarne accanto al fuoco? Ho paura a restare qui fuori al buio. E questo essere dalle mani forti non potrebbe lasciarmi andare?

— Lixia? — chiese Derek.

— È tutto a posto. Lascialo andare.

C’incamminammo su per la collina. Quando arrivammo accanto al fuoco guardai l’oracolo. Questa volta non era più nudo, ma indossava un gonnellino lacero. Non riuscii a distinguerne il colore. Grigio o marrone. Attorno al collo portava una collana: perline d’oro e grossi pezzi irregolari di turchese. I turchesi erano blu e verdeazzurri. La collana era splendida. L’uomo si massaggiò le braccia. — Uh! Che presa che ha quella creatura! — Guardò Derek. — Un altro individuo senza pelo! Che cosa sta accadendo al mondo?

— Perché sei qui? — gli domandò Derek.

— Non possiamo sederci? Sono stanco. Sono giorni che cammino. Mi fanno male i piedi e ho così sete che non riesco quasi a parlare.

Nia prese la sua ghirba. L’uomo bevve, poi si sedette. — Aiya! Così va meglio. Avete qualcosa da mangiare?

Nia gli porse un pezzo di pane. Lui lo mangiò.

Derek gli chiese: — Perché ci stavi seguendo?

— È una lunga storia. Sedetevi. Tutti quanti. Ma non troppo vicino. Non sono abituato alle persone.

Ci sedemmo. L’uomo prese un altro sorso d’acqua. Poi mi fissò. — Tu sei quella che ho incontrato.

— Sì.

— Sei andata al villaggio. Dopo, mia madre è venuta da me con altre donne. Lei, mia madre, ha portato cibo e una nuova coperta, una bella coperta spessa e soffice. Mi ha detto che non mi prendevo cura di me stesso. Sarei morto di freddo in inverno. Le ho risposto: "Vecchia, sei pazza quanto me. Non preoccuparti per me. Io appartengo alla cascata. La cascata si prenderà cura di me". Lei mi ha dato una medicina che fa bene per il mal di gola e il senso di pesantezza al petto. Poi se ne è andata. È tornata con quella. — Indicò Nia. — Dopo che tutti se ne furono andati, ho fatto un sogno. Mi è apparso lo Spirito della Cascata. Era simile a una persona, salvo che era grigio come l’argento, e non avrei saputo dire se fosse maschio o femmina. Mi ha detto: "Sta succedendo qualcosa di importante e riguarda la persona senza pelo. Segui quella persona. Ascolta quello che dice".

"Ho cercato di protestare, ’Il mio posto è qui. La Voce della Cascata non lascia mai questo posto’. Lo spirito allora ha assunto un’aria adirata. ’Tu sei la mia voce. Non ribattere con arroganza.’ Allora ho incominciato a tremare. Lo spirito ha continuato: ’Io non appartengo a nessun luogo, sebbene mi piacciano questo canyon e questa cascata. Quanto a te, il tuo posto è dove ti dico di stare. Adesso va’! E non discutere. Ricorda di chi sei la voce’.

"Mi sono svegliato. Che cosa potevo fare? Solo quello che mi aveva ordinato lo spirito. Sono andato al villaggio. Tu" puntò il dito nella mia direzione "eri nel villaggio. Ho aspettato. Ho mangiato ciò che sono riuscito a trovare. Quando qualcuno si avvicinava, mi nascondevo fra i cespugli. Finalmente siete uscite, e vi ho seguite sulla pianura.

"Che viaggio! Ci sono voluti… quanti giorni? Cinque o sei. Non riuscivo a non perdervi di vista. Ma sapevo che avreste seguito la pista. Dopo un giorno o due mi si sono rotti i sandali. Li ho gettati via entrambi. Hanno incominciato a farmi male i piedi e avevo fame. Ho cavato la radice della pianta di rukha spinosa. Mi ha fornito cibo e acqua, ma mi sono punto le dita con le spine.

"Dopo quattro giorni sono arrivato a un fiume. Uh! Che piacere! Ho bevuto acqua e raccolto insetti. Ho acceso un fuoco e li ho arrostiti. Che dolcezza! Che delizia! Ne ho mangiati fino a sentirmi male, poi mi sono riposato e poi ho attraversato il fiume.

"La notte successiva è stata terribile." S’interruppe un momento e rabbrividì. "Ero disteso sulla pianura, da solo, senza un mantello per coprirmi. È arrivato un animale. Sentivo il rumore del suo respiro. Oo-ha! Oo-ha! Riuscivo a sentirne l’odore. Puzzava di carne putrefatta. Mi girava intorno furtivamente. Fiutava e faceva una specie di brusio. Ho pensato: so che cos’è. Un assassino-delle-pianure, e adesso mi mangerà. Non mi sono mosso. Ero troppo spaventato.

"La creatura ha fatto un secondo giro intorno a me, continuando a mormorare. La sentivo. Aiya!" Rabbrividì e batté le palpebre. "L’ho sentita prendermi un gamba fra i denti. Ha sollevato la mia gamba, poi l’ha lasciata andare. Ho lasciato cadere la gamba come se fossi stato già morto. Deve avermi guidato lo spirito. Deve avermi detto lui che cosa fare."

Nia si protese in avanti. — L’ho già sentito dire. Attaccano se uno si muove. O se sentono l’odore del sangue. Ma se una persona rimane immobile, la lasciano in pace.

L’oracolo si accigliò. — Questa è la mia storia. Lasciamela finire.

— Okay — disse Nia.

— Che cosa?

— Va’ avanti.

— Poi l’animale se ne è andato. Sono rimasto dov’ero e ho ringraziato lo spirito. Al mattino mi sono guardato la gamba. Non c’era sangue. L’animale non aveva rotto la pelle. Aiya! Che fortuna!

Derek fece il gesto dell’approvazione.

— Mi sono alzato e ho proseguito. Che altro potevo fare? Mi sono affrettato. Ero terrorizzato all’idea di passare un’altra notte da solo sulla pianura. Il sole è tramontato. Ho visto il vostro fuoco che brillava nell’oscurità. Mi sono avvicinato e quell’individuo — indicò Derek — mi è saltato addosso. Ho pensato: mi sono imbattuto in un demonio. Adesso morirò, e spero soltanto che lo Spirito della Cascata sia felice di questa piega degli eventi.

"Ma non sono morto ed eccomi qui. Questa è la fine della mia storia."

Derek parlò in inglese: — E questo chi è?

— È un oracolo. L’ho incontrato dopo che Nia è rimasta ferita. Sua madre è la sciamana del Popolo del Rame della Pianura. Credo che sia un po’ pazzo, anche se non ne sono certa. Come si fa a giudicare la pazzia in una cultura aliena?

— E come si fa a vedere la differenza fra pazzia e santità? — Derek passò al linguaggio dei doni. — E adesso? Vuoi viaggiare con noi?

— Sì. Certo. È la volontà dello spirito. Ora mi metto a dormire. Potete discutere se mi volete come compagno oppure no. Ma vi avverto. Qualsiasi cosa decidiate, vi seguirò. — Si alzò in piedi e si allontanò dal fuoco fino al limitare delle tenebre. Si coricò, la schiena rivolta alla pianura, e si raggomitolò in posizione fetale. Dopo un momento spostò un braccio in modo da coprirsi la faccia.

Nia osservò: — Davvero, il mondo sta cambiando. Incontro persone che si accoppiano in estate, e adesso compare un sant’uomo, deciso a lasciare il suo luogo sacro e a viaggiare con gente comune. — Poi guardò me e Derek. — Non intendo dire gente comune. Voglio dire, gente che non è santa.

— Bene — disse Derek in inglese. — Viaggia con noi?

— Perché no? — Guardai Nia e parlai nel linguaggio dei doni. — Che cosa pensi di lui?

— Non possiamo lasciarlo da solo sulla pianura. È indifeso come un bambino o una donna anziana. Inoltre è santo. Se lo abbandoniamo, gli spiriti si adireranno. Su questo non c’è alcun dubbio. Deve venire con noi.

Derek annuì e si alzò in piedi. — Torno a fare la guardia. Cerca di dormire un po’, Lixia. Ti sveglierò più tardi.

Mi svegliò dopo mezzanotte e feci il mio turno di guardia. La notte era fresca e silenziosa, a parte il rumore che facevano gli insetti fra la pseudo-erba. Verso l’alba svegliai Nia. Lei si alzò e io tornai a dormire.

L’indomani mattina proseguimmo. Nia e l’oracolo cavalcarono mentre io viaggiai a piedi con Derek. La pista serpeggiava fra le colline. In questa zona c’erano numerose rocce: rupi, affioramenti e massi, tutti neri e scabri. Le valli erano coperte d’erba. Di quando in quando vedevamo un gregge di bipedi: pseudo-dinosauri. Erano alti per lo più un metro e di un vivace azzurro turchese.

— È un bellissimo pianeta — osservò Derek mentre camminava al mio fianco.

— Sì.

— Come fa quel verso di Donne? "O mia America, mia terra nuova!" Naturalmente parlava di una donna. Una nuova amante.

Da’ licenza alle mie mani erranti, e lasciale andare,

Davanti, dietro, in mezzo, sopra, sotto,

Oh mia America! Mia terra nuova,

Mio regno, più sicuro se abitato da un solo uomo.

Mia miniera di pietre preziose, mio impero.

Che fortuna averti scoperta.

— Derek, come fai a essere così colto?

Mi rivolse un’occhiata e sorrise. — Duro lavoro, mia cara. E un’intelligenza superiore.

— Oh. Okay.

Rise. — In ogni modo, mi sento come dev’essersi sentito Colombo. O il prode Cortés, silenzioso sul suo picco di Darien. Quale scoperta! Quale pianeta! — Fece un ampio gesto con la mano, indicando le colline e il cielo verdeazzurro. Uno pseudo-dinosauro lanciò un grido e fuggì.

Nia si voltò a guardare. — Che cosa c’è?

— Niente. A Derek piace questa regione.

— A me no.

— Perché no?

Si fermò e si guardò attorno. — Non me la ricordo. Devo aver preso la direzione sbagliata in qualche punto. Questa non è la pista che volevo seguire.

L’oracolo fece il gesto che significava "non preoccupatevi". — Ci guiderà lo spirito.

— Può darsi.

Nel pomeriggio il cielo si annuvolò e verso sera incominciò a piovere, una pioggerella leggera. Ci accampammo in un boschetto di alberi. Derek uccise uno pseudo-dinosauro. Nia lo pulì. Io e la Voce della Cascata andammo in cerca di legna.

Dopo cena chiamai la nave. Rispose un computer. Aveva una tranquilla e gradevole voce femminile con un leggerissimo accento russo.

— In questo momento non è disponibile nessun umano — disse. — Puoi riferire a me.

Lo feci.

Il computer mi ringraziò e disse che le informazioni sarebbero state trasmesse alle persone adatte. — Sono un programma di livello sei — spiegò. — La mia intelligenza è una costruzione mentale e… dovrei dire o?… un’illusione. Pertanto non sono una persona, in base alla corrente definizione del termine.

— Ti dispiace? — chiesi.

— Questa non è una domanda che abbia senso, almeno se rivolta a me. Io non penso e non ho sentimenti. Faccio quello che mi si dice di fare.

Mi sembrò di avvertire del sarcasmo nella cortese voce uniforme. Ma non era molto probabile. Perché mai qualcuno avrebbe dovuto inserire del sarcasmo in un programma di livello sei?

Spensi la radio, mi coricai e restai ad ascoltare la pioggia che picchiettava sulle foglie sopra di me.

La mattina era uggiosa. Nia disse: — Oggi cavalca tu, Lisa. Voglio scoprire come va la mia caviglia.

— I piedi mi fanno ancora male — disse l’oracolo. — Sono ricoperti di vesciche.

Derek rise. — Non preoccuparti. Puoi prendere l’altro cornacurve.

Incominciò a cadere la pioggia e la foschia nascondeva le distanze. Viaggiammo in mezzo al grigiore, risalendo un lungo pendio. Più o meno intorno a mezzogiorno arrivammo in cima. C’era uno spazio pianeggiante, poi un precipizio. Ci trovavamo sul limitare di una valle. Tirai le redini del mio animale. Il fondo della valle era visibile nonostante la foschia. Il terreno era brullo e di un arancione acceso.

Derek annusò. — Uova marce e zolfo. Penso che si possa presumere dell’attività geotermica. — Parlò in un miscuglio di inglese e linguaggio dei doni. Io riuscii a capire tutto, ma i nostri compagni apparivano perplessi.

Dopo un momento Nia disse: — Non so di che genere di attività stiate parlando. Ma l’aspetto di questa valle non mi piace. E neppure l’odore, se è per questo.

Derek lanciò un’occhiata di lato. — Non preoccuparti. Non andiamo giù. La pista corre lungo il ciglio.

Seguimmo la pista. La pioggia cessò. Le nuvole si alzarono. Ora vedevo chiaramente la valle. Era poco profonda e più o meno circolare. L’intero fondo aveva brillanti colori: arancione, arancione rossiccio e giallo. Qua e là si levavano bianchi pennacchi. Vapore. I pennacchi si muovevano, spinti dal vento. Al centro della valle c’era un lago: scuro e rotondo. Derek continuava a guardarlo.

— C’è qualcosa che non va. Quel lago è singolare.

— Non stento a crederlo — osservò Nia. — Questa terra è singolare. — Usò lo stesso termine utilizzato da Derek. Significava "insolito", "imprevisto", "sbagliato". Dopo una breve pausa proseguì. — Non mi ricordo affatto di questo posto. Sono sicura che siamo sulla pista sbagliata, anche se non so come sia possibile. Ho una buona memoria e un eccellente senso dell’orientamento. Non mi sono mai persa.

Mi girai sulla sella. Nia arrancava accanto a me. Aveva i piedi infangati e la pelliccia bagnata. La tunica le si incollava al corpo. — Che cosa dobbiamo fare?

Nia fece il gesto dell’incertezza.

— Proseguire — disse l’oracolo alle mie spalle. — Lo Spirito della Cascata provvederà a farci arrivare nel posto giusto.

— Che consolazione! — fu il commento di Derek.

Finalmente arrivammo in un punto in cui la parete della valle era bassa. Un pendio conduceva giù verso il fondo giallo e arancione. La sommità del pendio era ricoperta di vegetazione: piccoli arbusti e moltissima pseudo-erba. Più in basso il terreno era brullo. Una linea scura l’attraversava serpeggiando: un’altra pista, più stretta della nostra, meno usata, che si addentrava nella valle.

Derek si fermò. Io tirai le redini del mio animale.

L’oracolo venne a fermarsi accanto a me. — Che cosa c’è? — chiese.

— Penso che dovremmo accamparci.

— Qui? — domandai.

Derek fece il gesto dell’affermazione.

Mi guardai attorno. Su un lato avevo il pendio, sull’altro un affioramento di roccia, nero e massiccio. La pista, quella principale, conduceva oltre la roccia. Non c’era nient’altro. Non c’era legna, a parte i piccoli arbusti, né alcuna traccia di acqua. — Perché? — chiesi.

— Non riusciremo a discendere il pendio prima di notte, e non ho visto nessun luogo che sia migliore di questo.

— Ha ragione lui — disse Nia. — La roccia ha una sporgenza. Dovrebbe ripararci, se pioverà, e c’è foraggio per gli animali. Ammetto che mi piacerebbe un po’ d’acqua fresca. L’acqua nelle nostre ghirbe sta diventando vecchia. Ma quando una persona viaggia senza il proprio villaggio, deve prendere quello che riesce a trovare.

— Ed essere grata di questo — aggiunse l’oracolo.

Nia fece il gesto dell’approvazione.

Smontai di sella. L’oracolo fece lo stesso. Mi stiracchiai e mi allungai il più possibile, poi mi piegai. Riuscivo a stento a toccare il terreno. Lo sfiorai con la punta delle dita e mi raddrizzai, inspirando nello stesso tempo. Altra ginnastica! Questa spedizione non doveva servire da scusa per impigrirmi.

L’oracolo disse: — Lui vuole scendere nella valle.

Guardai Derek. Stava fissando il panorama. Il cielo si andava rasserenando. La luce del sole illuminava i bordi delle nuvole e i colori della valle erano ancora più accesi di prima. — Perché? — domandai.

Lui si voltò. Conoscevo quell’espressione, le sopracciglia inarcate e il sorriso contorto. Derek stava progettando qualcosa di futile o pericoloso, e voleva la mia approvazione. La seduzione era entrata in funzione. Non avevo idea di come facesse, ma era teatrale come un luce al neon che incominciava ad accendersi. Il suo sorriso si allargò.

— Derek, falla finita! Spegnila!

— Che cosa?

— La bellezza mascolina, la seduzione, il fascino erotico. — Ero passata all’inglese. Nia incominciava ad accigliarsi.

— Voglio dare un’occhiata a quel lago — disse Derek. Stava parlando il linguaggio dei doni. La sua voce era profonda e tranquilla. Una voce ragionevole. La voce del buonsenso. — Credo di potercela fare ad andare e tornare prima che la luce sparisca del tutto.

— Ne dubito, e credo che tu sia pazzo a tentare. Quella laggiù è un’area molto attiva. Il suolo è probabilmente rovente, e forse non è sicuro. Potrebbe essere una crosta sopra qualcosa di brutto. Potresti sprofondare. Potresti finire nel brodo, e parlo più in senso letterale che metaforico.

— Parla la nostra lingua — protestò Nia. — Mi interessa questa discussione.

— Okay. Sto dicendo a Derek di non andare in quella valle.

— Non riuscirai a fargli cambiare idea — disse l’oracolo.

Derek rise. — Ha ragione. Rinuncia, Lixia. È inutile parlare. Ho intenzione di andarci.

Feci il gesto che significava "così sia". — Prendi i tuoi stivali.

— Perché? Mi muovo più rapidamente a piedi nudi.

— Te l’ho detto. Credo che il terreno sia rovente. — Mi piegai su un lato, sollevando un braccio, e abbassai l’altro braccio fino a toccare la caviglia, poi chiusi gli occhi, concentrandomi sulla respirazione. Dentro. Fuori. So. Hum. O gioiello del loto!

Mi raddrizzai e aprii gli occhi. Derek se n’era già andato: una piccola figura scura che si muoveva a scatti fra la pseudoerba, già a notevole distanza. Oltre e sotto di lui si estendeva la valle.

Nia dissellò i cornacurve. Accendemmo un fuoco sotto la sporgenza rocciosa. Per cena mangiammo quel che restava dello pseudo-dinosauro.

— Perché c’è andato? — domandò Nia.

— Non ne ho idea. Derek fa di queste cose. Non spesso. — Esitai. Volevo dire che quasi sempre giocava pulito, secondo le regole, ma non conoscevo la parola locale per definire "gioco". Dissi: — Quasi sempre fa quel che è giusto.

Nia finì un pezzo di carne, poi gettò l’osso nel fuoco. — Tutti gli uomini sono pazzi in un modo o nell’altro.

L’oracolo fece il gesto dell’approvazione.

Fissai il cielo della sera. La Grande Luna era sorta. Era più di una mezzaluna ormai e sembrava… che cosa?… tre quarti delle dimensioni della Luna terrestre vista da Skyline Drive, a Duluth, in una notte di piena estate.

Perché non conoscevo il termine per definire "gioco"? Guardai Nia. — Che parola si usa per definire quello che fanno i bambini quando lanciano una palla?

— Si dice "scherzare".

Be’, sì, aveva un senso logico. Era uno dei significati di "gioco". Ma ne aveva anche altri. Pensavo all’Amleto e alla tripla azione, sebbene non fossi del tutto certa di che cosa fosse. E al maneggio della spada. Amleto e Laerte, per esempio. E ai musicisti che suonano i loro strumenti. Quello che mi serviva era l’Old English Dictionary. Eddie aveva accesso ai computer linguistici. Afferrai la radio e l’accesi.

Mi rispose di nuovo un computer. Lo stesso programma di prima. Riconobbi l’accento e il tono di distaccata cortesia. La voce pacata arrivava attraverso un lieve e costante crepitio, simile al fuoco.

Chiesi la definizione di "gioco".

— Un minuto soltanto — rispose il computer.

Sentii i consueti rumori che fanno i computer quando sono al lavoro: un bip, seguito da una serie di cinguettii e poi un nota simile a un campanello. Una nuova voce, un altro programma, mi riferì i significati della parola "gioco" in inglese. Che significa anche scherzare, suonare, giocare d’azzardo, rappresentare, agire, divertirsi, dirigere, far funzionare, muoversi rapidamente…

Era una voce maschile con un accento cinese.

Quando ebbe terminato, ringraziai e spensi la radio.

— Che cos’è quell’oggetto? — s’informò l’oracolo.

Nia si protese in avanti. — Li-sa me l’ha spiegato. È un modo di parlare con persone che si trovano oltre l’orizzonte.

— Oh. Credevo potesse trattarsi di uno strumento musicale. Fa un sacco di differenti tipi di rumore, e alcuni sono piacevoli.

— Che cosa fate con uno strumento musicale? — domandai.

L’oracolo aggrottò la fronte. — Che cosa intendi dire?

— Qual è la parola che significa usarlo. Fargli fare un rumore.

— Oh. Nakhtu.

— Questo è nella sua lingua — precisò Nia. — Nel linguaggio dei doni è nahu.

— È uguale a scherzare? — chiesi.

— No. Certo che no. I bambini scherzano. Gli adulti sono assennati. O, se non sono assennati, sono pazzi, il che è diverso da essere sciocco.

— Oh. — Guardai il fuoco, poi la luna. Gli alieni possedevano strumenti musicali. Avevano cerimonie. Danzavano. Sapevo che conoscevano la rivalità. Pensai a Hakht e a Nahusai. Ma giocavano come noi? L’aggressività rituale e la rivalità erano assolutamente fondamentali nelle culture occidentali. Nell’estremo oriente avevano l’opera, il kabuki e tutte le arti marziali. Tutti avevano il calcio. Queste persone avevano la necessità di giocare quanto noi? C’era una tale tensione nella società umana, una tale aggressività frustrata. Perfino adesso che la vecchia società, la società dell’avidità e della privazione, era sparita.

Aspetta un minuto. Non tutte le società umane erano piene di tensione. Mi ricordai degli aborigeni californiani. Loro erano miti, in modo consapevole e calcolato. La mitezza era fondamentale nella loro religione. Era un segno di illuminazione. L’aborigeno ideale era mite e saggio. Manteneva un basso profilo, vicino alla Madre Terra.

Pensai a Derek. Sapeva essere mite, ma era una finzione. Sotto la superficie era come un tricheco maschio. Sapeva ciò che voleva, ed era disposto a lottare per ottenerlo. Era consapevole di com’era stato da bambino? Era per questo che aveva abbandonato la sua gente? Sarebbe stato un fallimento, frustrato e collerico, fra individui in grado di stare seduti per ore a osservare un condor nel cielo e sentirsi felici.

— "È qui che sta il senso", mi aveva spiegato uno di loro, una maga che indossava solo un perizoma e aveva il corpo pieno di tatuaggi. "La Madre Terra e il Padre Cielo, le cose che vivono: le piante e gli animali. Tutti gli antichi misteri di cui parlavano i profeti. Alce Nero e il Buddha. Gesù e Madre Carità. Tutti ci dicono la stessa cosa. Per quanto lottiate e vi sforziate, non lascerete mai questo mondo vivi. Perché lottare, dunque? E perché sforzarsi? Fa’ ciò che devi. Prendi ciò di cui hai bisogno. Sii grata e sii mite."

Okay, dissi a quel vecchio ricordo. Chiusi gli occhi e la rividi: la faccia piena di rughe e i lunghi seni piatti. C’era… c’era stata… una falce di luna sulla sua fronte. Fra i seni aveva un ciondolo, una scure a doppio taglio scolpita in una conchiglia. Una vecchia saggia. Chissà se Derek l’aveva conosciuta. Improbabile. Apparteneva a una tribù diversa. Erano una popolazione di montagna, i Bernadinos.

Mangiai un altro pezzo di carne, poi mi addormentai e mi svegliai nel cuore della notte. La luna era sparita e il cielo era pieno di stelle. Mi sollevai a sedere. Il fuoco era ormai solo un mucchio di tizzoni che rosseggiavano ancora leggermente. Mi guardai attorno. Nia era sdraiata accanto a me e russava. Più in là vidi un altro corpo. Doveva essere l’oracolo.

Dall’altra parte del fuoco c’era una terza figura, ritta in piedi, alta e pallida. — Derek?

— Sono appena tornato. — Parlava a bassa voce. — Avevi ragione. Il terreno scotta. L’ho sentito attraverso gli stivali.

— Qualche problema?

— No, salvo… una cosa buffa. Mentre tornavo, la luna stava tramontando. Proprio mentre spariva ho visto un bagliore improvviso. Credo che la luna stia eruttando.

Riflettei un momento. — È possibile, no? I planetologi hanno detto che c’erano prove che fosse stata attiva di recente.

— L’eruzione dev’essere enorme — disse Derek. — Davvero enorme, se riesco a vederla.

— Hai ragione. — Ci pensai ancora un momento. Poteva essere quello il motivo per cui non ero riuscita a mettermi in contatto con Eddie? Nessuno sano di mente vorrebbe perdere l’opportunità di vedere un’importante eruzione. — Altri problemi per i planetologi.

— Uhu. — Rise. — Quei poveri sciocchi. Gli sta bene. Hanno elaborato tutte le teorie sulla base di un solo sistema.

— Hanno usato quello di cui disponevano, Derek.

Lui disse: — Adesso voglio mettermi a dormire. Ti racconterò il resto domani.

— Okay. — Tornai a coricarmi. Il vento era girato. Adesso soffiava dalla valle, portando l’odore dello zolfo. Pensai alla luna, che aveva un’atmosfera. C’era un sacco di zolfo in essa, da quanto ricordavo. Deve puzzare davvero lassù in questo momento.

I planetologi non erano stati contenti quando avevano visto i primi ologrammi a lunga distanza. La luna era troppo grande, ci avevano detto. Tutte le migliori teorie sostenevano che la Terra era un’anomalia. I piccoli pianeti non avevano lune o, se le avevano, le lune erano piccolissime: frammenti di scorie spaziali catturate.

La nave si era avvicinata di più. I planetologi avevano scoperto che la superficie della luna era relativamente liscia.

Il sistema era pieno di scorie. Il pianeta aveva altre dodici lune, e tutte erano chiaramente planetoidi catturati. La grande luna avrebbe dovuto essere coperta di crateri creati da impatti. Invece c’erano vaste pianure di origine vulcanica e alcune montagne abbastanza notevoli, pure di origine vulcanica.

La luna era attiva, e le migliori teorie affermavano che i piccoli pianeti non avevano lune attive.

Il che significava che i planetologi dovevano incominciare a lavorare su nuove teorie. Ne avevo sentite un paio. Una implicava un’attrazione delle maree. L’altra presupponeva una composizione davvero strana del corpo celeste in questione. Erano troppo lontane entrambe dal mio campo di competenza perché io mi facessi un’opinione. Mi limitavo ad ammirare la stranezza della luna.

Mi svegliai all’alba, mi alzai e andai in cerca di un posto per orinare. Poi feci i miei esercizi, terminando con il saluto al sole. Arrivai in tempo perfetto. Quando ebbi finito il sole era sorto del tutto, rotondo e rosso sangue, proprio sopra la parete orientale della valle.

Nia si svegliò, e subito dopo di lei l’oracolo. Derek fu l’ultimo a svegliarsi. Si stiracchio e gemette, poi si tirò in piedi. Mangiammo. Nia andò a sellare i cornacurve. L’oracolo la seguì.

Derek sbadigliò. — Caffè. Ecco quello di cui ho bisogno.

— Che cosa hai trovato?

— Il lago è fango. Fango caldo. Bollente. È uno spettacolo interessante. Ci sono bolle che compaiono in superficie. Diventano sempre più grandi e poi… pffft, e sono sparite. Scoppiate. — Sbadigliò di nuovo. — L’odore di zolfo è davvero rivoltante. E ci sono pali lungo i bordi.

— Che cosa?

— Pali di legno. Grossi forse dieci centimetri e alti circa tre metri. Sono decorati con penne e pezzetti di stoffa. Alcuni hanno corna fatte di rame in cima. Davvero molto corrose. Devono essere stati i gas del lago.

"Presumo che il lago abbia una qualche specie di significato religioso. Non pensi? Ho trovato questo nel fango presso la riva." Si arrotolò una manica. Sul braccio aveva un braccialetto. Se lo tolse e me lo porse. Era d’oro, alto e pesante. Lo rigirai e notai un disegno, ripetuto quattro volte: un cornacurve con un altro animale che lo aggrediva, piantandogli gli artigli nella carne e azzannandolo. Che animale poteva essere? Il corpo era flessuoso come quello di una pantera, la testa stretta e allungata con orecchie enormi, e la coda finiva in un ciuffo. — Nia?

Lei si avvicinò.

— Che cos’è questo?

Prese il braccialetto. — Uh! È proprio bello! L’ha fatto qualcuno del mio popolo. Nessun altro sa fare un lavoro di questa qualità.

— Che animale è? Quello che sta sopra.

— Un assassino-delle-pianure. — Inclinò il braccialetto in modo che il disegno si vedesse meglio. — L’assassino-delle-montagne è più piccolo e ha delle squame oltre al pelo. Mi chiedo come ci sia arrivato qui. Dove l’hai trovato?

— L’ha trovato Derek giù nella valle, vicino al lago.

— Allora è un’offerta. Un dono ai demoni del fuoco. Non avresti dovuto prenderlo. — Porse il braccialetto a Derek.

— Oh, no? — Si rimise il braccialetto.

— Vedo che hai intenzione di tenerlo. — Nia fece il gesto che significava "così sia". — Credo che tu stia facendo un errore. — Si voltò e si allontanò.

Derek sorrise, poi si tirò giù la manica e l’allacciò.

— Ci sono volte in cui credo che tu sia pazzo — osservai.

— No. Solo gravemente alienato. In ogni caso, non credo ai demoni del fuoco. — Lanciò un’occhiata alla valle. — È un bene che non ci creda. La mia protezione personale è troppo lontana. La Balena Grigia non può aiutarmi qui.

La pista curvava verso sud, lasciando il margine della valle. Ancora una volta viaggiavamo in mezzo a colline. La giornata era nuvolosa e il sole era un luminoso disco bianco. Nella luce diffusa non c’erano ombre. Ero quasi certa che stessimo viaggiando verso occidente, ma non ci avrei scommesso. Pensavo anche che stessimo salendo, ma non avrei scommesso neppure su questo. La pista si snodava su e giù.

Gradualmente, i pendii delle colline si facevano più dolci, le valli più ampie e meno profonde. Gli alberi e gli arbusti, quei pochi che c’erano stati, sparirono.

— Uhu — disse Nia in tono soddisfatto. — Stiamo arrivando sulla pianura.

Ci inoltrammo in una nuova valle. Al centro scorreva un fiumiciattolo e un gregge di animali pascolava lungo la riva. Erano bipedi, una nuova specie, più grossa e più pesante di ogni specie vista in precedenza. Soltanto due si tenevano ritti sulle zampe posteriori. Forse stavano di vedetta. Gli altri avevano le zampe anteriori appoggiate al suolo e la testa abbassata, e stavano pascolando.

Derek disse: — Devono essere più abili dei nostri dinosauri. Devono competere con i mammiferi per i pascoli. O dovrei chiamarli mammiferoidi? Non capisco come riescano a sopravvivere.

— Ci sono, o c’erano, un sacco di strani uccelli sulla Terra. Struzzi. Emù. Casuari dell’elmo. E che dire del moa e del grande uccello degli alcidi? Sono sopravvissuti anche nell’era dei mammiferi. Di fatto, credo che la loro evoluzione sia avvenuta nell’era dei mammiferi.

Derek scosse il capo. — Si sono evoluti dai comuni uccelli per colmare determinate nicchie ecologiche: su isole, in almeno due casi. Il moa viveva nella Nuova Zelanda. Il grande uccello degli alcidi nidificava in Islanda. Queste creature invece si trovano ovunque. È evidente che riescono a competere con successo. E non credo che i loro antenati fossero uccelli. Sembrano più rettili, se questo termine ha un significato, su questo pianeta.

— Sono pennuti, e sono disposta a scommettere che sono animali a sangue caldo.

— Lo erano anche i dinosauri. Animali a sangue caldo, voglio dire.

Uno degli animali eretti emise un muggito. Gli altri s’impennarono sulle zampe posteriori e si allontanarono su per la valle lungo il fiume. Avevano un’andatura buffa, un modo di correre goffo. A dispetto dell’atteggiamento maldestro, coprivano una notevole distanza. Quando arrivammo sul fondo della valle erano già spariti.

All’incirca a metà del pomeriggio mi guardai attorno e mi resi conto che le colline erano finite. Ci trovavamo su una pianura ondulata, ricoperta di pseudo-erba che ondeggiava al vento, cambiando colore ogni volta che le foglie si rovesciavano: verde, verdeazzurro, bruno e grigio.

Qualcosa s’innalzava sopra l’orizzonte verso nord. Mi riparai gli occhi con la mano e osservai. La cosa era quasi dello stesso colore del cielo e così lontana che la si vedeva a stento. Un cono, ampio alla base. La sommità del cono, la punta, era mancante. Al suo posto c’era una linea orizzontale. L’orlo di un cratere.

Mi voltai ad aspettare Nia, che cavalcava a una certa distanza alle mie spalle. L’oracolo era dietro di lei, e cavalcava anche lui. — Che cos’è quello? — chiesi, indicandolo con la mano.

Lei lanciò un’occhiata, poi tirò le redini del suo animale.

— Non l’ho mai visto prima, ma ne ho sentito parlare. Quello è Hani Akhar. La Grande Montagna. La dimora della Signora della Fucina.

L’oracolo venne a fermarsi accanto a noi. Guardò verso nord. — Sì, è quella. Riesco a sentirla anche a questa distanza. È un luogo molto sacro. E anche pericoloso. Quello spirito non è sempre amichevole.

— Questa è certamente la pista sbagliata — disse Nia. — Siamo molto più a nord di dove volevo essere.

— Alla fine arriveremo nel posto giusto — ribatté l’oracolo. — La strada che prendiamo non conta.

Nia si grattò il naso. — Non c’è modo di discutere con una persona santa. Costoro sono sempre sicuri di saperne più di noi. E se diciamo "no", loro replicano: "Gli spiriti hanno parlato".

Proseguimmo. Non mi piaceva camminare accanto ai cornacurve. Erano troppo grossi, e la cavalcatura di Nia ogni tanto era irrequieta e perfino cattiva. E certamente non mi andava di seguire gli animali. Era una seccatura dover fare sempre attenzione allo sterco.

Quella sera ci accampammo presso un piccolo lago paludoso. Derek e Nia andarono a caccia. Tornarono al calar della notte, a mani vuote. Mangiammo pane vecchio e bevemmo l’acqua del lago. Aveva uno strano gusto.

— Acqua di palude — osservò Derek. — Ho bevuto di peggio in California.

— Nel deserto? — domandai.

— Per lo più. Ma anche a Berkeley. C’erano un paio di tizi nella mia facoltà che avevano gusti veramente disgustosi in fatto di vino. Ed erano persone importanti. Ero costretto ad andare alle loro feste.

— Di che cosa state parlando? — s’informò Nia.

— Di una bevanda simile al bara - risposi.

— Ha un gusto cattivo?

— Qualche volta — disse Derek.

Si allontanò, portando con sé la sua radio. Io rimasi accanto al fuoco con i due nativi.

La grande luna era sorta ed era più di una mezzaluna. La guardai, cercando di scorgere segni di un’eruzione vulcanica, ma le nuvole la velavano e ne rendevano indistinti i bordi.

Guardai i due indigeni. — È mai successo qualcosa di strano alla grande luna?

— Che cosa intendi dire? — domandò Nia.

Riflettei un momento, cercando di immaginare un modo per descrivere qualcosa che non avevo visto. — Non vi compaiono mai delle macchie luminose? Non si vedono mai delle cose sul bordo, come fili di vapore o come una lingua di fiamma sporgente?

Nia fece il gesto dell’affermazione. — Ma è una cosa eccezionale.

— Che cosa significa? — chiesi.

— Niente che io sappia. — Aggrottò la fronte mentre pensava. — Ci sono persone a occidente che hanno trovato un modo di osservare il sole senza ferirsi gli occhi. Secondo loro il sole non è perfetto e senza macchie come pensiamo. Sostengono che è chiazzato. Le chiazze sono nere e si muovono strisciando come insetti. Quando compaiono le macchie, in grande quantità, significa che il tempo si metterà al brutto.

— Non ho mai sentito questa storia — disse l’oracolo. — Ma so che cosa significa quando compare una macchia sulla luna.

Feci il gesto della curiosità.

— Significa che la Madre delle Madri non ha tenuto d’occhio la sua pentola.

— Che cosa? — domandai.

— Le donne anziane sostengono che la grande luna è una pentola per cucinare. Appartiene alla Madre delle Madri. A volte lei si dimentica di tenerla d’occhio e allora trabocca. Allora vediamo quello che hai descritto tu. Le vecchie dicono che significa che sarà un inverno di carestia. — Fece una pausa. — Mia madre sostiene che le vecchie si sbagliano. Lei tiene da parecchi anni una cordicella della luna. Ogni volta che succede qualcosa lassù, fa un nodo. E ha altre cordicelle che usa per tenere il conto del tempo atmosferico. Pioggia. Neve. Un vento forte. Siccità. Ha una cordicella per ogni tipo di tempo. Non c’è alcun collegamento fra quello che succede sulla luna e quello che succede sulla pianura. Questa è la sua opinione. Credo che abbia ragione.

— Mmm — fece Nia. — Non ho mai sentito la storia sulla luna. Se non è vera, non la ripeterò.

— La parte sulla pentola per cucinare è molto probabilmente vera — dichiarò l’oracolo. — Mia madre non ha detto niente a tale proposito. Non tutto quello che succede nel mondo degli spiriti ha una conseguenza sul mondo quaggiù.

Nia fece il gesto dell’approvazione.

Derek tornò. Gli rivolsi un’occhiata. — Sei riuscito a parlare con Eddie?

— Sì. Perché non avrei dovuto?

— C’era elettricità statica la notte scorsa e negli ultimi due giorni ho parlato con dei computer.

— Eddie non ha detto niente a proposito di elettricità statica. — Si sedette e si piegò con cura. — Né di computer. Ma ha passato il tempo in una delle grandi sale olovisive. La luna è davvero in eruzione, e l’eruzione è grossa. Ci stiamo perdendo un diavolo di spettacolo.

— Di che cosa stai parlando? — chiese Nia.

— La luna — dissi. — Sta traboccando.

Lei guardò il cielo. — Peccato che il cielo sia nuvoloso.

Il giorno seguente Nia disse di voler camminare.

— Mi sento di nuovo irrequieta. Se la caviglia incomincerà a darmi fastidio, ti chiederò di farmi cavalcare.

— D’accordo — dissi.

L’oracolo viaggiò cavalcando, come sempre. Di quando in quando passavamo accanto a piccoli acquitrini o a laghetti semiasciutti. Il cielo era caliginoso. Hani Akhar rimaneva appena visibile.

Nel pomeriggio inoltrato arrivammo in cima a una salita. Sotto di noi c’era un lago. Era molto più vasto degli altri che avevamo incontrato, dalla forma irregolare e pieno di minuscole isolette. Le rive erano paludose e vi cresceva l’erba enorme a mucchi.

Nia disse: — Conosco questo posto, benché non ci sia mai stata prima. È il Lago degli Insetti e delle Pietre. Ci troviamo nel territorio del Popolo dell’Ambra. Loro vengono qui in autunno durante il viaggio verso sud. Pescano e cacciano uccelli, ed eseguono cerimonie in onore della montagna.

L’oracolo fece il gesto dell’approvazione. — Un altro luogo sacro.

Scendemmo. Il cielo era limpido a occidente e il sole era basso. L’acqua luccicava e facevo fatica a vedere. Passammo accanto a una macchia di erba enorme. Il lago era solo a qualche metro di distanza. Le canne si muovevano al vento. L’acqua brillava. Qualcosa mugghiò. Era proprio di fronte a me ed emergeva con un gran fracasso dalle canne, impennandosi. Mio Dio! Era alto tre metri! La bocca era aperta. Le zampe anteriori erano protese verso di me, gli artigli aperti. Un altro muggito! L’animale che cavalcavo mosse di scatto la testa. Le redini diedero uno strappo fra le mie mani. Il cornacurve recalcitrò e mi ritrovai disarcionata. Un istante dopo atterrai con violenza al suolo. La scossa mi percorse da parte a parte e gridai. Poi mi ritrovai ritta in piedi.

— Tirati indietro — mi disse Derek. — Lentamente. Non spaventarlo.

Feci un passo indietro. Derek era al mio fianco. Non riuscivo a vedere Nia, né l’oracolo, né il mio cornacurve. Lo pseudo-dinosauro emise un altro muggito, ma non si mosse. Ora, per la prima volta, lo vedevo chiaramente. Alto tre metri. All’inferno! Erano più probabilmente quattro. Aveva il ventre di un rosa acceso e una cresta di piume gialle. Le zampe anteriori e le spalle erano di un color grigioazzurro scuro.

Feci un altro passo. La creatura sibilò. La bocca aperta era piena di denti. Denti smussati. Era un erbivoro. Ma gli artigli erano lunghi e affilati. Per scavare? Combatteva? Inclinò la testa e un minuscolo occhio vivo mi fissò.

— Continua a muoverti — disse Derek. La sua voce era sommessa e tranquilla. — Un passo alla volta.

Vidi Nia al mio fianco, dall’altro lato, con in mano un coltello. Un’arma inutile contro quel mostro.

Ora lo pseudo-dinosauro faceva un altro verso, un lamento. Che cosa significava? Poi vidi qualcosa muoversi alle sue spalle, proveniente dal lago. Un altro mostro. Battei le palpebre, cercando di vedere contro sole. Questo era più piccolo dell’animale che ci fronteggiava, e camminava su quattro zampe. Aveva la schiena grigia.

— La femmina — disse Derek.

L’animale girò la testa e strappò una canna con i denti. Poi proseguì, masticando e facendo un forte suono sgranocchiante. Frammenti di canna gli penzolavano dalla bocca. Dietro venivano altri tre animali. Erano piccoli, delle dimensioni di un cane San Bernardo. Due erano quadrupedi e seguivano la madre con un’andatura dondolante. Il terzo saltellava goffamente.

— Ebbene, che cosa sai?

Continuammo a indietreggiare, allontanandoci dal maschio infuriato. Dov’era l’oracolo? Non riuscivo a vederlo.

La madre proseguì dondolandosi, seguita dai tre piccoli. Finalmente scomparvero alla vista, nascosti da una macchia di erba enorme. Il maschio sibilò, poi si voltò e seguì a balzi la sua famiglia. La spalla incominciava a farmi male. Mi cedettero le ginocchia e mi sedetti.

— Davvero interessante — osservò Derek. — Si preoccupano dei loro piccoli. Ciò contribuisce a spiegare come siano in grado di sopravvivere in concorrenza con gli pseudo-mammiferi. I mammiferoidi. Abbiamo bisogno di un intero nuovo vocabolario. O Santa Unità! Pensavo che mi sarei pisciato nei pantaloni.

Nia disse: — Uh! — Mise via il coltello. — Spero che il pazzo stia bene. Il suo cornacurve è fuggito. L’ultima volta che l’ho visto si teneva ancora aggrappato.

— Oh, mio Dio, Derek. La nostra attrezzatura. Le radio.

Lui scoppiò in una risata. — Sui cornacurve. Là fuori. — Fece un ampio gesto con la mano per indicare la pianura. — Tu stai bene?

— La spalla mi fa un male infernale e mi sono morsa la lingua. Non so quando.

Derek mi sottopose a un rapido esame. — La tua spalla non è lussata e la lingua è ancora al suo posto. Credo che te la caverai. — Si voltò a fissare la pianura. — Vado in cercadella nostra attrezzatura. Ero abituato a rincorrere i cavalli in California. I cornacurve non sono più veloci. Li raggiungerò. — Si volse verso di me. — Accampatevi qui da qualche parte. Vi troverò.

— Derek… — incominciai.

Lui si allontanò a grandi passi.

— Derek! — gridai.

Non si voltò a guardare indietro.

— È un individuo molto strano — osservò Nia.

— Sì. — Restai a osservarlo finché non scomparve alla vista, poi mi voltai a guardare Nia. — Bene, troviamo un posto per accamparci.

Inahooli

Seguimmo la pista lungo la riva finché non arrivammo a una macchia di erba enorme. Nia tagliò dei rami e li intrecciò per formare dei canestri: trappole per i pesci. — Può darsi che questo modo non funzioni. È più facile catturare pesci in un fiume. — Mise le trappole dentro l’acqua.

Dopo di che esplorammo il boschetto. Nia trovò un gruppetto di piante che crescevano sul margine orientale. Erano radici commestibili. Io raccolsi legna per il fuoco. Cucinammo le radici. Erano croccanti e quasi senza sapore.

— Sono buone nello stufato di carne — mi spiegò Nia. — Da sole… — Fece il gesto che significava "il resto è chiaro".

— Sempre meglio di niente.

Lei fece il gesto dell’affermazione.

Calò la sera. Il vento cambiò. Ora soffiava dal lago. All’improvviso il boschetto si riempì di insetti.

— Morsicatori! — esclamò Nia.

Mi diedi una pacca sul collo. — Hai ragione.

Ci rannicchiammo accanto al fuoco. Il fumo ci proteggeva fino a un certo punto. Venni morsicata una seconda volta, su un polso. Anche Nia fu morsicata una volta, sul palmo della mano, dove non aveva pelliccia.

— Uh! — Batté fra loro le mani. — Bene, ho preso la creatura. Non darà più fastidio a nessuno. Come riesci a sopportarlo, Li-sa? Tu non hai pelliccia. Possono morderti dappertutto.

Il fumo mi era entrato negli occhi, che ora lacrimavano. I punti in cui ero stata punta dagli insetti prudevano. — Non amo affatto le situazioni come questa. — Mi grattai una morsicatura. — Ma che cosa posso farci? Non posso farmi crescere la pelliccia. E in ogni caso, ho sopportato di peggio. Un tempo vivevo nel Minnesota.

— Dove? — domandò Nia.

— Una terra con molti laghi e molti insetti. — Feci una pausa e restai in ascolto. Gli insetti mi ronzavano attorno alle orecchie. Ce n’erano un sacco. Avrebbero dovuto morsicare di più. Forse non avevo l’odore giusto. Forse erano soltanto gli insetti coraggiosi, o quelli stupidi, che decidevano di fare un tentativo con me.

— Aiya! - Nia si batté la fronte. — Un altro!

Mi allontanai il fumo dalla faccia con la mano. — Riescono a morsicarti attraverso la pelliccia?

— Solo in qualche punto, dov’è più sottile. Attorno agli occhi o nell’incavo del gomito.

Il vento cambiò di nuovo direzione e scacciò gli insetti. Ci coricammo. Non avevamo niente con cui coprirci. Il mantello di Nia si trovava con il resto dei nostri bagagli da qualche parte della pianura, così pure il mio poncho. Ma la notte era mite e io ero sfinita. Mi raggomitolai e mi addormentai subito.

Mi svegliai presto. Le nuvole erano sparite e il cielo sopra di me era di un brillante verdeazzurro. Gli uccelli facevano rumori fra le foglie. Nia russava accanto alle ceneri del fuoco.

Mi alzai, gemendo. Avevo il corpo completamente irrigidito e la spalla mi faceva particolarmente male. Me la massaggiai e intanto mi guardai attorno. Non c’era un filo di vento, e il lago era immobile. Al largo, oltre i canneti, una canoa scivolava sull’acqua.

— Nia!

Lei balzò in piedi. Gliela indicai. Nia gridò e agitò le braccia. La canoa virò nella nostra direzione. Un attimo dopo era sparita, nascosta dai canneti. Ci precipitammo verso la riva.

— Chi può essere? — domandai.

— Non lo so. Una donna. Una del Popolo dell’Ambra.

La prua si fece largo fra le canne. Era fatta rozzamente con un tronco scavato. Veniva silenziosa verso di noi. La donna, seduta nella parte posteriore, sollevò la pagaia dall’acqua, poi alzò una mano e si riparò gli occhi. — Sto vedendo delle cose? Una di voi è senza pelo?

— Sì — dissi.

La canoa raggiunse la riva. La donna scese. Era più alta di me, dinoccolata, con il pelame di un bruno scuro. La faccia era larga e piatta, gli occhi di un arancione scuro, quasi rosso. Indossava una tunica giallo chiaro decorata con strisce ricamate. Il disegno era complicato e geometrico, fatto in diverse tonalità di azzurro. La cintura era blu, e portava un lungo coltello in un fodero di cuoio blu. — Sei nata così? — s’informò. — O sei stata ammalata?

— Questo è il mio modo naturale di essere. — Usai la parola che significava "consueto" o "giusto".

Lei mi squadrò dalla testa ai piedi. — Naturale, eh? E tu? — Si rivolse a Nia. — Chi sei? E perché viaggi con uno scherzo di natura?

— Sono una donna del Popolo del Ferro. Nia la lavoratrice del ferro.

La nuova arrivata corrugò la fronte. — C’è qualcosa di familiare in quel nome.

— È abbastanza comune — replicò Nia.

La donna manteneva la sua espressione accigliata.

Nia proseguì. — E il tuo nome qual è?

— Toohala Inahooli. Appartengo al Popolo dell’Ambra e al Clan della Cordaia. In questo momento, ho una posizione di grande prestigio. Sono la guardiana della torre del clan.

Nia fece il gesto del riconoscimento.

Io dissi: — Che cos’è una torre del clan?

La donna mi guardò con astio. — Da dove vieni? Non lo sai che fra il Popolo dell’Ambra ogni clan erige una torre in onore della sua Prima Antenata? Costruiamo ogni torre cercando di farla più alta possibile. La ricopriamo di decorazioni ed eseguiamo cerimonie di fronte alla torre per impressionare gli altri clan e far sì che provino invidia e mortificazione.

Un nuovo tipo di manufatto! Riflettei un momento. — Posso vedere la torre?

— Sì. Naturalmente. A che serve una torre se la gente non ne viene impressionata? E come fa essere impressionata se non viene a vederla? Ma ti avverto, la nostra magia è potente. Se c’è qualcosa di demoniaco in te, riporterai dei danni.

— No. Non sono demoniaca.

— Non possiamo andare — intervenne Nia. — Deragu… — Esitò. — Non so dire il suo nome.

— Derek.

— Derag ci ha detto di aspettare.

La donna si accigliò. — Chi è questa persona? Mi sembra un nome maschile.

— La persona è una donna — disse Nia. — Viene dallo stesso posto di Li-sa. Loro parlano una lingua che è assolutamente diversa dalle lingue della pianura. Le desinenze sono differenti.

Inahooli fece il gesto che significava che capiva ciò che dicevamo.

Nia proseguì. — I nostri cornacurve sono fuggiti. Lei… questa persona, Derag… è andata a cercarli.

Inahooli ripeté il gesto della comprensione.

— Tu rimani qui — feci io. — Se Derek arriva, dille dove sono. Capirà.

Nia fece il gesto che significava "no".

— Perché no?

Nia si grattò la nuca. Forse era stata morsicata in quel punto, anche se, da quanto ricordavo, la pelliccia lì era piuttosto folta.

— Ascoltate — disse Inahooli. — Io me ne vado. Voi due potete discutere. Forse quella — puntò il dito contro Nia — ha qualcosa di cattivo da dire su di me. — S’incamminò lungo la riva

— Okay — dissi. — Qual è il problema? Credi che quella donna sia pericolosa?

— No. Ma credo che abbia sentito parlare di me. Quando la mia gente ha scoperto di me ed Enshi, c’è stato un gran clamore. Il Popolo dell’Ambra potrebbe aver sentito quelle voci. Loro fanno scambi con noi.

— Voglio vedere la torre. Hai sentito parlare di cose del genere?

— Sì. Il Popolo dell’Ambra non è come la mia gente. Noi siamo imparentati con il Popolo della Pelliccia e dello Stagno. Conosciamo quelle persone. Le chiamiamo "consanguinee". E credo che possa esserci una parentela anche con il Popolo del Rame. La loro lingua non è difficile da imparare. Ma il Popolo dell’Ambra… La loro lingua è difficile e le loro usanze sono particolari. Loro si vantano moltissimo. Ogni clan cerca di superare gli altri nella costruzione di torri e nella danza. Non li capisco.

— Io vado — dissi. — Dovrei essere di ritorno questa sera.

Nia fece il gesto che significava "così sia". — Non dirle che viaggiamo con degli uomini. Non credo che capirebbe.

— Okay. — Feci un cenno della mano a Inahooli, che tornò indietro. — Vengo con te.

— Bene. Sarà un evento straordinario. Nessuna guardiana ha mai mostrato la nostra torre a una persona senza pelo.

Spingemmo lontano dalla riva la canoa e ci salimmo. Inahooli incominciò a pagaiare. Nel giro di un minuto o due Nia era sparita alla vista, nascosta dalle piante che io chiamavo canne, che ondeggiavano sopra di noi, alte e di un grigioazzurro spento. La maggior parte degli steli terminava in un ammasso di foglie, ma qui e là distinguevo una testa rotonda, scura e pelosa. Il fiore della pianta? Non lo sapevo.

Scivolammo silenziose verso il largo. Davanti a noi c’erano delle isole. Erano piccole, larghe solo alcuni metri, costituite di una tenera pietra vulcanica che l’azione degli agenti atmosferici aveva modellato in forme assai bizzarre. Una somigliava a un fungo. Un’altra, alta e sottile, mi faceva venire in mente una donna umana con una lunga veste. Una terza era un arco. Una quarta era una cattedrale in miniatura. Tardo Gotico, decisi. La cattedrale aveva un sacco di guglie.

Scivolavamo fra le isole. Guardai giù. L’acqua era limpida. Un pesce comparve con un guizzo, poi si girò di lato e sparì. Che pianeta! Tutt’a un tratto provai un senso di orrore all’idea di tornare a casa.

Falla finita, pensai. Non pensare alla Terra. Concentrati sul presente. Goditi quello che hai adesso.

Guardai davanti a me. C’era un’altra isola in vista: lunga e bassa, circondata di canne. A un’estremità sorgeva una costruzione, alta una ventina di metri, calcolai, e fatta di una rozza ingraticciata. Alla torre erano appesi stendardi, che in quel momento penzolavano flosci. Man mano che ci avvicinavamo, scorsi altre decorazioni: mucchi di penne e lunghe filze di conchiglie.

— La torre della Cordaia — mi spiegò Inahooli.

Girammo intorno all’isola. Sull’altro lato c’era una spiaggia. Sbarcammo e tirammo la canoa sulla ghiaia. Inahooli mi guidò verso la torre. L’isola era rocciosa e quasi totalmente brulla, con solo sporadiche macchie di vegetazione: pseudomuschio color arancione, pseudo-licheni bruni e una grigia pianta ricca di foglie che mi arrivava a metà polpaccio. C’erano soltanto due oggetti abbastanza grandi: la torre e una tenda di tessuto marrone scuro.

— Quella è la mia dimora — mi spiegò Inahooli. — Ogni primavera veniamo qui. Il clan ricostruisce la torre ed esegue cerimonie per santificarla. Poi lanciamo i dadi e una di noi viene scelta per fare la guardiana. Quella donna resta presso la torre per tutta l’estate. La sorveglia e si assicura che non le capiti nulla. In autunno la tribù ritorna. Il clan invita tutti a una grande danza. Mangiamo. Facciamo musica, ci vantiamo delle nostre antenate. Se tutto va bene, gli altri clan si sentono in imbarazzo. Dopo di che andiamo tutti a sud verso la Terra dell’Inverno. Il Clan dell’Uccello Terrestre esegue laggiù le proprie danze. Di solito malamente. Per qualche ragione, non sono mai state brave a vantarsi. E in ogni caso, di cosa mai dovrebbero vantarsi? La loro antenata non è che un miserabile uccello terrestre che ha fatto soltanto una cosa di una certa importanza.

— Che cosa?

— Ha rubato il fuoco allo Spirito del Cielo e lo ha dato al popolo del mondo. Un’ottima cosa. Ci sentiamo grate nel cuore dell’inverno quando la neve è alta e soffia il vento e così via. Ma la nostra antenata ha salvato tutti gli esseri viventi.

— Oh, davvero?

Arrivammo alla tenda. La torre si trovava solo a una decina di metri di distanza. Vicino alla base c’era una fila di maschere appese all’ingraticciata. Erano ovali e con fori degli occhi rotondi. Ciascuna era dipinta di un colore uniforme: rosso, giallo, nero, bianco. Le indicai col dito. — Chi rappresentano?

— Quella nera è la Cordaia. La gialla è l’Imbroglione. La rossa è la Signora della Fucina. E la bianca è la Vecchia del Nord.

— Parlami di loro.

Lei mi scrutò da capo a piedi. Era uno sguardo prudente, lo sguardo di una narratrice che ha avuto un’opportunità. — Benissimo. Ma non posso usare le maschere. Devono restare dove sono fino alla grande danza. Siediti. Cercherò di rendere la storia semplice e il più breve possibile.

Mi sedetti di fronte alla tenda e Inahooli si sistemò davanti a me. Nel cielo un uccello zufolò, librandosi sopra il lago.

— Questa è la storia del pettine d’avorio — mi disse con voce sonora.

"Nell’estremo nord vive una vecchia. La sua tenda si trova nel cielo. Le pareti della tenda sono fatte di luce e pendono in pieghe dai pali della tenda, che sono fatti con le ossa del mostro del mondo originale. Come siano arrivate nel cielo è un’altra storia, che non ho il tempo di raccontare. La vecchia ha un pettine, ricavato da uno dei denti del mostro. È d’avorio, bianco come neve. Lei lo usa per pettinarsi la pelliccia. Quando lo fa, tira fuori delle creature. Queste cadono sul pavimento e spariscono, passando attraverso il pavimento per finire nel mondo. Tutti gli animali del mondo nascono in questo modo.

"Quando la vecchia si pettina il lato sinistro del corpo, gli animali che escono sono buoni e utili: i cornacurve che conduciamo in branco, gli uccelli che cacciamo e mangiamo. Quando si pettina il lato destro del corpo, gli animali che escono sono dannosi: lucertole dal morso velenoso e insetti che mordono. Gli abitanti del mondo cantano rivolti alla vecchia, lodandola e chiedendole aiuto. Questa è una delle canzoni:

"Nonna, sii generosa.

Pettinati la parte sinistra del corpo.

Allora saremo prosperi.

Allora saremo felici.

I nostri figli saranno grassi

Nelle nostre tende presso il fuoco.

"Nonna, sii compassionevole.

Non pettinarti la parte destra del corpo.

Lascia le lucertole dove sono.

Non mandarci

gli insetti che mordono e pungono.

"Nell’estremo sud c’è un giovane. È alto e di bell’aspetto. I suoi occhi sono gialli come il fuoco. Nessuno sa con certezza chi sia sua madre. Alcuni dicono che sia il grande spirito, la Madre delle Madri. Altri dicono che sia un demone del fuoco.

"Il giovane è chiamato l’Imbroglione. È colui che appare agli uomini in inverno, quando sorvegliano la mandria. Ogni uomo siede da solo sotto una tenda che è fatta con un mantello steso sopra i rami di un arbusto o di un albero. La neve scende su di lui. Il fuoco che ha davanti a sé è basso. L’uomo sta seduto e rabbrividisce, tenendo le braccia strette contro il corpo. Allora compare l’Imbroglione. La sua voce è come il vento. Dice: ’Perché lo fai? Perché soffri per le ingrate donne del villaggio? Dimenticati di tua madre. Dimenticati delle tue sorelle. Dimentica i figli e le figlie che potresti avere. Vattene fra le colline e vivi come un animale senza obblighi, soddisfacendo soltanto te stesso’.

"La maggior parte degli uomini ignora la voce. Ma alcuni ascoltano. Impazziscono e abbandonano la mandria, vagando fra le colline. Dopo di che nessuno li vede più.

"L’Imbroglione è lo stesso che va incontro alle donne in primavera, quando è il periodo degli accoppiamenti. Si presenta come il migliore degli uomini, grande e grosso, forte e sicuro di sé. Fissa il suo territorio vicino al villaggio. Nessun altro uomo osa affrontarlo. Quando arrivano le donne smaniose, lo incontrano. Alcune di loro, comunque, lo incontrano. Ogni donna che si accoppia con lui pensa: che padre eccellente! Mia figlia sarà robusta e intraprendente. E anche di bell’aspetto.

"Ma l’accoppiamento non genera figli. O se nascono dei figli o delle figlie, sono malaticci e irascibili. Non causano altro che guai.

"Di solito succede così. Ma l’Imbroglione non è mai prevedibile neppure nel male che fa. Una volta ogni tanto una donna si accoppia con lui e la figlia che nasce è come il padre, grande, forte e sicura di sé: una vera eroina.

"Una di queste era la mia antenata, la Cordaia. Ma prima devo raccontarti in che modo l’Imbroglione rubò il pettine d’avorio.

"Si trovava nell’estremo nord e aveva freddo e fame. Non c’era niente lì attorno all’infuori della vasta pianura coperta di neve. Dopo un po’ arrivò alla tenda della vecchia. Risplendeva sopra di lui, bianca, gialla e verde. Lui si tolse le racchette da neve e le infilò in un mucchio di neve, poi si arrampicò su nel cielo. Entrò nella tenda. La vecchia era lì, seduta al centro del pavimento. La sua pelliccia era diventata grigia per l’età. Si stava pettinando con il pettine d’avorio.

"L’Imbroglione si sedette e restò a guardare con bramosia. La vecchia stava passando il pettine nella pelliccia sull’avambraccio sinistro e ne uscivano degli animali. Erano piccoli e scuri. La vecchia scuoteva il pettine e gli animali cadevano giù. Quando toccavano il pavimento, sparivano. Andavano nel mondo, nelle profonde tane dei costruttori di monticelli.

"’Nonna’ disse l’Imbroglione. ’Dammi qualcuno dei tuoi animali. Ho fame, e sembrano deliziosi.’

"La vecchia lo fissò. ’Io so chi sei. L’Imbroglione, Colui Che Racconta Menzogne.’ Scosse il pettine, poi afferrò uno degli animali a mezz’aria. Se lo mise nella mano. Il minuscolo muso si contrasse e i baffi fremettero. Fissava l’Imbroglione con i vivaci occhi scuri. ’Questi animali sono parte di me. Io li dono alla gente che li tratta con rispetto. Ma tu, o Malvagio, tu maltratti tutto ciò su cui metti le mani. Non c’è rispetto in te. Non ti darò nulla.’ Capovolse la mano. L’animale cadde al suolo e sparì.

"L’Imbroglione digrignò i denti. ’Nonna, abbi pietà.’

"’No’ disse la vecchia. ’Puoi anche morire di fame per quel che me ne importa. Che ti serva di lezione.’ Si voltò, dando le spalle all’Imbroglione.

"Lui balzò in piedi. ’Te ne pentirai, vecchia gallina!’ Corse fuori dalla tenda, scese dal cielo e si sedette accanto alle sue racchette nel mucchio di neve. Qui aspettò che la vecchia si addormentasse. Il suono del suo russare pervase la pianura. L’Imbroglione si arrampicò di nuovo nel cielo ed entrò di soppiatto nella tenda. Le pareti risplendevano più che mai e la tenda era piena di una pallida luce tremolante. Vide la vecchia distesa sulla schiena. Accanto a lei c’era il pettine d’avorio. Lo prese.

"’Ma dove mi nasconderò?’ si chiese. ’Quando gli spiriti scopriranno che è sparito, frugheranno l’intero mondo. Quale posto è sicuro?’

"Allora gli venne un’idea. Si fece piccolissimo, se stesso e anche il pettine, e strisciò dentro la vagina della vecchia. Lei gemette e si grattò, ma non si svegliò.

"’Questo non è il posto più piacevole dove sia stato’ disse l’Imbroglione. ’Gradirei più luce e un po’ meno di umidità. Ma a nessuno verrà in mente di guardare qui dentro.’

"La vecchia si svegliò e allungò la mano per prendere il pettine. Non c’era. Lanciò un urlo. In ogni parte del mondo gli spiriti balzarono su. ’Che cosa c’è?’ gridarono. ’Che cosa succede?’

"Allora ebbe inizio la ricerca. Su e giù, avanti e indietro, dentro e fuori. Gli spiriti frugarono ovunque. Ma non trovarono il pettine.

"’Che cosa farò?’ disse la vecchia. ’Il pettine è insostituibile. Non ne esiste un altro uguale, e senza di esso non posso pettinarmi la pelliccia.’

"Gli spiriti non seppero che cosa rispondere.

"Giunse la primavera. La vegetazione fece la sua comparsa. Le colline e la pianura divennero azzurre. Gli abitanti del mondo notarono che c’era qualcosa che non andava. In ogni villaggio si recarono dalla sciamana.

"’Che cosa sta succedendo?’ chiesero. ’I pesci guizzano nel fiume come fanno ogni anno, ma nessuno ha visto pesciolini. Gli uccelli edificano nidi come sempre, ma i nidi sono vuoti. Quanto ai piccoli animali, i costruttori di monticelli, gonfiano la sacca nel collo. Gridano e gemono e si agitano, ma non generano piccoli.’

"Le sciamane mangiarono piante narcotiche. Danzarono ed ebbero visioni. Dissero: ’L’Imbroglione ha rubato il pettine d’avorio. Senza pettine non nascerà nessun animale. Moriremo tutte di fame a causa di quell’individuo maligno’.

"Tutte le persone gridarono. Si batterono il petto e le cosce. Pregarono gli spiriti. Ma che cosa potevano fare gli spiriti?

"Ora la storia passa alla Cordaia. Era una donna del Popolo dell’Ambra. Era grande e grossa con un pelame lucente. I suoi occhi erano gialli come il fuoco. Le braccia erano forti, le dite agili. La maggior parte delle persone credevano che fosse figlia dell’Imbroglione. Ne aveva l’aspetto.

"Il suo mestiere consisteva nel fabbricare corde di cuoio. In questo era molto abile. Le sue corde erano sottili e flessibili, e non si allungavano. Erano dure da rompere e duravano per anni.

"In ogni caso, arrivò il periodo degli accoppiamenti. Le donne del Popolo dell’Ambra sentirono crescere dentro di loro la smania primaverile. Ma quell’anno erano riluttanti ad andarsene sulla pianura. ’A che serve lasciare il villaggio?’ dicevano. ’Perché dovremmo prenderci la briga di andare in cerca di un uomo? I figli che concepiremo moriranno di fame.’

"Ma la smania si fece più forte. Ogni donna impacchettò i doni che aveva preparato durante l’inverno. Ogni donna sellò un cornacurve e si diresse verso la pianura. Fra queste c’era la Cordaia. Nella borsa da sella aveva una lunga corda di ottima qualità. Era il suo dono di accoppiamento.

"Ora la storia torna all’Imbroglione. Ormai incominciava a diventare irrequieto. Non c’era nulla da fare nella vagina della vecchia. Sapeva che era primavera. Voleva andarsene per il mondo a giocare un tiro mancino a qualcuno. Attese che la vecchia si addormentasse e sgattaiolò fuori. Si lasciò dietro il pettine e via che andò verso sud. Dopo un po’ arrivò nella terra del Popolo dell’Ambra. Trovò un territorio in prossimità del villaggio. C’era già un uomo lì, un uomo grande e grosso con molte cicatrici. L’Imbroglione si avvicinò e gli disse: ’Faresti meglio ad andartene’.

"’Sei pazzo?’ rispose l’omaccione. ’Sono arrivato qui per primo. E in ogni caso, sono più grosso di te.’

"L’Imbroglione si allungò fino a diventare più alto dell’altro uomo, poi lo guardò furioso dall’alto. I suoi occhi gialli splendevano come il fuoco.

’"Be" disse l’uomo. ’Se è così che la metti.’ Montò in sella al suo cornacurve e se ne andò.

"L’Imbroglione gli gridò dietro una serie di insulti. L’uomo non si voltò.

"Dopo di che l’Imbroglione si sistemò e restò in attesa. Passò un giorno e poi un altro. Il terzo giorno comparve una donna. Era la Cordaia. L’Imbroglione si sentì soddisfatto. Era una donna notevole. Era una persona che valeva la pena trarre in inganno.

"Quanto alla Cordaia, le piacque ciò che vide: un uomo grande e grosso che se ne stava ritto sulla pianura a gambe divaricate e con le spalle diritte. La sua pelliccia era folta e lucida. Indossava una splendida tunica, ricoperta di ricami. Sulle braccia portava braccialetti d’argento. Erano alti e brillanti.

"Quando si avvicinò, notò che l’uomo aveva un particolare odore. ’Be’, nessuno è perfetto’ disse fra sé.

"Arrivata accanto all’uomo, smontò di sella. Giacquero sulla pianura e si accoppiarono. Dopo di che lei disse: ’Ho brutte notizie’.

"’Oh, davvero?’ fece l’Imbroglione.

"’La Vecchia del Nord ha perduto il suo pettine. A causa di ciò, non può pettinarsi la pelliccia, e nel mondo non nasceranno più animali.’

"’E con questo?’

"’Se avremo un figlio, morirà di fame.’

"’E con questo? La cosa non mi riguarda. Fintantoché potrò accoppiarmi, sarò soddisfatto. Chi se ne frega del risultato di quello che facciamo insieme?’

"’A me importa. E in ogni caso, se questa situazione continuerà, moriremo tutti. Perché, come potremo vivere senza i cornacurve, gli uccelli nel cielo e i pesci nei fiumi?’

’"Se tu vuoi morire, accomodati. Io non mi preoccupo. Intendo continuare a vivere, qualunque cosa accada al resto del mondo.’ L’Imbroglione si rigirò e si mise a dormire.

"La Cordaia lo guardò. La sua pelliccia riluceva come rame e c’era come un alone attorno al suo corpo. Si rese conto che quello non era un uomo comune. Era uno spirito. Uno spirito malvagio. L’Imbroglione.

"Allora prese la corda e lo legò. Poi attese. Lui si svegliò e cercò di stirarsi, ma non ci riuscì. ’Che cos’è questa storia?’ gridò.

"’Sei in trappola’ gli disse la Cordaia. ’E non ti lascerò andare finché non mi darai il pettine d’avorio.’

"L’Imbroglione digrignò i denti, si dimenò e si rotolò. Un tallone colpì il terreno e fece un buco; dal quale scaturì acqua che creò un lago. Il lago c’è ancora. È vasto, poco profondo, pieno di sassi e canneti. È chiamato il Lago dell’Imbroglione o il Lago degli Insetti e delle Pietre.

"La corda non si spezzò. L’Imbroglione continuò a divincolarsi. Si allontanò rotolando dalla Cordaia. Batté sul terreno con le mani legate. Fece un altro buco, più profondo del primo. Da questo sgorgò fango caldo che ribollì attorno all’Imbroglione. Lui bolliva come un uccello in una pentola. Ma la sua magia era potente e non si fece alcun male. La corda, tuttavia, non poteva resistere al calore e all’umidità. Incominciò ad allungarsi. Con uno strattone, l’Imbroglione si liberò e balzò in piedi. Gridò:

"Io sono l’Imbroglione, o stupida donna! Non posso essere trattenuto. Non ho nessun obbligo.

"Io sono l’Imbroglione, o stupida donna! Nessuno può trattenermi. Nessuno può fermarmi."

"Dopo di che si allontanò di corsa attraverso la pianura. Andò a nord, tornando nel suo nascondiglio. La Cordaia l’osservò allontanarsi. Si morse il labbro e serrò i pugni. ’È un grande spirito, e può darsi che sia un mio parente. Ma non gli permetterò di fuggire così.’

"Montò in sella al suo cornacurve e si diresse verso nord. Viaggiò a lungo ed ebbe parecchie avventure. Ma non ho il tempo di raccontartele.

"Finalmente arrivò nel luogo in cui viveva la vecchia. Era piena estate. La pianura era gialla, i fiumi poco profondi. La Cordaia smontò di sella e legò il suo animale. Poi si arrampicò su nel cielo.

"’Nonna’ chiamò. ’Vuoi lasciarmi entrare? Ho fatto un lungo viaggio per vederti.’

"’Entra’ rispose la vecchia. ’Ma non posso aiutarti. Ho perso il mio pettine. Non ho nulla da dare.’

"La Cordaia entrò nella tenda. La vecchia era lì, seduta al centro del pavimento. Era nuda e si grattava il ventre con entrambe le mani. ’Sto impazzendo’ disse. ’La mia pelliccia è piena di animali e non posso tirarli fuori. Me li sento strisciare fra le pieghe del ventre. Me li sento sotto le ascelle. Me li sento sulla schiena. Nipote, ti prego. Sii gentile con me! Grattami in mezzo alle scapole.’

"La Cordaia le grattò la schiena. La vecchia continuava a lamentarsi. ’Me li sento perfino nella vagina, sebbene non abbia pelliccia là dentro. Ogni tanto si muovono e mi fanno il solletico. Oh! È una cosa terribile!’

"La Cordaia aggrottò la fronte. Si ricordò dell’odore che aveva sentito addosso all’Imbroglione e all’improvviso capì qual era il suo nascondiglio. ’Ma come riuscirò a farlo uscire?’ si chiese. ’E come farò a catturarlo e a tenerlo prigioniero una volta che sarà uscito?’

"Decise di mettersi a dormire. Si coricò e chiuse gli occhi. La vecchia era seduta accanto a lei e si grattava. Ben presto la Cordaia incominciò a sognare. Nel sogno le apparvero tre spiriti. Una era una donna di mezza età con un ventre enorme e seni imponenti. Indossava una lunga veste ricoperta di ricami.

"Il secondo spirito era un uomo. La sua pelliccia era verdeazzurra e aveva ali al posto delle braccia. Portava un gonnellino dello stesso colore della pelliccia. La fibbia della sua cintura era rotonda e fatta in oro. Scintillava in modo splendido.

"Il terzo spirito era una giovane donna. Era grande e muscolosa. Teneva in mano un martello e indossava un gonnellino di cuoio. I suoi occhi erano di un rosso arancione.

"La Cordaia li riconobbe. La prima era la Madre delle Madri. Il secondo era lo Spirito del Cielo. E la terza era la Signora della Fucina, che vive in Hani Akhar, il grande vulcano.

"’O, santi’ esclamò la Cordaia. ’Aiutatemi! So dove si nasconde l’Imbroglione. Ma mi serve un modo per farlo uscire dal suo nascondiglio. E quando sarà uscito, cercherà di fuggire. Mi serve un modo per catturarlo.’

"Lo Spirito del Cielo parlò per primo. ’Resterò di guardia. Se cercherà di fuggire, vedrò dove andrà. Non riuscirà a trovare un nuovo nascondiglio.’

"La Signora della Fucina parlò per seconda. ’Fabbricherò una corda di ferro, forgiata con la magia, in modo che non si spezzi mai. Si allaccerà da sola e potrà muoversi. L’Imbroglione non riuscirà a liberarsene.’

"La Madre delle Madri parlò per ultima. ’So come far uscire l’Imbroglione dal suo nascondiglio.’ Si protese in avanti e bisbigliò qualcosa all’orecchio della Cordaia.

"Al mattino la Cordaia si svegliò. Accanto a lei c’era una corda attorcigliata. Era di un color grigio spento e aveva una particolare struttura simile alle squame di una lucertola. La Cordaia l’osservò con attenzione. Era fatta di minuscole maglie fissate fra loro.

"’Buongiorno, nonna’ disse alla Vecchia del Nord. ’Mi è venuta un’idea. Hai detto che sentivi prurito nella vagina, sebbene non ci sia pelliccia là dentro.’

"La vecchia fece il gesto dell’assenso.

"’Non credo che tu abbia un animale lì dentro. Credo che tu abbia bisogno di un po’ di sesso.’

"’Sei pazza!’ esclamò la vecchia. ’È il periodo sbagliato dell’anno. E comunque sono troppo vecchia per provare la smania.’

"’Ricordati’ disse la Cordaia. ’Una donna non invecchia facilmente. La smania non svanisce di colpo. Spesso una donna diventa irritabile e instabile. Il suo comportamento cambia da un giorno all’altro. Prova la smania nel periodo sbagliato. Nel periodo giusto, in primavera, non prova assolutamente niente. Non riesce a capire che cosa stia succedendo, non più di una ragazzina quando diventa donna. Credo che sia quello che sta accadendo a te.’

"’No!’ protestò la vecchia.

"’In ogni caso, prova con il sesso. Andrò in cerca di un giovanotto per te. Se ho ragione, e ciò che provi è la smania… un po’ tardi, lo ammetto… allora il giovane reagirà a te. E forse dopo ti sentirai meglio.’

"La Cordaia si alzò e uscì dalla tenda, portando con sé la corda di ferro.

"L’Imbroglione sentì tutto questo e incominciò a sentirsi a disagio. ’Se quella pazza riuscirà a trovare un uomo disposto ad accoppiarsi con questa vecchia gallina… be’, la mia posizione non sarà comoda. È probabile che mi prenda delle terribili percosse. È meglio che me ne vada fuori di qui.’

"Attese che calasse la sera e che la vecchia stesse russando, poi sgattaiolò fuori. Aveva in mano il pettine. Si diresse furtivamente verso la porta e uscì. La Cordaia lo aspettava lì fuori. La Grande Luna era alta nel cielo e illuminava il cielo e la pianura. Illuminava l’uomo mentre usciva dalla porta.

"’Eccoti, spirito malvagio!’ esclamò la donna. Gettò la corda di ferro.

"Questa si attorcigliò a mezz’aria e si avviluppò attorno all’uomo, che inciampò e cadde. Il pettine gli volò via dalla mano. La Cordaia lo afferrò. Quanto all’Imbroglione, cadde giù dal cielo e atterrò sulla pianura. Rotolò avanti e indietro. Gridò. Si divincolò. Ma la corda non si ruppe. Dopo un po’ rinunciò e restò disteso lì, immobile, respirando con difficoltà.

"Tre spiriti comparvero attorno a lui. L’Imbroglione alzò lo sguardo su di loro. ’Immagino che siate voi i responsabili di questo.’

"’Sì’ rispose la madre delle Madri. ’Questa è la fine di tutti i tuoi malvagi inganni. Ti porteremo lontano da qui e ti lasceremo cadere nell’oceano. Non causerai più altri guai.’

"’Non esserne tanto sicura’ ribatté l’Imbroglione.

"Lo raccolsero e lo trasportarono per aria. Arrivati in mezzo all’oceano, lo lasciarono andare. Cadde con un tonfo nell’accqua e affondò sempre più. Finalmente toccò il fondo. Aiya! Era buio e faceva freddo! I pesci del fondo del mare gli mordicchiavano i piedi. Si divincolò e cercò di gridare, ma inghiottì acqua. Tuttavia non poteva affogare. La sua vita era eterna. Restò laggiù per più anni di quanti possiamo contarne e diede la sua natura all’oceano, che divenne mutevole e imprevedibile, e infido. Alla fine si liberò. Ma questa è un’altra storia.

"Quanto alla Cordaia, tornò dentro la tenda. Svegliò la vecchia e le restituì il pettine.

"’Oh! È una cosa meravigliosa!’ esclamò la vecchia, e incominciò a pettinarsi la pelliccia. Ne uscirono animali, a centinaia. Ruzzolarono giù dal cielo e riempirono il mondo. Tutte le persone si rallegrarono."

Inahooli smise di parlare. Io distesi le gambe e mi alzai. Ormai era mezzogiorno. Eravamo inondati dalla luce del sole e l’aria era calda e stagnante. Sudavo.

— Ebbene — fece Inahooli. — Sei colpita? Credi che la mia antenata sia stata grande?

— Sì. — Mi voltai a guardare la torre. Un dio burlone come Anansi il Ragno, il Coyote e Fratel Coniglietto. C’erano altre singolari analogie. La Vecchia del Nord mi ricordava un personaggio della mitologia Inuit. Esisteva forse una sorta di archetipo universale? Avremmo trovato gli stessi personaggi su un pianeta dopo l’altro? Immaginavo un inconscio collettivo che si estendesse attraverso la galassia, o forse al di sotto. Che idea! Ma stavo correndo troppo. Non avevo i dati. Mi stiracchiai. — Devo andare.

— No! Non andartene! Ho altre storie.

Feci il gesto del cortese rifiuto, seguito dal gesto dell’estremo rincrescimento. — Nia mi sta aspettando.

Lei si alzò, aggrottando la fronte. — C’è qualcosa in quel nome… — Sgranò gli occhi. — Ora ricordo! Nia la lavoratrice del ferro. La donna che amava un uomo. — Usò il termine che significava affetto familiare, l’amore fra sorelle o fra una madre e le proprie figlie. — Ci hanno parlato di lei, le donne del Popolo del Ferro. Hanno detto che l’uomo è morto. Ma lei viveva ancora da sola sulla pianura. Una donna grande e grossa con l’aria della malasorte. Ci hanno messe in guardia contro di lei. Hanno detto: "Se arriva nel vostro villaggio, lasciatela restare solo per il tempo minimo richiesto dalle convenienze, poi invitatela ad andarsene. Se la lasciate restare, farà inacidire il latte nelle vostre brocche. Farà spegnere i vostri fuochi".

— Nia non fa niente di male — replicai. Parlai con voce sommessa e tranquilla. Una voce sicura. La voce del buonsenso.

Inahooli taceva, la faccia sempre corrucciata, e si vedeva che stava riflettendo. — Non ha abbandonato il suo vecchio comportamento. Quando ha parlato della vostra amica, non ha usato una desinenza della tua lingua. Tu hai pronunciato diversamente il nome. Ho sentito. Al momento non l’ho capito. Ha dato al nome una desinenza della sua lingua o del linguaggio dei doni. In entrambi i casi è una desinenza maschile. Questa vostra amica è in realtà un uomo.

Aprii la bocca per protestare, ma che cosa potevo dire? Non mi andava di mentire, e non pensavo che Inahooli avrebbe creduto a qualunque menzogna avessi raccontato. — È meglio che me ne vada.

Lei mi fissò, strizzando gli occhi. — Che cosa sei? Perché viaggi con una donna del genere? E con un uomo?

— Te l’ho detto, sono una persona comune. Fra la mia gente, in ogni caso.

Inahooli fece il gesto del dissenso, muovendo con enfasi la mano. — Ho incontrato il Popolo del Ferro é il Popolo del Rame e il Popolo della Pelliccia e dello Stagno. Nessuno è veramente diverso. Non sulle cose che sono importanti. Credo che tu sia un demonio.

Come si può ragionare con una fanatica religiosa? Riflettei un momento. — Ricordati di ciò che hai detto prima che io venissi qui. La torre è magica. Se sono un demonio, perché non mi ha fatto del male?

Si voltò, fissando l’ingraticciata. In cima, un paio di stendardi si muovevano debolmente. Un paio di penne ondeggiavano. Doveva essersi alzato un po’ di vento, sebbene non riuscissi a sentirlo.

Inahooli fece il gesto dell’assenso. — L’ho detto.

— E io sto bene.

Ci fu una pausa. Poi Inahooli parlò, lentamente all’inizio. Era evidente che stava riflettendo ad alta voce. — Hai ragione. La torre avrebbe dovuto nuocerti. Ma così non è stato. — Tornò a girarsi verso di me. — Hai sconfitto la nostra magia. La torre è un qualcosa.

Non conoscevo quella parola, ma ne immaginai il significato. La torre era stata contaminata, dissacrata. Aveva perso il suo potere.

— Io ti ho condotta qui — disse Inahooli. — Sono la guardiana e questo rovinerà la mia reputazione. — Estrasse il coltello.

— Ascoltami — dissi.

Lei mi afferrò per il braccio e alzò il coltello. Mi divincolai e tirai calci, colpendola all’inguine. Era un bel calcio, forte. Inahooli barcollò all’indietro e ne approfittai per fuggire.

Riuscii a raggiungere la canoa, ma la donna mi seguiva dappresso. Non c’era il tempo di mettere in acqua quella dannata cosa. Afferrai una pagaia e mi girai ad affrontarla. — Non possiamo parlare?

— No! — Mi si lanciò contro. La colpii alla spalla con la pagaia. Lei gridò e lasciò cadere il coltello.

— Ascoltami! Non intendo fare del male!

Inahooli afferrò il coltello con l’altra mano. — Come possiamo servirci della torre? Le maschere sono rovinate. La magia è sparita.

Si chinò di colpo verso sinistra. La mia sinistra. Mi voltai e sollevai la pagaia. Il coltello balenò. Sferrai un colpo. Inahooli balzò indietro.

— Ti ho presa, demonio! — esclamò.

— Che cosa?

— Non vedi il sangue sul terreno?

Abbassai per un attimo lo sguardo e vidi soltanto la spiaggia sassosa. Non c’era sangue. Con la coda dell’occhio scorsi un movimento. Inahooli. Veniva verso di me, il coltello nuovamente sollevato. Agitai su e giù la pagaia e la colpii al ventre. Lei grugnì e si piegò in due. Abbattei con forza la pagaia sul dietro della testa.

Inahooli cadde. Raccolsi il coltello e lo scagliai fra i canneti, poi mi voltai a guardarla. Giaceva a faccia in giù, immobile.

M’inginochiai e le tastai la gola, poi le passai la mano sulla parte posteriore del capo. Le pulsazioni erano forti e regolari. La testa era solida come una roccia. Bene! Ma non avevo alcuna intenzione di restare nei paraggi ad assisterla. Molto probabilmente avrebbe tentato di nuovo di uccidermi. Spinsi in acqua la canoa, vi saltai dentro e mi allontanai pagaiando dall’isola. Che cosa non facevo per conoscere la mitologia!

Quando fui ben oltre i canneti, mi accorsi che qualcosa non andava nel mio braccio sinistro. Tirai dentro la pagaia e diedi un’occhiata. C’era un taglio nella mia camicia, dal gomito al polso. Il sangue gocciolava sul legno scuro della canoa e sui miei jeans. — Maledizione. — Mi tolsi la camicia e contorsi il braccio, cercando di vedere il taglio. Provai una fitta di dolore alla spalla. Strano. Mi ero dimenticata di quanto fosse rigida la spalla. Il taglio era lungo e poco profondo. Un graffio. Niente di cui preoccuparsi. Ma sanguinava ben bene, il che avrebbe dovuto ridurre il rischio di un’infezione. Non che un’infezione fosse probabile, a meno che non fosse provocata da qualcosa che avevo portato con me. Mi arrotolai la camicia attorno al braccio e legai insieme le maniche. Poi mi rimisi a pagaiare.

Soffiava un po’ di vento, leggero e irregolare. Le onde spruzzavano la canoa. Il braccio incominciò a farmi male, e anche la spalla. Mi concentrai sulla respirazione: dentro e fuori, tenendo il tempo con il movimento delle braccia mentre sollevavo la pagaia, la portavo in avanti, la immergevo nell’acqua e la tiravo indietro.

Davanti a me c’era la riva. Dove potevo approdare? Mi riparai gli occhi con la mano. Scorsi una figura sulla riva oltre i canneti. No. Due figure. Mi facevano cenni con le mani. Girai la canoa e pagaiai verso di loro. Un istante dopo erano spariti alla vista. Le canne si piegavano sopra di me, le teste pelose che ondeggiavano, e non avevo spazio per manovrare. Immersi la pagaia nell’acqua, toccai il fondo e spinsi. La canoa avanzò fra la vegetazione e arrivò in un punto dove l’acqua era limpida. Nia e Derek mi vennero incontro sguazzando e mi tirarono a riva.

— Dov’è Inahooli? — s’informò Nia.

Mi alzai. La canoa si mosse sotto di me. Derek mi afferrò per il braccio.

— No!

Mi lasciò andare. — Che cosa c’è? — Stese la mano. Il palmo era rosso.

— Sangue. — Misi piede sulla terra asciutta, mi sedetti e svenni.

Quando ripresi i sensi ero distesa sulla schiena e guardavo in su verso il fogliame, le foglie lunghe e sottili dell’erba enorme. Brillavano, i bordi illuminati dalla luce del sole.

Derek disse: — Riesci a capirmi?

— Sì. Certo. — Girai la testa. Lui stava seduto per terra a gambe incrociate. La parte superiore del suo corpo era nuda e vidi il braccialetto sul suo braccio. L’alta fascia d’oro. L’immagine continuava a sfocarsi e a tornare a fuoco.

— Che cosa è successo?

— Quella donna. Inahooli.

— Nia me ne ha parlato. Che cosa ha fatto?

— Era convinta che fossi un demonio. Che portassi sfortuna al suo… — esitai, cercando di pensare alla parola giusta — manufatto. Quello a cui stava di guardia. Mi ha inseguita con un coltello. L’ho colpita. Derek, è viva. E se verrà a cercarmi?

Lui abbozzò un breve sorriso. — Di questo mi occuperò io. Tu riposa.

— Okay. — Chiusi gli occhi, poi li riaprii. — I cornacurve.

— Ne ho trovato uno. La Voce della Cascata è riuscito a tenersi in sella. Come non so. L’ha lasciato correre finché non si è sfiancato. Non aveva altra scelta, mi ha detto. Alla fine l’animale si è dovuto fermare. Lui l’ha calmato e l’ha lasciato riposare, poi è tornato indietro. L’ho incontrato al tramonto. Ci siamo accampati sulla pianura. E al mattino… — Fece un gesto che non riconobbi.

— Che cos’era quello?

— Che cosa?

— Il gesto. Il cenno della mano.

Lui sorrise. — È un gesto umano, Lixia. Significa, all’incirca, "lasciamo perdere" o "perché agitarsi" o "puoi immaginare il resto".

— Oh.

— Siamo arrivati qui a metà mattina, dopo che te n’eri andata.

— Oh. — Chiusi gli occhi, poi mi ricordai di un’altra cosa. — Le radio.

Derek rise. — Sono sull’altro cornacurve. Quello che non ho trovato.

— Merda.

— Aha. Ho ritenuto giusto assicurarmi che la Voce della Cascata facesse ritorno al lago. Domani Nia partirà con l’animale che abbiamo. Cavalca meglio di me, e questo è il suo pianeta. Con un po’ di fortuna troverà le radio. E io mi assicurerò che… come si chiama?… la donna che ti ha fatto quel taglio.

— Inahooli.

— Mi assicurerò che non provochi altri guai.

— Che cosa significa?

Lui sorrise. — Niente di drammatico. Resterò qui e terrò gli occhi ben aperti. Adesso, dormi.

Derek se ne andò. Ero preoccupata. E se Nia non fosse riuscita a trovare l’altro animale? Saremmo stati soli per la prima volta. Veramente soli su un pianeta alieno. Probabilmente sarebbero passati giorni prima che quelli sulla nave si rendessero conto che qualcosa era andato storto. Che cosa avrebbero fatto allora? Come ci avrebbero trovati? Cercai di pensare a qualche tipo di segnale. Un fuoco enorme. Sarebbe stata la cosa migliore. Ma saremmo riusciti ad accenderne uno che fosse abbastanza grosso? E avrebbero capito che eravamo stati noi a farlo?

Mi appisolai e feci dei brutti sogni. Inahooli mi dava la caccia. Correvo giù per un lungo corridoio fra pareti di ceramica. D’un tratto il corridoio spariva. Mi trovavo sulla pianura. Mi giravo e vedevo un muro di fiamma che avanzava verso di me. Un incendio della prateria! Correvo. Ma era così difficile. L’erba era alta e fitta. Continuavo a inciampare. Il fuoco si avvicinava sempre più.

Caddi, ruzzolai e aprii gli occhi. Sopra di me si ammassava del fumo. Mi drizzai a sedere, terrorizzata.

Oh, sì. Il fuoco di bivacco. Ardeva a tre metri di distanza e attorno erano seduti i miei compagni. Più in là c’erano il lago e il sole basso sull’orizzonte. Era pomeriggio inoltrato. Mi faceva male il braccio, la testa mi doleva e avevo la gola secca. — C’è qualcosa da bere?

Mi guardarono.

— Stai bene? — mi chiese Nia.

— Ho sete.

Nia mi portò una sfera verde con un foro sulla sommità: qualcosa di simile a una zucca o forse a una noce di cocco. Dove l’aveva trovata? La presi e bevvi. Il liquido all’interno era fresco e aveva un gusto asprigno. Simile a che cosa? Agli agrumi? Non del tutto. Bevvi ancora.

— Adesso riesci a parlare? — s’informò Derek. — A che cosa stava di guardia quella donna? E perché ha deciso che fossi un demonio?

Guardai Nia, accosciata accanto a me. — Avevi ragione. La tua gente ha parlato di te. Inahooli se ne è ricordata. Nia la lavoratrice del ferro. La donna che amava un uomo.

Nia si accigliò. — A volte penso che la mia gente parli troppo. Non hanno niente di meglio da fare?

— E ha capito che Derek era un uomo.

— Perché ho usato la desinenza maschile del suo nome.

— Sì.

Si alzò in piedi e serrò i pugni, poi si batté la coscia. — Sono proprio come la mia gente. La mia lingua va su e giù come uno stendardo al vento, e non rifletto. — Aprì la mano e fece il gesto che significava "così sia".

— Uno di noi dovrebbe stare sveglio questa notte e fare la guardia. Quella donna è probabilmente un po’ pazza. E stata sola troppo a lungo, ed è stata troppo vicina a qualcosa che è sacro. Può darsi che venga a cercare Li-sa.

Derek fece il gesto dell’approvazione.

— L’ho colpita abbastanza duramente — dissi. — Per quel che ne so, è ancora… — esitai e cercai di pensare alla parola giusta nel linguaggio dei doni — addormentata. O forse morta.

Derek guardò in direzione dell’acqua. — Forse. Non ho intenzione di andare a controllare. L’isola è sacra. Ci ha fatto capire molto chiaramente che non vuole che ci andiamo. Di norma, non interferisco con il karma di altre persone. Ha scelto lei di invitarti sull’isola, e ha scelto di cercare di ucciderti. Se queste scelte si concludono con la sua morte, bene. — Fece una pausa, poi usò lo stesso gesto che aveva usato Nia circa un minuto prima. "Così vanno le cose" diceva il gesto.

L’oracolo si protese in avanti. — Non so che cosa tu abbia fatto in passato, Nia, e non so perché la tua gente racconti delle storie su di te. Ma non sei tu la responsabile di questa situazione.

— Perché no?

L’oracolo puntò il dito contro Deek. — Lui è andato nella valle dei demoni. Ha preso il braccialetto. Adesso i demoni sono adirati. Ci stanno causando tutti questi guai, il shuwahara e la donna furiosa.

Shuwahara? Era il nome dell’animale che aveva terrorizzato i nostri cornacurve?

L’oracolo si alzò in piedi e allungò la mano. — Dammi il braccialetto.

Derek si accigliò.

— Fallo — gli dissi in inglese. — Abbiamo già abbastanza problemi.

Derek si tolse il braccialetto. L’oracolo lo prese e se lo infilò sul braccio.

— Che cosa hai intenzione di farne? — domandai.

— Lo spirito me lo suggerirà. — L’oracolo si tolse la tunica e restò nudo, fatta eccezione per il braccialetto e la collana. Il suo pelame scuro brillava. I gioielli luccicavano. Preso nel complesso, era solenne. Gettò a terra la tunica. — Me ne andrò per mio conto. Danzerò e canterò finché non sarò in uno stato di esaltazione. Allora, forse, lo spirito verrà da me. — Si allontanò in direzione del lago.

— Credi che lo riavrò indietro? — chiese Derek.

— No.

— Dannazione. — Rise e scrollò le spalle. — Oh, be’.

Nia preparò la cena: pesce fresco, svuotato e farcito di erbe, poi avvolto in foglie e arrostito nella brace. Era delizioso, ma ero troppo stanca per aver fame. Mangiai metà di un pesce e mi sdraiai. Il sole era tramontato e si stavano ammassando delle nuvole. Erano alte e indistinte, dorate dall’ultima luce del giorno. I miei compagni chiacchieravano sommessamente. Gli uccelli facevano piccoli versi serali. Chiusi gli occhi.

Quando mi svegliai, il sole era nuovamente alto. Chi aveva fatto la guardia all’accampamento? Derek se n’era ricordato? Mi alzai in piedi con un gemito. Un corpo, scuro e peloso, era sdraiato scompostamente accanto al fuoco. L’oracolo. Dormiva. Non c’erano tracce di Nia o di Derek o del cornacurve. Feci qualche passo per il boschetto. L’animale era certamente sparito. Nia doveva essersi messa in viaggio non appena c’era stata un po’ di luce. Guardai in direzione della pianura, riparandomi gli occhi dalla luce del sole. Nulla. Tornai indietro attraverso il boschetto. L’oracolo si era rigirato sulla schiena e si teneva un braccio sulla faccia. Russava.

Scesi al lago. Gli uccelli sbattevano le ali fra le canne. Sulla riva c’erano due canoe. Mi fermai, terrorizzata. Non ero in condizioni di battermi con Inahooli. Aveva fatto qualcosa a Derek? Mi serviva un’arma. La pagaia mi era già servita in precedenza. Mi diressi verso le canoe.

In una c’era Inahooli, distesa di schiena. Era nuda. Aveva i piedi legati con una striscia di stoffa gialla ed era imbavagliata con un’altra pezza di tessuto giallo. Aveva le mani dietro la schiena. Non riuscivo a vedere come fossero legate. Lei mi lanciò un’occhiata astiosa.

Io risi, sollevata. Non l’avevo uccisa. — Devi aver incontrato Derek.

Lei grugnì.

— Non credo proprio che ti toglierò il bavaglio. Mi piacerebbe sapere dov’è Derek, ma non credo che me lo diresti, neppure se lo sapessi.

Inahooli emetteva brontolii e si dimenava. C’era qualche possibilità che si liberasse? Naturalmente no. Era stato Derek a legarla. Mi chiesi se avrebbe mai fatto un grave errore.

— Devo andare. Tornerò più tardi.

Inahooli grugnì una seconda volta.

Trovai Derek un po’ più lontano lungo la riva, su una spiaggia di ghiaia nera. C’era un varco fra le canne. Un canale, ampio due o tre metri, sboccava nel lago. Un uccello galleggiava nel canale. Aveva un aspetto assolutamente comune.

— Ha dei denti — disse Derek.

I suoi lunghi capelli erano bagnati e c’erano chiazze di umidità sulla sua camicia. Si infilò la camicia nei jeans, poi mi rivolse un ampio sorriso.

— Una nuotata mattutina? — chiesi.

— Uhu. — Si allacciò una delle maniche. Scorsi un luccichio un istante prima che chiudesse il tessuto. Aveva qualcosa di metallico sul braccio.

— Ho trovato Inahooli. Che cosa è successo?

— Nia si era addormentata e io mi sono allontanato per osservare l’oracolo. Ho pensato: mai perdersi un rituale. Ha fatto esattamente quello che aveva detto. Ha danzato e cantato e agitato qua e là un ramo, il tutto sotto una luna all’ultimo quarto e chiaramente in eruzione. Si può vedere il pennacchio oltre il bordo. Incomincia alla luce del sole e poi curva oltre la parte della luna che è ancora in ombra. Un diavolo di spettacolo.

"Non sono riuscito a capire che cosa diceva. Non usava il linguaggio dei doni. Ma ho tutto qui sul mio registratore."

— Che ne ha fatto del braccialetto?

— Gettato nel lago. È stata la fine della cerimonia. Poi è tornato all’accampamento. Io ho gironzolato qua e là e ho tenuto gli occhi aperti. Imaginavo che si sarebbe stancato dopo tutto quel saltellare. Tu eri ferita e Nia doveva alzarsi di buon’ora. Non restavo che io per fare la guardia, e volevo continuare a guardare la luna. — Chiuse il davanti della camicia.

"La donna è arrivata due ore dopo. No. Più di tre. La luna era ancora alta nel cielo. È arrivata con la seconda canoa. Immagino che sia ovvio. Non l’ho vista sbarcare, né l’ho sentita. È una signora molto silenziosa. Ma ha svegliato un uccello mentre si avvicinava attraverso il canneto, e quello ha fischiato.

"Ho atteso nell’oscurità. Il fuoco, il nostro fuoco, ardeva, e lei si è incamminata in quella direzione. Sapevo che l’avrebbe fatto. Quando è arrivata nel boschetto, le sono balzato addosso." Sorrise. "È forte oltre che silenziosa. Ma avevo il vantaggio della sorpresa. Quando ha perso conoscenza, l’ho trascinata di nuovo fino alla canoa e l’ho legata lì dentro. Non avevo una corda, così ho tagliato la sua tunica e ho usato quella. Sono affamato. Torniamo all’accampamento."

Ci incamminammo lungo la riva. Derek proseguì: — Nia è partita all’alba. Non le ho parlato di… come si chiama. Era un’altra cosa di cui preoccuparsi e lei sembrava già abbastanza di malumore. Parlo di Nia. Immagino che non sia una persona mattiniera.

— Che cosa intendi fare di Inahooli?

— Trattenerla finché non torna Nia, poi lasciarla andare, ma solo quando saremo pronti a partire. Non ci seguirà. Ha la sua torre a cui fare la guardia.

— Mi domando se non la stiamo facendo uscire di senno.

— Che cosa? — Si fermò e mi fissò.

— Mi ha colpito come una persona vulnerabile, sebbene sia difficile giudicare un individuo di un’altra cultura. Forse sono tutti così: vanagloriosi e sulla difensiva. In ogni caso, il suo rispetto di sé è totalmente collegato con la torre e con la sua posizione di guardiana. Adesso ha fallito. Sono quasi certa che sia convinta che la torre è rovinata e non credo che possa venire a patti col fallimento. Non credo che abbia… ehm… elasticità mentale.

Derek fece il gesto del dubbio. — Credo che tu sottovaluti quella donna. La sua tecnologia è primitiva; ciò che chiamiamo primitivo, in ogni caso. Ma non penso che sia semplice. So che Nia non lo è. E l’oracolo è così dannatamente complicato che non so dove mi trovo con lui. Con ogni probabilità questa signora… ho dimenticato di nuovo il suo nome.

— Inahooli.

— Molto probabilmente farebbe ciò che farei anch’io al suo posto.

— E cioè? — Mi rimisi a camminare.

Derek procedette di pari passo con me. — Mentirei. Farei finta che non fosse successo nulla. All’arrivo della mia gente, direi: "È tutto a posto".

Corrugai la fronte. Derek mi lanciò un’occhiata, poi continuò: — Ogni società ha dei modelli di comportamento appropriato, e in ogni società ci sono individui che non riescono a conformarsi a quei modelli. Subentrano la realtà e l’umana fragilità. Ebbene, non si possono abbandonare i modelli, e non è neppure possibile che ognuno nella società se ne vada in giro a gridare "Mea culpa". Così si inventa l’ipocrisia. È presente in ogni società che ho studiato. Sono certo che esiste anche su questo pianeta.

— Può darsi.

Ci allontanammo dalla riva e ci dirigemmo verso il boschetto.

— Pensa alla mia gente — disse Derek. — Per loro due qualità sono importanti. La mitezza e l’onestà. Ebbene, che cosa fai quando l’onestà crea una situazione spiacevole?

Fece una pausa. Io non dissi niente. — Per prima cosa, cerchi di eludere il problema. Mangi un po’ di peyote. Ti concentri su disegni cosmici. È questo che è importante, dopo tutta… tutta quell’energia che si riversa giù dalle stelle e sale dal suolo.

"Il mondo è impregnato della grandezza di Dio.

Avvampa, come lo splendore da una lamina scossa;

Raggiunge una grandezza, come uno stillare di olio

Schiacciato…"

"E così via. Se non si può evitare il problema, se si è bloccati nel momento e nel luogo presenti, allora si mente. Il che è disonesto e ipocrita, ma naturale e umano, e permette di mantenere la mitezza in ogni cosa."

Arrivammo all’accampamento. L’oracolo si era alzato e stava riaccendendo il fuoco. Ci rivolse un’occhiata. — Nia se n’è andata?

— Sì — rispose Derek. — Ed è arrivata quella donna. Inahooli. È giù vicino all’acqua. L’ho legata.

— La nostra fortuna sta cambiando. Nia troverà il cornacurve e tutto andrà nel modo dovuto. Lo spirito me l’ha promesso.

Derek fece il gesto che significava che aveva sentito quanto era stato detto, ma si riservava il giudizio.

Nella tarda mattinata scendemmo alla canoa, tutti e tre. Inahooli era nella stessa posizione di prima. Aveva la testa girata e gli occhi chiusi contro il bagliore del sole.

La osservai per un momento. — Così non può funzionare — dissi in inglese. — Nia potrebbe assentarsi per giorni. Non possiamo tenere la donna in quello stato.

Inahooli aprì gli occhi, guardandoci con sospetto e aggrottando la fronte.

— È scomodo. È umiliante. Ed è antidemocratio. Che diritto abbiamo di privarla della libertà?

— Abbiamo il diritto di proteggere noi stessi — ribatté Derek.

— Be’, può darsi. In ogni caso, non è praticabile. Come farà a mangiare? O andare al bagno? Non possiamo lasciarla lì distesa nei propri escrementi come il personaggio di un romanzo sulla società di una volta.

L’oracolo si chinò su Inahooli e le slacciò il bavaglio.

— Demonio — lo apostrofò la donna.

— No. Sono un uomo santo. Un oracolo. Servo lo Spirito della Cascata, che è grande e potente e in grado di occuparsi di ogni genere di male.

Una parola interessante, questa. La tradussi come "male", un termine astratto. Nella sua lingua era un aggettivo accoppiato con un sostantivo che significava "cosa". L’aggettivo significava "cattivo", come in cattivo gusto. Significava anche "infausto" o "bizzarro".

— Tu sei un demonio — insistette la donna. — Viaggi insieme a demoni.

— Loro non sono demoni. Sono persone senza pelo.

— Uno di loro è un maschio. E tu sei un uomo.

L’oracolo fece il gesto dell’intesa.

— Tutti sanno che gli uomini sono solitari per natura, hanno un carattere irascibile e non sono disposti a spartire niente con altri uomini. Ma tu viaggi con quello. — Fece un cenno del capo in direzione di Derek. — Devi essere un demonio o un mostro.

— Pensi male — disse l’oracolo.

Di nuovo la stessa parola, quella che significava "cattivo" o "malvagio" o "strano". Questa volta la forma era avverbiale.

L’oracolo si raddrizzò. — Sei stata da sola per troppo tempo. Non è naturale per una donna starsene seduta da sola su un’isola.

— Sono la guardiana. E quella, la donna, ha danneggiato la mia torre.

— In che modo? — chiese la Voce della Cascata.

— È venuta sull’isola. Si è seduta all’ombra della torre.

— Non è vero. Era mezzogiorno. Non c’era ombra. Proprio sotto la torre, forse, ma non dove mi trovavo io.

— Sei stata sull’isola. Le persone cattive, quelle che portano sfortuna, non possono andare in un luogo sacro. Non prima di aver partecipato a una cerimonia di purificazione. Ma non c’è modo di purificare un demonio.

— Tu hai detto che se fossi stata un demonio, la torre mi avrebbe fatto del male. Ma non mi è stato fatto alcun male. Come posso essere un demonio?

La donna chiuse gli occhi per un istante, aggrottando la fronte. Poi mi guardò. — L’ho già spiegato prima. Sei un demonio. Ora lo capisco. Devi essere un demonio. Chi altri viaggerebbe in compagnia di uomini? E di una donna come Nia? La magia della torre avrebbe dovuto annientarti. O, come minimo, causarti un terribile dolore. Ma tu stai bene. Pertanto, dev’essere la torre che è stata danneggiata. E io sono la guardiana! Come potrò mai spiegarlo?

Derek disse: — Questo modo di pensare va avanti in un circolo vizioso. Se Lixia è un demonio, la torre le farà del male. La torre non le fa del male e ciò significa che lei è un demonio.

Feci il gesto del dissenso. — Non hai capito il ragionamento.

— Aiutatemi a mettermi seduta — protestò la donna. — Non posso parlare così.

L’oracolo la prese per le spalle e la tirò su in posizione seduta. Inahooli grugnì e si divincolò, muovendo di qua e di là la parte superiore del corpo. — Ho le braccia intorpidite. Non hanno più sensibilità. E come faccio a parlare senza usare le mani?

L’oracolo mi guardò.

— Liberala. Ma soltanto le mani.

— Mi serve un coltello — fece lui.

Derek gliene diede uno.

L’oracolo tagliò.

— Sono libere? — s’informò la donna. — Non riesco a muoverle.

— Sono libere.

Si protese in avanti. Le braccia caddero ai lati e le mani batterono contro i lati della canoa. — Non sento niente! Non riesco a farle funzionare!

— Le tue braccia sono addormentate — le disse Derek. Le tirò le braccia in avanti fino ad appoggiarle le mani sulle cosce, poi incominciò a massaggiarle un braccio.

— Aiya! Fa male! Pizzica!

Derek continuò a massaggiare. — Lixia?

— Sì?

— Spiegami il ragionamento. Quello che non ho capito. E tu… — guardò Inahooli — ricordati che hai i piedi legati. Non tentare niente di spiritoso.

Inahooli si accigliò. — Non è il momento di scherzare. E in ogni caso, non sono brava a scherzare. Me lo dicono tutti.

— Il problema è Nia — dissi. — Io sono un demonio perché viaggio con lei. E con te e l’oracolo.

La donna alzò un braccio. Chiuse il pugno, poi l’aprì e fece il gesto dell’approvazione. Poi incominciò a massaggiarsi l’altro braccio. Derek si alzò e fece un passo indietro.

— Se io sono un demonio, ne consegue che la torre è mia nemica. Se la magia della torre non mi nuoce, ne consegue che la mia magia deve aver danneggiato la torre. Un eccellente ragionamento — aggiunsi in inglese. — Non fa una piega.

— Tutto questo è stupido — intervenne l’oracolo. — Parlate e parlate e non risolvete niente. State facendo tutti un ragionamento sbagliato e, quel che è peggio — sollevò una mano per sottolineare le parole — state giocando con le parole. Siete come bambini con delle pietre luccicanti. Lanciate le parole. Le mettete in fila. Aiya! Che piacere! Ma che cosa significa? — Si mise a camminare intorno alla canoa, poi si voltò a fissarci. — Ascoltatemi, tutti quanti! Fra la mia gente c’è una donna chiamata la mediatrice. Quando c’è una controversia, lei va dalle donne che sono coinvolte. Fa domande. Ogni donna racconta il proprio punto di vista. Poi la mediatrice se ne va da sola. Riflette su tutto quello che ha sentito. Fa una cernita fra le storie ed elimina tutto ciò che sembra sciocco o malvagio. Quando le persone discutono, incominciano a rimuginare. Il ricordo della discussione resta nella loro mente. Diventa come cibo che è stato immagazzinato per tutto l’inverno: mezzo marcio e pieno di insetti. E non è facile distinguere quello che è buono dai rifiuti.

"Ma la mediatrice impara a rivoltare le idee. Sa come scoprire i punti deboli e i piccoli fori nei quali si sono insinuati gli insetti. Getta via tutte le idee cattive. Ciò che rimane è il vero motivo della controversia. Una volta che lo sa, può incominciare ad appianare la lite."

Fece una breve pausa. Inahooli aprì la bocca per parlare, ma lui alzò la mano, tenendola piatta e con il palmo in avanti. Il gesto significava "ferma" o "aspetta". Era identico al gesto umano.

— Qualche volta la mediatrice non riesce a trovare un buon motivo per la disputa. Allora fa altre indagini. C’è una vicina malvagia che sta raccontando bugie o riferendo storie? Le donne coinvolte nella lite hanno fatto qualcosa che porta sfortuna o può provocare collera nella terra degli spiriti o nel resto del villaggio? La mediatrice continua a cercare finché non trova un buon motivo per la controversia. Ora… — Si toccò il petto, poi raddrizzò il braccio, allargandolo su un lato. Non riconobbi quel gesto. Aveva qualcosa di formale, come i gesti usati dagli oratori di professione. Forse era un gesto riservato a particolari circostanze: feste e cerimonie religiose. — Ho riflettuto sul motivo di questa controversia. Tutto quello che avete detto è stupido. E qui non abbiamo vicini che riferiscano storie e raccontino menzogne. Pertanto, la causa di questa lite è magica.

Inahooli si accigliò. — Stai parlando troppo e mi confondi. Era tutto semplice e chiaro prima che arrivaste voi.

L’oracolo guardò Derek. — Ho pensato che forse questo stesse succedendo a causa del braccialetto. Ma l’ho restituito e ho eseguito una cerimonia di propiziazione.

Afferrai il braccio di Derek e gli tirai su la manica della camicia. Lui si liberò con uno strattone. Troppo tardi. Il polsino era aperto e l’oggetto che portava al polso ben visibile. Era il braccialetto, naturalmente. La luce del sole vi si rifletteva sopra e il metallo luccicava.

— Ti ha osservato la notte scorsa — dissi all’oracolo. — Ha visto dove hai gettato il braccialetto. Questa mattina è andato a nuotare. Derek non rinuncia mai. È per questo che ha un incarico fisso.

— Che cosa? — chiese l’oracolo.

— È difficile da spiegare.

Derek si tolse il braccialetto. — Okay. Hai vinto, Lixia. — Gettò il braccialetto all’oracolo. — Liberatene. Lixia può tenermi d’occhio per assicurarsi che non ti osservo.

— Che cos’è tutta questa storia? — s’intromise Inahooli.

La Voce della Cascata rispose. — Costui — fece un cenno della mano in direzione di Derek — ha preso il braccialetto, e non ne ha alcun diritto. Era un dono a uno spirito o a un demone, chiunque dimori nel lago di fango bollente che si trova a est di qui.

— Appartiene all’Imbroglione. — La donna fissò Derek. — Tu sei molto sventurato. Lui non dimentica. Ed è molto difficile liberarsi di lui.

— Vedi? — disse l’oracolo. — C’è sempre un buon motivo per tutto. Questo — sollevò il braccialetto — è il motivo della nostra controversia.

— Tu ci credi? — domandò Derek alla donna.

Lei aggrottò la fronte. — No. L’Imbroglione è adirato con te. Ma sono io quella colpita dalla malasorte. Non mi sembra giusto. — Chiuse gli occhi e serrò le labbra. Restammo tutti in attesa. Dopo un minuto aprì gli occhi. — Il Clan dell’Uccello Terrestre!

— Che cosa? — domandò Derek.

— La loro cerimonia viene subito dopo la nostra, e noi le mettiamo sempre in ombra. La nostra torre è sempre più alta e più bella. Le nostre danzatrici e narratrici sono più abili. So che sono invidiose, e la nuova sciamana è nata nel loro clan, sebbene ora, naturalmente, appartenga al Clan della Prima Maga. Ma una donna non dimentica ciò che ha imparato da bambina nella tenda della madre. Sì! — Fece il gesto dell’affermazione. — Ha eseguito lei qualche specie di rito magico e ha fatto accadere tutto questo. — Guardò l’oracolo. — Avevi ragione sulle vicine malvagie. Avrei dovuto pensarci prima. Non c’è niente che non vada nella torre. Lei mi ha fatto uscire di senno con la magia e mi ha fatto pensare che la torre fosse rovinata.

— E il braccialetto? — disse l’oracolo.

— Quello provocherà certamente sventura, ma non a me. No, tutto questo è opera del Clan dell’Uccello Terrestre. — Tacque, evidentemente rimuginando.

— Hai detto che l’uccello terrestre rubò il fuoco dal cielo.

Inahooli mi guardò, poi fece il gesto dell’approvazione.

— Hai visto la luna la notte scorsa? Era in fiamme. Questo potrebbe avere qualcosa a che fare con quanto sta accadendo qui? Potrebbe essere un presagio? Un segno di magia?

— No. — Esitò. — Sì. Può darsi. Non sono mai stata brava con i presagi. Deve spiegarli qualcun altro. Io non capisco mai che cosa significhino. Ora devo tornare alla torre. Se la sciamana sta cercando di farmi impazzire, devo fare di tutto per comportarmi in modo normale. Devo tornare a comportarmi nel modo consueto. Devo fare quello che si aspettano da me. — Si chinò e tirò la stoffa che le teneva legati i piedi. — Aiutatemi! Non posso restare qui. Chissà che cosa sta succedendo alla torre?

L’oracolo la liberò. Lei si sollevò sulle ginocchia, poi cercò di alzarsi su un piede, ma non ci riuscì. — Le mie caviglie non funzionano.

— Al diavolo — imprecò Derek. Afferrò la donna sotto le ascelle e la tirò in piedi. — Tieniti a me. — La sollevò oltre la canoa. — Riesci a stare in piedi?

— No.

Derek la cinse con un braccio. — Appoggiati a me. Prova a camminare.

La donna inciampò e cadde in avanti.

— Okay. Continua a muoverti.

Camminarono avanti e indietro. Io stavo a guardare e cercavo di capire che cosa fosse successo. Di che cosa avevamo parlato? Che cosa era stato risolto?

Dopo un po’ Inahooli riuscì a camminare da sola. Fece il gesto che significava che era a posto e poi il gesto che esprimeva gratitudine. — Adesso me ne vado. La torre dev’essere protetta. E se volete accettare il mio consiglio, sbarazzatevi del braccialetto. Restituitelo all’Imbroglione, altrimenti vi causerà un sacco di problemi. — Spinse in acqua una delle canoe, vi saltò dentro e incominciò a pagaiare. Nel giro di uno e due minuti era sparita, nascosta dai canneti.

— Vado a nascondere il braccialetto — disse l’oracolo. — Lixia, tu tieni d’occhio quell’uomo. Non ci si può fidare di lui. — Si allontanò.

Guardai Derek.

Lui sorrise e si strinse nelle spalle. — A quanto pare mi sto facendo una pessima reputazione.

— Uhu. E te la meriti. Ho sempre sentito dire che eri un ricercatore di prim’ordine nella raccolta diretta di dati. Be’, se questo è un esempio…

Derek incominciava ad accigliarsi, aggrottando le folte sopracciglia bionde.

— Hai ostacolato una cerimonia. Hai rubato un oggetto magico o, per lo meno, appartenente a un essere magico. Sei fuori di senno? Come hai potuto mettere a repentaglio il tuo rapporto con l’oracolo? È un eccellente informatore. Credi che persone così crescano sugli alberi?

— Non l’avrebbe mai scoperto se non fosse stato per te. Hai deciso che era venuto il momento di una grande rivelazione.

Riflettei un momento. — Questo è abbastanza vero.

— Dovrei essere in collera con te, Lixia. Ho perso un manufatto di valore e mi ci vorrà un sacco di tempo per convincere l’oracolo che, di solito, non sono un ladro. Bene… — Fece il gesto che significava "così sia". — Gli parlerò finché non l’avrò convinto. Non sono il tipo che nutre rancore. Così che ne dici di dimenticare questa faccenda?

Risi. Quell’uomo era straordinario. Dopo tutto quello che aveva fatto, era disposto a perdonare me. — Okay. Vuoi sancire la pace con una stretta di mano? — Tesi la mano. Ce la stringemmo.

— Mi sta venendo fame — disse Derek. — Che ne dici di controllare le trappole per i pesci?

Feci il gesto dell’approvazione. Entrammo nell’acqua. Le trappole erano vuote, ma qualcosa vi aveva fatto una visita perché l’esca era sparita.

— Dannazione — dissi.

Tornammo a riva, portando con noi le trappole. L’oracolo ci venne incontro lungo la spiaggia. Era a mani vuote. Si era sbarazzato del braccialetto. — Niente pesce?

— Nemmeno uno.

— Aiya! - Restò incerto e si grattò il naso. — Avremmo dovuto chiedere alla donna pazza se aveva qualcosa da darci. Be’, ho visto delle piante che sono commestibili. Le raccoglieremo.

Derek scosse il capo, poi fece il gesto che significava "no". — Andate voi due. È ora che io incominci a pensare di andare a caccia. Cercherò del legno. Forse potrò fabbricare un nuovo arco o una lancia.

Andai con l’oracolo. Cavammo radici e raccogliemmo bacche. Lui mi raccontò storie sulle diverse specie di vegetazione: come la radice sanguigna avesse preso quel colore, perché la foglia del sole si girasse sempre verso il sole e perché nessun uomo volesse mangiare alcuna parte del rampicante dell’hubaia, benché piacesse molto alle donne.

Nel pomeriggio inoltrato tornammo all’accampamento. Derek era già lì e aveva un lungo pezzo di legno. — Una lancia — disse.

Arrostimmo le radici sanguigne. Quando le mettemmo nel fuoco erano di un color arancione chiaro e quando le tirammo fuori erano già diventate rosso scuro. Erano farinose e avevano un sapore dolce. Immaginate una patata con il gusto di un peperone dolce e ben maturo. Non male, pensai. Ma ci sarebbe voluto un po’ di burro.

Derek tolse la corteccia al suo pezzo di legno e lo raschiò con un coltello, eliminando irregolarità che io non riuscivo neppure a vedere. Poi si sedette e attorcigliò la corteccia fino a ottenere una corda.

— Quell’uomo è abile — disse l’oracolo. — Anche se è privo di pelliccia, conosce le cose che un uomo deve sapere.

Derek alzò lo sguardo e sorrise, poi si rimise ad attorcigliare.

— Anche se non capisco — continuò l’oracolo — perché gli piaccia tanto mostrare i denti. Continua a farlo.

— È un’espressione di piacere o felicità — gli spiegai.

— Oh — fu il commento dell’oracolo.

Scese la notte. Il vento soffiava dal lago e ci portava insetti: una nuova varietà, minuscoli e numerosi.

Imprecai e agitai le mani.

— Ignorali — mi disse Derek.

Mi spostai più vicina al fuoco. Il fumo vorticava attorno a me, e gli insetti mi lasciarono in pace. Ma ora, naturalmente, mi lacrimavano gli occhi. Guardai l’oracolo. — Non ti danno noia?

— Sì — rispose. — Ma non c’è niente da fare. Vicino a un lago come questo ci sono sempre insetti, e questi almeno non mordono. È il meglio in cui possiamo sperare. — Aprì la bocca in uno sbadiglio enorme e vidi i suoi canini. Erano lunghi e aguzzi. Non c’era da stupirsi che queste persone non esprimessero felicità sorridendo. Quei denti avevano un aspetto minaccioso. — Dovremo stare di guardia?

— Derek? — chiesi.

— Sì. Non sono sicuro che sia stata la cosa giusta lasciar andare quella donna. Mi provoca una strana sensazione. Non mi piace la sua aura.

— Non potevamo tenerla legata per giorni — dissi. — In ogni modo, ora ha un problema reale di cui occuparsi. Le sue nemiche del Clan dell’Uccello Terrestre. — Sorrisi.

L’oracolo si coricò. Osservai Derek. Spaccò in due un’estremità del pezzo di legno e vi inserì a forza il coltello, con la lama puntata all’infuori. Poi avvolse il cordone attorno al legno spaccato e al coltello. — Primitiva ma efficace. Lo spero. — Continuò ad avvolgere e a fare nodi. Io misi altri rami sul fuoco, poi mi coricai.

Mi svegliai. Qualcosa mi morsicava una mano. Una zanzara. Diedi una manata e beccai la piccola canaglia. Nello stesso momento mi ricordai che non poteva essere assolutamente una zanzara. Guardai il fuoco. Era un mucchietto di brace che rosseggiava fiocamente, senza emettere più molto fumo. Lontano, a occidente, la Grande Luna splendeva sopra il lago. Era quasi piena. Strizzai gli occhi e mi sembrò di vedere una riga sopra il bordo superiore. Si curvava come una maniglia, salendo oltre il terminatore, poi tornando giù: dalla parte illuminata dal sole a quella in ombra. Derek aveva occhi migliori dei miei. Per me era appena visibile.

— Maledizione. — Un altro insetto mi morsicò sul collo. Mi guardai attorno in cerca di legna. Non ce n’era. Non potevo riattizzare il fuoco.

Mi coricai di nuovo e mi misi un braccio sulla faccia, cercando di proteggerla. Gli insetti mi ronzavano attorno. Non morsicavano spesso, ma il ronzio e l’attesa mi tenevano sveglia. Alla fine rinunciai. Era ora di fare una passeggiata. Forse avrei trovato una bottega aperta fino a notte fonda che vendeva insetticida o uno di quei cappelli con un velo fatto di rete per zanzariere.

M’incamminai verso i canneti. Il vento soffiava ancora. Le foglie stormivano e il boschetto era pieno di ombre in movimento. Qui e là un raggio di luna penetrava fra il fogliame e riuscivo a distinguere un ramo o un gambo di erba enorme. Ma per la maggior parte del tempo non vedevo quasi niente, a parte la luna davanti a me e il lago che scintillava di luce gialla. Una bellissima sera, se si escludevano gli insetti.

Quando arrivai a breve distanza dall’accampamento, trenta metri al massimo, due mani mi afferrarono il collo. Cercai di gridare, ma non ci riuscii. Le mani stringevano, soffocandomi. Mi ci aggrappai, ma non riuscii a spezzare la stretta. — Unh — mormorò la persona alle mie spalle. Era un suono profondo, sommesso e soddisfatto. L’individuo girò su se stesso, trascinandomi con sé, e sbatté il mio corpo contro qualcosa di duro.

Poi lasciò la presa. Un istante dopo ero a terra, a pancia in giù e con la faccia schiacciata contro qualcosa che sembrava bitorzoluto. Una radice? La base di un albero?

La persona mi rigirò sulla schiena. Rimasi immobile. Forse avrebbe pensato che ero già morta. La persona, uomo o donna che fosse, si chinò su di me. Udii un respiro pesante e sentii l’odore del suo alito.

Colluttorio, pensai.

Ancora il respiro pesante. Avevo la sensazione che l’individuo intendesse toccarmi.

Qualcuno gridò nelle vicinanze.

L’individuo si raddrizzò. Un istante dopo era sparito.

Mi faceva male la gola, e anche la spalla e il braccio. Inspirai adagio e con cura. Finora tutto bene. Sembrava che i miei polmoni funzionassero ancora. Espirai, poi mi sollevai su un gomito. Riucivo a muovermi. Il collo non era rotto.

Girai la testa e sentii una fitta di dolore. L’accampamento. Dov’era? Vidi un tenuo bagliore rossastro. Il fuoco. Mi alzai sulle ginocchia. In quello stesso istante una figura balzò di fronte alla luce, visibile per un attimo. Poi sparì.

Che cos’era?

C’era qualcosa vicino a me. Provai a toccare. Erba enorme. Un grosso fusto liscio. Doveva essere ciò che avevo colpito quando il mio aggressore mi aveva fatto roteare. Ero stata sollevata e sbattuta contro un albero, nello stesso modo in cui un umano avrebbe battuto una scarpa contro un palo per togliervi il fango essicato.

Aiya! Mi alzai a fatica in piedi, sostenendomi al fusto di erba enorme. Per un attimo mi sentii stordita. Chiusi gli occhi e cercai di respirare con regolarità, ma non profondamente.

— Mostro! — Era un grido. Inahooli. Quella pazza.

Aprii gli occhi. Accanto al fuoco c’erano due figure avvinghiate in una lotta. Erano a terra e rotolavano. Non riuscivo a distinguere chi fossero.

Provai a camminare. Ci riuscivo, sebbene mi sentissi stordita. Il fuoco dell’accampamento, e le due figure, si sfocavano e tornavano a fuoco continuamente.

Una voce urlò: — Aiutatemi!

Era l’oracolo. Era lui che lottava. Ma dov’era Derek? Arrivai ai margini dell’accampamento e mi guardai attorno. Derek era là, a tre metri di distanza. Giaceva sulla schiena, metà all’ombra, metà illuminato dalla luce della luna. I capelli erano sciolti e gli erano caduti in avanti. Lunghi, chiari e aggrovigliati, gli nascondevano gran parte della faccia. Mi chinai e glieli tirai di lato. Aveva gli occhi chiusi e c’era del sangue attorno al naso e alla bocca.

— Aiuto! — gridò di nuovo l’oracolo.

Vidi la lancia di Derek posata a terra accanto a lui. La lama splendeva debolmente nel chiarore lunare. Doveva averla lasciata cadere quando Inahooli l’aveva colpito. La raccolsi e girai attorno al fuoco, muovendomi con cautela. C’era qualcosa che non andava nel mio senso dell’equilibrio.

Inahooli era in cima. Doveva essere lei. Indossava una nuova tunica, chiara e con un sacco di ricami. L’oracolo non aveva niente del genere. Gli stava seduta sopra a cavalcioni e gli teneva le mani sulla faccia. Mi sembrò di vedere che gli ficcava i pollici negli occhi. L’oracolo urlò. Sollevai la lancia e la conficcai nella schiena di Inahooli.

Lei cacciò un urlo. C’era furore in quel suono, non dolore. Si girò per vedere chi l’avesse colpita. Lasciai andare la lancia. L’oracolo si tirò su. Inahooli ruzzolò giù dal suo corpo. Un istante dopo lui era in piedi. La donna giaceva a terra, su un fianco, e si lamentava mentre incominciava a sentire il dolore.

— Stai bene? — s’informò l’oracolo.

— No. Cerca di scoprire come sta Derek. — M’inginocchiai accanto alla donna. La lama era penetrata nella parte inferiore della schiena, sotto le costole. Chissà che cosa aveva colpito? Non ne avevo idea. Non c’era molto sangue. Dovevo cercare di estrarre la lancia? O questo avrebbe fatto aumentare l’emorragia? Le immagini si sfocarono di nuovo davanti ai miei occhi. Sollevai la testa e respirai un po’ d’aria fresca. Inahooli si muoveva nel tentativo di trovare una posizione comoda. — Resta immobile — le dissi.

— Demonio.

Le presi il polso e cercai di sentirle le pulsazioni, ma lei tirò indietro il braccio. — Lasciami in pace. — fece una smorfia. — Aiya! Che dolore! — Chiuse gli occhi e serrò le labbra.

Le presi di nuovo il polso e questa volta lei non tirò indietro il braccio. Trovai le pulsazioni, ma in che modo potevo misurarle? Non in battiti al minuto. Non avevo un mezzo per misurare il tempo, e non sapevo neppure quali fossero le pulsazioni normali fra la sua gente. Cinquanta battiti al minuto? Settanta? O cento? Avrei dovuto confrontare la frequenza dei suoi battiti con quelli di un altro nativo. — Oracolo?

— Dacci un minuto — disse Derek in inglese.

Mi guardai intorno. Derek era in piedi e si appoggiava all’oracolo con una mano. Con l’altra si massaggiò la fronte. — Ohi!

— Una commozione cerebrale? — chiesi.

— Forse. Riesco a ricordare quanto è successo. O almeno credo di riuscirsi. E questo dovrebbe escludere la commozione cerebrale. Forse faresti meglio a controllarmi la larghezza delle pupille.

— Okay.

L’oracolo intervenne: — Parlate una lingua che io possa capire.

Derek fece il gesto dell’assenso. — Stavo controllando il boschetto, facendo un giro per assicurarmi che tutto fosse a posto.

"Quando sono tornato all’accampamento, tu eri sparita, Lixia. Ho chiamato il tuo nome e non ho avuto risposta. La cosa mi ha preoccupato, un po’, non abbastanza. Pensavo che Inahooli fosse pazza. Non credevo che sarebbe riuscita a superarmi. Stavo cercando te. E ho trovato Inahooli." La sua voce aveva un tono perplesso, come se non riuscisse a capacitarsi di come una cosa del genere fosse potuta accadere al dottor Derek Guerriero del Mare. "Non l’ho vista arrivare. È comparsa dal nulla e mi ha strappato la lancia. L’ha semplicemente afferrata e tirata, e la lancia era sparita. L’ha usata come una clava. In pieno sulla mia faccia." Si tastò il naso. "Non credo che sia rotto."

— È da lì che è venuto il sangue?

— Quale sangue? — Si passò la mano sotto il naso, poi se la guardò. — Oh. Quel sangue. Credo di sì. Quello che non capisco è… perché non mi ha accoltellato.

— Stava per farlo — disse l’oracolo. — Dopo che sei caduto. Ma hai gridato prima che ti colpisse. Mi sono svegliato e ho visto ciò che stava succedendo. L’ho raggiunta prima che conficcasse la lancia. Le sono saltato sulla schiena e le ho morsicato la spalla. Questo le ha fatto mollare la lancia.

Inahooli si lamentò. Le stavo ancora tenendo il polso. Il battito sembrava più lento di prima. — Oracolo, vieni qui. Voglio scoprire la rapidità del battito del tuo cuore.

— Perché?

Riflettei un momento. Come facevo a spiegarglielo? — Quando qualcuno del mio popolo sta male, il suo cuore batte diversamente.

— Da che cosa?

— Da come batte quando sta bene. E una persona esperta, una persona abile nelle guarigioni, è in grado di ascoltare il cuore o sentire il modo in cui batte e capire quanto stia male la donna.

— Questo lo so — disse l’oracolo. — Ricordati, mia madre è una sciamana. Mi ha insegnato alcune cose quando vivevo nella sua casa. Ma non sono stato ferito. Perché vuoi sapere come si comporta il mio cuore?

— Per fare un confronto. — Con la mano libera indicai Inahooli. — Non so come dovrebbe essere il suo battito cardiaco. Non so che cosa sia giusto fra la vostra gente.

L’oracolo rivolse un’occhiata a Derek. — Riesci a tenerti in piedi da solo?

— Credo di sì. — Derek lo lasciò andare.

L’oracolo si avvicinò a Inahooli, si accoccolò e mi prese dalla mano il polso di Inahooli. — Non apparteniamo allo stesso popolo, Inahooli e io, ma tutti i cuori battono nello stesso modo. — Tacque un momento, inclinando il capo e aggrottando la fronte. — Sta andando un po’ troppo rapidamente, ma ricordati che ha lottato. — Mise giù il polso. — Estrarremo la lancia e fasceremo la ferita. Anche se io sono un uomo e lei è pazza, non posso andarmene e lasciarla in questo stato.

Inahooli aprì gli occhi. — Siete tutti dei demoni.

— Non parlare — le disse l’oracolo. Le prese la tunica dove la lancia l’aveva tagliata e tirò delicatamente. Il tessuto si lacerò. Nel giro di uno o due minuti le aveva tolto la tunica. Me la consegnò. — Strappala in tanti pezzi.

Feci come mi aveva chiesto. Non era facile. Continuavo a imbattermi in ricami. Per fortuna avevo degli incisivi aguzzi. Spezzavo i fili con i denti, poi ricominciavo a lacerare il tessuto. Quando ebbi finito l’oracolo disse: — Ci serve altra stoffa.

Che cosa avevamo? La mia camicia e quella di Derek. Diedi un’occhiata al mio compagno. Era ancora in piedi ma non aveva mosso un passo verso di noi. Alla luce fioca sembrava che barcollasse. Aveva un aspetto peggiore di quanto avessi pensato. Mi sbottonai la camicia e me la tolsi.

L’oracolo mi guardò. — Che cos’è quella cosa che porti attorno al torace?

Come si fa a spiegare un reggiseno a un alieno? Diedi uno strappo alla camicia. La cucitura era debole e si lacerò — Te lo spiegherò più tardi — dissi.

Derek venne verso di noi. Incespicò un volta.

— Come stai? — gli chiesi.

— Okay. Stordito e confuso. Non mi aspettavo davvero che sarebbe tornata. Pensavo solo di essere prudente. Perché l’ha fatto?

Finii di strappare, poi feci il gesto del dubbio.

L’oracolo teneva in mano la lancia. Incominciò a tirare. Inahooli emise un gemito strozzato. — Presto sarà tutto finito — le disse. Mi lanciò un’occhiata. — Tieni pronta la stoffa. — Tirò di nuovo. La lancia uscì. Vidi la lama, coperta di sangue scuro. L’oracolo appoggiò a terra l’arma, poi si protese in avanti e osservò attentamente la ferita. — Sta sanguinando, ma adagio. È un flusso lento, non un fiotto. È un buon segno. Dammi le pezze di stoffa.

Gli porsi un pezzo di tunica. Lui ne fece un tampone e lo sistemò sulla ferita, usando per fissarlo i pezzi splendidamente ricamati della tunica indigena e la mia camicia di denim.

Un insetto mi pizzicò sulla spalla nuda. Gli diedi una pacca.

— Della legna — disse Derek. — C’è un albero… immagino che lo si possa definire così… caduto e secco non lontano da qui. Andiamo.

Ci inoltrammo nel boschetto buio. Derek trovò il suo pezzo di erba enorme: un enorme gambo caduto. Giaceva al suolo nel chiarore lunare. Sopra vi cresceva qualcosa di simile a un fungo. Somigliava al corallo, delicato e intricato. Ramoscelli pallidi si dividevano e dividevano ancora. O erano traslucidi o rifulgevano di luce propria, non avrei saputo dirlo. Ma la cosa aveva un tenue splendore. Restai a fissarla. Un altro insetto mi morsicò, questa volta sul braccio. — Sbrighiamoci — dissi.

Raccogliemmo legna e la riportammo all’accampamento. Derek riattizzò il fuoco, e quando questo ebbe ripreso ad ardere, gli controllai gli occhi. Le pupille avevano la stessa larghezza. Non c’era commozione cerebrale.

Tornai dall’oracolo. — Come sta?

— Il battito del suo cuore è rallentato, ma non mi piace il modo in cui respira. La sorella di mia madre faceva un rumore così quando aveva la malattia della tosse. Non è sopravvissuta.

Ascoltai. L’oracolo aveva ragione. Inahooli sembrava congestionata, come se avesse un brutto raffreddore o una polmonite.

— Mi ha detto che aveva freddo — spiegò l’oracolo. — Le ho messo addosso il mantello di Nia. Aiya! È un bene che Nia l’abbia lasciato qui!

Derek parlò in inglese. — Se non ce la fa, ricordati che è stata legittima difesa.

— L’avrei dovuta colpire sulla testa o con un calcio. Avrei dovuto distrarla e dare all’oracolo la possibilità di liberarsi. Hai idea di ciò che farà al mio karma?

— Ve l’ho già detto prima — protestò l’oracolo. — Parlate una lingua che io possa capire.

— Questa cosa porterà sventura — dissi. — Fare questo, far del male a un’altra persona, è agire come un animale, senza ragione né compassione. Le persone, quelle autentiche, non si fanno del male.

— Credi davvero a ciò che dici? — domandò Derek. — E in questo caso, che ne pensi dell’uomo nel canyon? È morto e, da quanto ho sentito dire, hai contribuito.

— Non avevo intenzione di ucciderlo, e non gli ho dato io il colpo mortale. È stata Nia. Non so che cosa le fosse passato per la mente. In ogni caso, quello è un problema suo, non mio. Io cerco di non imporre il mio sistema di etica sugli individui che studio. In questo caso… — esitai. — Ho conficcato io la lama. Quindi è un problema mio e del mio karma. E non sono del tutto sicura di ciò che intendevo fare. Forse volevo uccidere Inahooli. Non che mi aspettassi di diventare un Buddha, ma pensavo che avrei agito meglio di così.

— Che cos’è un Buddha? — domandò l’oracolo.

— Una persona che capisce ciò che sta accadendo. O forse una persona che non capisce ciò che sta succedendo e non se ne cura.

— Questo non ha senso.

Inahooli gemette e si mosse in modo irrequieto. Aprì gli occhi, ma non ci guardò. Aveva lo sguardo fisso nel vuoto.

Derek si protese in avanti. — Inahooli? Riesci a sentire quello che dico?

Lei guardò verso di me. — Pensavo che all’arrivo dell’autunno sarei stata una donna importante.

— Perché sei tornata?

Lei mosse leggermente la testa e i suoi occhi incontrarono quelli di Derek. — Pensavate che vi avessi creduto? Quelle storie assurde? Sapevo che eravate dei demoni.

Dissi: — Significa che stavi fingendo? La storia della sciamana era una menzogna?

— Uno stratagemma. — Tirò indietro le labbra, esponendo i denti. Non era un sorriso. — Siete demoni molto stupidi. — Tacque un momento, inspirò ed espirò, poi socchiuse gli occhi. — Il dolore è terribile. — Guardò l’oracolo. — Sopravviverò?

— Non lo so.

Lei batté le palpebre. — Aiya! Che fortuna che ho!

— Che cosa ti aspetti quando arrivi strisciando, balzi addosso alle persone nell’oscurità e cerchi di far loro del male? Quale spirito approverà un comportamento come questo?

— Ero furiosa.

L’oracolo aggrottò la fronte. — Non ci sono scuse. Quando mi arrabbio, io lancio sassi o salto su e giù e grido o, se sono molto arrabbiato, compongo una canzone cattiva e la canto più forte che posso. Questo è il modo giusto di infuriarsi. Non è corretto scaraventare qua e là le persone. Soltanto gli uomini pazzi lo fanno.

— Ho provato a gridare e a saltare su e giù. Non è servito a niente. C’era troppa collera. — Inahooli si accigliò. — Era come se avessi dentro di me il lago di fango bollente, che si agitava ed esplodeva.

Derek disse in inglese: — Bicarbonato di sodio.

— Sta’ zitto — ribattei.

— Non riuscivo a sopportare la collera. Dovevo fare qualcosa di grosso. — Chiuse gli occhi per un momento, poi li riaprì. — Non voglio parlare più. Fa male. È una fatica troppo grande. — Chiuse nuovamente gli occhi.

Rabbrividii. Derek mise altra legna sul fuoco. Le fiamme divamparono. — Brucia troppo in fretta. Non credo che durerà fino a domattina. — Mi rivolse un’occhiata. — Hai freddo, vero?

Feci il gesto dell’assenso. — E gli insetti mi stanno divorando. Devono aver deciso che odoro di cibo.

Si slacciò la camicia e se la tolse. — Eccoti.

— E tu che cosa farai?

— Starò in movimento. — Guardò il lago. — La luna è ancora alta nel cielo. Credo di avere tempo. Tu rimani qui, Lixia. — Si allontanò nelle tenebre.

Aprii la bocca per chiamarlo, poi pensai: che diamine. Mi infilai la camicia.

L’oracolo chiese: — Dove sta andando?

Feci il gesto che significava "chi lo sa?".

— Non c’è dubbio che si muova in fretta quando decide di dover fare qualcosa.

— Sì.

Inahooli gemette e si morse il labbro. L’oracolo le prese il polso. — Il battito si sta facendo più debole. Credo che morirà.

La donna aprì gli occhi. Le sue pupille si erano dilatate e scorgevo a stento l’iride. C’era un po’ di arancione negli angoli, ma la parte centrale di ogni occhio era scura. — No.

— Sì — ribatté l’oracolo. — Io non mento.

Lei chiuse gli occhi e si concentrò sulla respirazione. Diventava sempre più difficile per lei. Strano! Osservare una persona affannarsi per fare qualcosa di così facile e normale come tirare un respiro.

Mi alzai e misi altra legna sul fuoco. Poi tornai a sedermi. Restai in ascolto. Ogni respiro era un rantolo. Quando espirava sentivo un sibilo. L’aria usciva attraverso una qualche ostruzione. Un liquido. Sangue. Quando l’avevo colpita con la lancia dovevo aver perforato un polmone.

Il respiro andò avanti per un’altra ora o due. Mi alzai una volta e misi altra legna sul fuoco, poi restai lì, protesa sopra le fiamme. L’aria calda saliva attorno a me. La pelle d’oca scomparve e mi tornò la sensibilità alle mani. Strano che avessi così freddo! Dopo tutto, era piena estate. Ma la notte era fresca e soffiava un po’ di vento. Gli insetti erano spariti. Il vento doveva averli scacciati.

Tornai accanto a Inahooli, mi sedetti e restai in ascolto. Il fiato entrava e usciva e il suono che faceva era aspro e disperato. Verso l’alba divenne irregolare. C’erano pause, come se Inahooli passasse dal sonno alla veglia: il respiro s’interrompeva un attimo quando si svegliava. Ma non era mai veramente vigile. Mi strofinai le mani. Erano intorpidite dal freddo. L’oracolo sedeva in silenzio.

All’alba il respiro cessò. L’oracolo le tastò il polso e poi il collo. — Non c’è battito. — Si alzò in piedi. — Aiya! Sono irrigidito. — Si stiracchiò e sbadigliò, poi si massaggiò le braccia. — Ho i piedi intorpiditi. — Saltellò da un piede all’altro.

Mi alzai e mi stirai a mia volta. Mi dolevano il collo e la spalla e avevo altri piccoli problemi in tutto il corpo: dolori, fitte e punti irrigiditi.

Guardai Inahooli. Riuscivo a distinguere la sua posizione anche sotto il mantello. Giaceva su un fianco, le ginocchia piegate e le braccia incrociate contro il petto. La testa era piegata in avanti, il mento ripiegato. Non riuscivo a vedere la sua faccia.

Ero un’assassina. Per davvero questa volta, non soltanto una complice. Guardai verso est. La luce rossa brillava fra due fusti di erba enorme. Il sole stava sorgendo.

L’oracolo smise di saltellare. — Questo è il momento giusto per una canzone. Me ne è venuta in mente una mentre la osservavo. — Indicò Inahooli, poi si mise a cantare, usando il linguaggio dei doni. Riuscii a capire buona parte della canzone. In seguito lui mi spiegò le strofe che non avevo compreso.

"Aiya! Ahi-aiya!

Che situazione!

Neppure tu, Inahooli,

meriti

di finire così.

"Dove sono le tue sorelle?

Dovrebbero piangerti,

dondolandosi e gemendo

sull’ingresso della tua casa.

"Dove sono le tue cugine?

Dovrebbero piangerti,

portando doni

da seppellire nella tua tomba.

"Aiya! Ahi-aiya!

Che situazione!

Neppure tu, Inahooli

meriti

di finire così."

S’interruppe per un momento, aggrottando la fronte e grattandosi la nuca. — C’è un’altra strofa — disse. — L’ho appena sentita nella mente. Dammi un momento per ordinare le parole. — Si mordicchiò l’unghia del pollice, poi cantò:

"Questa è una morte da uomo,

morire senza doni.

Questa è una morte da uomo,

morire sulla pianura".

Il sole era ormai sorto. Derek tornò dal lago. Portava con sé un paio di bisacce da sella.

— Dove sei stato? — gli domandai.

— Sull’isola, quella che hai visitato tu. — Mise giù le bisacce e ne aprì una. — Farò uno scambio con te. La mia camicia per questa. — Tirò fuori una tunica. Era di un color bianco panna con ricami rossi e blu.

Slacciai la camicia di Derek. — Hai qualcosa per Inahooli? Mi piacerebbe riprendere il mantello di Nia. Non mi sembra giusto che stia addosso a lei.

Derek lanciò un’occhiata al corpo. — È morta?

— Sì.

Aprì l’altra bisaccia e tirò fuori un mantello. Era di un color marrone ruggine con un bordo giallo. L’oracolo tolse a Inahooli il mantello di Nia. Per un attimo intravidi il suo corpo, nudo salvo per la pelliccia scura e la fasciatura fatta di tessuto denim. Poi sparì alla vista.

Derek disse: — C’era del cibo sull’isola. Carne essiccata e frutta. Ho riempito una bisaccia.

— Non è giusto, Derek. Stiamo rubando a una morta.

Lui s’inginocchiò e posò le mani sulle cosce. Rimase in quella posizione uno o due minuti, le braccia tese, la testa leggermente china, guardando il corpo sotto il mantello color ruggine. — Ascoltami, Inahooli. Prendiamo queste cose perché ne abbiamo bisogno. Abbiamo freddo. Abbiamo fame. Due di noi vengono da più lontano di quanto tu possa immaginare, e forse non torneranno mai più a casa. Credimi, non lo facciamo per malvagità, né collera, né alcun cattivo sentimento, ma per necessità. — Fece una pausa. — Ti prometto che useremo con rispetto ciò che prendiamo. Non saremo ingrati, e certamente non ci serviremo di questo come scusa per fare un viaggio di forza.

"Le cose sono andate così perché così è girata la ruota della fortuna. Accettalo, Inahooli. Non essere in collera con noi." Si alzò e tornò verso di me.

— Viaggio di forza? — dissi.

— Esperienza psichedelica di potere — rispose in inglese. — Non ho trovato un modo migliore di tradurlo. — Tornò al linguaggio dei doni. — Vorrei riavere la mia camicia.

Gliela diedi. In cambio lui mi porse la tunica. Me la infilai dalla testa. Il tessuto era soffice e caldo, simile a lana di ottima qualità. Aveva un odore di pelliccia, l’odore degli alieni.

— Prendo il cibo — disse Derek. — Dopo che avremo mangiato, potremo seppellirla.

Scavammo una fossa nella sabbia presso il lago, usando i remi come badili. Derek e l’oracolo sollevarono Inahooli e la trasportarono fino alla fossa. Una vera impresa. Ansimavano e grugnivano e una volta per poco non la fecero cadere. Io portai il mantello, cosa assai più facile. La deposero nella fossa e io la coprii col mantello.

— Aspettatemi — disse l’oracolo, e si diresse verso il boschetto.

Mi massaggiai la spalla, poi guardai Derek. Si era lavato la faccia, ma aveva ancora un aspetto orribile. Il naso era rosso e gonfio, e un occhio quasi chiuso. Aveva un livido sulla fronte sopra l’occhio.

— Perché hai fatto quel discorso a Inahooli? Per rassicurare l’oracolo.

Derek annuì col capo. — E anche me. Non si deve mai prendere senza dare una spiegazione e mai uccidere senza chiedere scusa.

— Quanto sei civilizzato, in ogni caso?

Sorrise. — Non molto.

L’oracolo tornò. Portava del cibo: una striscia di carne essiccata e una manciata di bacche fresche. Le depose nella fossa accanto a Inahooli. Poi si tolse la collana d’oro e turchese e la sistemò accanto al cibo. — Forse sarà meno furiosa se le facciamo dei doni. Anche se ne dubito. È il genere di persona che mantiene la collera. Che brutto modo di essere!

Ammucchiammo sabbia sopra il corpo di Inahooli, poi trovammo delle pietre e le sistemammo in cima alla sabbia. Una volta terminato il lavoro, l’oracolo disse: — Dovremmo eseguire delle cerimonie di prevenzione e purificazione. Ma non sono una sciamana. Non conosco le cerimonie che apprendono le donne sante. Non conosco neppure le cerimonie che apprendono gli uomini per aiutarli dopo che lasciano il villaggio. Tutto ciò che so è quello che mi ha detto la cascata. — Iniziò a cantare:

"O santo!

O essere di potere!

Perché non mi aiuti?

Che dovrei fare adesso?

"O santo!

O essere di potere!

Perché non mi aiuti?

Dimmi che cosa fare!".

Inclinò il capo e restò in ascolto. Il vento soffiava. Le canne stormivano. L’acqua sciabordava sulla riva. — Tutto quello che riesco a sentire è: "Fa’ una nuotata". Forse potremo lavarci via ciò che è successo in questi ultimi giorni.

Derek fece il gesto dell’approvazione. I due si svestirono ed entrarono nell’acqua. Si lavarono nell’acqua profonda presso le canne, poi nuotarono. Io mi preoccupavo del taglio sul braccio; non volevo bagnarlo. Non credevo neppure che la spalla mi permettesse di nuotare. Mi tolsi gli stivali, mi arrotolai i jeans e diguazzai nell’acqua bassa, cercando conchiglie e pietre lucide. Le pietre erano prive d’interesse: frammenti consumati rotondi e ovali di una sostanza nera simile a pomice. Le conchiglie erano grziose: minuscole spirali, rosa o di un tenue color lavanda. Ne raccolsi una dozzina, poi tornai sulla spiaggia. Posai le conchiglie sulla tomba. Un gesto assurdo. A che serviva quel dono? Non credevo nell’aldilà, quindi non era un tentativo di placare con un dono la collera di Inahooli. E non era sufficiente per placare il mio senso di responsabilità

— Assassina — dissi ad alta voce.

Quello stato d’animo era pericoloso. Rifiutai di abbandonarmici. Perché avrei dovuto? Il senso di colpa non faceva parte del mio patrimonio. I membri anziani della mia famiglia l’avevano disapprovato. Bisogna riconoscere gli errori e ammetterli e darsi da fare per infrangere i modelli di comportamento che portano a commetterli. Ma la colpa era sterile.

"La vita è un processo" aveva detto Theresa. Era una delle mie co-madri, una tecnica sanitaria specializzata in psicologia. Per metà dell’anno lavorava su una nave mineraria d’alto mare, la Pacific Aurora, al largo di Pearl Harbor. Per l’altra metà dell’anno, contribuiva ad allevare i membri più giovani della famiglia. "Noi creiamo e ricreiamo noi stessi, rispondendo a cambiamenti sia esterni che interni. Ma la colpa è statica, così come lo sono le idee e le emozioni collegate: il peccato, per esempio, il rammarico, e forse la vergogna, sebbene non sia del tutto certa dell’effetto della vergogna. Ma gli altri ti ancorano al passato, ti trattengono, così che non puoi muoverti liberamente nel presente.

"Immagina la colpa come una fascia di ferro fissata attorno a qualcosa che sta crescendo: il tronco di un albero, il collo di un bambino. Prima o poi, delle due cose una dovrà succedere: se la fascia non si spezza, la cosa che cresce resterà deforme.

"Impegnati al cambiamento, Lixia, a vivere nel presente, a creare e ricreare quella che sei. Fa’ del tuo meglio. Comprendi ciò che fai. E non sentirti in colpa."

Un buon consiglio, dissi al ricordo di Theresa. Raccolsi i miei stivali e m’incamminai verso il nostro accampamento.

Inzara

L’oracolo andò a raccogliere radici e bacche, Derek andò in cerca di legna e io feci un inventario delle cose appartenute a Inahooli. Due tuniche… tre, se contavo quella che avevo indosso, un mantello di pelle, un paio di sandali e un coltello. Tutte le tuniche erano adorne di ricami: disegni geometrici. Il mantello aveva un fermaglio, simile a una fibbia, fatto di bronzo e rivestito d’argento. L’argento si andava assottigliando.

— Lixia! — gridò Derek.

Gettai a terra il mantello e attraversai di corsa il boschetto. Derek si trovava sul limitare orientale.

— Laggiù! — Puntò il dito.

Sull’aperta pianura c’era un cavaliere. Era in sella a un cornacurve. Riuscivo a distinguere le lunghe corna ricurve dell’animale. Un secondo animale, un altro cornacurve, seguiva il primo.

— Nia? — domandai.

— Credo di sì.

Il cavaliere si avvicinava. Riconobbi le ampie spalle e il suo modo di cavalcare: agile, disinvolto, un po’ ciondolante sulla sella. — Dobbiamo chiamare subito Eddie — dissi.

Derek mi rivolse un’occhiata. — È il caso che sia io a parlare. Sono un miglior politico di te, e dobbiamo dare delle spiegazioni. La sventurata morte di una guida religiosa indigena.

— Okay.

Nia ci raggiunse e smontò di sella. — Bene, l’ho trovato. — Indicò con la mano il cornacurve. — E anche l’attrezzatura. Sono affamata. C’è qualcosa da mangiare?

— Sì — risposi.

— Io mi occupo degli animali — disse Derek. Allungò la mano e Nia gli porse le redini.

— Dove hai preso quella tunica? E che cosa è successo alla sua faccia? — Indicò Derek.

— Inahooli è tornata.

— Aiya!

— È venuta a cercarci durante la notte. Abbiamo dovuto ucciderla. Io ho dovuto ucciderla.

— Tu? — Nia mi fissò a occhi sgranati.

— Sì.

Nia restò silenziosa per un momento. Alla fine disse: — Ogni morte imprevista è spiacevole. Una morte così, avvenuta durante una lite, è peggiore delle altre. Lo spirito della persona defunta è certamente adirato. È probabile che porti sventura. Quando arriveremo in un posto dove c’è una sciamana, chiederemo che esegua cerimonie per placare Inahooli o scacciarla. Sarebbe meglio fare qualcosa anche per l’uomo del canyon, anche se non ha la stessa importanza quando un uomo muore all’improvviso. — Aggrottò la fronte. — Avete seppellito Inahooli?

— Sì.

— Con dei doni?

— Sì. L’oracolo le ha dato la sua collana.

— Bene. Forse non ci sarà sventura. — Nia non sembrava sicura di sé. — Quella donna era pazza e pericolosa. Se l’è cercata. Gli spiriti non se la prenderanno con noi, e di solito i fantasmi non percorrono grandi distanze. Una volta che ce ne saremo andati da qui, dovremmo essere al sicuro. — Nia fece il gesto che significava "me lo auguro" o "lo spero".

Tornammo all’accampamento. Tirai fuori del cibo: carne essiccata e frutta secca. Nia mangiò. — Mmm! Stavo morendo di fame sulla pianura. — Si appoggiò all’indietro e sospirò. — Il cibo è della donna?

Feci il gesto dell’assenso. — Derek gliel’ha spiegato.

Nia osservò il pezzo di frutta che aveva in mano. Dopo un po’ se lo cacciò in bocca. — Ci pensavo mentre cercavo il cornacurve. All’inizio ho pensato che ero io resposabile di ciò che stava succedendo. Ma non può essere così. — Finì di masticare e inghiottì, poi si grattò il naso. — Quasi sempre la sventura proviene da qualcosa di imprevisto o particolare. Bene, ho fatto cose strane e ho avuto la mia parte di sfortuna. Ma in questo caso è stata Inahooli a comportarsi in modo bizzarro. Siamo arrivati nella sua terra. Eravamo stranieri. Ma lei non ci ha fatto una buona accoglienza. Al contrario, ha cercato di ucciderci. Ora, tutti sanno che le donne non litigano con chi è straniero. Questo è un comportamento maschile.

— Le donne non litigano mai con chi è straniero? — chiesi.

— Capita una volta ogni tanto. Hakht l’ha fatto. È una persona malvagia. — Nia lo disse fermamente e con convinzione. — E anche Inahooli. Lei era pazza. E io ho ucciso il vecchio che aveva ucciso Enshi. Ma le donne normali, le donne che hanno rispetto di sé, non litigano mai se non con le persone che conoscono. Parenti o vicine. È questo il modo giusto di avere una discussione. — Nia mangiò altra frutta. — Non c’è modo di sapere con certezza chi sia un’estranea o ciò che accadrà se la si importuna.

Era un ragionamento logico. Gli abitanti di questo pianeta non conoscevano la guerra, né, per quanto ero in grado di giudicare, alcun genere di furto organizzato. Quando vedevano uno straniero, o almeno una straniera, non dovevano chiedersi: questa persona può essere un ladro? Un assassino? Qualcuno che ci farà del male? Al contrario potevano pregustare il piacere dei doni e delle storie che la straniera avrebbe portato con sé.

Aggressione e scambi erano, almeno in apparenza, cose del tutto disgiunte. Com’era diverso dalla Terra. La vecchia Terra, in ogni caso, dov’era stato legittimo affermare: "La proprietà è un furto".

Derek arrivò nell’accampamento, portando due zaini.

— Che cos’è successo? — s’informò Nia. — Com’è morta Inahooli?

Lui mise giù gli zaini e glielo riferì. Era un eccellente resoconto, breve e chiaro, con un gran gesticolare. — Ho avuto cattiva fortuna ieri — disse alla fine. — Ma lei ne ha avuta di assai peggiore. Se le cose si fossero svolte un po’ più lentamente, se avesse avuto un po’ più di tempo, Inahooli ci avrebbe uccisi tutti e tre. Forse l’Imbroglione aveva deciso che ero stato punito abbastanza.

— Chi è l’Imbroglione? — domandò Nia. — È perché vuole punire Derek?

— Ti ricordi del braccialetto che ha trovato? — dissi.

— Sì.

— Apparteneva a uno spirito chiamato l’Imbroglione. Inahooli ha detto a Derek che l’Imbroglione era sicuramente infuriato e gli avrebbe causato un sacco di dolore.

— Ah! — esclamò Nia.

— Conosco quello spirito — disse Derek. — Fra la mia gente è chiamato Coyote.

— Non sono del tutto sicura di questo, Derek. Il Coyote è ignobile, ma non è malvagio. Da quanto mi ha raccontato Inahooli, mi sono fatta l’impressione che l’Imbroglione sia cattivo. Egoista e malevolo. È simile a Loki.

— Ancora una volta, non so di che cosa stiate parlando — intervenne Nia.

— Non preoccuparti. Lixia ha l’abitudine di divagare dall’argomento di cui si sta parlando. Pensa troppo, e il suo pensiero si allontana in ogni possibile direzione.

Gli feci un gestaccio.

— Quello è un gesto usato dalla vostra gente? — domandò Nia.

— Sì. È un gesto di mancanza di rispetto.

— Ah! Fammelo vedere di nuovo.

Ripetei il gesto. Nia mi imitò. — Credevo che la tua gente non avesse gesti. È bello sapere che non siete totalmente strani. — Guardò Derek. — Il tuo racconto è finito?

Lui fece il gesto dell’affermazione.

— Uh! Vorrei che tutto questo non fosse accaduto. Ma è accaduto. — Fece il gesto che significava "così sia". — Domani proseguiremo. Voglio andarmene lontano da qui, prima che il fantasma riesca a liberarsi dal suo corpo.

— D’accordo — disse Derek.

L’oracolo tornò con un po’ di bacche. Cenammo. Derek chiamò la nave.

— Che cosa è successo? — s’informò Eddie. — Dove diavolo siete stati?

— Abbiamo incontrato un esemplare di fauna locale. Alto quattro metri e provvisto di artigli. I nostri animali sono fuggiti e li abbiamo persi. Le nostre radio erano sugli animali. — Derek alzò lo sguardo. Io lo stavo osservando, e lo stesso facevano Nia e l’oracolo. — Sei riuscito a imparare la lingua locale, Eddie?

— No. Perché?

— Ho qui due nativi e credo che si stiano domandando che cosa sto dicendo.

— Hai lasciato che sapessero delle radio?

— Sì.

— Era nostra intenzione cercare di tenere i nativi all’oscuro della nostra tecnologia — disse Eddie. Parlò lentamente e in modo chiaro, con voce pacata. — Faceva parte della nostra politica di non interferenza.

— Eddie, non è stato possibile. Non potevamo continuare a sgattaiolare fuori nell’oscurità. "Scusatemi, prendo questa scatola e me ne vado a orinare. Sarò di ritorno fra mezz’ora. Oh, a proposito, io parlo da solo mentre sto orinando, così se sentite delle voci nella notte, non preoccupatevi."

Eddie disse: — Questa faccenda sta diventando sempre più un pasticcio. — Fece una pausa. — Hai qualcosa da riferire?

— Sì — rispose Derek. — Una nativa ci ha aggrediti. È morta.

— Che cosa?

Derek raccontò la storia. Quando ebbe terminato, Eddie disse: — Voglio vedere che cos’hanno raccolto i vostri registratori. Trasmetti l’informazione.

Derek si tolse il medaglione e lo infilò nella radio. Mi guardò. — Continuo a dimenticarmi dei medaglioni.

— Non preoccuparti, Derek. Te la cavi benissimo a spiegare quasi ogni cosa con le parole. — Mi tolsi il medaglione e glielo lanciai. — Trasmetti anche questo.

Un paio di minuti più tardi Eddie riprese a parlare. — Vi richiameremo dopo che avremo esaminato le vostre informazioni. Ti avverto, questa faccenda non mi piace. Intendo chiedere a Lysenko se c’è qualche posto nelle vostre vicinanze dove può atterrare.

Lysenko era il primo pilota dell’aereo a razzo: un uomo con un nome infelice. I biologi ridevano di lui.

— Hai intenzione di prelevarci? — domandò Derek.

— Voglio considerare quella possibilità. Chiedi a Nia e all’oracolo se sono a conoscenza di un qualche luogo. Il fondo di un lago prosciugato sarebbe l’ideale. Anche un lago con dell’acqua dovrebbe essere possibile, se è abbastanza profondo.

— Okay.

— E cercate di tenervi fuori dai guai per un po’.

Derek spense la radio. Si alzò in piedi e si stiracchiò. — Uno dei guai con Eddie è che è nato per stare dietro una scrivania. È capace di organizzare, dirigere, analizzare e criticare, ma non ha alcuna idea di come vadano le cose sul campo.

— Che cosa ha detto la vostra scatola? — chiese Nia. — Perché Derek è arrabbiato?

Mi alzai. — Spiegaglielo tu, Derek. Sono stanca di parlare di Inahooli. — M’incamminai verso il margine della pianura. Davanti a me c’era la pianura, scura e monotona. Sopra di me il cielo era pieno di stelle. Restai ad ascoltare i rumori della notte: fruscii fra i rami e un sommesso ronzio fra la pseudoerba. Riflettei sulla mia carriera. C’era la possibilità che fosse rovinata. Chi si sarebbe fidato di me nella ricerca di dati sul campo dopo questa faccenda? Soprattutto se Eddie e gli altri del comitato socioscientifico avessero deciso che avevo agito veramente in modo non allineato. Avrebbero potuto inserire un rimprovero nel mio curriculum e insistere perché mi sottoponessi a una critica di gruppo.

Era un’idea sgradevole. Avevo visto una volta un gruppo in azione. Avevo fatto amicizia con un uomo durante il lungo viaggio dal sistema solare, prima che ci addormentassimo. Era un maestro capocuoco proveniente dalla Cina. Aveva una personalità incostante che si associa agli artisti, e un viso straordinario: pallido e glabro, simile a una maschera intagliata in giada bianca. Aveva capelli neri, lunghi, folti e lucenti. Quando cucinava, li teneva raccolti sotto un copricapo. Ma quando sedeva a chiacchierare con gli amici, gli cadevano attorno al viso e gli arrivavano alle spalle. Forse ero un po’ innamorata di lui. Ero certamente innamorata della sua iguana Mu Shu.

Si era risvegliato ai margini di questo sistema e finalmente si era reso conto di ciò che aveva fatto. Aveva lasciato la sua famiglia, la sua casa, la sua società, il suo pianeta. Quando fosse ritornato, avrebbe trovato tutto cambiato.

Cadde in una profonda depressione, il che non era del tutto sorprendente. La maggior parte di noi si sentiva depressa prima o poi. Ma De era un vero esperto nella depressione. Si tormentava nello stesso modo in cui cucinava: con abilità e passione.

Incominciò a bere, e questo gli causò problemi sul lavoro.

La maggior parte dei suoi colleghi erano cinesi, e insistevano per la critica di gruppo. Andai a portare sostegno morale: a De, non ai suoi critici. Ci riunimmo in una piccola sala dalle pareti di celadon. De era seduto sul davanti e aveva di fronte venti persone. Erano per lo più addetti alla cucina; alcune erano persone che conosceva al di fuori del lavoro, altre erano relativamente estranee. La riunione era aperta a tutti, e tutti potevano parlare. La voce delle masse andava ascoltata.

Gli addetti alla cucina parlarono l’uno dopo l’altro. De aveva perso un sacco di lavoro, costringendo altri a coprirlo. Aveva rifiutato consigli e critica costruttiva. Il suo atteggiamento era negativo. Aveva messo in discussione decisioni prese democraticamente dagli addetti alla cucina. Aveva mentito sul suo vizio di bere.

Si alzò qualcuno del suo dormitorio. De era tornato a tutte le ore, facendo un sacco di rumore e svegliando altre persone. Una volta aveva rigettato nel corridoio, proprio fuori dalla cabina del portavoce.

Un’altra persona, una bionda dall’accento scandinavo, si alzò e parlò dei danni del vizio del bere. Altri due si alzarono e discussero con lei. Il problema non era l’alcol, ma la mancanza di un programma ricreativo soddisfacente. Era il culto occidentale dell’individualismo. Era la penosa prestazione del team psicologico.

De se ne stava seduto e ascoltava. La sua faccia era più pallida del solito e aveva chiazze scure sotto gli occhi. Appariva esausto e infelice. Finalmente, quando tutti ebbero finito, si alzò in piedi. Si scusò con i suoi colleghi, con le persone della nave, con l’intera razza umana. Promise di correggere il proprio comportamento, di recarsi puntualmente al lavoro e di sottoporsi alla terapia psicanalitica. Infine, ringraziò tutti i presenti per il loro interesse e i buoni consigli. Era sincero, per quanto fossi in grado di giudicare. La mia famiglia era da troppo tempo in Occidente; non avrei mai capito veramente i cinesi.

Il dietista più anziano si alzò e lodò De per il suo nuovo atteggiamento costruttivo e aperto alla collaborazione. La riunione si concluse e io andai in cerca di qualcosa di forte da bere.

Mai, pensai. Non mi sarei mai sottoposta a una critica di gruppo. Non ero sicura di quello che avrei fatto se il comitato l’avesse preteso. Non potevo andarmene, né loro potevano licenziarmi. Non a quella distanza dalla Terra. Più probabilmente, se si fosse arrivati a una crisi, mi avrebbero esonerata dal mio incarico e rinviata a un comitato incaricato della manutenzione non meccanica. Avrei riparato pareti o sostituito piastrelle rotte fino al momento di lasciare questo sistema.

Una volta ancora correvo troppo col pensiero. Falla finita! mi dissi, e feci ritorno all’accampamento. Derek era seduto accanto al fuoco, le ginocchia sollevate, le braccia allacciate attorno alle ginocchia.

— Ebbene?

Mi lanciò un’occhiata e sorrise. — L’oracolo si è offerto di parlare con Eddie e di spiegargli che non è sbagliato uccidere per legittima difesa. Sembra pensare che Eddie sia una specie di idiota. E Nia ha detto che c’è un fiume che scorre fra il territorio del Popolo dell’Ambra e il suo terriorio, la terra del Popolo del Ferro. C’è un punto in cui il fiume si allarga in un lago lungo e stretto. Il lago è profondo e non ci sono isole. Potrebbe essere un posto sicuro per atterrare.

— A che distanza da qui?

— Non lo sa con assoluta certezza. Nove o dieci giorni, pensa.

— Andiamo laggiù? — chiesi.

Derek fece il gesto dell’affermazione. — La cosa farà felice Eddie, ed è lungo il percorso per raggiungere il popolo di Nia.

La luce del sole mi svegliò, penetrando obliqua nel boschetto. Un grigio filo di fumo saliva a spirale attraverso il raggio di sole, muovendosi lentamente. L’oracolo era accoccolato accanto al fuoco e stava spellando un pesce.

— Hai rimesso a posto le trappole — dissi.

— Sì, e siamo stati fortunati. Questo è un pesce verde. È delizioso, specialmente cotto al forno. Va’ a eseguire la tua cerimonia mattutina.

Gli ubbidii e feci un po’ di yoga sulla riva del lago. Ero ancora molto rigida ma, per quanto ero in grado di giudicare, non avevo subito gravi danni. Tanto per parlare di fortuna!

Quando tornai all’accampamento, Nia si stava infilando una delle tuniche di Inahooli. Era di un azzurro spento, con ricami color arancione: un disegno a triangoli. Indossò la sua cintura, il coltello con il manico d’osso e il fodero di cuoio scuro. Dopo di che tirò l’orlo della tunica e se la lisciò sul petto. — Ah! Così va meglio! Bisogna dire qualcosa per un nuovo indumento dai vivaci colori e senza nessun cattivo odore.

Mangiammo e levammo il campo, seguendo la pista lungo il lago per poi tornare sulla pianura. C’erano nuvole a ovest e a sud. Erano alte, soffici e sottili, disposte a mucchi e a grappoli. A nord il cielo era limpido. Riuscivo a distinguere Hani Akhar.

Pensai al China Clipper: corridoi e stanzette e troppa gente. Non ci sarebbero stati né cielo, né vento, né uccelli, se non nell’uccelliera. Forse mi sarei dovuta dare alla fuga, avrei dovuto gettar via la radio e il registratore audiovisivo e sparire nei territori selvaggi. Era un modo di evitare la critica di gruppo, sempre che non mi catturassero, naturalmente.

Guardai la pianura attorno a me. Era, o sembrava, quasi deserta. Alcuni insetti color arancione svolazzavano sopra la pseudo-erba. Alcuni uccelli volavano alti nel cielo. In lontananza scorsi un branco di animali. Erano puntini neri che si muovevano fra la vegetazione verde e gialla. Non avevo idea di che cosa fossero.

Questa terra era troppo vasta e troppo aliena. Non potevo voltare le spalle alla mia civiltà e vivere completamente sola senza speranza né aiuto dalla mia gente.

Quella notte ci accampammo in cima a una bassa collina. Non c’era niente in vista all’infuori della pseudo-erba. Mangiammo il cibo di Inahooli. Eddie non chiamò.

— Dovremmo chiamarlo noi? — chiesi.

Derek fece il gesto che significava "no". — Non dobbiamo peggiorare la situazione. Ci troverà, più di quanto noi si voglia o si abbia bisogno.

Feci il gesto dell’approvazione.

A metà della notte incominciò a piovere. Il tuono brontolava e guizzavano i lampi. Ci raggomitolammo sotto i mantelli e i poncho e ci bagnammo.

Al mattino la pioggia era cessata. L’aria, però, rimaneva umida e la vegetazione sulla pianura era ornata di goccioline d’acqua e si piegava sullo stretto sentiero. Derek e io ci aprimmo un varco fra di essa, bagnandoci una seconda volta. I nativi, che cavalcavano dietro di noi, sembravano più comodi, ma non molto.

— Sta arrivando una persona — disse Nia.

Mi guardai attorno. La pista era una linea scura che serpeggiava fra la vegetazione. Lungo la pista si muoveva un cornacurve e in sella all’animale c’era una persona.

— Un uomo — disse Nia. — Viaggia da solo.

— No — la corresse Derek. — C’è qualcun altro, lontano sulla pianura. — Puntò il dito verso nord.

Guardai attentamente e vidi un puntino che scendeva lungo un pendio. — Perché non sono insieme?

— Non lo so — rispose Nia. — Forse sono entrambi uomini.

La pista entrava in un avvallamento e persi di vista i cavalieri, anche se solo per pochi minuti. Emergemmo su una modesta altura. Al centro della pista c’era un cornacurve: un animale grande, di color bigio con una macchia bianca sul petto. Le corna erano nere e lucenti come ossidiana.

Derek e io ci fermammo. I due nativi vennero a mettersi ai nostri due lati e tirarono le redini dei loro animali. Guardai il cavaliere del cornacurve.

Quasi certamente un maschio. Alto e grosso, con la pelliccia scura e ispida. La sua tunica era simile a quella che indossavo io: color panna con ricami a disegni geometrici. Sulle braccia portava grossi braccialetti d’oro e aveva al collo una collana d’oro e ambra.

Ci osservò con calma, poi parlò nel linguaggio dei doni. — Vedo che avete incontrato mia sorella. — La sua voce era sommessa e profonda.

— Inahooli — disse Derek.

L’uomo fece il gesto dell’assenso. — Sono Toohala Inzara del Clan della Cordaia e del Popolo dell’Ambra. — Fece un cenno con la mano verso nord. — Mio fratello Tzoon è più lontano, in quella direzione. Non vedo mio fratello Ara da un paio di giorni. Ma si trova là fuori da qualche parte, probabilmente a sud. Come sta nostra sorella?

— Bene quanto ci si può aspettare — rispose Derek. — È stata sola per parecchio tempo.

L’uomo fece il gesto dell’approvazione. — Ha sempre avuto un carattere irritabile ed è sempre stato difficile andare d’accordo con lei. Speravo che il suo temperamento sarebbe migliorato ora che, finalmente, ha raggiunto qualcosa di importante. Ma non è cosi?

— No — disse Derek.

— Aiya! Che persona difficile! Se non vi dispiace, me ne vado. Non mi piace trovarmi con tante persone. E devo dire che voi due avete un aspetto ben strano. Questo mi mette ancor più a disagio. — Ci osservò di nuovo. — Peccato che non vi abbia visti Ara. È un tipo curioso. — Fece deviare il suo animale dalla pista e ci girò attorno.

Derek si rimise in cammino, più in fretta di prima. Noi lo seguimmo. Dopo un po’ Derek disse: — Sta andando a far visita a Inahooli. È possibile?

— Nessuno fra la mia gente farebbe una cosa del genere — disse Nia. — Sebbene io sia andata a trovare mio fratello anni fa.

L’oracolo disse: — Io vado a far visita a mia madre di quando in quando. Ma sono santo e anche un po’ pazzo. Un uomo comune non andrebbe a trovare le sue parenti.

— Questo non dev’essere un uomo comune — osservò Derek. — Arriverà al lago domani pomeriggio e troverà la tomba. Allora che cosa farà?

Nia fece il gesto dell’incertezza. — Non lo so.

— Era enorme — feci io. — I vostri uomini sono quasi tutti così grandi?

— No — rispose Nia.

— Sia ringraziato il cielo — fu il commento di Derek. — Incominciavo a pensare di incontrare tre fratelli grossi come gorilla e cercare di spiegare loro che cosa è accaduto alla loro sorella.

— Grossi come? — domandò Nia.

— Gorilla. Sono nostri parenti, ma molto più grandi di noi. — Derek stava ancora camminando velocemente. — Quando si metterà in viaggio, avrà un paio di giorni di ritardo su di noi.

— Di che cosa stai parlando? — gli domandai.

— Inzara. Se deciderà di inseguirci. Forse tre giorni, se saremo fortunati e si fermerà un po’ di tempo presso il lago. Nia, a che velocità può viaggiare un cornacurve?

— Il Popolo dell’Ambra segue le mandrie. Capisce gli animali e conosce bene la pazienza. Non sarà tanto sciocco da forzare troppo il suo cornacurve. Più probabilmente, manterrà un’andatura che è il doppio della nostra.

— Ho sempre odiato i problemi come questo. Bob ha il doppio di frutti di Alice, che a sua volta è alta la metà di Krishna. Quanti giorni ci vorranno prima che Inzara ci raggiunga?

— E adesso di che cosa sta parlando? — domandò l’oracolo.

— Niente di importante. — Riflettei un momento. — Gli ci vorranno due giorni, Derek. Dovremmo incominciare a preoccuparci la sera di dopodomani. No, il giorno dopo.

— Okay. Procederemo più velocemente che potremo. Forse il fiume è più vicino di quanto pensiamo.

— Hai paura? — chiesi.

— Certo, è naturale — rispose in inglese. — Se uccideremo altri nativi, finiremo il nostro lavoro sulla nave, molto probabilmente a pulire gli scarichi delle fognature. O forse a pulire le gabbie nei laboratori. In ogni caso, avremo finito per sempre quaggiù. — Mi lanciò un’occhiata. — Stravolgo molto i regolamenti e opero assai vicino al limite. Ma non ho intenzione di cacciarmi in guai seri.

— Perché stravolgi i regolamenti?

Lui rise. — Per dimostrare che posso.

Viaggiammo fino al tramonto, poi ci accampammo. Le nuvole si aprirono e la Grande Luna ci inondò con la sua luce. Era un po’ più che piena. Derek la osservò attentamente. — L’eruzione dev’essere terminata.

— Uhu. — Tirai fuori l’unica camicia umana che mi fosse rimasta eia esaminai. Un po’ sporca e con uno strappo. Decisi di indossarla.

— È troppo tardi — disse Derek. — Quell’uomo ha già visto la camicia di Inahooli.

— Nondimeno… — Mi misi la mia camicia e ripiegai quella di Inahooli, mettendola via.

La mia radio ronzò. L’accesi.

— Prima le buone notizie — disse Eddie. — Il comitato ha deciso di approvare, con rincrescimento, il tuo comportamento riguardo a Inahooli. Non avevi scelta. Forse se non fossi stata semiincosciente, avresti potuto escogitare un altro modo per fermarla. Ma è stata colpa sua se non eri in condizione di pensare. Si stava realizzando il suo karma. Non dovrebbe esserci nessun accrescimento nel tuo fardello karmico, almeno secondo l’opinione del comitato. — Avvertivo un certo distacco nella sua voce. Eddie non aveva niente contro le diverse religioni asiatiche… nel loro ambito, e questo non era un comitato responsabile di decidere la politica di un team scientifico. — Non ci sarà niente di negativo sul tuo curriculum.

Sentii che il mio corpo si rilassava. Emisi un sospiro, poi mi massaggiai la nuca. — Okay. Quali sono le cattive notizie?

— Ce ne sono tre. Derek si è beccato un rimprovero per quella stupidità riguardo al braccialetto.

Diedi un’occhiata a Derek. Lui si strinse nelle spalle.

— In ogni caso, questo non rallenterà la carriera di nessuno, con un elenco di pubblicazioni come il suo. La seconda delle cattive notizie è che il comitato ha deciso di suggerire un dibattito che coinvolga l’intera nave in merito alla nostra politica nei confronti dei nativi.

— Non intervento? — chiesi.

— Già. — Eddie sembrava torvo. — Vogliono riaprire la questione. Gradirei davvero che foste quassù, o almeno vorrei avere quell’opzione. E questo mi porta alla terza cattiva notizia. Lysenko ha esaminato tutte le informazioni in nostro possesso sulla parte del continente dove vi trovate. Il luogo più vicino sul quale è disposto a far atterrare un aereo è a ovest di dove vi trovate. È un fiume che si allarga in un lago. Dice che non è ottimale, ma è possibile.

— Quanto è lontano? — chiesi.

— Secondo i nostri migliori calcoli, otto giorni. Cercherò di ritardare la prima riunione del comitato dell’intera nave.

— Questo non è il problema più grave, Eddie.

— Ah, no? E qual è?

— Oggi abbiamo incontrato un nativo. Il fratello di Inahooli. Sta andando a far visita alla sorella.

— Sa che l’avete conosciuta?

— Avevo indosso una tunica che apparteneva a Inahooli. E anche Nia. Ha riconosciuto gli indumenti. La cosa non l’ha preoccupato. I nativi si scambiano sempre doni. Ma quando troverà la tomba…

— Maledizione.

— E ha due fratelli. Stanno viaggiando insieme o, per lo meno, nella stessa direzione. Potremmo avere tre nativi grandi e grossi e furiosi che ci danno la caccia.

Eddie tacque per uno o due minuti. — Che cosa progettate di fare?

Derek disse: — Correre come disperati e sperare che non ci seguano.

— Immagino che sia la migliore idea. Il comitato ha ragione su una cosa. Ci sono stati troppi contrattempi. Non riesco a capire perché. — La voce di Eddie aveva un tono lamentoso.

— Non tieni conto di una cosa — disse Derek. — Rifletti su chi sono coloro che hanno avuto tutti i fastidi. Io. Harrison. Gregory. Tutti uomini. Abbiamo incontrato tutti lo stesso problema: il ruolo sociale dei maschi adulti. Non so come Santha sia riuscito a evitare i guai. La sua popolazione ammette forse gli uomini nel proprio villaggio?

— Be’, questa è una storia interessante — disse Eddie. — Ma è piuttosto lunga, e i diagrammi aiutano parecchio. Vi racconterò di Santha quando tornerete quassù.

— Okay — rispose Derek.

— Non sono certo della validità della tua spiegazione. E Lixia allora? Perché ha avuto tanti problemi?

— Ricordati dei suoi compagni di viaggio. Due uomini e una donna con una reputazione di perversione assai diffusa.

Ci fu un attimo di silenzio. — Hai ragione, vero? Questo è stato un mio errore. Avrei dovuto prelevare Lixia subito dopo il fiasco nel primo villaggio e darle un nuovo incarico, magari sull’altro continente.

Derek fece il gesto dell’incertezza, poi disse: — Non lo so. Non vado matto per una seconda ipotesi nella storia. E non amo le parole come "avrei dovuto".

— Be’, fate del vostro meglio. Troverete Lysenko ad aspettarvi quando arriverete al lago.

Derek spense la radio. — Hai notato come Eddie usi spesso la prima persona singolare? Dal modo in cui parla, è lui quello che prende tutte le decisioni e si assume tutte le responsabilità senza alcun aiuto da parte del resto del comitato.

"Io, me, mio, il mio…

Ciascuno un segno di pericolo."

"È quello che erano solite dirci le streghe. Fate caso a quelle parole. Se una persona le usa troppo spesso e con troppa enfasi, significa che sta sprofondando dentro il pozzo del sé. Ed è una situazione pericolosa. Ci si può trovare faccia a faccia con un’attitudine all’avidità o una voglia di potere."

Feci il gesto dell’intesa. Non avevo voglia di discutere delle teorie sociali degli aborigeni californiani, non in inglese di fronte a Nia e all’oracolo. Era un atto di scortesia. Guardai Nia. — Il nostro amico, quello che ha la voce nella scatola, è preoccupato per la quantità di problemi che abbiamo incontrato.

— Non è mai facile viaggiare — disse l’oracolo. — Lo so. Una delle mie sorelle è una grande viaggiatrice. È stata a nord fin dove arrivano gli uomini e ha incontrato il Popolo del Ferro nel suo territorio estivo. È stata anche a sud e ha visto l’oceano e ha ricevuto doni dalle popolazioni che vivono laggiù: il Popolo della Spina di Pesce e il Popolo del Color Verde Scuro. Mia madre mi ha parlato delle sue avventure. Hola! Che storia! — Si mordicchiò un’unghia. — Che cosa si aspetta il vostro amico?

— Una buona domanda. Non ne sono del tutto certa.

Durante i tre giorni che seguirono viaggiammo il più velocemente possibile. Non accadde niente di speciale. Il cielo era quasi sempre limpido e la regione dolcemente ondulata. Vedemmo animali in lonananza: branchi di bipedi che brucavano e una volta un animale solitario che Nia ci disse essere l’assassino-delle-pianure.

— Un maschio. Vedi com’è grosso e come cammina dinoccolato?

— Nia, quella cosa è solo un puntino nero per me. Pensavo che potesse trattarsi di una persona.

— Ma che occhi hai! È certamente un assassino e un maschio. Una femmina viaggerebbe con i suoi piccoli. I piccoli sarebbero affamati ed essa sarebbe pericolosa. Ma un maschio non rappresenta un grosso problema.

— Sei tu che lo dici! — saltò su l’oracolo. — So io come stanno le cose.

— Ma tu eri da solo e non avevi un fuoco acceso.

Questo avveniva a metà del terzo giorno. A quel punto stavamo diventando tutti nervosi e ci guardavamo attorno e alle spalle.

Ci fermammo presto in cima a un’altura che era più elevata delle altre collinette. Derek scrutò l’orizzonte verso est. — Niente — disse. — Non li vedo. Faremo comunque dei turni di guardia. E non credo di voler correre il rischio di accendere un fuoco.

— Dobbiamo — ribatté Nia. — Ci sono cose peggiori degli uomini. Non voglio stare sdraiata nell’oscurità ad aspettare un assassino-delle-pianure.

— D’accordo — disse Derek.

Accendemmo un fuoco e ci raggomitolammo attorno. Derek fece il primo turno di guardia. Io rimasi seduta a preoccuparmi. Infine, quando non riuscii più a sopportare l’ansia, chiamai Eddie.

— Qualche segno dei tre fratelli? — s’informò.

— No. E non voglio pensarci. Come vanno le cose sulla nave?

— Non troppo bene. Meiling è passata all’opposizione.

— Che cosa?

— Ha presentato un rapporto contro il non intervento. I nativi non sono degli stupidi, secondo lei. Hanno occhi per vedere e menti per pensare. Sanno che lei è qualcosa di assolutamente differente, qualcosa di totalmente estraneo alla loro esperienza e all’esperienza dei loro antenati. Nelle storie sulla creazione non si parla di gente senza pelo.

"La conoscenza, di per sé, è un intervento. La nostra presenza cambia il modo di vedere il mondo per i nativi. Secondo lei, non c’è modo di studiare queste persone senza provocare dei cambiamenti."

— Il Principio di Casualità di Heisenberg — dissi.

— Così mi dicono. Non sono un esperto di storia della scienza. E non credo che sia possibile applicare le leggi della fisica al comportamento degli individui. Questo somiglia al Socialismo Darwiniano. Una teoria stupida e pericolosa.

"Meiling sostiene che la politica del non intervento provoca una cosa sola. Rende difficile la vita agli operatori sul campo. Non possono scambiare informazioni con i nativi e non possono offrire aiuto. Semplice assistenza medica, per esempio."

— Io l’ho fatto — dissi. — Quando Nia è rimasta ferita.

— Lo so. Ma si trattava di una persona soltanto, e tu e Nia eravate da sole. Non è stato come se ti fossi proposta come dottore del villaggio. È questo che vuole Meiling. Ha una preparazione medica e ha lavorato in Tibet. Le abbiamo detto di no ed è ancora adirata.

Pensai a Meiling: esile e dai sentimenti profondi, una persona che faceva fatica a essere obiettiva. L’inazione non era cosa per lei. Non nutriva alcun interesse per le idee di Lao Zi o del Buddha. Veniva dalla seconda grande tradizione della Cina, quella di Mao Zi, di Men Zi e del Maestro Kong. La tradizione della responsabilità sociale.

— Lei ha un argomento valido — continuò Eddie. — Lo so che il non intervento rende più difficile ogni cosa. E forse è una farsa. Forse non c’è modo di evitare di cambiare questo pianeta. Ma la politica ci costringe a muoverci lentamente. Se l’abbandoniamo o incominciamo anche solo a modificarla, sarà solo una questione di tempo, e non molto, prima che il pianeta assomigli all’America del Diciannovesimo Secolo. I nativi saranno sommersi da esploratori, prospettori e missionari marxisti.

— Eddie, ti preoccupi anche più di me.

— Non ho intenzione di dire "aspettiamo e vediamo". Intendo fare tutto il possibile per assicurarmi che le mie previsioni non si avverino.

— Buonanotte, Eddie.

Meditai per un po’ di tempo, guardando il fuoco. Poi mi appisolai, seduta nella posizione del semiloto. Finalmente Derek mi scosse.

— È il tuo turno. Non ho visto nessuno.

Restai di guardia fino a metà della notte. Non accadde niente di particolare. Caddero meteore e un insetto notturno emerse dalle tenebre. Si librò al di sopra del fuoco su enormi ali pallide. Un istante dopo era sparito.

Svegliai Nia. Lei si alzò, lamentandosi sommessamente.

— Ho visto un insetto grande così. — Indicai un 40 centimetri di lunghezza con le mani. — È possibile?

Nia si accigliò. — È per questo che mi hai svegliata?

— No. È il tuo turno di fare la guardia. È possibile che l’insetto sia stato così grosso?

— Sì. — Nia si stiracchiò e sbadigliò. — Mettiti a dormire, Li-sa. Non mi va di parlare.

Ubbidii.

La mattina era radiosa. Sopra di noi e verso oriente il cielo era limpido. Verso occidente era pieno di nuvole. Erano una specie di cirri.

— Tempo nuovo — osservò Nia.

Sellammo gli animali e ci rimettemmo in marcia. Io cavalcai con l’oracolo.

Le nuvole si diffusero verso est, coprendo il cielo. Entro metà mattina il sole splendeva attraverso una bianca foschia. Derek continuava a voltarsi a guardare indietro. — Forse hanno deciso di lasciar perdere l’intera faccenda — disse alla fine, ma non parlava con molta convinzione.

A mezzogiorno arrivammo in una valle. Ci fermammo sulla costa scoscesa che la sovrastava. La costa era bassa, la valle poco profonda e non molto ampia. Al centro scorreva un fiume, lento e bruno, e lungo le rive cresceva l’erba enorme. Una nuova varietà. Le foglie erano di un inconfondibile azzurro. I pendii della valle erano ricoperti della solita vegetazione gialla. Qui e là scorsi macchie di rosso: una pianta che non riconoscevo.

La pista scendeva nella valle. La seguimmo lungo tutto il giallo declivio. Vidi degli animali: una mandria o un gregge di quadrupedi. Erano piccoli, alti non più di un metro, e timorosi. Non appena ci avvicinammo, fuggirono a grandi balzi come tante gazzelle. Erano bruni con strisce bianche lungo la schiena, e coperti di pelliccia.

— Che cosa sono? — domandò Derek.

— Schieneargentate — rispose Nia. — In inverno diventano completamente bianchi e la loro pelliccia è folta e calda. Alcune popolazioni li allevano. Il Popolo della Pelliccia e dello Stagno, per esempio. Ma noi, il Popolo del Ferro, pensiamo che causino più problemi di quanto valgano. Non mantengono le corna; ogni autunno cadono e ne crescono di nuove in primavera. E mentre spuntano le corna, gli animali sono irritabili e difficili da governare. Strofinano le corna contro tutto ciò che riescono a trovare: pali delle tende e ruote dei carri, e perfino i treppiedi che usiamo per appendervi i paioli per cucinare.

La pista correva sempre lungo il fiume. Bipedi dal lungo collo pascolavano con le foglie dell’erba enorme. Erano quasi dello stesso colore dell’erba e non era facile distinguerli all’ombra, fra le foglie azzurre. Spesso non riuscivo a vederne uno finché non si muoveva, sollevando il lungo braccio sottile per afferrare del cibo o torcendo il collo e drizzando la minuscola testa per osservarci. E non avevo idea di quanti ce ne fossero. Due? Tre? Una dozzina?

— Non dobbiamo preoccuparci degli assassini-delle-pianure — osservò Nia. — Ci sono troppi animali qui attorno. Non sono intelligenti, queste creature, ma non si fermerebbero se vedessero divorare uno della loro specie.

Proseguimmo lungo il fiume per tutto il pomeriggio. Gradualmente il fiume si allargava e l’acqua si faceva sempre meno profonda. C’erano banchi di sabbia e macchie di canne. La pista terminò e noi ci fermammo.

Nia osservò il fiume. — Questo è il guado. — Si riparò gli occhi con la mano. — C’è un uomo sull’altra riva, all’ombra. È fermo e ci sta osservando.

Derek si riparò gli occhi con la mano. — Hai ragione. Maledizione!

Alle nostre spalle risuonò una voce. — Quello è mio fratello Tzoon.

Mi guardai attorno. Un uomo era fermo a cinque metri da noi, presso un fusto di erba enorme. Inzara. Riconobbi la sua tunica.

— E quello è Ara. — Fece un cenno con la mano e un uomo comparve sulla pista dalla quale eravamo appena venuti. Era grande quanto Inzara. La sua tunica era azzurra e ricoperta di ricami. Indossava una cintura fatta di maglia di rame e un coltello in un fodero di cuoio azzuro. Anche gli stivali erano di cuoio azzurro. Attorno a un polso portava una dozzina circa di braccialetti di filo di rame. Mosse leggermente la mano, facendo un gesto al fratello. Sentii tintinnare i braccialetti.

— Che cosa volete? — domandò Derek.

— Avete ucciso Inahooli — disse Inzara. — L’abbiamo tirata fuori dalla fossa. C’era un ferita profonda nella sua schiena.

Derek non disse nulla.

Dopo un momento fu Nia a parlare. — Sì. L’abbiamo uccisa. E allora?

— Vogliamo una spiegazione.

Ara disse: — La cerimonia per onorare la Cordaia è rovinata. Noi siamo uomini. Non ci curiamo di queste cose quanto le donne. Ma non è una bella cosa vedere in difficoltà il clan di nostra madre.

— Inahooli sarà ricordata come la guardiana che ha fallito — aggiunse Inzara. — Il suo fantasma sarà furioso. Non è mai stato facile andare d’accordo con lei. Ora, chissà che cosa farà? Si dovranno tenere cerimonie di prevenzione e cerimonie di purificazione. — Inzara s’interruppe.

Fu Ara a continuare. — E cerimonie per allontanare la collera di Inahooli e della nostra antenata, la Cordaia. È una brutta situazione. Vogliamo sapere come è successo.

— D’accordo — disse Nia. — Ve lo racconteremo. Quell’altro, quello sull’altra riva del fiume, vuole ascoltare?

— Sì. — Inzara agitò la mano e gridò.

Il terzo fratello arrivò qualche minuto dopo, emergendo dal boschetto in piena luce del sole. Conduceva due cornacurve con le selle vuote. Guadarono il fiume, schizzando acqua fra le secche. Quando raggiunsero la nostra sponda, l’uomo tirò le redini del proprio animale. — Ebbene? — La sua voce era profonda come quella di Inzara, ma molto più aspra.

— Lega gli animali — gli disse Inzara.

Nia guardò me e l’oracolo. — Smontate, tutti e due.

Smontammo. Nia afferrò le nostre redini e condusse i nostri animali nel boschetto più vicino. Il terzo fratello la seguì.

Tornarono indietro insieme, ma camminando a una certa distanza l’uno dall’altra. Avevano entrambi un’aria circospetta. Nia era un donnone, ma l’uomo la faceva sembrare piccola. Era enorme come i fratelli. Indossava un gonnellino di un tessuto verde scuro e una cintura gialla. La fibbia era d’argento. Gli stivali erano di cuoio verde. Sull’ampio torace portava una collana. Era aggrovigliata nel pelo lungo e arruffato e quasi completamente nascosta. Distinsi delle perline d’argento, lunghe e sottili, alternate a perline d’ambra rotonde, gialle come burro.

Inzara lo indicò con un cenno della mano. — Questo, come vi ho detto prima, è mio fratello Tzoon.

L’uomo ci guardò, poi grugnì. — Unh!

— Chi siete? — domandò Ara. Era rimasto sulla pista, a nord di dove ci trovavamo noi. Inzara se ne stava un po’ più a sud, vicino alla riva del fiume. Il terzo fratello era a est, ai margini del boschetto. Eravamo circondati, in trappola.

Nia si grattò il naso. — Volete prima rispondere a una domanda per me? Poi vi dirò chi siamo.

Inzara fece il gesto dell’assenso.

— Perché viaggiate insieme?

— Non siamo uomini comuni — rispose Inzara. — Siamo nati insieme, tutti e tre da un solo parto.

— Aiya! - esclamò l’oracolo.

Nia disse: — Uh!

— Nessuno nel nostro villaggio aveva mai visto una cosa del genere. Due bambini in una sola volta, sì. Questo è successo, anche se non spesso. Di norma i bambini sono piccoli e deboli. Muoiono. Ma tre… una cosa senza precedenti. Ed eravamo tutti grandi e sani. La gente disse che nostra madre doveva aver incontrato l’Imbroglione sulla pianura. Era destino che fossimo sfortunati. Nessuna donna poteva allattare tre figli. Uno di noi, almeno, sarebbe dovuto morire.

Ara continuò il racconto: — Nostra madre disse che eravamo tutti dei bellissimi bambini. Non poteva decidere quale di noi dovesse essere portato fuori sulla pianura e lasciato là come cibo per gli animali che si nutrono di carogne. Voleva tenerci tutti. Nostra madre non ha mai amato nessun genere di spreco.

Il terzo fratello, Tzoon, fece il gesto dell’approvazione.

Ara proseguì: — Nostra madre portò doni alla sciamana: una lunga corda di eccellente qualità e una pezza di stoffa ricoperta di ricami.

— E una pentola fatta dal Popolo del Ferro — aggiunse Inzara. — Non è mai stata una che tenesse nascoste le cose dentro la tenda. Conosceva l’importanza di donare.

Ara fece il gesto dell’approvazione. — Domandò alla sciamana di eseguire la cerimonia dell’interpretazione. Questa richiese tre giorni. Nostra madre ci allattò come meglio poté. Il secondo giorno della cerimonia, quando la sciamana era in un profondo stato di trance, nostra zia Iatzi perse il suo bambino.

— Era sempre stato malaticcio — aggiunse Inzara.

Una volta ancora Ara fece il gesto dell’approvazione. — Era il suo primo figlio. Ora la sua tenda era vuota e lei aveva latte in abbondanza. Si offrì di aiutare nostra madre.

Inzara riprese il racconto: — Quando la sciamana si destò, riferì alle abitanti del villaggio di essere salita in cielo e di aver incontrato la Cordaia, la Madre delle Madri e il Signore delle Mandrie. Le avevano detto: "Questi bambini appartengono a noi e provvederemo a loro come riterremo opportuno. Se è nostra intenzione che vivano, vivranno. Se decideremo che è il momento che muoiano, insieme o ciascuno separatamente, vedrete il risultato. Non immischiatevi e non abbiate la pretesa di capire le nostre intenzioni". Così terminò la sua visione.

"Che altro c’è da dire? Quando eravamo bambini, amavamo stare insieme. Non litigavamo quasi mai. C’era gente nel villaggio che sosteneva che avessimo un unico spirito per tutti e tre. Forse avevano ragione. Non lo sappiamo. Ci sono differenze fra di noi. Tzoon è taciturno. Ara è curioso. Io sono generalmente tranquillo. Ma è vero che siamo uniti come sorelle, e ciascuno di noi sa quello che stanno pensando gli altri. Abbiamo subito il cambiamento esattamente nello stesso periodo."

— Perfino allora — disse Ara — non litigavamo, anche se Tzoon divenne più taciturno di prima.

Guardai il terzo fratello, che aggrottò la fronte.

— Nella Terra dell’Estate e quando la mandria è in movimento, restiamo vicini. Ci piace guardarci attorno e vedere un fratello in lontananza. E ci piace incontrarci di quando in quando per dividere il cibo e conversare. Io e Inzara parliamo. Tzoon ascolta.

Il terzo fratello disse: — In primavera ci separiamo.

Inzara fece il gesto dell’approvazione. — Non sappiamo che cosa potrebbe accadere allora. Se una donna arrivasse dal villaggio in preda alla smania e due di noi la vedessero? Ci azzufferemmo? Sarebbe terribile!

— Ci assicuriamo che i nostri territori siano ben lontani fra loro, anche se tutti ugualmente vicini al villaggio — disse Ara. — È diventato difficile in anni recenti. Siamo tutti uomini grandi e grossi, e i territori che abbiamo ora sono quasi nel villaggio.

Inzara continuò: — Lasciamo che altri uomini, uomini che potremmo facilmente sopraffare, s’insinuino fra i nostri territori. In quel modo perdiamo alcune donne. Ma nostra madre dice sempre: "Non si ottiene niente con l’avidità".

— Adesso — intervenne Tzoon — diteci chi siete.

Nia indicò ciascuno di noi e riferì i nostri nomi. Disse il proprio nome per ultimo.

— Tu sei la donna che amava un uomo — osservò Inzara.

Nia fece il gesto dell’assenso.

— E adesso viaggi con un altro uomo. — Additò l’oracolo. — E con due individui che non hanno quasi pelo.

— Sì.

— Di che sesso sono quelle persone?

— Una è una donna. L’altro è un uomo.

— Aiya! - esclamò Inzara.

Tzoon fece il gesto che significava "non ha importanza". — Questo non ci riguarda. Se vogliono correre il rischio della sfortuna, be’, che facciano pure. Non appartengono al nostro villaggio.

Ara fece il gesto dell’approvazione. — Quello che a noi interessa è Inahooli. Come è morta?

Nia si massaggiò la nuca. — Non è una cosa facile da spiegare.

Tzoon si accigliò.

Nia guardò lui, poi i suoi fratelli. — Per prima cosa, ci siamo imbattuti in un suwahara. Un maschio con una famiglia da proteggere. Ha spaventato i nostri cornacurve, che sono fuggiti. Siamo rimasti bloccati sulla riva del Lago degli Insetti e delle Pietre. È importante che voi lo sappiate. Non avevamo alcuna possibilità di fuggire da Inahooli quando è impazzita.

— Ah — commentò Inzara.

— La prima volta che è venuta, io e Li-sa eravamo sole. Inahooli ha voluto mostrarle la torre, e Li-sa era curiosa. È una persona particolare, che sta sempre a fare domande, come una bambina, toccando le cose, aprendole, ficcandoci il naso e facendo domande su domande. Aiya!

Ara aggrottò la fronte. — Qualunque cosa può diventare eccessiva. Ma non c’è niente di male nella curiosità.

— In ogni caso — proseguì Nia — Li-sa è andata a vedere la torre. Poi Inahooli ha deciso che era un demonio e ha tirato fuori un coltello. Ha cercato di uccidere Li-sa. Ma lei è fuggita.

— Perché pensava che quella fosse un demonio? — Ara fece un cenno della mano nella mia direzione.

Nia esitò, aggrottando la fronte. Si mordicchiò l’unghia del pollice. — Inahooli si è ricordata di me. E ha pensato che una persona senza pelo che viaggiava con una pervertita dovesse essere un demonio.

— Questo ha senso.

Inzara fece il gesto del dissenso. — La torre è protetta. La sciamana ha eseguito cerimonie in primavera dopo che è stata edificata. C’è la magia in tutta la torre, intrecciata in ogni pezzo di corda e attorno a ogni pezzo di legno.

— La magia la protegge da qualunque cosa? — domandai.

— No. Certo che no. Un vento forte può abbatterla, e la grandine può lacerare gli stendardi. Gli animali possono rosicchiarla o appollaiarvisi sopra e causare danni. Ma la torre dovrebbe essere al sicuro dai demoni. Se quella — puntò il dito contro di me — si è potuta avvicinare alla torre, significa che non è un demonio. Anche se potrebbe essere qualcos’altro di infausto. Una persona che abbia bisogno di essere purificata, per esempio.

— No — disse Nia. — Inahooli era sicura. Li-sa era un demonio. Inahooli ha deciso che la torre era rovinata. Li-sa l’aveva privata di tutto il suo potere. È venuta nel nostro accampamento di notte, progettando di vendicarsi su di noi in qualche modo. Quello — additò Derek — l’ha vista arrivare. Ha lottato con Inahooli e ha vinto. L’ha legata e abbiamo cercato di parlare con lei. Loro, gli altri, hanno cercato di parlare con lei. Io ero fuori sulla pianura a cercare i nostri cornacurve.

— Racconterò io questa parte — intervenne l’oracolo. — Abbiamo parlato e parlato, cercando di convincerla che non avevamo fatto niente alla sua torre. Io capisco queste cose. Sono un oracolo e la persona più sacra fra il Popolo del Rame della Pianura.

— Aiya! - esclamò Inzara.

— Gli oracoli non viaggiano — ribatté Ara. — Perché ti trovi qui?

— Il mio spirito mi ha ordinato di andare con queste persone. In un modo o nell’altro sono importanti.

Ara guardò me e Derek. Fece il gesto del dubbio e poi il gesto dell’approvazione. Insieme significavano "se lo dici tu".

L’oracolo continuò: — Alla fine Inahooli ha deciso che la causa di tutti i guai era la vostra sciamana. Aveva gettato un incantesimo su Inahooli e le aveva fatto credere che la torre fosse rovinata.

Tzoon grugnì. — Non mi è mai piaciuta la sciamana. Mi ricordo com’era da ragazza. Parlava sempre. Sapeva sempre tutto lei.

Inzara aggrottò la fronte. — Perché mai la sciamana dovrebbe fare una cosa del genere?

— Inahooli ha detto che la sciamana apparteneva al Clan dell’Uccello Terrestre e che sono rivali del vostro clan.

Io aggiunsi: — Ci ha detto che c’entrava in qualche modo la grande luna.

Inzara mi guardò, aggrottando la fronte. — La luna? E come?

— Stava traboccando in quel momento.

— Lo sappiamo — disse Ara. — L’abbiamo vista, ma quella non ha niente a che fare con la costruzione e la distruzione delle torri. Significa che ci sarà scarsità di cibo durante l’inverno.

— Così dicono le donne anziane — aggiunse Tzoon.

Inzara fece il gesto del dissenso. — Inahooli non diceva la verità. La luna non aveva niente a che fare con quanto stava succedendo, e la nostra sciamana è la figlia della vecchia sciamana. Una figlia autentica, nata dal corpo della vecchia. È sempre appartenuta al Clan della Prima Maga.

Ara disse: — La madre della vecchia sciamana era nata nel Clan dell’Uccello Terrestre. Fu adottata dalla sciamana di quel tempo, che aveva solo figli maschi. Alcuni dicevano che quella, la madre della vecchia sciamana, favoriva il Clan dell’Uccello Terrestre più di quanto avrebbe dovuto. Ma è stato tre generazioni fa.

— Bene, allora — disse l’oracolo. — Inahooli stava mentendo. Noi le abbiamo creduto e l’abbiamo lasciata andare, ma lei è tornata durante la notte e ci ha aggrediti. Secondo me era impazzita. Ha lottato senza preoccuparsi di quel che accadeva e per poco non ha vinto lei. Ma uno di noi è riuscito a pugnalarla prima che ci uccidesse tutti. È quello che stava cercando di fare.

— Questa è l’intera storia — concluse Nia.

Ci fu un momento di silenzio. I tre fratelli erano accigliati.

— Ebbene? — disse infine Tzoon. — Stanno dicendo la verità?

Inzara fece il gesto dell’affermazione. — Sembra tipico di Inahooli. Nel suo intimo, è sempre stata convinta che le cose sarebbero andate per il verso sbagliato per lei. Se la cercava la sfortuna. Quando è arrivata quella — indicò Nia con un cenno della mano — deve aver pensato: ci siamo. La cosa che aspetto da sempre. La cosa che mi farà fallire.

— Di che cosa stai parlando? — domandai.

— Ho sete — ribatté Inzara. — Beviamo dal fiume e poi sediamoci. Vi parlerò di Inahooli.

— D’accordo — fece Nia.

I tre fratelli bevvero, inginocchiati l’uno accanto all’altro sulla riva del fiume. Mentre uno beveva, gli altri due facevano la guardia, lanciando occhiate verso di noi, il boschetto di erba enorme e l’altra sponda del fiume. Tzoon fu l’ultimo a bere. Si alzò e si asciugò la bocca con la mano. — Uuh!

Inzara si allontanò dalla riva. Si sedette con la schiena appoggiata a un fusto di erba enorme, distese le gambe e si massaggiò una coscia. — È stato un viaggio faticoso dal lago fino a qui. Abbiamo dovuto seppellire di nuovo Inahooli e farlo nel modo appropriato, con canti e doni di addio. Tutto ciò ha richiesto del tempo.

Ara si sedette ai margini del boschetto, non lontano da Inzara. Ripiegò le gambe nella posizione del semiloto. — Non abbiamo potuto eseguire l’intera cerimonia. Per quello è necessaria una sciamana. Ma abbiamo eseguito le parti che siamo riusciti a ricordare dai tempi della nostra infanzia al villaggio.

— Racconta la storia — disse il terzo fratello. Era rimasto in piedi sulla riva del fiume. Quanto poteva essere alto? Oltre due metri. Alla luce del sole la sua pelliccia era di un bruno scuro invece che nera, con sfumaure rossastre. Teneva gli occhi parzialmente chiusi. Le pupille si erano ristrette a formare due fessure e l’iride era di un giallo chiaro.

Inzara indicò il terreno e noi quattro ci sedemmo. Di fronte avevamo Inzara e Ara. Tzoon stava alle nostre spalle. Non c’era modo di tenere d’occhio lui e i suoi fratelli nello stesso tempo. Se le cose si fossero messe male, se i fratelli si fossero adirati, li avremmo avuti addosso prima di poterci alzare e girare.

— Inahooli era la primogenita — spiegò Inzara. — La figlia maggiore. Sarebbe stata la più importante. Ma poi siamo arrivati noi, e noi eravamo magici.

— Ah — commentò Nia.

Inzara fece il gesto dell’affermazione. — Tutti ci osservavano. Tutti parlavano di noi. Eravamo noi quelli importanti.

Ara disse: — Ero solito chiedermi perché lei avesse sempre quell’aria infelice, ma non gliel’ho mai domandato. Non è mai stato facile parlare con lei. Era più taciturna di lui. — Fece un cenno in direzione di Tzoon. — E aveva un brutto carattere. O non diceva una parola o gridava e saltava su e giù.

— Non ho mai notato che fosse infelice — disse Inzara. — Ma devo riconoscere di non averle mai prestato molta attenzione. Stavo bene con i miei fratelli, nostra madre e Iatzi.

Dietro di noi Tzoon grugnì. In segno d’intesa, conclusi.

Inzara proseguì. — Ho incontrato di nuovo Inahooli due primavere fa, per la prima volta da quando lasciammo il villaggio. Avevo un territorio vicino al villaggio fra due uomini che stavano diventando vecchi. Non avevano più la forza per confrontarsi, non con me, Ara o Tzoon. Ma li lasciavamo restare lì, così potevamo stare al sicuro l’uno dall’altro.

"La prima donna che entrò nel mio territorio era Inahooli. Aveva un bell’aspetto. Era una donna notevole, e io ero felice di vederla. Dopo tutto, era mia sorella. Avevamo diviso la stessa tenda e lo stesso fuoco. Pensai che fosse una grande fortuna. Avrei potuto chiederle notizie di nostra madre e di Iatzi.

"Ma quando vide chi ero, s’infuriò: ’Non potrò mai liberarmi di voi?’ mi gridò. Ero sorpreso.

"Ci accoppiammo…"

— Perché? — chiesi.

— Che cosa vuoi dire?

— Perché vi accoppiaste, se era in collera con te?

— Perché è quello che fanno un uomo e una donna quando s’incontrano durante il periodo degli accoppiamenti. — Parlava adagio e in modo chiaro, come se si stesse rivolgendo a una bambina. — A meno che, naturalmente, non siano madre e figlio.

Un tabù dell’incesto, pensai. Perché? Forse per proteggere i ragazzini dalle loro madri. Era possibile? O forse per consentire agli uomini una relazione che non fosse sessuale.

— Va’ avanti — lo sollecitò Ara. — Racconta il resto.

— Dopo che ci fummo accoppiati, le domandai perché fosse adirata. Disse che ero figlio dell’Imbroglione, nato per causare guai. Aveva aspettato a lungo il momento del cambiamento. Ci aveva dato, a tutti e tre, dei bei doni e ci aveva detto addio. Finalmente, si era detta, sarebbe uscita dall’ombra e si sarebbe messa in luce. Noi non c’eravamo più. Si era liberata di noi. Ma non volevamo lasciarla in pace. Ogni primavera, disse Inahooli, nostra madre chiedeva: "Chissà chi si è accoppiata con Inzara, con Ara e Tzoon? Stanno tutti bene? Hanno superato l’inverno? Sono fortunati come sono sempre stati?".

— Unh!

Mi voltai a guardare Tzoon. Aveva gli occhi quasi completamente chiusi e sembrava soddisfatto come un gatto in una chiazza di luce del sole. Nente di male in questo, mi dissi. Tutti amano sentirsi apprezzati.

Inzara continuò: — Lei era sempre sfortunata, mi disse. I suoi figli erano normali. Non aveva nessuna particolare abilità. Nessuno la rispettava. Non aveva amiche.

"Le dissi che non era colpa mia. Allora mi colpì. Pensai che mi avrebbe fatto infuriare. Così tirai fuori un dono dell’accoppiamento. ’Vattene di qui’ le dissi. ’Se provi ancora la smania, vai verso est. Lì c’è il vecchio Hoopatoo. Non è molto bravo a confrontarsi, ma dovrebbe essere in grado di accoppiarsi.’

"Lei mi diede un dono, poi se ne andò. Non l’ho più rivista finché non l’ho messa nella fossa." Inzara fece una breve pausa. "La primavera seguente domandai alle donne, quelle che venivano da me, come stava Inahooli. Era diventata gravida, risposero. Il suo bambino era nato troppo presto. Era morto. Quella era una brutta notizia. Ma ce n’era una buona. Il clan l’aveva scelta come guardiana della torre. Era una donna difficile, mi dissero, ma solenne. Forte ed energica, e la sua famiglia era rispettata da tutti. Una buona scelta come guardiana, dichiararono tutte le donne.

"Pensai: Adesso godrà di prestigio. La smetterà di essere invidiosa." Ci guardò. "Non mi piace essere in cattivi rapporti con nessuno, salvo con altri uomini, naturalmente. E anche allora non voglio litigare seriamente. Per quanto mi riguarda, va tutto benissimo, fintantoché sono loro a farsi indietro."

Ara fece il gesto dell’approvazione. Dietro di me, Tzoon grugnì.

Inzara proseguì. — Nessun uomo vede mai le cerimonie eseguite davanti a una torre del clan, a meno che non sia molto vecchio e non abbia superato il secondo cambiamento e deciso di tornare al villaggio. Ma di quando in quando gli uomini vanno a dare un’occhiata alla torre, di solito quando le cerimonie sono terminate e la torre è stata abbandonata. Quasi sempre, la torre è stata danneggiata in un modo o nell’altro, e le maschere sacre sono sparite. Vengono sempre distrutte dopo la grande danza. Ho pensato: voglio vedere questa torre, la torre di nostra sorella, quando è nuova. Ho parlato con i miei fratelli e loro hanno deciso di venire con me. Ci siamo diretti a sud precedendo la mandria.

— Non abbiamo perso niente — disse Ara. — In estate, su a nord, non è veramente importante che genere di territorio abbia un uomo. Alcune zone sono più confortevoli di altre. Quest’estate, per esempio, avevo un tratto di fiume ricco di pesci e un affioramento roccioso dove crescevano rampicanti di bacche. Un buon territorio! Mi piaceva. In particolare mi piacevano le bacche. Erano grosse come l’estremità del mio pollice e succose. Ma non è stato troppo difficile partire e lasciare tutto a quel vecchio stupido di Oopai. Sapevo che si sarebbe intrufolato di nascosto nel momento stesso che me ne fossi andato.

— Non importa — disse Tzoon. — Quando la mandria raggiungerà la Terra dell’Inverno, noi saremo già là. Allora Oopai potrà solo ricordarsele le sue bacche. Staremo noi vicino al villaggio.

Ara fece il gesto dell’approvazione.

— In ogni caso — disse Inzara — ci siamo diretti verso il Lago degli Insetti e delle Pietre. Abbiamo trovato nostra sorella e siamo venuti a cercarvi.

Ara ripeté il gesto dell’approvazione. Per qualche istante regnò il silenzio. E adesso? Che cosa intendevano fare? Lanciai un’occhiata ai due fratelli di fronte a me. Le loro facce, scure e pelose, non mi dicevano nulla. Mi girai per guardare Tzoon. Lui si accigliò e si grattò la fronte, larga e bassa, e coperta di pelo. Le sopracciglia erano sporgenti, gli occhi infossati, il naso piatto e gli zigomi ampi. Un uomo di Neandertal quasi perfetto. Avevo visto creature come lui in diorami nei musei. No. Mi sbagliavo. La sua mascella non era forte come le mascelle di quelle creature nei musei, e la fronte, pur essendo bassa, non era arretrata. Dall’aspetto, doveva avere molto sviluppato il cervello anteriore, qualunque cosa potesse significare nella sua specie.

Tzoon grugnì e fece il gesto che significava "così sia". Poi ci passò accanto, allontanandosi dal fiume.

Ara si alzò in piedi e si stiracchiò. Un attimo dopo fu Inzara ad alzarsi.

Anche noi quattro ci alzammo in piedi.

— E adesso? — domandò Derek.

— Abbiamo avuto la spiegazione che volevamo — disse Inzara. — Non ci disturba trovarci vicini l’uno all’altro, ma voi ci mettete a disagio. Ce ne andiamo. A est di qui, abbiamo visto delle tracce. Un branco di shuwabara. Tzoon è un eccellente arciere, e anche Ara non è male. Uccideremo un animale, uno giovane, grasso e tenero, e l’arrostiremo.

— Bene — disse Tzoon.

— Mangeremo e poi ci dirigeremo a sud e aspetteremo nella Terra dell’Inverno che arrivi la mandria — concluse Ara.

Presero i loro animali e li condussero sulla pista, montarono in sella e vi si sistemarono. Come Nia, sedevano pesantemente, comodi e rilassati. Raccolsero le redini, voltarono i loro animali e si allontanarono. Dapprima cavalcarono vicini, ma dopo un po’ Tzoon si allontanò dalla pista, addentrandosi fra la vegetazione. Lo persi di vista. Qualche istante dopo anche Ara diresse il suo animale fra la vegetazione e, come il fratello, sparì alla vista. Inzara proseguì da solo. La pista faceva una curva. Inzara girò dietro la curva e sparì a sua volta.

Derek emise un sospiro. — Sia ringraziata la Santa Unità o la ruota della fortuna o quale che sia il responsabile. Detesto ammetterlo, ma quei tre mi terrorizzavano.

— Perché? — chiese l’oracolo. — Non erano pazzi. Solo i pazzi si battono quando non c’è niente da vincere, nessun territorio e nessuna donna.

Nia fece il gesto dell’assenso. — Sono uomini grandi e grossi. Quelli come loro impazziscono raramente. Sono consapevoli della propria forza. Hanno il meglio di tutto e sanno di potersi tener stretto ciò che possiedono. Sono i giovani fra le colline che impazziscono per la frustrazione. O i vecchi che hanno perso il proprio territorio.

— Dimenticavo — fece una voce.

Sobbalzai, e lo stesso fecero tutti gli altri. Ci voltammo, tutti e quattro.

Un cornacurve uscì dal boschetto. Il cavaliere era vestito di azzurro. Ara. Il fratello curioso. Tirò le redini del suo animale e ci guardò dall’alto.

— Sì? — disse Derek. — Che cosa c’è?

— Voi due. Quelli senza pelo. Che cosa siete?

— Persone — dissi io. — Veniamo da molto lontano. Nella nostra terra tutte le persone sono più o meno come noi.

— Senza pelo?

— Solo sulla testa. E ce n’è qualche chiazza in altre parti.

— Dove?

— Sotto le braccia e fra le gambe — risposi.

— Aiya! Dovete avere molto freddo in inverno.

— Indossiamo più indumenti di voi — dissi. — In estate ci togliamo quasi tutto, e stiamo probabilmente più comodi di voi.

Nia fece il gesto del dissenso. — In estate non avete nessuna protezione contro gli insetti che pungono o mordono.

Riflettei un momento. — Abbiamo unguenti con odori che non piacciono agli insetti. Ce li spalmiamo addosso e gli insetti se ne stanno lontani.

— Sembra un pasticcio — mi disse Ara. — La pelliccia sarebbe stata migliore. E anche più bella. Qualunque spirito vi abbia fatti, non rifletteva su quello che stava facendo.

— Capita spesso — intervenne l’oracolo. — Gli spiriti sono molto potenti, ma non sempre sono intelligenti.

Ara fece il gesto dell’approvazione. — Su questo hai ragione. Guarda l’Imbroglione. Crede di essere furbo. Corre di qua e di là mettendo trappole e raccontando bugie. E che cosa succede? Quasi sempre cade nelle proprie trappole, e le sue menzogne diventano così complicate che non riesce a tenerne il conto. Non è una cosa intelligente. È stupida. — Fece una pausa. — Come si chiama il vostro popolo.

— Umani — risposi.

Lui ripeté la parola. — Che cosa significa?

— Persone.

Ara aggrottò la fronte. — Ma che genere di persone? Che cosa portate quando viaggiate? Qual è il vostro dono?

Derek disse: — A volte ci definiamo Homo sapiens, che significa Popolo della Saggezza.

— Aiya! È un dono davvero! Ne avete un po’ con voi? Dimmi qualcosa di saggio.

Derek tacque per un momento, poi parve compiaciuto. Aveva escogitato qualcosa. — Se ti dico qualcosa di saggio, tu avrai un dono da me. Ma io non avrò niente da te. Così ti avrò dato qualcosa per niente, il che non è affatto saggio.

— Ah! — esclamò Ara. Si grattò la fronte. — Ti dimostri saggio non dicendomi niente. È questo che stai cercando di dire?

Derek fece il gesto dell’assenso.

Ara fece il gesto che significava "no". — La tua risposta non è saggia. È stupida. Tu pensi nello stesso modo dell’Imbroglione. Lui teme sempre di essere ingannato. Spreca il suo tempo cercando trucchi e menzogne dove non ce ne sono. "Quegli alberi lungo la pista nascondono una trappola" dice. "Una buca profonda o un cappio legato a un alberello. Non sono uno sciocco. Passerò per quel campo." E lascia la strada sicura, percorsa dalle persone, e va a impigliarsi in qualche roveto o a cadere in un pantano. Se questo è il meglio che puoi offrire, non credo che il tuo sia il Popolo della Saggezza.

Guardai Derek. La sua faccia era paonazza. Aprì la bocca, poi la chiuse. Non intendeva litigare con Ara. Potevo capirlo. Ara era molto grosso e non particolarmente garbato. Era Inzara quello che amava andare d’accordo con la gente. Ara non sembrava curarsene.

— Quasi sempre — dissi — prendiamo il nome dal luogo nel quale viviamo. Derek è un Angelino, perché la sua gente vive in un posto chiamato Los Angeles. Io sono Hawaiana. Vengo da un’isola chiamata Hawaii.

Non era l’esatta verità. Venivo dall’isola di Kauai. Ma non conoscevo la parola per definire un gruppo di isole. Mandria? Branco? Mucchio? Composizione? Raduno? Non conoscendo la parola, non potevo dire che venivo dalle Isole Hawaii.

Ara aggrottò di nuovo la fronte. — Avete un sacco di nomi per definirvi. Non sapete decidere che cosa siete?

— No — risposi.

— Ah. Be’, se incontrerò altre persone senza pelo, chiederò loro un nome. Forse troveranno una risposta migliore della vostra. — Voltò il suo animale e si allontanò lungo la pista.

— Mi piaceva la mia risposta — disse Derek. — Immagino che questa gente non apprezzi l’umorismo. — Usò il termine inglese. Esisteva una parola indigena? Non lo sapevo.

Nia prese i cornacurve. Montammo in sella in due su ciascuno, Nia dietro l’oracolo, Derek dietro di me. In quel modo attraversammo il fiume. Nel punto più profondo l’acqua arrivava alla pancia dei nostri animali. Dovetti sollevare i piedi per evitare di bagnarli. Derek non se ne preoccupò. Come sempre, viaggiava a piedi nudi. Diceva che l’acqua gli dava una sensazione piacevole.

Sull’altra sponda Nia e Derek smontarono. Trovammo la pista. Si dirigeva a sud-ovest lungo il fiume. La seguimmo.

PARTE SECONDA

Tanajin

Quella sera ci accampammo in un boschetto in prossimità del fiume. Mangiammo quel che restava dei nostri viveri.

Nia disse: — Domani andrò a caccia.

Derek fece il gesto dell’assenso e poi quello dell’inclusione. Insieme significavano "verrò a caccia anch’io"…

Pensai di chiamare la nave, ma ero stanca e depressa e non me la sentivo di conversare con Eddie.

Durante la notte cadde un po’ di pioggia. Mi svegliai e sentii il leggero picchiettio sul fogliame sopra di me. Non doveva essere una gran pioggia. Non passava fra le foglie. Restai in ascolto per un po’, poi mi riaddormentai.

Al mattino la pioggia era cessata, ma il cielo rimaneva nuvoloso. Nia e Derek andarono a caccia. Io e l’oracolo proseguimmo lungo la pista. Sulla nostra destra avevamo boschetti di erba enorme, sulla sinistra c’era il fiume. Scorreva su pietre gialle e fra macchie di canneti di un color porpora spento. C’erano uccelli abbarbicati alle canne che emettevano gorgoglii.

Pensai alla colazione. Anche il mio stomaco gorgogliava, facendo lo stesso suono degli uccelli. — Raccontami una storia.

— Di che genere? — chiese l’oracolo.

— Una storia importante. Una storia su qualcosa che importi.

— Ti parlerò della luna.

— Quale?

— Quella grande. Non è sempre stata alta nel cielo. Un tempo si trovava quaggiù al suolo. La conservava la Madre delle Madri. Era la sua pentola per cucinare. La pentola era in grado di riempirsi da sola. Non aveva bisogno di aiuto da nessuno.

Pensai di chiedergli di raccontare una storia diversa.

— La gente poteva mangiare a sazietà. Quando la pentola era vuota, la gente si sedeva e aspettava. Entro breve tempo la pentola era di nuovo piena, fino all’orlo. Al mattino conteneva poltiglia. Alla sera conteneva un gustoso stufato di carne. La Madre delle Madri nutriva tutti coloro che avevano fame. Tutti coloro che avevano bisogno di cibo potevano recarsi da lei.

Troppo tardi. Si stava addentrando nella storia. Sarebbe stato scortese chiedergli di smetterla. Il mio stomaco fece un altro gorgoglio.

— Ma le persone diventarono pigre e ingorde. Pensavano che se un villaggio avesse avuto quella pentola, nessuno nel villaggio avrebbe mai dovuto lavorare. Così tutte le quattordici razze di persone di cui io sia a conoscenza mandarono ambasciatrici dalla Madre. Ciascuna disse: "Dammi la tua pentola, perché così la mia gente sarà felice per sempre.

"La Madre rispose di no. Le inviate s’infuriarono. Se ne andarono via tutte insieme e si consultarono.

"’Ruberemo la pentola, tutte noi insieme. Quando sarà in nostro possesso, tireremo a sorte. Quella che prenderà la paglia più lunga potrà portarsi a casa la pentola e tenerla per un anno. Alla fine dell’anno dovrà consegnare la pentola a chi avrà preso la seconda paglia per lunghezza. In questo modo ce la divideremo. Ogni villaggio avrà un anno buono, uno su quattordici.’

"Rubarono la pentola. Non fu difficile. La Madre delle Madri non era sospettosa. Poi tirarono a sorte e a quel punto incominciarono i guai. Le donne con le paglie lunghe erano contente. Quelle con le paglie corte erano furiose. Incominciarono a litigare e a sbraitare. Arrivarono perfino a picchiarsi.

"Il baccano attirò lo Spirito del Cielo, che si trovava a una grande altezza sopra di loro. Volò giù dal cielo, afferrò la pentola e se la portò via, anche se non so come abbia fatto, poiché ha le ali al posto delle braccia. Forse afferrò la pentola con i piedi. Ci sono donne che sostengono che i suoi piedi sono artigli come quelli di un uccello da preda.

"Allora la Madre delle Madri disse: ’Vedete che cosa vi ha fruttato essere avide. Intendo mettere la mia pentola per cucinare in un posto sicuro, e intendo punirvi tutte quante così che, in futuro, le donne ci penseranno due volte prima di infastidire gli spiriti’.

"Mise la sua pentola per cucinare nel cielo notturno. Essa divenne la luna. E mise lassù anche le inviate. ’Per voi la punizione sarà che non porterete mai a termine la vostra missione. Vagherete per sempre nel cielo, senza poter prendere la mia pentola per cucinare e senza poter tornare a casa. Gli abitanti del mondo impareranno da questo a essere meno ingordi e a trattare gli spiriti con maggior riguardo.’

"Quelle donne divennero le piccole luci che vagano per il cielo notte dopo notte. Noi le chiamiamo le Vagabonde o le Ladre o le Donne Senza Rispetto."

Le piccole lune, pensai. I planetoidi catturati. Una bellissima spiegazione, se non che noi avevamo contato solo dodici piccole lune.

— Hai detto che c’erano quattordici ambasciatrici — dissi alla fine. — Ma io ho visto soltanto dodici luci.

— Questo è vero — rispose l’oracolo.

— Che ne è stato delle altre due?

— Questa è un’altra storia, e non credo che un uomo dovrebbe raccontarla a una donna.

— Oh.

— Non è decoroso. — Usò la forma negativa della parola che significava "giusto", "ben fatto", "equilibrato" o "appropriato".

— Oh — feci di nuovo.

Proseguimmo in silenzio. Alla fine l’oracolo disse: — Ho dimenticato una cosa sulla storia della pentola per cucinare. Se guardi in su verso il cielo, vedrai che la pentola diventa sempre più vuota notte dopo notte. E poi, una notte dopo l’altra, la vedrai riempirsi di nuovo.

— Chi mangia da quella pentola? — domandai.

— Nessuno lo sa con certezza. Forse sono i grandi spiriti, o forse le persone che sono morte. Devono pur andare da qualche parte e, quando ci arrivano, devono mangiare.

Feci il gesto dell’incertezza e poi il gesto dell’intesa. Significava che ero d’accordo, ma non con particolare entusiasmo.

— Adesso ho fame — disse l’oracolo. — Avrei dovuto raccontare un’altra storia.

— Vuoi farlo? Ascolto volentieri.

— Non adesso. Forse Nia sarà presto di ritorno.

Così non fu. Dopo un po’ incominciò a piovere: una pioggerella sottile. Ci riparammo in un boschetto di erba enorme. La pioggia si fece più intensa. Le gocce d’acqua penetravano fra il fogliame e ci bagnavano.

L’oracolo disse: — In una giornata come questa, ricordo la casa di mia madre.

— Davvero?

Fece il gesto dell’affermazione. — Ricordo che era sempre asciutta, perfino quando la pioggia scendeva dal cielo come un fiume, come la cascata in cui abita il mio spirito. Aiya! Com’era confortevole! Un lembo del soffitto era sollevato sopra l’apertura per il fumo e il fuoco ardeva basso. Le gocce di pioggia vi cadevano sibilando. Il fumo si attorcigliava su se stesso sotto il soffitto, come le lucertole a primavera inoltrata quando si accoppiano. — Tacque per un momento. — Quando aveva finito di attorcigliarsi, il fumo scivolava fuori attorno alle estremità sollevate della falda, proprio come fanno i maschi delle lucertole quando hanno finito con le loro femmine e sono ansiosi di andarsene ma anche stanchi.

Che discorso! Era sorprendente come le persone sapessero parlare bene in una cultura priva di libri e olovisione. Noi, che davamo grande valore alla parola scritta e all’immagine proiettata, parlavamo a grugniti ed evitavamo il più possibile le metafore.

Guardai l’oracolo. Teneva le spalle curve contro la pioggia. La tunica gli si incollava al’corpo. Il tessuto era così sottile che non offriva quasi protezione. Poverino!

Qualcosa scattò nella mia mente. Perché questi individui non portavano pantaloni? Eppure cavalcavano. Sulla Terra, per gran parte della nostra storia, i pantaloni erano stati collegati all’uso del cavallo. Le culture che si spostavano a cavallo usavano i pantaloni. Le altre culture no.

La regola non valeva per la Cina. Lì tutti indossavano i pantaloni e l’avevano fatto per secoli, ma pochissimi andavano a cavallo.

Mi ero fatta l’idea che i pantaloni cinesi fossero giunti dall’Asia Centrale. In questo caso avevo trovato il mio legame con i cavalli.

C’era un’altra eccezione alla regola: gli indiani delle pianure del Nord America. Costoro non indossavano pantaloni. Ma non avevano i cavalli da molto tempo, quando furono annientati dalla "civiltà" dei bianchi. Forse col tempo avrebbero acquisito i pantaloni. E comunque portavano gambali.

Guardai di nuovo l’oracolo. Naturalmente la sua pelliccia era una protezione, ma di certo non lo era per i suoi organi sessuali. Mi resi conto che mi trovavo di fronte alla domanda consacrata dal tempo: che cosa si indossa sotto un gonnellino? O una tunica, a seconda dei casi. Frugai nel mio vocabolario, nel tentativo di trovare le parole giuste.

L’oracolo disse: — La pioggia è cessata. — Toccò il suo animale sulla spalla e questo si rimise in cammino sulla pista. Il mio animale lo seguì. Forse sarebbe stato meglio se avessi chiesto a Derek di domandarglielo.

Per il resto della mattinata meditai su perizomi e calzoncini corti, pantaloni alla ciclista e il problema della fertilità maschile. Se costoro si accoppiavano solo una volta all’anno, non potevano permettersi un’alta percentuale di sterilità. Forse era questa la ragione per cui non portavano pantaloni. Ma senza dubbio era disagevole per gli uomini.

Derek e Nia tornarono nel primo pomeriggio, portando del cibo: un bipede azzurro. Era un piccolo: cucciolo o pulcino o comunque si potesse chiamare.

Ci fermammo e ci accampammo. Ricominciò a piovere. Derek e io andammo in cerca di legna secca. Ne approfittai per porgli la mia domanda sull’abbigliamento.

Lui rise. — Immagino che avrei dovuto dirtelo. L’ho già chiesto all’oracolo molto tempo fa. Alcuni uomini non indossano niente. Altri portano qualcosa che sembrerebbe un sospensorio. E ci sono popolazioni nel sud che portano pantaloni corti invece del gonnellino. Ma non sa che cosa indossino sotto.

— Un sospensorio dovrebbe avere qualche effetto sulla fertilità.

— Non ho visto l’indumento in questione — disse Derek. — Non so quanto sia aderente, e inoltre non sappiamo molto sulla fisiologia di questi individui. Per quel che ne sappiamo, quelle cose che ha l’oracolo non sono testicoli. Forse conserva i suoi spermatozoi nelle orecchie.

Feci il gesto che significava "no". — Intralcerebbe il suo udito. Ma… — feci il gesto dell’assenso. — Dobbiamo fare altre ricerche.

Derek sorrise.

Aggiunsi: — Penso che lascerò a te questo particolare problema.

— Okay. Probabilmente ne verrà fuori un articolo. "Variazioni nella biancheria fra una specie umanoide aliena." Il titolo non è del tutto giusto. Non è abbastanza enfatico. Ma è sempre un inizio.

— Cominci sempre dal titolo?

— Il titolo è molto importante, mia cara Lixia. E faremmo meglio a procurarci la nostra legna prima che si metta a piovere più forte.

Quando tornammo all’accampamento, Nia aveva finito di pulire il bipede. Senza le penne aveva un’aria meno aliena, anche se non riuscivo a decidere che cosa mi ricordasse. Un coniglio? Una scimmia? L’arrostimmo. Aveva un gusto delicato, simile al pollo.

Dopo cena Derek chiamò la nave. Rispose uno dei computer. Aveva una voce femminile con un dolce accento caraibico. Eddie era occupato, ci disse. Avrebbe passato la nostra chiamata ad Antonio. Ci furono dei suoni simili a scampanii, un’intera serie, poi un bip.

— Dov’è Eddie? — s’informò Derek.

— A una riunione — rispose Tony. — A redigere un manifesto.

— Oh, sì? — disse Derek. — Su che cosa?

— C’è bisogno di chiederlo? Il non intervento.

— Facciamola breve — intervenni io. — I nativi sono qui, e non si sentono a loro agio quando parliamo una lingua che non capiscono.

— Okay — disse Tony. — Fatemi il vostro rapporto.

Derek gli raccontò dei tre fratelli.

Tony tacque per un momento. Infine disse: — Siete stati fortunati. Siamo stati fortunati. Se quegli uomini si fossero infuriati, saremmo quassù a discutere di come raccogliere i pezzi. Ed Eddie starebbe dicendo che non si deve intervenire.

— Sì — convenne Derek. — Hai qualche informazione sull’appuntamento?

— Certo! Proseguite. Il fiume che state seguendo è un affluente di un fiume molto più grande. Quando ci arrivate… al fiume grande, intendo… andate verso valle. Il lago si trova più a sud di circa 80 chilometri. L’aereo atterrerà lì, anche se Lysenko è tuttora scontento della cosa. Continua a chiedere una pianura di sale. Gli abbiamo risposto che i mendicanti non possono fare i pignoli. Lui ribatte che non ci sono mendicanti in una società socialista.

— Che cosa? — dissi.

— Pensiamo che stesse scherzando. Non sempre l’umorismo attraversa i confini culturali.

Derek disse: — Ora spengo la radio.

— Buonanotte — rispose Tony.

Derek schiacciò il pulsante, poi sbadigliò. — Basta così. Forse domani smetterà di piovere.

Così non fu. Viaggiammo in mezzo alla foschia e a una pioggerella. Mi doleva tutto il corpo, in particolare la spalla e il braccio, ma anche ferite molto più vecchie: un paio di canali di radici dentarie e la caviglia che mi ero rotta alla Stazione Finlandese mentre andavo a raggiungere la spedizione interstellare. La mia prima volta su un L-5, la mia prima esperienza con la bassa gravità, e avevo deciso di provare la forma di danza locale.

La valle si restringeva. Incominciavo a vedere affioramenti di roccia. Era gialla ed erosa. Quasi certamente calcare. Eravamo usciti dalla zona di attività vulcanica.

La maggior parte della roccia si trovava molto più in alto di noi. Le pendici più basse della valle erano coperte di vegetazione. Non più erba enorme. Questi erano autentici alberi. La corteccia era ruvida e grigia, le foglie verdi e rotonde.

— Sarà un autunno precoce — disse Nia. — Hanno già cambiato colore.

— È quello il colore che manterranno? — chiesi.

Lei fece il gesto dell’affermazione. — Alcuni alberi diventano gialli dopo essere diventati verdi, ma questa specie non cambia più. Le foglie rimarranno verdi finché non cadranno.

— Aiya! - dissi.

Nel pomeriggio inoltrato arrivammo in un punto in cui la valle era molto stretta e la pista passava sotto una scogliera. C’era una sporgenza rocciosa. No. Una grotta poco profonda.

Smontammo e conducemmo i nostri animali su per un breve pendio fino alla grotta. C’era della cenere sul pavimento e pezzi di legno bruciato.

— È quello che pensavo. Resteremo qui questa notte. — Nia si rivolse a Derek. — Procurati della legna.

Derek fece il gesto dell’assenso. Se ne andò. Togliemmo la sella ai cornacurve e li portammo giù al fiume ad abbeverarsi, poi li legammo dove potevano pascolare. Uno degli animali zoppicava un po’. Nia si accoccolò e gli esaminò uno zoccolo.

L’oracolo chiamò: — Lixia! Vieni qui!

Entrai nella grotta. L’accesso era largo forse quindici metri e alto dieci, ma si restringeva rapidamente e il soffitto scendeva bruscamente tanto che dovetti chinare il capo. L’oracolo era fermo dove la grotta finiva o sembrava finire. Quando mi avvicinai, sentii un vento freddo: aria che veniva verso di me. — Questo è un luogo sacro. — Fece un passo di lato e puntò il dito. Vidi un’apertura: alta un metro e larga mezzo. Era da lì che proveniva il vento. L’oracolo disse: — Mi si drizza il pelo sulla schiena e ho un senso di nausea allo stomaco. Questo è certamente un luogo che appartiene agli spiriti.

— Possiamo restare qui? — chiesi.

— Credo di sì. Non ho sentito niente nella parte anteriore della grotta.

Guardai l’apertura. Una volta acceso il fuoco, avrei potuto fare una torcia. — È proibito entrare lì dentro?

— Non lo so. Gli spiriti di questa terra non sono quelli che conosco io.

Tornammo nella parte anteriore della caverna. Nia era lì e gocciolava acqua. — Aiya! Che giornata! — Si asciugò le braccia e le spalle. — Quello zoccolo sembra a posto. L’animale è stanco e non vuole viaggiare con un tempo così. Chi mai lo vorrebbe? O sta simulando o c’è una vecchia ferita che non riesco a vedere.

Derek uscì dal bosco, le braccia piene di rami. Salì di corsa il pendio, scivolando un paio di volte nel fango, raggiunse la grotta e disse: — Questa era secca quando l’ho presa. Adesso… non so.

— Lo scoprirò — ribatté Nia.

Accendemmo un fuoco. Raccontai a Derek del luogo sacro.

— Dopo cena — disse. — Andremo a dare un’occhiata.

Nia alzò lo sguardo. — Non impari mai? Ricordati di quello che è successo l’ultima volta che ti è venuta la curiosità per qualcosa di sacro. Quella pazza per poco non ci ha uccisi.

— Non ti fai mai domande sulle cose? — domandò Derek.

— No. — Nia si dondolò all’indietro sui calcagni. — Ho imparato più di quanto avrei mai voluto sapere sui luoghi strani.

— E sulle persone strane?

Nia aggrottò la fronte. — Li-sa mi piace. Sono felice di averla incontrata. Ero stanca di vivere nella foresta e non mi è mai piaciuto veramente il Popolo del Rame.

— Che cosa intendi dire? — domandò l’oracolo.

— Non mi riferivo alla tua gente. Non ho niente contro di loro. Ma non mi piaceva il Popolo del Rame della Foresta.

— Quelli! — esclamò l’oracolo. — Sono strani.

Nia fece il gesto dell’approvazione. — È stato un bene che sia arrivata Li-sa e io me ne sia dovuta andare. Sarei potuta restare là per tutta la vita. Sarebbe stato terribile!

L’oracolo fece il gesto dell’approvazione.

— E per quanto riguarda me? — chiese Derek.

— Non ho ancora deciso se tu mi piaci — rispose Nia.

— No? — Derek parve offeso.

L’oracolo disse: — Andrò nella parte posteriore della grotta. Sono abituato ai luoghi sacri e il mio spirito mi proteggerà. — Rovistò in una delle bisacce da sella e trovò un pezzo di carne. Bipede arrostito freddo. Lo addentò.

— Io non ci vengo — disse Nia. — Non ho nessuno spirito che mi protegga e i luoghi sacri mi hanno sempre fatta sentire a disagio. Ma è un bene che tu ci vada. Potrai assicurarti che Deragu non faccia nulla che non dovrebbe.

L’oracolo stava masticando e non poteva parlare. Ma con una mano fece il gesto che significava "perché credi che lo faccia?".

Finimmo il bipede, prendemmo dei rami e vi demmo fuoco. Derek fece strada verso il fondo della caverna. Le ombre si muovevano attorno a noi. Le nostre torce tremolavano e ondeggiavano al vento che proveniva dall’apertura. Derek si accucciò. — È molto stretto. Credo che ce la farò. — Si girò di lato e vi s’introdusse a forza. La sua torcia fu l’ultima cosa a sparire.

Io e l’oracolo aspettammo. Ero abbastanza calma, pensai, ma l’oracolo stava in ansia. Un tipo nervoso. Mi mordicchiai un’unghia.

— Si allarga — disse Derek. La sua voce echeggiò. — Parecchio.

L’oracolo si accucciò. — Riesco a vedere la sua torcia. Vado. — S’introdusse e sparì. Dopo uno o due minuti disse: — Aiya!

Lanciai un’occhiata all’entrata della grotta. Il fuoco ardeva luminoso. Nia era seduta lì accanto, china sulla fiamma, una figura scura. Dietro di lei c’era la pioggia, una cortina lucente.

Entrai a mia volta camminando sulle ginocchia e mi ricordai che al college ero andata in qualche grotta e avevo scoperto di soffrire un po’ di claustrofobia. La claustrofobia era aggravata dall’oscurità.

Qui non c’era oscurità. La torcia ardeva davanti a me e il fumo mi veniva in faccia, facendomi venir voglia di tossire o starnutire. Il passaggio si restringeva ancora di più. Sfioravo con la testa il soffitto e la mia spalla strusciava contro la ruvida parete bagnata.

— Sbrigati — mi sollecitò Derek. — Devi venire a vedere…

Il passaggio si allargò. Sentii che c’era spazio sopra di me e mi raddrizzai, sollevando la torcia. Non vedevo niente all’infuori del pavimento (era coperto da un sottile strato d’acqua e riluceva debolmente) e di due punti luminosi in lontananza: le torce tenute dai miei compagni.

— Qui — disse Derek.

Mi diressi verso il suono della voce.

Derek era fermo presso una parete e teneva alta la torcia. La parete era di calcare giallo, coperta d’acqua. C’erano pitture sulla parete. Animali. Erano dipinte in rosso e arancione, azzurro spento, grigio e marrone. Riconobbi la creatura che ci aveva attaccati presso il lago e i bipedi azzurri. La cena.

C’erano persone che si muovevano fra gli animali. Erano solo abbozzate, senza alcuna cura dei particolari, al contrario degli animali che erano raffigurati con cura in tutti i dettagli. Le persone portavano lance e archi.

— Magia della caccia — disse Derek. Camminò lungo la parete.

Vidi altri animali. Uccelli. Dall’aspetto, dovevano essere grandi. Le zampe erano pesanti, i corpi rotondi e massicci. Avevano colli e teste grossi. Le bocche erano piene di denti.

— Hai notato che cosa manca? — mi chiese Derek. — Cornacurve e schieneargentate. Gli animali che consideriamo mammiferi. — Parlò nel linguaggio dei doni, ma l’ultima parola era in inglese.

Feci il gesto dell’assenso. Continuammo a camminare. C’erano altri grossi uccelli e pseudo-dinosauri. Le figure non somigliavano per niente al resto dell’arte che avevo visto sul pianeta. Quella era stata complessa e spesso astratta: un’arte fatta di disegni geometrici, un’arte decorativa. Queste figure erano semplici e realistiche. Sembravano vive, a eccezione delle persone, che sembravano disegnate da bambini.

Derek indicò la pittura di una lucertola. Aveva una lunga coda e aculei lungo la schiena. Le zampe erano palmate. Era enorme, per lo meno in confronto ai cacciatori che la circondavano. La lucertola e i cacciatori erano dipinti in nero. C’erano strisce rosse sulla lucertola. Ferite, ne ero quasi certa. Dall’animale sporgevano lance dipinte.

Derek guardò l’oracolo. — Che cos’è?

— Non lo so. Non ho mai visto un animale come quello. Forse è un mostro.

— Perché non ci sono cornacurve?

— Non lo so. — L’oracolo esitò. — Questo posto è molto antico. Riesco a sentire gli spiriti che vi risiedono, ma non so chi siano. Sono vecchi e affamati. L’avverto. Aiya! La loro fame! È come un vento nel cuore dell’inverno!

Derek si voltò a fissare l’oracolo. — Di che cosa sono affamati?

— Non lo so. Sono molte le cose che piacciono agli spiriti. Buon cibo. Bei tessuti. Ricami. L’opera delle lavoratrici del metallo. Alcuni amano fiori e rami pieni di foglie. Altri amano il sangue.

— Uh! — esclamò Derek. Tornò a guardare la parete.

C’erano altre pitture, una sopra l’altra: lucertole, uccelli e pseudo-dinosauri. La maggior parte delle specie non le riconoscevo. Quasi tutti avevano lance conficcate nel corpo.

— Dovremo chiedere ai biologi — disse Derek. — Guarda. Gli uccelli hanno delle specie di braccia.

Erano minuscole e terminavano in artigli. L’animale era senza dubbio un uccello. Il corpo era ricoperto di penne, fatte con leggere pennellate di pittura color marrone rossiccio. Aveva una coda fatta di piume, niente di simile alla coda lunga e stretta di una lucertola o di un dinosauro.

— Bizzarro — dissi.

L’oracolo si era allontanato da noi e si era diretto verso il centro della caverna. — Venite qui.

Era ritto presso un cerchio di pietre largo circa venti metri. Le pietre erano dipinte di rosso e fra di esse c’erano dei teschi. Alcuni avevano becchi, altri musi pieni di denti irregolari. Erano tutti dipinti di rosso, e tutti rivolti verso il centro del cerchio.

Al centro c’era una zona di oscurità. Il pavimento di pietra era scolorito.

— Ora lo so — disse l’oracolo. — Questi spiriti sono del genere che ama il sangue. Prendi questa. — Mi porse la sua torcia ed entrò nel cerchio.

— Sii prudente.

L’oracolo andò verso la zona di oscurità. Si abbassò su un ginocchio, poi si girò e ci guardò. Vidi il luccichio dei suoi occhi. — Venite qui. Avrò bisogno di luce.

— Non è pericoloso? — s’informò Derek.

— Entrare nel cerchio? Non lo so. Ma non dovresti essere preoccupato, Deraku. Sei intrepido quando si tratta di spiriti. Sei disposto a rubare ciò che appartiene loro.

— Può darsi che io abbia imparato qualcosa. — Derek rivolse un’occhiata all’oscurità che ci circondava. — E forse questo posto è diverso. Forse questi spiriti sono più spaventosi dell’Imbroglione.

— Penso che non ti succederà nulla — disse l’oracolo. — Parlerò per te.

Scavalcammo le pietre rosse e andammo a raggiungerlo. Aveva estratto il suo coltello e stava saggiando la lama con il pollice. — È troppo smussata. — Rimise il coltello nel fodero, poi allungò la mano. — Dammi il tuo coltello, Deraku.

Derek tirò fuori il coltello.

— Che cosa intendi fare? — chiesi.

— State zitti — disse l’oracolo. — E tenete le torce in modo che la luce cada su di me. — Prese il coltello di Derek ed esaminò la lama. — Bene. — Lo posò al suolo, poi si mise il braccio destro sul ginocchio, il palmo della mano all’insù. La pelle sul palmo era nera e senza pelo. Vidi dei calli alla base delle dita; erano di un grigio scuro. L’oracolo si palpò tutto il braccio, poi raccolse il coltello. Era mancino come la maggior parte delle persone che avevo incontrato su questo pianeta.

Fece un breve rumore, un gemito, e girò leggermente il braccio. Con la lama intaccò la carne appena sotto il gomito, quindi la tirò giù verso il polso. Il movimento era lento e accurato. Immaginai che un chirurgo si sarebbe mosso così. Sapevo che un buon medico lo faceva quando inseriva un’endovena. Arrivò al polso ed estrasse la lama. C’era sangue lungo il taglio.

— Aiya! - Asciugò la lama sulla pelliccia della gamba e restituì il coltello a Derek.

Derek lo mise via. Tornai a osservare l’oracolo. Era ancora nella stessa posizione, col braccio appoggiato sul ginocchio. Si guardava la ferita. Il sangue sgorgava attraverso il pelo, colava nel palmo della mano e gocciolava al suolo.

— L’hai fatto spesso? — domandò Derek.

L’oracolo alzò lo sguardo. — No. Il mio spirito ama la birra e il metallo lavorato. Non ha alcun interesse per il sangue. Non credo che mi piacerebbe parlare per spiriti come questi.

Derek fece il gesto dell’approvazione. L’oracolo si premette il braccio per far uscire il sangue. Pensai alle antiche cerimonie del Nord America: i danzatori del sole della pianura centro-occidentale e ì sacerdoti del Messico che si conficcavano spine nella lingua. Non erano le usanze dei miei antenati e non le capivo.

Ormai c’era una piccola pozza di sangue sul pavimento della grotta. Luccicava alla luce delle torce.

— Basta così — disse l’oracolo. — Può darsi che siano ancora affamati, ma io ho solo quel tanto di sangue. Capiranno, credo. — Si alzò in piedi.

Derek mise giù la torcia. Si tolse la camicia e l’avvolse attorno al braccio dell’oracolo, legandola. — Okay — disse e raccolse di nuovo la torcia. — Andiamocene di qui.

L’oracolo incespicò un paio di volte nell’attraversare la caverna.

— Credi di potercela fare da solo? — s’informò Derek.

— A uscire dal passaggio? Sì.

Lasciammo le torce nella grotta e uscimmo strisciando: Derek per primo, poi l’oracolo. Io fui l’ultima. Procedevo cercando a tentoni la via lungo la pietra bagnata. Davanti a me nell’oscurità l’oracolo sospirava e gemeva. Il taglio doveva essere più profondo di quanto mi fossi resa conto.

La galleria terminò. Mi alzai e vidi il fuoco di bivacco che ardeva luminoso di fronte alla cortina di pioggia. Nia era in piedi e guardava nella nostra direzione.

— State tutti bene? — chiese.

Derek disse: — La Voce della Cascata è ferito.

— Aiya! Quel pazzo!

L’oracolo gemette e vacillò.

Derek lo afferrò. — Lixia, prendi la tua cassetta del pronto soccorso. — Adagiò l’uomo peloso sul pavimento della grotta accanto al fuoco.

— Aiya! - si lamentò l’oracolo. — Non mi sento del tutto bene.

Derek slegò la camicia. Il tessuto di cotone azzurro era macchiato di sangue che sembrava nero alla luce del fuoco.

— Sarà dura togliere queste macchie. — Derek mise giù la camicia, poi osservò la ferita. — Non è brutta. Un buon salassatore. Non è profonda.

— Lo dici tu — ribatté l’oracolo. — Non mi piace il sangue. Non mi è mai piaciuto.

Derek aprì la cassetta del pronto soccorso. Pulì la ferita, poi sistemò il beccuccio al barattolo della fasciatura. — Dovrei rasare il braccio — disse in inglese. — Ma non riesco a immaginare come farlo senza far entrare peli nella ferita. Farò la fasciatura più stretta possibile. — Spruzzò.

L’oracolo emise un leggero suono lamentoso.

— Si rimetterà? — domandò Nia.

— Sì — rispose Derek. — Non so come spiegarlo. Ci sono persone che sentono il dolore più di altre.

— Lo so — disse Nia.

— Credo che lui sia una di queste.

— Il dolore è mio — disse l’oracolo. — Come fai a sapere com’è?

— Questo è vero — rispose Derek. Si dondolò all’indietro sui calcagni. — Ho finito.

L’oracolo mosse il braccio. — La tua medicina è buona? Impedirà al mio braccio di imputridire?

— Sì.

L’oracolo fece il gesto che significava approvazione o soddisfazione.

Derek richiuse la cassetta del pronto soccorso.

— Non riesco a rimanere seduto — disse l’oracolo e si sdraiò.

Nia prese il suo mantello e lo stese sopra l’oracolo.

— Bene, bene — fece lui.

Nia mise altra legna sul fuoco. Dall’apertura entrò una raffica di vento, portando gocce di pioggia. Mi spruzzarono. La fiamma guizzò. Rabbrividii.

— Che cosa c’era là dentro? — s’informò Nia.

Dissi: — Una caverna. C’erano animali a colori sulle pareti. Nia aggrottò la fronte. — A colori?

— Come gli animali che la gente ricama su pezze di tessuto.

— Non la gente — mi corresse Nia. — Gli uomini. Sono loro che fanno i ricami.

— Ah. Gli animali sono… — cercai di pensare alla parola giusta. Come si diceva "dipingere" nel linguaggio dei doni? — Sono fatti con colori come quelli che usate per tingere. I colori sono messi sulla pietra, non sul tessuto.

Nia aggrottò di nuovo la fronte. — Penso che tu stia cercando di dire che ci sono atmi là dentro?

— Atmi?

— Come questo. — Tracciò una figura nel terriccio. Era una figura abbozzata: un quadrupede dalle lunghe corna ricurve. Un cornacurve. Atmi significava disegno.

Feci il gesto dell’approvazione.

— Ho già visto queste cose in precedenza. Fra le colline a sud di qui. Non so chi fossero le persone che hanno fatto quelle cose. Noi non disegnamo sulla pietra. Non intagliamo neppure la pietra, soltanto il legno e il metallo. Ma quelle persone l’hanno fatto. Ho visto una rupe coperta di incisioni.

Derek si protese in avanti. — Che specie di animali hanno disegnato quelle persone? Li hai riconosciuti?

Nia fece il gesto che significava "no". — Alcuni li conoscevo. Altri erano strani. Forse erano animali-spiriti. O forse quelle persone venivano da un altro posto. Come il posto dal quale venite voi, dove tutte le persone sono senza pelo. Senza dubbio devono esserci degli strani animali nella vostra terra. Sono senza pelo come voi?

— No — dissi. — Quasi tutti hanno pelo o squame o penne.

— Aiya! - disse Nia. — Credo che mi metterò a dormire. — Si coricò accanto al fuoco.

Io e Derek restammo alzati. Il respiro di Nia cambiò, diventando lento e regolare. L’oracolo gemette, poi sbuffò. Nia faceva un suono ronzante. Russava.

— Interessante — disse Derek. Parlò in inglese. — La fauna dev’essere cambiata, e in modo sensazionale, e lei non riesce nemmeno a concepire che sia possibile un cambamento di tale vastità. Nia capisce la distanza, ma non il tempo. — Tacque un momento. — Non riesco a pensare a una società umana contemporanea priva del senso della storia. La mia gente sa com’era la California prima del Grande Terremoto. Loro sono convinti di essere sfuggiti alla storia e tornati alle verità eterne. Ma sanno che un tempo esisteva la storia nella California meridionale e che esiste ancora nella maggior parte del resto del mondo. Non sono sicuro di essere chiaro. Incomincio a sentirmi stanco e inoltre non sono mai stato bravo a pensare alle astrazioni.

— Credevo che tu fossi bravo in tutto, Derek.

Lui parve sorpreso, poi compiaciuto. Rise. — No. Ho i miei limiti, anche se non mi piace pensarci. Faremmo meglio a metterci a dormire.

Mi svegliai con la luce del sole che rifulgeva sulla parete della grotta e mi girai. Eccolo: l’astro principale del pianeta, appena sopra la sogliera sull’altra riva del fiume. Non c’erano nuvole nelle vicinanze ed era così luminoso che dovetti distogliere lo sguardo.

Una giornata come questa richiedeva un saluto solare!

L’oracolo disse: — Sono andati a pescare.

Mi guardai attorno. Era seduto presso la cenere del fuoco.

— Derek e Nia?

Fece il gesto dell’assenso.

— Come stai?

— Mi duole il braccio. Ho dormito male.

— Oh. — Mi alzai e feci un piegamento laterale. Era una sensazione piacevole. Ne feci un altro, piegandomi sull’altro lato. Poi mi toccai la punta dei piedi.

— Gli spiriti sono venuti da me.

Mi raddrizzai.

— Somigliavano agli animali sulla parete della caverna.

— Oh.

— Mi hanno parlato. Le loro voci erano come le voci delle persone, ma non capivo la lingua che parlavano. — Fece una breve pausa. — Erano rumorosi. Credo che fossero in collera. Ma non so se mi stessero minacciando o cercassero di avvertirmi di qualcosa. Può darsi che fossero adirati perché non capivo. È stato un brutto sogno.

Con ogni probabilità aveva ragione. — Devo uscire.

— Okay — disse l’oracolo.

Derek e Nia non si vedevano. Invece vidi degli uccelli. Svolazzavano fra le canne e i cespugli. Volavano da un albero all’altro. Un uccello alto e snello camminava impettito sull’altra riva, cercando qualcosa da mangiare nell’acqua bassa.

Feci il mio yoga. Quando ebbi finito, il sole era abbastanza alto da illuminare gran parte della valle. Feci ritorno alla grotta. Derek e l’oracolo sedevano accanto al fuoco. L’oracolo stava mangiando. Derek si leccava le dita con aria soddisfatta.

— Dov’è Nia?

— Sta sellando gli animali. Vuoi qualcosa da mangiare?

Feci il gesto dell’assenso. Lui prese qualcosa dal fuoco.

Foglie, annerite dal fuoco. Le scartocciò con un paio di movimenti rapidi. — Ohi! — Dentro c’era un pezzo di pesce, fumante e profumato. — Io non ci ho trovato lische — disse nel linguaggio dei doni. — Aprilo e cerca bene.

Era delizioso e non c’erano lische. — L’oracolo ti ha parlato del sogno che ha fatto?

— Sì. Potrebbe non significare niente. Ne ha passate parecchie ed è sofferente. Vorrei potergli dare dell’aspirina. A volte un sogno non significa niente d’importante. A volte un sigaro è solo un sigaro. Tuttavia… — Esitò. — Lui è un oracolo e questo è un luogo sacro.

— Derek, sei un selvaggio superstizioso.

— Ingiuriami, amor mio, e ti ricorderò che io ho un incarico fisso e tu no.

— Fottiti — gli risposi.

Lui fece il gesto che significava un dubbioso assenso. Risi.

— Sta arrivando Nia — disse. — Spegnamo il fuoco.

Proseguimmo lungo il fiume, in direzione sud-ovest. Il cielo si manteneva limpido. La giornata si fece sempre più calda. L’oracolo cavalcava davanti a me. Lo vedevo spostarsi spesso sulla sella e muovere il braccio, nel tentativo di trovare una posizione comoda.

Ci fermammo a metà mattina. Derek usò la camicia macchiata di sangue per fare una fascia per sorreggere il braccio. L’oracolo se la mise e sospirò. — Aiya! Così va meglio.

La valle si fece più ampia e il fiume si aprì in una serie di acquitrini. A volte non riuscivo a vedere l’acqua, soltanto canne, alte e color porpora, che si muovevano appena al vento leggerissimo.

Gli uccelli divennero silenziosi, come facevano nel pomeriggio sulla Terra, e io mi abbandonai a una serie di sogni a occhi aperti: la Terra, le Hawaii, la mia famiglia. Erano tutti morti a eccezione di Charlie, un fratellastro che si era fatto ibernare. Era curioso sul futuro, mi aveva detto nel suo ultimo messaggio. Sarebbe stato là a darmi il bentornato a casa.

L’oracolo si afflosciò. Spronai il mio cornacurve e lo afferrai mentre stava per cadere. — Derek!

L’oracolo si raddrizzò. — Sono solo stanco.

Derek ci raggiunse. Insieme adagiammo al suolo l’oracolo.

— Abbiamo percorso abbastanza strada — disse Nia. Si guardò attorno. — Non è un buon posto per fermarsi. Ma non è neppure cattivo.

Eravamo in una zona aperta. Una prateria. La vegetazione era per lo più bassa e del giallo della tarda estate. C’era una sola eccezione che risaltava veramente: una pianta che cresceva fino a due metri, costellando la prateria. Ne vidi almeno una dozzina di esemplari. La parte inferiore della pianta era una massa di grosse foglie frastagliate e dall’aspetto polveroso. Dalle foglie cresceva uno stelo che terminava in un grappolo di fiori. I fiori erano di un color arancione straordinariamente intenso. Sembrava fiammeggiare.

Una pianta dall’aspetto bizzarro. Non proprio piacevole.

— Stai sognando? — mi chiese Derek. — Scendi dalle nuvole.

Smontai di sella.

L’oracolo era seduto per terra. Aveva le spalle afflosciate e il capo chino.

— Nia, tu occupati degli animali. Lixia, va’ a cercare della legna. Io mi prenderò cura dell’oracolo.

Non badai molto al modo in cui dava ordini a tutti. D’altra parte, non avevo un piano migliore. M’incamminai attraverso la prateria. Gli insetti ronzavano e svolazzavano attorno a me e il sole scottava sulla testa e le spalle. L’aria aveva un aroma dolce: fiori d’arancio.

Attorno ai fiori svolazzavano insetti dalle ali arancione, si posavano e si alzavano di nuovo in volo. Non sempre riuscivo a capire quale fosse l’insetto e quale il fiore. Era strano, vedere un fiore che si piegava e all’improvviso prendeva il volo, librandosi nell’aria immobile verso un’altra pianta.

Arrivai all’altra estremità del prato. Lì crescevano alberi. Raccolsi dei rami, muovendomi adagio, intorpidita dalla calura.

Quando tornai, l’oracolo era disteso all’ombra di un fiore. Derek sedeva accanto a lui a gambe incrociate e teneva in mano la radio.

— Dannazione, Eddie — stava dicendo. — Ho qui una persona inferma. Ho bisogno di parlare con qualcuno del team medico.

— Abbiamo raggiunto un accordo — disse la radio. — Nessun ulteriore intervento di alcun genere finché non avremo discusso la nostra politica.

Lasciai andare i rami, poi caddi in ginocchio. — Tutto questo è ridicolo, Eddie.

Ci fu un momento di silenzio rotto solo dalle scariche elettrostatiche. — Devo ammetterlo. Penso che abbiamo trattato malamente l’intera faccenda. Anche se non sono sicuro di come si elabori una politica riguardo a qualcosa che non si è mai verificato in precedenza. Credevamo di averne una. Credevo che ne avessimo una. Ma quello che intendo io per non intervento non è quello che intendete voi. E sembra che tutti abbiano una diversa idea di quando, se mai, sia legittimo stravolgere le regole.

"Per il momento, tuttavia, non intendiamo fare alcun intervento.

"Avete una qualche idea di quando arriverete al lago?"

— Dipende da quanto sta male l’oracolo — rispose Derek.

La radio emise un suono crepitante. Infine Eddie disse: — Chiamatemi quando ne saprete di più sulle sue condizioni. Non credo davvero che potremo essere d’aiuto. Ma la decisione non tocca a me. Riferirò quanto sta succedendo al comitato per l’amministrazione quotidiana.

— Grazie — rispose Derek, e spense la radio.

— Credi davvero che avremo bisogno di consigli? Abbiamo già curato ferite a due indigeni.

— Con ben poco successo, nel caso di Inahooli — commentò Derek.

Feci il gesto che significava assenso con rammarico.

— No. Non credo che sia necessario ricorrere al team medico per questo caso. È una ferita abbastanza superficiale. Ma questo è un modo di controllare che cosa sta succedendo lassù. Divento inquieto quando sono da troppo tempo sul campo. Una volta sono tornato da un viaggio sulla luna e ho trovato che il peggior imbecille della facoltà si era preso un ufficio che volevo io. Era d’angolo. Quattro grandi finestre e una vista splendida. Se fossi stato a Berkeley, glielo avrei impedito. Su questo non c’è alcun dubbio! Ma non ne ero informato. C’erano cose che avrei dovuto sapere e invece non sapevo.

Dava l’impressione di essere ancora adirato, sebbene avesse perso l’ufficio più di cento anni prima.

— Che cosa pensi che accadrà? — chiesi.

— Credo che riusciremo a parlare con il team medico. Ricordati delle persone che fanno parte al momento del comitato per l’amministrazione quotidiana. Due biologi e tre membri dell’equipaggio.

— Non è una maggioranza — osservai.

— I cinesi di solito votano in blocco, e penso che saranno a favore dell’intervento, in generale e in questa situazione. Ricordati la teoria di Jian l’idraulico. È nostro dovere rivoluzionario salvare dal ristagno queste sventurate popolazioni.

Riflettei un momento, poi feci il gesto dell’incertezza.

— Dovrei misurare la temperatura all’oracolo — disse De-rek. Diede un’occhiata alla mia catasta di rami. — E tu dovresti procurarti altra legna.

Tornai una seconda volta e trovai l’oracolo addormentato.

— Non c’è traccia di infezione — disse Derek. — La sua temperatura è quasi la stessa di quella di Nia. È assai probabile che sia stato il gran caldo a farlo star male. E il viaggio, e forse qualche genere di reazione alla notte scorsa. Trattare con gli spiriti richiede un sacco di energia. Gli sciamani e le streghe spesso si sentono male per parecchi giorni in seguito.

— Quindi non ci occorre alcun aiuto dalla nave.

— No. Ma non ho intenzione di dirglielo. Se stai cercando Nia, si è fatta prestare il mio arco ed è andata a caccia lungo il fiume.

Il sole calò dietro la parete della valle e Nia tornò con una lucertola. Era grossa, lunga un metro e mezzo. Nia sventrò l’animale e lo scuoiò. Lo arrostimmo. La carne era scura e, più di ogni altra cosa, sapeva di pesce.

L’indomani mattina il cielo era limpido. Feci il mio yoga, terminando con il saluto solare. L’oracolo mi osservava. — Che genere di cerimonia è quella? — chiese alla fine.

— Sto dando il benvenuto al sole e lo sto lodando.

— Ah. Non sono ancora riuscito a stabilire in che cosa credi. Era ancora troppo presto per discutere di religione. — Come stai?

— Ho dormito bene. Non ho fatto sogni. Il mio braccio va meglio. Credo che sia stato un bene andarcene dalla grotta. Penso che sarei potuto stare più male se fossimo rimasti. Gli spiriti di quel luogo sono molto affamati e non sono certo che il mio dono fosse sufficiente per loro. Ma non sono spiriti che viaggiano. Non mi hanno seguito.

Mangiammo ancora un po’ della lucertola, fredda questa volta, poi sellammo i cornacurve e proseguimmo.

La valle continuava ad allargarsi. Poco dopo mezzogiorno mi guardai attorno e vidi che le coste rocciose erano sparite. Mi girai sulla sella per guardarmi indietro. Eccole là: una parete gialla, illuminata dal sole, che si estendeva a nord e a sud fin dove potevo vedere. Avevamo lasciato la valle del nostro piccolo affluente e ci trovavamo nella valle del Grande Fiume, viaggiando attraverso una foresta pianeggiante. Numerosi alberi erano caduti e parecchi altri erano pericolosamente inclinati. C’erano macchie di colore sui tronchi: azzurro chiaro, verde chiaro e giallo. Le chiazze, conclusi, erano organismi. Con ogni probabilità si nutrivano del tessuto morto. Questo era un bassopiano. Pianura alluvionale. Parecchi alberi dovevano morire negli anni in cui il livello del fiume saliva.

Nel pomeriggio inoltrato arrivammo a un vasto stagno, o forse un’insenatura del fiume. Non avrei saputo dire quale. Vi galleggiava della schiuma di un azzurro acceso e c’erano fiori di color arancione che mi ricordavano il loto. La nostra pista costeggiava il fiume. Al massimo eravamo a dieci metri di distanza, viaggiando fra la foresta e la riva.

Davanti a noi un animale sguazzava nell’acqua bassa. Era un bipede, di una specie che non avevo mai visto prima, molto alto e snello. Il colore era marrone chiaro o grigio smorto. Aveva il solito collo lungo con il capo minuscolo. Si piegava e sradicava fiori, ficcandosi in bocca i petali arancione e gli steli azzurri.

La scena aveva una bellezza strana: l’acqua scura, i fiori sgargianti, il bipede che si muoveva in modo attento e aggraziato, simile a un danzatore, la lunga coda sollevata in modo che non sfiorasse la superficie dell’acqua.

— Laggiù — disse Derek e puntò il dito. Più al largo l’acqua si muoveva leggermente. I fiori si alzavano e si abbassavano. Vidi delle increspature, poi una testa. Era una lucertola, ma molto più grossa di tutte quelle che avevamo visto fino a quel momento.

— Aiya! - esclamò l’oracolo.

La testa andò sotto. Intravidi una lunga schiena con una fila di aculei, poi una coda, poi più nulla all’infuori di un’increspatura che si spostava verso la riva. Il bipede era forse cieco? Mi venne voglia di gridare.

Il bipede raccolse un’altra manciata di fiori e se li ficcò in bocca.

— Adesso — disse Derek.

La lucertola colpì, l’enorme corpo scuro che usciva con impeto dall’acqua. Il bipede urlò e cadde. Gli uccelli si levarono in volo dagli alberi e dai cespugli lungo la riva.

Tirai le redini del mio cornacurve. I corpi rotolavano nell’acqua. Vidi una schiena scura, una lunga coda scura, il ventre bianco del bipede.

Gli uccelli volavano sopra la mia testa, lanciando grida di avvertimento. Ci fu un altro strillo. Dio! Che suono!

Il mio cornacurve rabbrividì. Serrai la mia presa sulle redini.

Nia era accanto a me. Non l’avevo vista arrivare. Prese la briglia del mio animale. — Calmo — disse. — Calmo. — Con la mano libera strofinò il collo coperto di pelo scuro.

Tornai a guardare l’acqua. Il dimenarsi era cessato. Scorgevo ancora il ventre bianco del bipede che fluttuava appena sotto la superficie dell’acqua. Per un momento restò immobile, poi sobbalzò, e sobbalzò ancora. Si muoveva verso riva. No. Veniva mosso. La lucertola lo trascinava. Vidi la schiena coperta di aculei. La testa smussata si sollevò. Le mandibole erano ancora strette attorno a una zampa sottile.

— Aiya - disse l’oracolo. — Questo è un animale che non ho mai visto prima.

— Nemmeno io — fece Nia. — Sebbene abbia sentito dire che ci sono grosse lucertole nel fiume.

— Basta discorsi — disse Derek. — Continuiamo a muoverci. Voglio passare oltre quella cosa mentre è ancora indaffarata.

Nia lasciò andare la briglia del mio animale. Sbattei le redini. Il cornacurve si avviò.

La nostra pista girava attorno all’insenatura e ci portava verso la lucertola, che ora era uscita del tutto dall’acqua. Trascinò la sua preda su per la riva, poi si guardò attorno. Cielo, se era brutta! La pelle scura era cascante e piena di pieghe. Gli aculei che correvano lungo tutto il dorso erano piegati e spezzati. Alcuni mancavano del tutto. Quegli animali dovevano combattere. C’erano macchie sul corpo pesante: numerose e di un grigio smorto. Un parassita, giudicai, una specie di malattia della pelle.

La lucertola ci fissò, poi afferrò di nuovo il bipede, tirandolo fuori del tutto dall’acqua. Lo lasciò andare e sollevò la testa, osservandoci di nuovo.

Eravamo a venti metri di distanza e non avevamo altra scelta che passarle accanto. Continuammo a muoverci e nessuno di noi parlava. Il mio cornacurve scuoteva le orecchie. Davanti a me l’altro cornacurve sembrava altrettanto nervoso. Agitava avanti e indietro la corta coda, pronto a dare un segno di allarme. Nia camminava al mio fianco, una mano sulla briglia dell’animale.

La lucertola chinò la testa e spinse col muso il bipede, girandolo così che avesse il ventre all’insù. Poi lo addentò.

Dopo di che non ci prestò più la minima attenzione. Un paio di volte mi girai sulla sella a guardare indietro. La prima volta la testa della lucertola era bassa. La seconda volta la testa era sollevata. Frammenti di carne le penzolavano dalle mandibole e un lungo pezzo di intestino era avvolto attorno al muso.

Rabbrividii. Il mio cornacurve sbuffò. La pista tornava nella foresta. Mi voltai un’ultima volta. L’insenatura era sparita alla vista.

— Quant’era grossa quella creatura? — chiesi.

Nia disse: — Il corpo era grande quanto Derek.

— Due metri più la coda — disse Derek in inglese.

— Uh! — esclamai.

L’oracolo fece il gesto dell’assenso.

Un po’ prima del tramonto arrivammo alla riva del fiume. La foresta finiva all’improvviso. Di fronte a noi c’era una vasta distesa d’acqua. Quanto era larga? Un chilometro? Era costellata di basse isolette. Alcune erano brulle: banchi di fango o di sabbia. Altre erano ricoperte di vegetazione. L’acqua scorreva placida, luccicando alla luce del sole che era quasi sparito.

— È uno spettacolo che non vedevo da molti inverni — ci disse Nia. L’ho attraversato in inverno a nord di qui. Era gelato. Quello è il periodo migliore per attraversarlo.

— Non l’ho mai visto prima — disse l’oracolo. — È certamente grande.

Ci riposammo per un po’. Il sole calò. Sopra di noi volavano uccelli, diretti verso i loro nidi.

— Sono stanco — disse l’oracolo. — Accampiamoci.

— Non qui — fece Nia.

— Perché no? — domandai.

Lei puntò il dito verso nord. Un filo di fumo si levava lento nel cielo. — Passeremo la notte con quelle persone… se sono donne. Se invece è un uomo, meglio saperlo ora, prima di dormire.

Ci dirigemmo verso il fumo, viaggiando lungo l’argine del fiume. Scorsi una casa. No. Una tenda, a forma di emisfero. La porta si apriva verso il fiume. Davanti alla porta c’era un fuoco che brillava nel crepuscolo.

Nia si fermò e gridò: — Arriva gente!

Non ci fu risposta.

— C’è qualcuno in casa?

Una figura emerse dalla tenda. Indugiò presso il fuoco, guardando nella nostra direzione e aggrottando la fronte mentre cercava di vedere nell’oscurità. — Ti sento ma non riesco a distinguere che aspetto hai. — La figura fece il gesto che significava "vieni qui".

Smontai di sella. L’oracolo fece altrettanto. Barcollò e Derek lo cinse con il braccio. Nia prese le redini degli animali mentre noi ci facevamo avanti nella luce del fuoco.

— Atcha! - esclamò la persona. — Siete qualcosa da guardare!

— Siamo viaggiatori — disse Derek. — Il nostro amico è sofferente. Abbiamo bisogno di un posto dove stare per la notte.

La persona tacque. La guardai. Ero arrivata al punto di riuscire solitamente a indovinare il sesso di un nativo, ma questo individuo mi lasciava perplessa. La voce era profonda, il corpo ampio e massiccio. Tutto questo faceva pensare a un maschio. Ma la pelliccia era quella di una donna: soffice e liscia con la lieve lucentezza del velluto.

Indossava una tunica gialla con ricami sulle maniche e sul bordo. La fibbia della cintura era d’argento. E portava braccialetti d’oro e di bronzo.

Quasi certamente un uomo. Erano loro che amavano i fronzoli. Eppure non avevo mai visto un uomo con una pelliccia così.

— Potete restare qui — disse l’individuo.

Derek fece il gesto della gratitudine.

— Devo dirvi che non intendo dividere con voi la mia tenda. È piccola. Non ho più l’abitudine di vivere con altre persone. Ma ho un sacco di coperte e viveri sufficienti per tutti. Voglio sapere di voi. Non ho mai visto persone nude come voi.

Derek aiutò l’oracolo a sedersi, poi si raddrizzò. Una volta tanto era completamente vestito con jeans e una camicia. I jeans erano sporchi, la camicia strappata. Gli stivali erano consumati.

La persona disse: — In un primo tempo ho pensato che foste persone che avevano perso la pelliccia. Ci sono due brutte malattie negli acquitrini a sud di qui. Una fa tremare un individuo finché muore. L’altra fa cadere il pelo a chiazze. Di solito questa non uccide. Ma certamente mette in imbarazzo! — Corrugò la fronte. — Adesso vedo che non avete il corpo di persone. Siete troppo magri. Avete le gambe e le braccia troppo lunghe. E il modo in cui vi muovete non mi sembra giusto. Che cosa siete?

L’oracolo sollevò il capo. — Viaggio con loro da parecchi giorni. Hanno un aspetto strano, ma non sono demoni. E non sono neppure mostri come quelli che i bambini sacri scacciarono dal mondo molto tempo fa.

— Questa è una storia che non conosco — disse l’individuo. — O almeno non mi suona familiare. Di dove sei?

— Il mio popolo vive a est di qui. È il Popolo del Rame della Pianura. Io sono il loro oracolo. Viaggio con queste persone — indicò Derek e me con un cenno della mano — perché il mio spirito mi ha ordinato di farlo.

"L’altra persona che sta con noi, la donna che si tiene nell’ombra, è stata cresciuta fra il Popolo del Ferro."

— Atcha. - L’individuo guardò Nia. — Molti fra la tua gente vengono qui. Li traghetto oltre il fiume. Come ti chiami?

Nia non disse nulla.

— Ti vergogni — disse la persona in giallo. — Posso capirlo. Stai viaggiando con individui molto strani. Ti dirò qualcosa. Non mi importa. Tutti devono venire da me, anche quelli che preferirebbero nascondersi o mantenere segreto quello che fanno. Ho visto uomini che viaggiano insieme. Ho visto donne che amano viaggiare sole. Li porto da una riva del fiume all’altra. Tengo la bocca chiusa. Non critico.

— Il mio nome è Nia e non mi vergogno di queste persone.

L’individuo ci guardò di nuovo. — Devo dire che sono davvero strani. Io sono Tanajin. Sono cresciuta a sud di qui. La mia gente, la gente che mi ha cresciuta, vive negli acquitrini dove il Grande Fiume entra nella pianura di acqua salata. Il loro dono è il cuoio, che è fatto con la pelle degli umazi, che sono lucertole più grandi di qualunque altra si trovi nel fiume.

— Aiya! - esclamò l’oracolo.

— Io sono Lixia — dissi. — Questo è Derek. Il mio popolo è chiamato gli Hawaiani; il suo gli Angelinos.

— È un uomo. — Tanajin fissò Derek. — Non me ne ero accorta. E tu sei una donna?

Feci il gesto dell’affermazione.

— Siete i benvenuti. Legate i vostri animali dietro la mia tenda. Lì saranno al sicuro. Le lucertole non vanno a caccia fuori dall’acqua, e gli assassini-delle-foreste non amano lasciare l’ombra degli alberi.

Nia fece il gesto dell’intesa. Portò via gli animali. Derek la seguì.

C’era una grossa pietra piatta accanto al fuoco. Tanajin la spinse fra le fiamme, poi prese un bastoncino e raccolse la brace attorno alla pietra. Una superficie per cucinare. Poi fece il gesto che significava "solo un minuto" ed entrò nella tenda.

— È un uomo o una donna? — domandai all’oracolo.

— Una donna. Non riesci a capirlo?

— No. E il nome non ha una desinenza che io riconosca.

— Mi sono abituato a te — disse lui. — Continuo a dimenticare che sei completamente fuori dal comune. Ci vogliono altre persone per ricordarmelo.

Tanajin uscì, portando qualcosa che mise sulla pietra per cucinare.

Mi protesi in avanti.

— È pane. — Sollevò il pezzo superiore della pila. Era piatto e rotondo come una frittella o una tortilla.

— Non un genere che io conosca — disse l’oracolo.

— Lo faccio con le radici della pianta di talina. Cresce negli acquitrini. La usano le persone del sud. E vi aggiungo la farina che mi danno i viaggiatori quando li trasporto al di là del fiume.

— Hai una barca? — chiesi.

— Una zattera. Questi abitanti della pianura si ostinano a portare ovunque i loro animali. Non posso trasportare un cornacurve su una canoa, neppure su una grossa come quelle utilizzate dagli uomini negli acquitrini. Loro non hanno nessun’altra casa, non le tende come quelle che gli uomini portano con sé qui sulla pianura e montano quando si accampano. Quando piove gli uomini delle paludi innalzano un paio di lance, poi stendono un mantello di pelle di umazi sulle lance, e quello è il loro rifugio.

— Sembra disagevole — osservò l’oracolo.

— Non è tanto male. Sono vissuta in quel modo quando ho risalito il fiume. Ma quando ho deciso di stabilirmi qui, mi sono procurata una tenda. A una donna piace avere una casa che non oscilli.

Si alzò e tornò dentro la tenda. Questa volta portò fuori una scodella e un tegame. Il tegame era basso e con un lungo manico. Sembrava fatto di ferro. Lo mise sulla pietra accanto al mucchio di pane. La scodella fu appoggiata sul terreno. Era piena di un liquido biancastro.

— Ho trovato delle uova vicino al fiume stamattina. Qualche stupida lucertola ha fatto il nido nel periodo sbagliato dell’anno. Se i piccoli fossero usciti, sarebbero morti.

— Perché? — chiesi.

— Guarda le foglie! Stanno cambiando colore. — Batté leggermente sul lato della scodella. — Quando questi piccoli fossero stati pronti a uscire dall’uovo, la loro madre se ne sarebbe già andata. Non ci sarebbe stato nessuno a proteggerli. Nessuno a prendersi cura di loro.

Le lucertole erano materne. Buffo, non lo sembravano affatto.

— Dove va la madre?

— A sud lungo il fiume. Tutte quelle grosse lo fanno. Continuano a spostarsi finché non arrivano in un posto dove l’acqua non gela. Molte finiscono nelle paludi. Gli umazi le mangiano e diventano grassi e lenti, e allora è possibile cacciare gli umazi.

— Aiya! - esclamò l’oracolo.

— E che ne è di quelle piccole? Vanno a sud?

Tanajin fece il gesto che significava "no". — Scavano delle buche nel fango lungo le rive del fiume. Si arrotolano su se stesse e si mettono a dormire e si svegliano in primavera. Tu fai un sacco di domande.

Feci il gesto dell’intesa. — Hai qualcosa in contrario?

— Se non mi va di rispondere, non lo faccio. — Rovesciò il contenuto della scodella nel tegame. Il liquido incominciò a sfrigolare.

Derek e Nia emersero dalle tenebre portando sulle spalle le nostre sacche. Derek lasciò cadere a terra quelle che portava. — Credo che darò un’altra occhiata al tuo braccio.

— Bene — rispose l’oracolo. — Fa male, e non sono del tutto certo che la tua magia funzioni qui presso il fiume. Gli spiriti di qui non possono essere gli stessi della tua terra o della mia terra. Tanajin non sa nulla dei bambini sacri.

— Nemmeno io — dissi.

— Più tardi — fece Derek. Tirò fuori la cassetta del pronto soccorso.

Il liquido nella padella gorgogliava. Tanajin tirò fuori un cucchiaio dalla sua cintura e sollevò i bordi della cosa che stava cucinando, qualunque cosa fosse. Uova strapazzate? Un’omelette? Il liquido in cima scivolò di sotto. Usando la mano libera, la donna fece il gesto della soddisfazione.

— Come sei arrivata qui? — le domandai. — Perché hai lasciato la tua casa?

— È una lunga storia. Non mi va di raccontarla. — Rivolse un’occhiata a Nia. — A te piace spiegare come ti sei allontanata tanto dal villaggio della tua gente?

— No — rispose Nia.

Tanajin si alzò in piedi. — Devo andare a prendere un’altra cosa. Tenete d’occhio le uova.

Quando se ne fu andata, Nia disse: — Non so, che cosa dovrei aspettarmi? Che cosa dovrebbero fare le uova?

Mi avvicinai di più al fuoco. Ora vedevo chiaramente la padella. Il manico era intarsiato di metallo grigio: un disegno che raffigurava animali, due creature dai lunghi corpi aggrovigliati l’uno all’altro come nastri in una treccia. Si aggrappavano l’uno all’altro con le zampe artigliate. Le teste si fronteggiavano accanto alla padella, le bocche aperte che quasi si toccavano, le lingue che uscivano a spirale fra file di denti aguzzi. Che cos’erano? Gli umazi? Tanajin aveva lasciato lì il cucchiaio. Lo usai per sollevare i bordi dell’omelette. Quasi cotta.

— Sembra che la ferita abbia sanguinato un po’ — disse Derek. — Ma non è niente di grave. Non c’è alcun segno di putrefazione.

— Bene — disse l’oracolo. — Non voglio morire.

— Non sono molti a volerlo — ribatté Nia.

L’oracolo piegò il braccio. Derek vi aveva fatto una nuova fasciatura. — Fa ancora male. Spero di non incontrare più altri spiriti come quelli della caverna. Non mi piace donare il sangue.

Le uova sembravano cotte. Sollevai la padella dal fuoco, ma la rimisi subito giù e agitai in aria la mano. — Ohi!

— Avrei dovuto avvertirti — disse Tanajin. — Il manico si arroventa. Dammi il cucchiaio.

S’inginocchiò e divise l’omelette in quattro parti, poi prese un pezzo di pane e vi appoggiò sopra un quarto dell’omelette, ripiegando il pane. Un sandwich alle uova. Me lo porse. — La caraffa lì per terra è piena di birra. L’ho fatta io. Non è buona come la birra che portano i viaggiatori. Ci sono svantaggi a vivere da soli.

Presi la caraffa e mi allontanai dal fuoco. Il pane che tenevo in mane era caldo e soffice. Al tatto sembrava unto. Ne staccai un morso. Era unto… e saporito. Le uova avevano un gusto forte. A che cosa somigliava? Forse al pesce. La birra era aspra. Mi piaceva.

I miei compagni presero i loro sandwich. Mangiammo e bevemmo. Tanajin ci osservava.

Terminato di mangiare, Nia disse: — C’è un lago a sud di qui.

Tanajin fece il gesto dell’assenso.

— Dobbiamo arrivare laggiù.

Tanajin aggrottò la fronte. — Non è facile. La pista attraversa il fiume. Porta dal territorio del Popolo dell’Ambra a quello del tuo popolo, Nia. Prima che io arrivassi qui, i viaggiatori dovevano accamparsi sulla riva del fiume e abbattere alberi. Costruivano zattere che li portassero sull’altra sponda del fiume e poi dovevano abbandonare lì le zattere a marcire. Uno spreco di buon legname!

"E non sapevano che cosa fare una volta che si trovavano sull’acqua. Si lasciavano portare a valle dalla corrente. Restavano incagliati nei tronchi sommersi. Le lucertole li inseguivano. Ho sentito parlare di queste cose.

"Così ho pensato: ecco che posso fare qualcosa di utile. Ecco un dono che questa gente apprezzerà.

"Non c’è nessuna pista che costeggi il fiume. Il percorso è arduo. Ci sono acquitrini e paludi. Vi ci vorranno parecchi giorni."

Derek disse: — Dobbiamo arrivarci presto.

— Non è possibile.

Derek si protese in avanti. — È importante. Dobbiamo incontrare delle persone. Abbiamo promesso di trovarci là.

Tanajin bevve la birra. Mi porse la caraffa, poi si cinse le ginocchia con le braccia e fissò il fuoco. — Potrei portarvi giù per il fiume con la mia zattera. Ma la perderei. La corrente è troppo impetuosa. Non potrei mai risalire il fiume con la zattera. E c’è un punto in cui l’acqua scende rapidamente. Con una imbarcazione riuscireste a superare quel tratto, ma non sono certa che una zattera possa farcela. — Tacque un momento. — Lasciatemi pensare. Forse domattina saprò che cosa fare. — Si alzò in piedi. — Vi ho detto che avevo delle coperte. Sono ammucchiate fuori dalla porta. Dormite bene.

Tanajin entrò nella tenda. Presi una coperta, troppo stanca per esaminarla, anche se, standovi sdraiata sotto, notai come fosse pesante e calda.

— Lixia? — Era Derek.

— Eh?

— Ho chiamato la nave.

Sollevai il capo. Derek era seduto accanto al fuoco. La luce rossastra gli metteva in evidenza uno zigomo e gli faceva brillare un occhio.

— Sì? — dissi.

— Non avremo alcuna conversazione con un dottore.

— Che cosa? L’avevi calcolato. Ne eri sicuro.

— Uuh. — Sorrise. Vidi l’angolo della sua bocca che si sollevava. — La Ivanova ha deciso che votare a favore di un qualunque genere di intervento prima della grande riunione avrebbe nuociuto alla loro posizione. E i cinesi si sono astenuti. Tutti.

— Perché?

— Non chiedermelo. Non ne ho la minima idea.

— Ti importa davvero tanto?

— Lixia, non arriverai mai da nessuna parte finché non comprenderai l’importanza della politica.

— Mmm — dissi e tornai a coricarmi.

— Un’altra cosa.

— Sì?

— Gregory è stato prelevato. Non stava imparando molto, seduto da solo nella sua capanna, e la capanna puzzava, e il cibo era una noia. Siamo le sole persone rimaste su questo continente.

— Eddie vuole ancora che ce ne andiamo?

— Vuole avere quella possibilità. Se vince la sua fazione, ha intenzione di mettere in quarantena il pianeta.

— Merda.

Derek sorrise. — Yvonne è intenzionata a passare dalla sua parte nella grande lotta. Santha e Meiling restano dove sono, per il momento.

— Mmm — dissi di nuovo.

Mi svegliai all’alba, mi alzai e mi stiracchiai, poi passeggiai lungo la riva finché non trovai una macchia di arbusti, orinai e poi mi lavai le mani nel fiume. C’era uno stormo di uccelli sull’isolotto più vicino, appollaiati fra gli alberi. Erano grossi e bianchi. Continuavano a muoversi, svolazzando da un albero all’altro o lasciando del tutto l’isola e volando via sul fiume. Uno volò sopra di me. Era abbastanza in alto da trovarsi in piena luce del sole. Com’era splendido! Di un bianco così luminoso!

Tornai all’accampamento. Derek era sparito. Con ogni probabilità era andato a controllare gli animali. L’oracolo giaceva avvolto nella sua coperta. Nia stava rovistando in una delle bisacce da sella e Tanajin sedeva accanto al fuoco, sopra il quale era sistemato un treppiede di metallo con appesa una pentola. Le fiamme la lambivano. Guardai dentro. Poltiglia grigiastra.

Tanajin disse: — Ho pensato ancora un po’ alla vostra necessità.

Feci il gesto che significava "va’ avanti".

— Non esiste una strada veloce attraverso gli acquitrini. Questo ve l’ho già detto. Non esiste nemmeno una strada sicura. Le grosse lucertole amano scaldarsi al sole sulle rive del fiume e vanno a caccia fra le secche. Sono affamate in questo periodo dell’anno. Sanno che devono mangiare in abbondanza prima di iniziare il viaggio verso sud.

"Ci sono altri animali che sono pericolosi. Gli assassini-delle-foreste. I piccoli mathadi. Non sono più grandi della mia mano, ma il loro morso è velenoso. Dovete proseguire sul fiume."

— In che modo? — chiesi.

— C’è un uomo che vive qui vicino. Come me viene dal sud. Un tempo era un grande cacciatore di umazi. Conosce il fiume, tutto quanto. Dopo che avremo mangiato, accenderò il fuoco e gli farò un segnale. Se si trova nella zona, verrà. Forse vi porterà fino al lago.

Feci il gesto della gratitudine. Tanajin diede un’altra mescolata alla poltiglia. — Dovrete lasciare qui gli animali. Non ci staranno nella barca.

Feci il gesto che significava "non importa". — Ti piacerebbe averli? Ti dobbiamo un dono in cambio del tuo aiuto.

Tanajin aggrottò la fronte. — Io non viaggio via terra. Non per lunghe distanze. Posso andare a piedi in qualunque posto desideri visitare.

Nia si avvicinò. Sembrava in collera. — Che cosa stai dicendo, Li-sa? Come puoi offrire gli animali a questa donna?

Alzai gli occhi, sorpresa. — Ha trovato un mezzo per farci arrivare al lago.

— Voi incontrerete i vostri amici e ve ne andrete con loro. È il vostro piano, non è vero?

— Non ne sono sicura. Forse.

— Se lo fate, che ne sarà di me? E dell’oracolo? Che cosa ci succederà? Resteremo qui da soli nel mezzo della pianura. — Si accosciò e mi fissò. — Non voglio andare dal Popolo dell’Ambra. E non credo che sarò la benvenuta presso il Popolo del Ferro. Abbiamo bisogno di quegli animali! Dovremo percorrere una lunga distanza prima di trovare qualcuno disposto a offrirci ospitalità per tutto l’inverno.

— Che cosa avete fatto? — s’informò Tanajin.

— Abbiamo avuto sfortuna — tagliò corto Nia. Il suo tono era brusco.

— Peggiore che nella maggior parte dei casi, a quanto sembra — fu il commento di Tanajin. Prese una scodella e la riempì di poltiglia. — Ho sentito parlare di persone che suscitano l’ira di un villaggio contro di loro. Ma due! È eccezionale!

— Non ci pensavo — dissi a Nia. — Hai ragione. Avrete bisogno dei cornacurve. Dovremo trovare un altro dono per Tanajin. — Esitai. — Non è necessario che veniate con noi per il resto del viaggio fino al lago. Potreste restare qui.

— È questo che vuoi? — domandò Nia.

— No. Voglio che veniate. Non sarà facile lasciare te o l’oracolo. Non voglio farlo adesso.

Nia fece il gesto dell’assenso. — Verrò con voi per il resto del tragitto. Finché non incontrerete i vostri amici.

Guardai Tanajin. — Ti prenderai cura degli animali finché Nia e l’oracolo non saranno di ritorno?

Lei mi porse la scodella di poltiglia, poi fece il gesto dell’assenso.

Io feci il gesto della gratitudine e assaggiai la poltiglia. Aveva una consistenza granulosa e un gusto dolce, quasi di noce. Non male.

— C’è della birra da bere — disse Tanajin. — Mangeremo e poi alimenterò il fuoco.

Nia svegliò l’oracolo. Derek tornò. Gli spiegai il nostro piano fra un boccone e l’altro di poltiglia.

Lui fece il gesto dell’approvazione, poi guardò Tanajin. — Il fiume è abbastanza sicuro? Ho bisogno di fare un bagno.

— La corrente è forte qui. Le lucertole non amano particolarmente l’acqua che corre veloce. È improbabile che caccino in questa zona. Puoi entrare nel fiume, ma rimani vicino alla riva e tieni gli occhi ben aperti. Quegli animali non sempre fanno quello che ci si aspetterebbe.

— Okay — disse Derek.

Tanajin aggrottò la fronte.

— D’accordo — ripeté Derek nel linguaggio dei doni.

— Vengo con te — dissi e mi alzai in piedi.

— Vi occorre un qualcosa — disse Tanajin.

— Che cosa? — domandò Derek.

— Vi faccio vedere. — Tanajin si alzò ed entrò nella tenda. Uscì con un oggetto delle dimensioni di una palla da baseball. — Questo.

Presi l’oggetto. Era giallo e sembrava oleoso. — Non abbiamo niente del genere — dissi.

— Non c’è da stupirsi se siete sporchi e puzzate.

Derek disse: — Non abbiamo niente del genere con noi. Ce l’abbiamo a casa. E lo usiamo.

— Bene, usatelo adesso — ribatté Tanajin.

Ci dirigemmo verso monte lungo il fiume finché non arrivammo in un punto che non si vedeva dalla tenda, ci spogliammo ed entrammo con i piedi nel fiume. L’acqua era tiepida, più o meno della stessa temperatura della birra locale di Tanajin. Anche vicino a riva riuscivo a sentire la corrente. Mi abbassai finché l’acqua non mi coprì, poi mi alzai e mi fregai con quella specie di palla gialla. Faceva la schiuma. Meraviglioso!

Derek allungò la mano. — Anche a me.

— Solo un minuto. — Mi coprii di schiuma e mi fregai con la schiuma anche i capelli. Derek restò a guardare, nell’acqua fino alla vita, le mani sui fianchi. — L’impazienza su un monumento — dissi.

— Che cosa?

— È una citazione, ma non me la ricordo esattamente.

— Shakespeare. La Dodicesima Notte. "Sedeva come la Pazienza su un monumento, sorridendo al dolore." Non ricordo l’atto o la scena, ma è Viola che parla al duca. Di sé, naturalmente, sebbene il duca non lo sappia. Dammi il sapone.

Glielo porsi. Lui s’insaponò. Mi risciacquai. C’era qualcosa di uguale al pulirsi? Soprattutto dopo aver viaggiato a lungo. Mi feci ridare il sapone e mi ricoprii di schiuma una seconda volta.

Derek disse: — Credo che dovremmo servirci di questa roba per lavare i nostri indumenti. Sono arrivato al punto di non voler più stare controvento a me stesso.

Passò un tronco galleggiante. Sopra c’era una lucertola. Una piccola, non più lunga di un metro. Girò la testa e ci osservò, poi gonfiò la sacca nella gola. Ca-roak!

— Altrettanto a te — dissi.

Tornammo a riva, lavammo i nostri vestiti e li stendemmo sulla sabbia ad asciugare. L’aria era quasi immobile. La giornata si stava facendo molto calda. Ci sedemmo fianco a fianco. Lanciai un’occhiata a Derek. I suoi capelli erano di nuovo biondi. La sua pelle era tornata del suo consueto colore: bruna e bruna rossiccia. Era attraente.

— Gli antichi santi avevano ragione — disse. — Quelli che non si facevano il bagno. Essere sporchi ostacola il sesso. Non sono sicuro di quale sia il nesso esatto, e non funziona per tutti, naturalmente. Ma di certo funziona per me. — Fece il gesto della domanda.

Risposi con il gesto dell’approvazione e quello dell’assenso.

Facemmo l’amore sulla sabbia, poi entrammo nuovamente nel fiume e ci lavammo. Ci sedemmo di nuovo. Lui si protese verso di me e mi baciò l’orecchio. — Aristotele non aveva ragione. "Tutti gli animali sono tristi dopo il sesso." Io tendo a sentirmi dolce e sentimentale dopo essermi calmato. — Sorrise. — E compiacente, come se avessi realizzato qualcosa fuori dall’ordinario. Un gioco di prestigio con le carte migliore della media o un saggio davvero intelligente.

— Non sapevo che facessi giochi di prestigio con le carte.

— Non al momento. Ho lasciato lassù le carte.

Guardai verso valle. Una colonna di fumo denso si levava nel cielo. Il fuoco di segnalazione.

— Ma posso dimostrare di essere abile — disse Derek.

— Oh, davvero?

— C’era qualcuno nella tenda quando siamo arrivati ieri sera. Si nascondeva. Credo che fosse un uomo.

— Come fai a saperlo?

— Impronte di passi. Grandi. Che entravano e uscivano. Quelle vicine alla tenda erano confuse, ma ne ho trovate altre più lontano. Impronte ben distinte. Una serie era fresca. Quelle che si allontanavano. Scommetto che se ne è andato dopo che ci siamo messi a dormire. — Derek fece una pausa. — Non dall’ingresso principale. Mi avrebbe svegliato. Ha separato due pelli sul retro.

Riflettei un momento. — Pensi che si tratti dell’uomo al quale sta facendo segnalazioni?

— Assai probabile. Non voleva che sapessimo che era amica di un uomo. Sebbene io sia un uomo, e anche l’oracolo. Queste persone sono guardinghe.

Controllai i vestiti. Erano ancora umidi. — Mi sono resa conto solo stamattina che c’è una possibilità che il nostro viaggio sia quasi finito. Ancora un giorno o due e non vedremo più Nia né l’oracolo.

Derek fece il gesto dell’approvazione.

— Non mi è rincresciuto lasciare quel villaggio del New Jersey. Quelle persone erano odiose. Ne sono uscita viva a stento. Ma tutte le altre volte in cui ho terminato uno studio, è stato doloroso. Almeno un po’. Entrare e uscire dalla vita di altri individui.

— Di solito io sono pronto ad andarmene — disse Derek. — Incomincio a pensare alla mia casa di Berkeley. Ai miei libri. L’impianto idraulico interno. La cucina con tutto quello che mi serve per cucinare. E tutte le donne avvenenti che si trovato in giro per l’università. — Esitò. — In seguito, quando sono tornato, sento la mancanza delle persone che stavo studiando. — Sorrise. — Fra le comodità della mia casa.

Controllai di nuovo i vestiti. Parlammo delle persone che avevamo studiato e delle persone che avevamo conosciuto come amici e colleghi sulla Terra. Una conversazione divagante, piena di pause. Facemmo l’amore una seconda volta e ci lavammo di nuovo nel tiepido fiume. La giornata diventava sempre più calda. A ovest comparvero delle nuvole.

Intorno a mezzogiorno Nia venne a cercarci. — L’uomo è arrivato. Deve vivere qui vicino. È disposto ad accompagnarci fino al lago, ma vuole partire subito. Dice che ci sarà un temporale nel pomeriggio. Prima di allora vuole aver disceso un bel tratto di fiume.

Ci infilammo la biancheria e scuotemmo via la sabbia dagli altri indumenti, li arrotolammo e li riportamo al nostro bivacco.

C’era una canoa tirata in secca sulla riva. Ricavata da un tronco scavato e piuttosto grossa. Era sorprendente che un uomo solo avesse bisogno di un’imbarcazione così grande. La prua era alta e la parte superiore era costituita da una testa di animale scolpita in modo elaborato. Gli occhi erano intarsiati di conchiglie. La bocca era aperta e aveva denti veri: triangolari e bianchi. Erano tutti delle stesse dimensioni. Generici. Con ogni probabilità i denti di un pesce o di un rettile o di un uccello molto grosso. Il proprietario della canoa non si vedeva da nessuna parte.

— È dentro la tenda — disse l’oracolo. — Sta parlando con Tanajin. Sono una strana coppia.

— Faremmo meglio a infilarci le camicie — disse Derek. — La giornata è radiosa. Ci scotteremo sull’acqua.

— Okay.

Infilammo negli zaini i jeans e il resto delle nostre cose.

Nia disse: — Ho parlato con Tanajin questa mattina e le ho spiegato che sono una lavoratrice del ferro. Lei ha qui degli utensili, lasciatile da una viaggiatrice. Dice che c’è un buco sul fondo della sua migliore pentola per cucinare, e Ulzai, l’uomo, ha un coltello che non ha più filo. E c’è altro lavoro da fare.

— Io non sono di grande utilità a una fucina — aggiunse l’oracolo. — Ma conosco storie, e i miei sogni sono utili.

Reciprocità. Un dono dev’essere sempre ricambiato. Che cosa avremmo potuto dare a Nia e all’oracolo in cambio del loro aiuto?

Tanajin uscì dalla tenda, portando una sacca di cuoio e una grossa anfora di metallo. — Cibo — disse.

L’uomo la seguiva. Non era alto, ma aveva il corpo ampio e pesante. La sua pelliccia era lunga e ispida e lo faceva sembrare ancora più grosso di quanto fosse in realtà. Zoppicava in modo evidente. Aveva una chiazza di pelame bianco su una gamba. Era forse segno di tessuto cicatrizzato? L’uomo volse il capo e ci osservò con attenzione. Sul lato della faccia c’erano due linee verticali di pelo bianco. La linea interna arrivava all’angolo della bocca e il labbro era girato all’infuori. Riuscivo a vedere la rossa membrana mucosa.

Gli occhi erano rossi, le pupille contratte e così strette che non riuscivo a vederle. Lo sguardo era assente. Strano!

— Non c’è dubbio che siate diversi — disse. La sua voce era profonda e aspra. — Tanajin dice che non siete stati ammalati.

Derek fece il gesto dell’affermazione.

— Io sono Ulzai.

Portava un gonnellino di tessuto marrone. La cintura era di cuoio con una fibbia di metallo giallo. Ottone, con ogni probabilità. Appeso a un fianco portava un coltello in un fodero di cuoio e ottone o bronzo. L’impugnatura era d’argento annerito. Era a piedi nudi e non portava nessun gioiello. Era l’uomo dall’aspetto più trasandato che avessi visto su questo pianeta. Trasandato e brutto.

— Mettete tutto quel che avete nella canoa. Qualcuno di voi è capace di pagaiare?

— Io — risposi.

— Io starò a poppa. Tu siederai a prua. Gli altri staranno nel mezzo. — Fissò Derek, Nia e l’oracolo. — L’imbarcazione avrà un carico pesante. Forse sono uno sciocco a trasportare tanta gente. Ma so quello che faccio sull’acqua e lì sono sempre stato fortunato. Ascoltatemi! Restate tranquilli! Se vi muovete, la barca potrebbe capovolgersi.

— Okay — disse Derek.

— Che cosa? — chiese Ulzai.

— Quella parola significa "sì" — spiegò l’oracolo.

Caricammo la canoa e la spingemmo nell’acqua. Nia e l’oracolo salirono in modo goffo.

— Fate attenzione! — disse Ulzai.

Derek se la cavò un po’ meglio.

Ulzai e io girammo l’imbarcazione, poi vi salimmo. — Tu, almeno, sai salire su una canoa — osservò l’uomo peloso. — Dimmi il tuo nome.

— Lixia.

— Li-zha — ripeté lui.

Tanajin disse: — Addio.

Trovai la mia pagaia. Era quasi uguale alle pagaie che avevo usato nel Minnesota settentrionale.

— Al lavoro — disse Ulzai.

Tuffai la pagaia nell’acqua. La mia prima vogata fu troppo superficiale.

— È questo il meglio che riesci a fare?

— Dammi tempo — ribattei. — Non lo faccio da parecchi anni e non mi ricorderò come fare se mi farai agitare.

Lui emise un suono iroso. — D’accordo.

La canoa si allontanò verso il centro del fiume. Mi voltai una volta a guardare indietro e vidi Tanajin ritta sulla riva: una figura scura, immobile. Dietro di lei c’era la tenda e dal suo fuoco saliva il fumo. Era ancora denso e scuro.

— Non guardare indietro — disse Ulzai.

Volsi il capo e mi concentrai sul lavoro di pagaiare.

Ulzai

Dopo un po’ di tempo Ulzai disse: — Incominci a vacillare. Da’ la pagaia all’uomo senza pelo. Lo sorveglierò e gli dirò dove sbaglia. Tu tieni d’occhio il fiume in cerca di tronchi galleggianti.

Derek prese la pagaia. Mi massaggiai la spalla ferita e mi guardai attorno.

Eravamo nel letto principale del fiume: una vasta distesa d’acqua, sgombra a eccezione di qualche sporadico detrito galleggiante: un ramo, una foglia, un groviglio di vegetazione, un albero.

Sulla mia sinistra c’era la riva orientale, ricoperta dalla foresta. La parete della valle s’innalzava in lontananza. Non era mutata: una fila di scogliere alte e ripide, fatte di una roccia tenera e profondamente erosa, di un giallo chiaro alla luce del sole.

Alla mia destra c’erano isolotti, banchi di sabbia e acquitrini. Le isole erano per lo più coperte di alberi. Non riuscivo a scorgere la costa. Non c’era una linea netta fra il terreno solido e l’acqua, né c’era modo di distinguere una grossa isola dalla riva del fiume.

Oltre gli acquitrini e la foresta s’innalzava un’altra fila di scogliere che segnavano l’estremità occidentale della valle. In un qualche periodo del passato doveva essere scorsa parecchia acqua lungo quella valle. Era forse un segno di glaciazione? Un interrogativo per i planetologi. Mi chiesi se sarebbero mai scesi quaggiù, se sarebbero mai arrivati a vedere questa valle.

All’incirca a metà pomeriggio, Nia aprì la sacca del cibo e distribuì pezzi di pane. Bevemmo la birra asprigna.

— Ecco laggiù il nostro temporale — disse Derek.

Guardai verso ovest. Le nuvole si gonfiavano sopra le scogliere: cumulonembi, alti e di un bianco grigiastro. Altre nuvole, alte e sottili, si estendevano verso la metà del cielo, velando il sole che risplendeva di un fulgore appena attenuato.

Ulzai disse: — Riprendi tu la pagaia, o donna senzapelo. Avremo bisogno di tutta la tua abilità.

Ubbidii ai suoi ordini. Incominciò a soffiare il vento e l’acqua del fiume s’increspò. — Gira in dentro — mi ordinò Ulzai.

— Dove? — chiesi.

— L’isola di fronte. Quella grande.

Vogammo in quella direzione. Sul lato verso monte era ammucchiata legna galleggiante: radici e rami grigi, tronchi levigati dall’acqua. La rasentammo e approdammo su una piccola spiaggia sabbiosa. Saltai giù dalla canoa. Si udì il cupo brontolio del tuono a occidente.

— Tirate a terra l’imbarcazione — ordinò Ulzai.

Scaricammo la canoa e la tirammo fuori dall’acqua, poi la trasportammo fino al limitare della foresta.

Ormai il cielo si era oscurato. Ulzai fece il gesto che significava "muoviamoci". Raccogliemmo le nostre provviste e lo seguimmo nella foresta. Un sentiero serpeggiava fra gli alberi. Sopra di noi le foglie stormivano al vento. L’aria aveva l’odore della terra umida e della pioggia in arrivo.

Arrivammo a una radura. Al centro c’era uno stagno, largo un tre metri, limpido e poco profondo. Riuscivo a vedere delle foglie sul fondo. Dell’anno precedente, forse. Erano grigie e di un giallo spento. Sui bordi dello stagno cresceva una pianta simile a muschio di un azzurro scuro, e insetti color arancione svolazzavano sulla superficie.

Ai margini della pianura c’era una tenda, grande e fatta di cuoio, tesa fra due alberi. Il suolo sottostante era stato ripulito di tutto il sottobosco e i detriti della foresta. Al centro del terreno nudo c’era una catasta di legna.

— Questa è la mia casa — ci disse Ulzai.

— Spartana — fece Derek in inglese.

Ci fu uno scoppio di tuono. Sobbalzai. Attraverso la volta della foresta incominciarono a schizzare gocce di pioggia.

Ulzai fece un gesto.

Ci ammassammo sotto la tenda e la pioggia prese a scrosciare. Tamburellava sulla tenda, grondava dal cuoio e cadeva nella radura come… che cosa? Una cortina grigia. Un torrente di montagna. Mi raggomitolai con le braccia attorno alle gambe. Il vento mi soffiava addosso l’acqua. Un lampo guizzò. Ci furono altri tuoni.

— Non durerà — disse Derek.

— Spero di no — ribattei.

Ancora lampi. Ancora tuoni. Non c’erano pause. Il lampo era vicino. Rabbrividii, non per la paura. L’aria era fredda e mi stavo bagnando. Nia era più vicina al bordo della tenda di me. La tunica le si appiccicava già al corpo. La sua pelliccia era schiacciata. Aveva un’espressione di cupa sopportazione.

— C’è stata parecchia pioggia quest’estate — osservò l’oracolo. — Mi chiedo chi ne sia responsabile.

Ulzai disse: — Una cosa ho imparato da quando ho risalito il fiume. Il tempo da queste parti non è mai affidabile. A me sembra che ci siano un sacco di spiriti diversi che mettono le mani nel fare il tempo. Non vanno d’accordo fra di loro. Rifiutano di lavorare insieme e questo spiega perché ci sono tante specie di tempo da queste parti e perché il tempo cambia continuamente.

Guardai Nia. Era accigliata. — Tu sei cresciuta sulla pianura, Nia. Ha ragione riguardo al tempo?

— Non so che cosa regoli il tempo da queste parti, ma solo nella terra del mio popolo. — Tacque un momento.

Cadeva grandine insieme a pioggia. La grandine rimbalzava e rotolava. Ne finì un po’ sotto la tenda. Era grossa come palline di gomma.

— Tutto proviene dalla Madre delle Madri — ricominciò Nia. — Tutti gli spiriti sono figli suoi, e lei si è accoppiata con parecchi di loro. Questo genere di comportamento sarebbe assolutamente scorretto se a farlo fossero le persone. Se un uomo incontra sua madre durante il periodo dell’accoppiamento, si allontanano l’uno dall’altra il più in fretta possibile. Ma gli spiriti sono diversi. E chi altri aveva con cui accoppiarsi, la Grande? Ogni spirito esce dal suo corpo. — Nia si strofinò la pelliccia sulla fronte, togliendosi un po’ dell’acqua. — Si accoppiò con lo Spirito del Cielo. Ebbero quattro figlie in un solo parto. Erano tutte femmine. Ciascuna era di un diverso colore. Quando crebbero si allontanarono dalla loro madre e divennero le quattro direzioni. La figlia color giallo chiaro si stabilì a est. La figlia color arancione scuro si stabilì a ovest. La figlia nera divenne il nord. L’ultima figlia era color verdeazzurro come il padre. Essa divenne il sud.

— Questa è una storia che non ho mai sentito — disse Ulzai.

L’oracolo fece il gesto dell’assenso.

La grandine si ammucchiava, rendendo bianco il terreno. Nia proseguì.

— Lo Spirito del Cielo fece visita a ciascuna figlia a turno e ciascuna delle donne diede alla luce un figlio maschio. Erano i quattro venti. Costoro crebbero e diventarono violenti e litigiosi. Tutti loro rivendicavano la terra fra le quattro direzioni e nessuno voleva cedere. Combatterono per la terra, senza mai smettere, e la vita divenne impossibile per tutti. Perfino i demoni incominciarono a lamentarsi. Costoro vivevano sottoterra, ma di quando in quando amavano venire fuori e causare guai. Ora come potevano farlo? Non avevano la minima idea di quello che avrebbero trovato. Un’inondazione che spegnesse i loro fuochi. La neve alta nel cuore dell’estate. Grandine come questa o pioggia violenta.

"Infine la Madre delle Madri intervenne. Chiamò i quattro cugini. Loro vennero e stettero attorno a lei. Doveva essere davvero uno spettacolo! Ciascuno era di un diverso colore e ciascuno era alto come una nube temporalesca. Il vento dell’est era giallo come sua madre. Il vento dell’ovest era rosso-arancione come il fuoco. Il vento del sud era del colore del cielo, e il vento del nord era nero come il ferro…

"Torreggiavano sulla loro nonna e si guardavano in cagnesco.

"’Voi, ragazzacci cattivi’ disse lei. ’Perché non potete smetterla di litigare?’

"Le rispose il vento del nord. La sua voce era profonda e rimbombante. Il fiato che usciva dalla sua bocca era freddo. ’Siamo tutti uomini grandi. Nessuno di noi è disposto a cedere. Come possiamo permettere che un altro uomo abbia la terra di mezzo? Ciascuno di noi vuole le donne. Ciascuno di noi vuole gli animali.’

"’Guardatevi attorno!’ disse la Madre delle Madri. ’Avete distrutto ogni cosa che avete rivendicato. Le vostre inondazioni hanno spazzato via i villaggi. Le vostre gelate improvvise hanno ucciso la vegetazione. Gli animali sono fuggiti. I demoni parlano di andarsene. Che cosa è rimasto per cui valga la pena di combattere?’

"I quattro cugini si guardarono attorno. La loro nonna stava dicendo la verità. La pianura era nera e bruna. Non ci viveva niente. Né persone, né animali, né vegetazione.

"’E lasciate che vi dica qualcos’altro’ continuò la donna, la Grande. ’Mentre voi stavate qui a combattere, altri spiriti hanno fatto visita alle vostre madri. Adesso avete sorelle che sono quasi cresciute.’

"’È così? Allora me ne andrò a casa’ disse il vento del sud. Il suo fiato era secco e infuocato. Odorava come la pianura nel cuore dell’estate. Aiya! Che profumo! Così dolce e piacevole!

"’No’ disse la Madre delle Madri. ’Non permetterò che vi accoppiate con le vostre sorelle.’

"’Perché no?’ chiese il vento dell’est.

"’Ci sono state troppe cose del genere. Se continua così, ben presto i bambini che nasceranno somiglieranno a mostri o demoni.’

"’Ma che cosa faremo?’ chiese il vento dell’ovest. ’Non penserai che vivremo senza sesso.’

"’No’ disse la Madre delle Madri. ’Nel periodo dell’accoppiamento, ciascuno di voi lascerà il proprio territorio d’origine e andrà in un’altra direzione, il nord a sud e l’ovest a est, finché non incontrerà le proprie cugine o altre donne o perfino demoni femmine. Accoppiatevi con loro! Ma ricordatevi di questo! Parlo per la terra di mezzo. Non appartiene a nessuno di voi. Quando l’attraversate, viaggiate con prudenza. Trattate ogni cosa con rispetto. Non causate problemi. Non fate danni.’

"I quattro cugini si accigliarono e lanciarono occhiate furiose.

"’E se non accetteremo?’ chiese il vento del nord.

"’Allora mi occuperò io di voi, e non pensate che non sia in grado di farlo.’ Tutt’a un tratto la vecchia aumentò di dimensioni. S’innalzò fino a toccare quasi il cielo con la testa. Il sole splendeva sopra la sua spalla sinistra.

"I quattro cugini guardarono in su, restando a bocca aperta. Si ripararono gli occhi con la mano. Videro il loro padre, lo Spirito del Cielo, che si librava al di sopra della vecchia. Il sole era la fibbia della sua cintura. Le sue ali si estendevano da un orizzonte all’altro. Il padre li guardò dall’alto in basso. Il suo volto era verdeazzurro. Gli occhi mandavano bagliori furiosi.

"I quattro ebbero paura. ’D’accordo’ dissero. ’Faremo come suggerisci.’

"’Bene’ disse lo Spirito del Cielo.

"Così termina la storia" disse Nia. "I quattro venti smisero di azzuffarsi. Il tempo divenne meno violento. Le persone che se ne erano andate fecero ritorno nella terra di mezzo, e altrettanto fecero gli animali.

"Ma in primavera, nel periodo dell’accoppiamento, i quattro cugini viaggiano per la terra in cerca di donne, ed è per questo che il tempo è brutto in quella stagione."

Fece una pausa. Guardai la radura. Aveva smesso di grandinare, ma la pioggia cadeva ancora con forza.

— Ora non siamo in primavera — osservò Ulzai. — La tua storia non spiega questo tempo.

— I cugini sono irrequieti e turbolenti — rispose Nia. — Si aggirano furtivamente attorno ai confini della terra di mezzo. Cercano di essere prudenti, ma ogni tanto capita che si incontrino. Allora sbraitano e gesticolano. Guizzano lampi. Ci sono tuoni e grandine. Ma non combattono più come facevano una volta. Invece desistono e se ne vanno ciascuno per la propria strada. Non provocano veri danni.

Ulzai emise un suono secco. — Ho visto nuvole nere che s’innalzavano verso il cielo. Balzavano sulla pianura come danzatori vestiti di tuniche nere. Ne ho viste due e tre e quattro, tutte nello stesso momento, ciascuna in ogni direzione, che danzavano all’orizzonte. Penso che quelle nuvole siano in grado di fare danni. E che ne dici della grandine che abbatte la vegetazione? Dei venti che sradicano alberi? Delle tempeste di ghiaccio? Perfino la calura dell’estate può fare danni. Sono stato all’aperto e ho sentito il caldo come un colpo in testa e un pugno nello stomaco. Quegli uomini non hanno mantenuto la promessa. Stanno ancora combattendo, e questa terra è ancora un luogo poco adatto alle persone.

Nia aveva un’aria furiosa.

— Perché sei qui? — chiese l’oracolo.

— La pioggia sta diminuendo d’intensità — disse Ulzai. — E io incomincio a sentirmi nervoso. Forse voi sarete abituati a stare insieme ad altra gente. Io no. — Si alzò e si allontanò dalla tenda. — Restate qui! Sarò di ritorno! — Si addentrò nella foresta. Sembrava zoppicare più di prima. Il tempo, con ogni probabilità.

— Si è trovato in qualche genere di guaio — disse l’oracolo. — E lo stesso vale per la donna. Altrimenti perché avrebbero lasciato la loro terra?

— Le persone non se ne vanno mai per altre ragioni? — domandò Derek.

— Non comportarti da stupido — saltò su Nia. — Lo sai che ci sono viaggiatrici che portano doni da un villaggio all’altro. E uomini che amano vagabondare. E donne come Inahooli, che si allontanano da casa per motivi religiosi. Ma l’oracolo ha ragione. Quei due hanno fatto qualcosa di scorretto. Lo so. La pioggia sta cessando.

Si alzò e s’incamminò verso la radura, si fermò e guardò il cielo. — Si rischiarerà. Uh! Sono tutta bagnata. — Si passò la mano sul braccio, cercando di strizzare via l’acqua dalla pelliccia.

Quasi sempre i nativi mi facevano pensare a degli orsi, ma ora c’era qualcosa di felino in Nia. Fece una smorfia e si strofinò l’altro braccio. — Aiya! - Si tolse la tunica e la strizzò, restando nuda nella radura. — Non ho intenzione di starmene in questo posto. È troppo umido. Che l’uomo venga a cercarmi, se ritiene che sia importante. — Si allontanò, portando con sé la sua tunica.

Ulzai si era diretto verso l’interno. Nia tornò verso la riva.

L’oracolo aprì la sacca che ci aveva dato Tanajin. — Io non vado da nessuna parte. — Tirò fuori un frutto giallo grande come una palla. Ero abbastanza certa che si trattasse di un frutto. L’addentò e ne schizzò del succo. L’oracolo si asciugò il mento e si leccò le dita, masticando per tutto il tempo.

Derek tirò fuori la sua radio. — Nia ha ragione. Ci dovrebbe essere un po’ di vento vicino al fiume, e un po’ di sole, se le nuvole si diradano. Penso che farò una chiacchierata con Eddie. E quando avrò finito, ho intenzione di pescare.

Se ne andò. L’oracolo continuò a mangiare. Un raggio di sole raggiunse lo stagno, che luccicò.

— Farà di nuovo molto caldo — osservò l’oracolo.

Feci il gesto dell’assenso. L’aria era umida. Comparvero nugoli di minuscoli insetti. Brillavano come granellini di polvere alla luce del sole che inondava lo stagno. Nell’ombra della foresta erano invisibili. Ma me li sentivo sulla faccia. Sbuffai e agitai le mani.

L’oracolo disse: — Va’ pure. Vedo che ti stai innervosendo. Se l’uomo ritorna e vuole sapere dove siete tutti quanti, glielo dirò.

— Okay. — Mi diressi verso il fiume, camminando lentamente e guardandomi attorno. Gli alberi erano alti, con il tronco sottile e diritto e la corteccia grigia. Il fogliame, molto al di sopra di me, era azzurro. Qua e là alcune foglie, sfiorate dalla luce del sole, luccicavano come pezzi di vetro azzurro in una finestra.

Doveva esserci più di un sentiero. Quello che avevo seguito mi condusse in un luogo che non ricordavo. C’erano degli alberi morti fra macchie di una pianta senza foglie. Fusti verdi e nodosi si muovevano rigidi al vento.

Potevo tornare indietro e cercare di ritrovare il sentiero che avrei dovuto seguire, ma come l’avrei riconosciuto? Guardai a terra. La mia ombra si allungava sul sentiero. Stavo dirigendomi verso est. Eravamo approdati sulla riva orientale dell’isola. Meglio andare avanti.

Il sentiero diventava melmoso. Le piante crescevano alte: un metro e mezzo, due metri. L’acqua luccicava fra la vegetazione. Mi trovavo in una palude. Era venuto il momento di arrendersi. Mi voltai.

C’era una lucertola sul sentiero a dieci metri di distanza. Non una veramente grossa. Calcolai che dovesse essere lunga due metri, coda e tutto. L’animale sollevò la testa, la girò e mi osservò con un vivace occhio nero.

Oh, all’inferno.

Aprì la bocca. Vidi dei denti frastagliati. Uscì una lingua, grossa e nera.

Rimasi immobile.

La pelle dell’animale era bruna con solo qualche ruga e gli aculei lungo il dorso erano in buone condizioni. Questo esemplare era relativamente giovane. Non aveva sofferto per il tempo e la violenza. Era pericoloso?

Aprì ancora di più la bocca e protese maggiormente la lingua. Che cosa stava facendo? Assaggiando l’aria? Sentendo il mio odore? Voleva scoprire se ero commestibile?

Non volevo andare verso l’animale, e non volevo neppure voltargli le spalle. Su entrambi i lati avevo acquitrini. Incominciai a sudare.

Il lungo corpo si girò di colpo. Un istante dopo l’animale era sparito, lontano dal sentiero e fuori dalla vista fra le canne.

Emisi un profondo respiro. Proprio allora comparve Ulzai, zoppicando lungo il sentiero fangoso con in mano una lancia. — Vi avevo detto di stare fermi. Torno indietro e non c’è nessuno, a parte il piccolo uomo. Vengo a cercarvi. Che cosa scopro? Le tue tracce che vanno nella direzione sbagliata! Sei pazza? O soltanto una sciocca?

— Una sciocca — dissi.

Lui sbraitò. — È un bene che tu sappia quello che sei. Molti non lo sanno. Questo sentiero conduce in un acquitrino. Ci sono le lucertole.

— Lo so. Ne ho vista una appena prima che arrivassi tu. Sul sentiero dove ti trovi ora.

Ulzai abbassò lo sguardo sul fango davanti a lui. — Vedo. Non era grossa. Un animale di quelle dimensioni non attacca una persona adulta. Non hai corso alcun pericolo. Muoviamoci.

Quando arrivammo al fiume, la metà occidentale del cielo era serena. Il sole splendeva luminoso. Nia aveva disteso la sua tunica sulla canoa. Stava sdraiata di schiena sulla sabbia, un braccio sugli occhi. Derek le era seduto accanto. — Stavo osservando il fiume. Ci sono dei grossi pesci là fuori. Credo che mi fabbricherò una canna da pesca.

— Una che cosa? — domandò Ulzai.

La parola che aveva usato Derek significava, nell’uso comune, un palo da tenda o l’asta di uno stendardo.

— Che cosa credi che abbia detto? — chiese Derek.

— Che volevi fabbricare una tenda per i pesci. O altrimenti… — Ulzai aggrottò la fronte. — Che volevi innalzare uno stendardo con in cima un pesce. È quello l’animale della tua stirpe?

— Il mio animale vive nell’acqua salata — rispose Derek. — Assomiglia a un pesce, ma non lo è. Il suo nome è "balena".

Ulzai emise un grugnito.

— Quello che intendevo dire è che voglio andare a pescare. Io adopero una canna.

Nia disse: — È vero. L’ho visto io.

Ulzai sembrò interessato. — Nelle paludi le donne usano reti per catturare i pesci. Gli uomini usano lance. E quando ho risalito il fiume, ho incontrato persone che usavano canestri e barriere fatte di rami intrecciati. Le barriere guidano i pesci dentro una trappola. I canestri sono le trappole. Ma non ho mai sentito parlare di nessuno che usasse un palo da tenda.

Derek si alzò. — Mi serve un ramo. Dev’essere lungo, diritto e flessibile. Puoi trovarmi qualcosa del genere?

Ulzai fece il gesto dell’affermazione.

— Abbi cura della radio, per favore — mi disse Derek

— Sì. Che cosa ha detto Eddie?

— L’aeroplano verrà giù dopodomani. Eddie prevede che saremo al lago fra tre giorni. È riuscito a ritardare la grande discussione fino ad allora. Vuole che vi prendiamo parte anche noi, non in carne e ossa, naturalmente. Saremo in quarantena. Ma potremo rivolgerci alle moltitudini via olovisione. Dà per scontato che lo sosterremo. Dovremo fare una scelta, Lixia. Da che parte stiamo?

Feci il gesto dell’incertezza.

— Voi parlate troppo — s’intromise Ulzai. — E troppe delle parole che usate sono incomprensibili. Muoviamoci.

— A Ulzai piace certamente dire alla gente che cosa fare — intervenne Nia. Sbadigliò. — Aiya! È piacevole stare al sole. Credo che mi metterò a dormire.

Guardai il fiume. Nia incominciò a russare. Le nuvole continuavano a muoversi verso est finché il cielo non fu quasi del tutto sereno.

I due uomini tornarono. Derek aveva il suo ramo e un rotolo di lenza.

— Come sta l’oracolo? — m’informai.

— È stanco. Gli fa male il braccio. Ha mangiato tutta la frutta.

— Uh!

— Già. — Derek legò la lenza alla canna, poi vi legò un amo. Staccò con i denti il pezzo di polipropilene in eccesso, lo piegò e lo raccolse. — Non possiamo lasciare ricordi di una cultura superiore. — Si ficcò il polipropilene in una tasca della camicia, poi rovistò in un’altra tasca, dalla quale tirò fuori un bruco. Era grasso e giallo. Infilò l’amo nell’animale. Questo si contorse. Distolsi lo sguardo.

Notai che Ulzai osservava tutto con interesse. Nia continuava a russare.

Derek si mise di nuovo la mano in tasca e tirò fuori un piombino, che sistemò e schiacciò sulla lenza. — Per fortuna questo è un pianeta ricco di metallo. Se perdessi il piombino, non è probabile che influenzi il corso della storia. Ma è meglio che non perda la lenza. L’Unità sa che cosa succederebbe se questi selvaggi scoprissero il polipropilene.

Ulzai si accigliò. — Capisco solo metà di quello che state dicendo.

— Parlano sempre così — disse Nia. Si drizzò a sedere. La sua pelliccia era asciutta. Riluceva bruna con riflessi rame e rossicci. — Questo mi fa infuriare. Gliel’ho detto. Ma continuano nello stesso modo di prima.

— Vado giù alla spiaggia — dichiarò Derek. — C’è un vortice che sembra interessante in prossimità della riva. Alla portata di questo dannato attrezzo, credo. Vorrei aver portato con me una canna da pesca pieghevole e un buon mulinello. Avrei potuto escogitare un modo di portarlo giù di nascosto. — Guardò Ulzai. — Forse dovrò entrare con i piedi nell’acqua. Sarà pericoloso?

— No. Le lucertole non vengono su questo lato dell’isola. Non spesso, comunque. Amano l’acqua lenta. Il fondo del fiume scende troppo ripidamente in questo punto e la corrente è rapida. Sii prudente. Se catturi qualcosa con il tuo palo da tenda, seppellisci a terra le interiora. Mai mettere qualcosa di sanguinolento nell’acqua. Le lucertole sentiranno il gusto del sangue e arriveranno.

— Okay — disse Derek.

— E la mia lucertola allora? — chiesi. — Quella che ho visto? Era su questo lato dell’isola.

— Era sulla terra — rispose Ulzai. — Quando tornerà nell’acqua, si troverà un posto dove il fondo è basso e la corrente si muove appena. Conosco questi animali. Non hanno il coraggio degli umazi.

Derek ci lasciò e si allontanò lungo la riva. Si fermò a guardare il fiume, inclinando il capo e meditando su qualcosa che io non potevo vedere: il vortice. Poi entrò nell’acqua, facendo roteare la lunga canna. La lenza cadde in acqua. Lui sollevò un poco la canna, poi rimase immobile. Noi restammo a guardarlo. Non successe niente.

— Sa come restare fermo — osservò alla fine Ulzai. — Come tutti i buoni cacciatori.

Nia fece il gesto dell’approvazione, poi si alzò e si infilò la tunica, quella che era appartenuta a Inahooli. Era spiegazzata e piena di macchie. Avevamo tutti un aspetto piuttosto trasandato.

— Atcba - esclamò Ulzai.

La canna si stava piegando. Derek aveva cambiato presa. Ora teneva strettamente la canna, che si piegò di più. Derek fece qualche passo più al largo.

— Sta’ attento — gli disse Ulzai.

Il pesce scendeva in profondità.

No! Uscì dall’acqua di fronte a Derek: un corpo lungo e scuro che si dimenò a mezz’aria e ricadde del fiume. Splash! La canna si piegò di nuovo.

— Un pesce piuttosto grosso — commentò Ulzai. — Ma non vale la pena catturarlo. Quella specie è piena di lische. E il sapore… — Fece il gesto che significava "potrebbe essere peggiore".

Derek sollevò la canna. Il pesce stava probabilmente risalendo. Sì! Saltò di nuovo, guizzando alla luce del sole, e ricadde. Derek abbassò la canna. Il pesce correva verso il centro del fiume. La lenza balenò, visibile per un istante. Notai che era tesa. Derek si voltò, costringendo il pesce a muoversi in tondo e guidandolo di nuovo verso riva.

— È interessante — disse Ulzai. — Ma non credo che sia un buon modo di catturare pesci. Ci vuole un sacco di tempo, questo è evidente. E il pesce potrebbe fuggire… anche ora, dopo tutti gli sforzi che ha fatto per prenderlo.

Dissi: — Mmm.

Ora il pesce era nell’acqua bassa. Derek sorrise. Un istante dopo esclamò: — Maledizione!

La lenza era invisibile al momento, e così il pesce. Ma scorgevo delle increspature zigzaganti sulla superficie dell’acqua, fatte dalla lenza dove entrava nell’acqua. Le increspature si allontanavano dalla riva. Il pesce aveva cambiato di nuovo direzione.

Derek lo lasciò correre finché non arrivò alla fine della lenza, poi incominciò a tirarlo una seconda volta. Sudava. Il suo viso luccicava e c’erano chiazze scure sulla sua camicia.

— L’ho già visto su alcuni animali — osservò Ulzai. — Dalla loro pelle esce acqua quando il tempo è molto caldo o quando hanno fatto qualche grosso sforzo.

— Sì — dissi.

— Non c’è dubbio che siate degli individui singolari. Che cosa significa? Che sta faticando?

— Sì.

— Quando un uomo usa una lancia, sa immediatamente se ha il pesce oppure no. Può darsi che debba aspettare molto prima di avere una possibilità di colpire, ma non deve faticare tanto quanto quest’uomo.

Stavo ascoltando un tipico pescatore dei ghiacci. Che cosa potevo dire a una persona così? Non avrebbe mai compreso il piacere che Derek traeva dalla lotta con il pesce. Sebbene in quel momento non sembrasse affatto un piacere.

Il pesce risalì in superficie. La schiena scura luccicò. Intravidi una pinna dorsale frastagliata. Si tuffò e riemerse di nuovo.

— Avanti, piccolo — disse Derek. Sollevò la canna e fece un passo indietro. — Ci siamo! Te lo prometto, ti sarò grato. Canterò le tue lodi. Non rimpiangerai di essere venuto da me.

Il pesce si dimenò. Derek fece un altro passo verso la riva. — Ci siamo — ripeté.

Il pesce si lasciava portare dalla corrente appena sotto la superficie dell’acqua. Riuscivo a vederlo: una forma lunga e affusolata, simile a un sigaro o a un siluro. Era quasi immobile.

Derek cambiò la presa, muovendo una mano dopo l’altra lungo la canna finché non arrivò alla punta. L’estremità posteriore cadde nella sabbia dietro di lui. Ora afferrò la lenza. Il pesce si dibatteva debolmente. Derek lo tirò su e l’afferrò, serrando le dita dietro le branchie. Lo sollevò. L’animale si contorse. Era lungo mezzo metro con il ventre marrone chiaro e il dorso di un bruno scuro. Le pinne erano spinose e la bocca piena di denti. Derek estrasse l’amo. Stava sorridendo.

— Un altro capitolo per il libro che sto progettando di scrivere. Pesca sportiva della Galassia. Credo che mentirò riguardo al peso della lenza.

— Ulzai sostiene che quella specie non è molto gustosa. E ha un sacco di lische.

— Dannazione. — Sollevò più in alto il pesce. — Prometto che ti coprirò di lodi.

— Potresti gettarlo di nuovo in acqua — dissi.

— È sfinito. Gli ho appena causato un grosso danno alle branchie. Se lo lasciassi andare, morirebbe. Avrò accresciuto il mio fardello karmico e resterò senza cena. — Scosse il capo. — Se proprio non è velenoso, lo mangerò.

— Non è velenoso — disse Ulzai.

— Bene. Vuoi occuparti tu della canna da pesca, Lixia? Devo uccidere questo amico.

— Okay.

S’incamminò su per la spiaggia. Io andai a recuperare la canna. Quando l’ebbi presa, il pesce era già morto.

Facemmo ritorno alla radura. Derek arrostì il pesce. Aveva più lische di un luccio del nord e ancor meno sapore. Lo mangiò quasi tutto Derek. Noi quattro ci accontentammo del pane e della carne essiccata.

Finito di mangiare, Derek disse: — Ho promesso al pesce che l’avrei celebrato. È una promessa che va mantenuta. Era bellissimo. Si è battuto bene. Mi ha salvato dalla fame. Ricorderò il suo aspetto mentre balzava fuori dall’acqua. E col tempo — sorrise — dimenticherò il suo sapore.

Ulzai fece il gesto dell’approvazione.

— È stata un’ottima celebrazione — commentò l’oracolo. — E più di quanto mi sarei aspettato da te. Quasi sempre sembra che tu manchi di rispetto.

— Sono una persona complessa — ribatté Derek. Usò un aggettivo che di solito si riferiva alla lavorazione del metallo o al ricamo. Per quanto fossi in grado di capire, aveva due significati impliciti. Si riferiva o a una notevole realizzazione tecnica o a qualcosa di riccamente ornato ed eccessivo.

L’indomani Nia mi svegliò al’alba. Quando il sole sorse eravamo già sull’acqua.

Derek e Ulzai vogavano. Io osservavo il fiume. Passavamo accanto a isolotti, banchi di sabbia e un sacco di detriti galleggianti. Poco dopo mezzogiorno comparvero delle nuvole. Cumuli. Si profilarono in lontananza attraverso la foschia estiva.

— Un altro temporale — disse Ulzai. — Conosco un posto sulla sponda orientale. C’è un torrente che si getta nel fiume. E c’è una grotta.

— Aiya! - esclamò l’oracolo.

— Ci sono spiriti nella grotta? — s’informò Nia.

— Io non ne ho mai visti. Mi ci sono accampato parecchie volte.

— Okay — disse Derek.

Il fiume serpeggiava verso la parte orientale della valle e il letto principale scorreva quasi direttamente sotto le scogliere orientali. Qui la sponda del fiume era scoscesa, ricoperta di arbusti verdi e gialli. Al di sopra del fogliame s’innalzava un’alta parete rocciosa.

Ulzai puntò il dito. Vidi un incavo nella scogliera. Dai cespugli che crescevano sotto l’incavo scendeva un torrente: un sottile velo lucente d’acqua che scorreva su rocce gialle per poi sparire nel fiume.

Approdammo a sud del torrente, scaricammo la canoa e la tirammo sulla riva.

Alcuni uccelli volteggiavano sopra di noi, lanciando grida.

— Quanta fatica — dissi.

Derek fece il gesto dell’assenso. — Una delle molte ragioni per cui non amo pienamente la tecnologia preindustriale. Sebbene ci sia un sacco di gente sulla Terra che saprebbe fabbricare una canoa migliore usando metodi tradizionali. Forse il problema qui è la mancanza dei materiali adatti. Forse dovremmo introdurre la betulla.

— L’alluminio — dissi. — Le piante mi spaventano più delle fabbriche.

— Lo state facendo di nuovo — protestò l’oracolo. — Usare parole che noi non conosciamo.

Feci il gesto che significava "mi dispiace".

Ulzai disse: — Muoviamoci.

Raccogliemmo le nostre sacche e lo seguimmo su per la riva. Il torrente scorreva accanto a noi in un burrone pieno di arbusti. Non riuscivo a vedere l’acqua. La sentivo: un debole gorgoglio. Gli uccelli continuavano a gridare. Alzai lo sguardo. Uno stormo stava inseguendo un singolo uccello che era evidentemente di una specie diversa. L’uccello che fuggiva era delle dimensioni di un gabbiano. Quelli dello stormo erano, relativamente parlando, minuscoli.

Il grosso uccello volava verso la scogliera. Gli uccelli più piccoli lo seguirono, scendendo a capofitto e lanciando strida.

Inciampai.

— Guarda dove vai — disse Derek alle mie spalle. — O finirai in quel burrone.

Arrivammo alla scogliera. Sulla sua superficie crescevano piante rampicanti che sporgevano sopra l’entrata della grotta, così non la vidi finché Ulzai non si aprì un varco in una macchia di vegetazione e sparì. Lo seguimmo in uno spazio poco profondo, cinque metri al massimo. Mi guardai attorno. Non c’erano buchi neri, nessuna traccia di una caverna interna. Misi giù le sacche che stavo portando.

— Ci procureremo della legna — disse Ulzai. — Prima che incominci a piovere.

Nia aveva ragione. A Ulzai piaceva dare ordini. Un vero peccato che vivesse su questo pianeta dove gli uomini non avevano l’opportunità di organizzare alcunché. Sarebbe stato la persona adatta per i soccorsi in caso di disastri.

Uscimmo. Il sole era sparito dietro una barriera di nuvole. La valle era buia e il cielo si andava oscurando rapidamente con il diffondersi delle nubi.

Raccolsi una bracciata di legna e feci ritorno alla grotta. Ulzai era già tornato. Aveva acceso un fuoco, appena dentro l’accesso. Il fumo saliva lento fra le foglie dei rampicanti, che ondeggiavano. Si stava alzando il vento.

— Questo sarà peggiore di quello di ieri — disse Ulzai. — Guardate il cielo a occidente. È di un colore fra il nero e il verde. — Mise un altro ramo sul fuoco, poi alzò lo sguardo, aggrottando la fronte. — Il tempo peggiore è in primavera. Su questo Nia ha ragione. In questo periodo dell’anno è improbabile che si vedano i danzatori neri. Le nuvole che saltellano e fanno giravolte.

Trombe d’aria. Ne avevo vista una il primo anno che avevo vissuto nel Minnesota. Avevo ancora incubi su quella dannata cosa. Mi terrorizzavano più delle onde di maremoto o dei vulcani. Forse perché erano imprevedibili.

Arrivarono Derek e l’oracolo. Lasciarono cadere la loro legna accanto alla mia sul fondo della grotta. L’oracolo disse: — Ha un aspetto terribile là fuori. — Si massaggiò il collo. — Aiya! Sono stanco.

— Come va il tuo braccio? — m’informai.

— Non è quello il problema. Adesso è la mia pancia. Ha brontolato tutta la notte. Non sono riuscito a dormire e mi sento ancora nauseato.

— La frutta — disse Derek. — Mi chiedevo se non ti avrebbe fatto male.

Tornò anche Nia. — È iniziato a piovere. Grosse gocce. Quando colpiscono la roccia, fanno un segno grande come la mia mano.

Aggiunse la sua legna al mucchio e si sedette. — È passato molto tempo dall’ultima volta che sono stata sulla pianura. E di norma in questo periodo dell’anno mi troverei a nord di qui con la mandria e il villaggio. Credo… non sono certa… che i temporali siano peggiori lungo il fiume.

— Non credo — disse Ulzai. — Ma non ne sono sicuro neppure io. Non ho passato molto tempo sulla pianura. — Fece una pausa. — C’è una domanda che voglio farti da un po’ di tempo.

— Sì? — disse Derek.

— Non voglio farla a te. — Ulzai guardò Nia. — Tanajin mi ha detto che sei una lavoratrice del ferro.

Nia esitò, poi fece il gesto dell’affermazione.

— Ha detto che appartieni al Popolo del Ferro.

— Sì. — Ebbe una breve esitazione. — Vi appartenevo.

— Sei tu la donna di cui abbiamo sentito parlare.

Nia non disse niente.

— Era una lavoratrice del ferro e apparteneva al Popolo del Ferro. Non ricordo il suo nome. Non sono sicuro che Tanajin me l’abbia mai detto. Ma mi ha raccontato la sua storia.

— Quale storia? — chiese Nia.

— La donna che amava un uomo. La racconta il Popolo del Ferro. E anche il Popolo dell’Ambra e il Popolo della Pelliccia e dello Stagno. È una donna famosa! Sei tu quella donna?

— Hai intenzione di causare guai? — domandò Nia.

— No. Perché credi che abbia accettato di aiutarvi? Tanajin è la donna del traghetto. Non io. — S’interruppe un momento. — Credi che sia facile per me passare tre giorni insieme ad altre persone? Siete così tanti! E quei due sono strani. — Lanciò un’occhiata a me e a Derek.

Nia fece un verso iroso. — C’è una donna a est di qui. Pensava di conoscermi. Ha cercato di ucciderci.

— La prima volta che Tanajin ha sentito la tua storia mi ha detto: "Non siamo soli. Non siamo le prime persone ad aver fatto questa cosa". — Ulzai aggrottò la fronte. — Non sono pienamente d’accordo con lei. Nella storia che raccontano su di te, tu hai scelto di trattare un uomo come una sorella o una cugina. Non è stato un caso. Sei andata volutamente a fare qualcosa di sconveniente.

Ormai la grotta era buia salvo per la luce emanata dal fuoco. Guizzava sulle pareti. Gli occhi delle persone attorno a me luccicavano: rossi, arancioni, gialli e, cosa più sorprendente, azzurri. Fuori brontolava il tuono e cadeva la pioggia.

Nia disse: — Non mi metterò a discutere su una storia che è stata raccontata più e più volte. Che la gente creda pure ciò che vuole credere.

— Nel nostro caso è stato diverso — disse Ulzai. Si guardò attorno. — Ho portato una brocca di birra.

Derek la trovò e gliela porse. Ulzai bevve. — Non ho mai raccontato a nessuno la storia. Non voglio essere famoso sulla pianura.

Nia fece un altro verso iroso. Ulzai le porse la brocca. Lei bevve.

Ulzai si piegò in avanti, fissandola e ignorando noialtri. — Non è vero che gli uomini amano stare zitti. Impariamo a tacere. Con chi possiamo parlare nelle paludi? Con gli spiriti. Con le lucertole. Con i morti che vagano di notte. È possibile vederli. Sono luci fioche sopra gli stagni. Non parlano mai. E neppure gli spiriti. O se lo fanno… — Lanciò un’occhiata all’oracolo. — Io non riesco a sentirli. Non sono santo.

— Io sì — disse l’oracolo.

— Me l’ha detto Tanajin. — Guardò il fuoco. Dopo un momento si massaggiò un lato della faccia, passandosi la mano sulle strisce di pelo bianco. — Inverno dopo inverno ho tenuto dentro di me questa storia. È come una pietra nel mio ventre. È come un cattivo sapore in bocca. Duole come una vecchia ferita nel periodo delle piogge. Non la capisco. Non vedo che cos’altro avremmo potuto fare.

Nia sospirò. — Allora raccontala. Ma ti avverto. Non ti aiuterà. Le parole servono meno di quanto credi.

— Può darsi — disse Ulzai.

L’oracolo s’intromise. — Posso avere un po’ di birra?

— E il tuo stomaco? — gli domandò Derek.

— La birra fa bene per la digestione.

Nia gli diede la brocca.

Ulzai si grattò la testa. — È una lunga storia.

— Abbiamo tempo — disse Derek. — Quel temporale non finirà tanto presto.

— Voi due. — Ulzai rivolse un’occhiata furiosa a Derek e a me. — Non parlate di ciò che sentirete. E anche tu, o uomo santo.

Facemmo il gesto dell’assenso, tutti e tre.

— Per prima cosa, devo parlarvi del Popolo del Cuoio. Un tempo appartenevo a quel popolo. E così Tanajin. Vivevano negli acquitrini dove il Grande Fiume entra nella pianura di acqua salata. Le loro case non somigliano a nessun’altra casa che abbia visto in altri luoghi. La regione paludosa è piatta e quando il fiume sale, la terra viene inondata. Tutta quanta. La gente costruisce le proprie case in cima a strutture fatte di legno. Non so come descriverle. Assomigliano un po’ alle strutture che la gente usa per far asciugare il tessuto o essicare il pesce. Ma sono molto più grandi e più solide. Sopra ogni struttura c’è una piattaforma, e sopra la piattaforma c’è una casa. Le pareti sono fatte di canne e di rami intrecciati fra loro. Il tetto è fatto di fasci di canne. I fasci sono spessi. Neppure la pioggia più forte riesce a passarvi. — Tacque un momento, gli occhi socchiusi, mentre ricordava. — Non ci sono alberi nella palude, solo canne, benché possano crescere più alte di un uomo. Le case s’innalzano sopra le canne. Sono più alte di tutto. Un uomo può alzare lo sguardo e vederle, anche da molto lontano. Di notte può vedere i fuochi per cucinare sulle piattaforme.

Derek si protese in avanti. — Se non ci sono alberi, dove vi procurate il legno per le case?

— Lo porta il fiume. Quando il fiume arriva nelle paludi, si allarga. Allora l’acqua scorre lentamente. Il fiume si lascia dietro tutto quello che stava portando con sé. Ci sono banchi di sabbia all’entrata delle paludi e una grande zattera di legno. La zattera riempie gran parte del fiume ed è così lunga che un uomo può vogare per giorni, risalendo la corrente, senza mai vedere la fine di tutto quel legno. Ci sono più alberi aggrovigliati fra loro di quanti chiunque potrebbe contarne. Sono quasi tutti corrosi dall’acqua. Hanno perso la corteccia. Sono grigi come la sabbia. Sono bianchi come ossa. Ma non sono marci. Possono venire utilizzati.

— Aiya! - esclamò l’oracolo.

Ulzai guardò accigliato il fuoco. — Adesso ho dimenticato quello che stavo per dire.

— Parlavi della tua gente — dissi.

Lui fece il gesto dell’assenso. — Le donne vivono nelle case, alte sopra i canneti. Gli uomini vivono nelle imbarcazioni. È questo che ogni ragazzo riceve quando viene il momento per lui di lasciare la casa di sua madre: una barca con una prua scolpita e una serie di lance, un coltello per scuoiare e un mantello di pelle di lucertola. Questi quattro doni sono sempre gli stessi.

"Il ragazzo li prende. Dice addio a sua madre e alle altre parenti. Se ne va pagaiando. Non torna finché non ha ucciso una lucertola. Una grossa. Un umazi."

— Che cosa intendi quando dici che ritorna? — domandò Nia.

— So che le persone qui sulla pianura non approverebbero il nostro comportamento. Il nostro dono è il cuoio. Gli uomini cacciano gli umazi e li scuoiano per ricavarne la pelle.

"Ma la pelle non serve a niente se non viene conciata, e sono le donne a fare la conciatura. Sono loro che hanno le grosse tinozze fatte di legno e di ferro. Sono loro che hanno l’urina. Un uomo dove mai potrebbe procurarsi abbastanza urina da riempire una tinozza per la concia? E dove terrebbe la tinozza? Non nella sua canoa e non sulle isole, che sono spesso coperte d’acqua.

"Quando un uomo uccide un umazi, porta la pelle a sua madre, o a una sorella, se la madre è morta,"

— Non ho mai sentito una cosa del genere — disse l’oracolo.

— Tutto questo viene fatto con discrezione. L’uomo aspetta che la grande luna sia piena. Allora, durante la notte, si reca a casa della madre. Lega la sua imbarcazione e si arrampica sulla piattaforma. Lei è all’interno. Le finestre sono schermate. La porta è chiusa. La donna non fa alcun rumore.

"Lui mette giù il proprio dono. La pelle grezza dell’umazi. Raccoglie i doni che lei gli ha lasciato fuori della porta. Lui se ne va. Non viene scambiata una parola. I due non si vedono nemmeno.

"È necessario fare così. Altrimenti non avremmo il cuoio, e siamo il Popolo del Cuoio."

— Uh! — esclamò Nia.

— È questo che facevi? — s’informò l’oracolo.

Ulzai fece il gesto dell’affermazione. — Fino alla morte di mia madre. Le mie sorelle erano già morte. Non avevo cugine. È così che è incominciato tutto.

— Incominciato cosa? — chiese Derek.

— Io sono un buon cacciatore. Nessun uomo ha ucciso più umazi di me. Mia madre aveva più pelli di quante gliene servissero. Regalava metà di ciò che le portavo.

"A volte, durante la notte, conducevo la mia imbarcazione nel canale di casa e mi spostavo lentamente sotto le abitazioni nell’oscurità. Sentivo cantare le donne. Lodavano la mia abilità e la sua generosità. Dovete capire, era bello stare ad ascoltare."

— Non avresti dovuto stare là — disse Nia.

— Mi piacciono le lodi — ribatté Ulzai. — Lei morì. Non avevo parenti strette al villaggio. Non c’era nessuno a cui portare le mie pelli. Per me erano inutilizzabili. Tutta la mia abilità di cacciatore era inutile.

— Aiya! - esclamò Derek.

— Prendi altra legna — gli ordinò Ulzai.

Derek ubbidì. Ulzai mise due rami sulle fiamme e restò a guardare finché non presero fuoco. Io ascoltavo. La pioggia continuava a cadere.

Lui sollevò la testa. — A volte, quando succede una cosa del genere, l’uomo, il cacciatore, rinuncia a cacciare. Si addentra nella palude e vive pescando. Diventa uno straccione. Dimentica come si fa a parlare. Ho visto uomini così nel periodo dell’accoppiamento. Cercano di tornare con la forza nella zona vicina al villaggio. Ne ho affrontati due o tre. Costoro non lanciano insulti come gli uomini normali. Ringhiano ed emettono brontolii. Tirano indietro le labbra e mostrano i denti. Uno sollevò la lancia, come se avesse intenzione di usarla contro di me. Alla fine non lo fece. Emise uno strano suono, una specie di lamento, e fuggì via. — Ulzai mise altri rami sul fuoco. — Altri uomini si cercano un’altra donna. Può darsi che ci sia una lontana cugina che non ha fratelli. O una vecchia che è sopravvissuta a tutti i suoi parenti.

"Ma non è facile raggiungere un accordo. Le due persone non possono parlare. Non possono guardarsi. La donna non sa chi le fa visita, lasciando le pelli di lucertola. Non ha la minima idea riguardo ai doni giusti da dargli. Una madre l’avrebbe, e anche una sorella.

"Spesso la donna ha paura. Le donne del villaggio fanno pettegolezzi quando una che non ha parenti prepara una tinozza per la concia. Fanno domande. Si fanno delle idee. Non è mai un bene attirare l’interesse delle proprie vicine."

— Questo è vero — disse Nia.

— Io non ero disposto a smettere di cacciare. Non volevo diventare un folle. Entravo nel villaggio nelle notti scure. Fermavo la mia imbarcazione sotto le case. Ascoltavo le donne che parlavano. Nessuna mi sentiva. Nessuna mi vedeva. Sono abile in ciò che faccio.

"Venni a sapere che era successo qualcosa ai fratelli di Tanajin. Avevano cessato di venire a casa sua. Lei non aveva niente da conciare. Così decisi di farle visita." Ulzai si alzò in piedi e sollevò i rampicanti dall’ingresso della grotta. L’acqua gocciolò dalle foglie. Guardai fuori e vidi la pioggia.

— Comincio a essere stanco di raccontare questa storia. Va avanti ancora a lungo. Forse il silenzio è meglio.

— Smettila se vuoi — disse Nia.

Tenni la bocca chiusa, sebbene volessi sentire il resto della storia. Derek aggrottò la fronte.

— La terminerò — disse Ulzai. — Lasciai una pelle. Quando la luna fu di nuovo piena, tornai. Lei aveva lasciato dei doni fuori dalla porta. Cibo, una brocca di birra e un coltello. Il manico era di legno nero intarsiato d’argento. Ma non era della grandezza giusta per la mia mano.

Feci il gesto che indicava comprensione o rammarico.

— In seguito tornai a ogni luna piena. Le portai molte pelli. Erano grandi e in eccellenti condizioni. Lei ne regalò parecchie. Ma non sentii le donne cantare in sua lode. E non sempre i doni che mi lasciava erano di mio gradimento.

"Mi diede sandali fatti di pelle di lucertola. Erano troppo piccoli. Mi diede tessuto per un gonnellino. Era verde scuro ricoperto di ricami rossi e gialli. La maggior parte degli uomini l’avrebbe gradito. Ma a me piacciono le cose semplici."

— Perché? — chiese l’oracolo.

— Sono fatto così. — Esitò. — Non c’è niente di bello in me. Non c’è mai stato. Mi sono procurata questa quando ero bambino. — Si toccò il pelame bianco sulla faccia. — Caddi dalla piattaforma della casa di mia madre. Una lucertola mi prese. Di solito ce ne sono alcune sotto le case del villaggio. Non sono mai grosse. Gli umazi non vivono di rifiuti. Ma a quel tempo la lucertola mi sembrò abbastanza grossa. Gridai quando mi azzannò. Mia madre si tuffò con un coltello. Uccise la lucertola, e a me rimase questa. — Si toccò la faccia una seconda volta. — E questa. — Si toccò il pelo bianco sulla gamba.

Nia disse: — Dev’essere stata davvero un’esperienza.

Ulzai fece il gesto dell’assenso. — Dammi la birra.

Gli porsi la brocca. Lui bevve. — Decisi di parlare con Tanajin. Ma non nel villaggio. Temevo che le donne anziane lo scoprissero. Le sentivo parlare sulle loro piattaforme. Erano come madri alla ricerca di parassiti fra i capelli dei loro figli. Erano alla ricerca di opinioni cattive. Volevano scoprire qualcosa di cattivo su Tanajin. Non sapevo perché.

"Attesi che arrivasse il periodo dell’accoppiamento Mi nascosi fra le canne in prossimità della sua casa. Quando lei partì per andare nelle paludi, la seguii.

"La trovai, ma non ero il primo. C’era un uomo insieme a lei. Lo affrontai. Lui s’infuriò. Ci battemmo. Lo sconfissi, anche se non fu facile. Fuggì nelle paludi e io parlai con Tanajin. Le mostrai la grandezza dei miei piedi e delle mie mani. Le spiegai che genere di stoffa mi piacesse. Le dissi che usavo sempre il tipo di lancia che ha la punta munita di barbigli."

— Ti accoppiasti con lei? — gli chiese Derek.

Ulzai fece il gesto dell’affermazione. — Ma l’accoppiamento non diede alcun frutto. Lei non ebbe nessun figlio. Quello fu il primo errore che commisi.

— Quale? — domandò Derek. — L’accoppiamento?

Ulzai si accigliò. — No. Averla seguita. Aver parlato con lei. Prima di allora, lei non era niente. Solo un’ombra fra le ombre della casa. Adesso era diventata qualcosa. Una persona. Sapevo che aspetto aveva. Conoscevo il suono della sua voce. A volte, quando ero nella palude e stavo seduto sulla piattaforma di fronte alla sua casa, mi trovavo a pensare a lei. Aprivo la bocca. Pensavo di parlare. Poi mi mordevo la lingua. — Si alzò di nuovo in piedi. — La pioggia è cessata. Vado fuori. — Si aprì un varco fra i rampicanti.

— Interessante — osservò Derek in inglese. — Com’è difficile mantenere le barriere fra gli individui.

— Lo credi? — chiesi.

— Forse mi riferisco al contrario. Ulzai ha ragione. È ora di fare una camminata.

Se ne andò. Guardai Nia. La sua faccia scura era inespressiva.

— Il mondo è pieno di persone strane — disse l’oracolo. — E di storie che non mi sarei mai aspettato di sentire. Forse è per questo che il mio spirito mi ha ordinato di viaggiare. Berrò ancora un po’ di birra.

Decisi di uscire anch’io.

Ulzai aveva ragione sulla pioggia. Era cessata. A occidente, oltre il fiume, le nuvole incominciavano ad aprirsi. Mi guardai attorno. Derek e Ulzai erano spariti. M’incamminai lungo la scogliera finché non trovai un punto dove potevo arrampicarmi. Salii finché non arrivai abbastanza in alto da vedere da una parte all’altra della valle.

Canali serpeggianti. Isole. Paludi. La foresta sull’altra sponda del fiume. Raggi di sole penetravano obliqui fra le nubi. Dove raggiungevano la foresta, questa era di un verde e di un giallo accesi.

Il vento era fresco e odorava di vegetazione bagnata. Mi sedetti e mi appoggiai contro una roccia. Uno stormo di uccelli volteggiava sopra il fiume. Ce ne dovevano essere due o trecento. Erano troppo lontani perché potessi vedere più che dei puntini. Mi chiesi che cosa stessero facendo. Si preparavano forse a volare verso sud. Avevo visto uccelli comportarsi così sulla Terra. Si radunavano in stormo e svolazzavano in tondo, allenandosi per la migrazione. Poi un giorno, in ottobre o novembre, ci si accorgeva che erano spariti.

Be’, diavolo, non poteva essere tanto facile volare verso sud. Capivo perché dovessero allenarsi. Gli uccelli di fronte a me volarono via. Restai seduta ancora per un po’, quindi ridiscesi lungo la scogliera.

Derek arrivò su dal fiume. Portava una canna da pesca e una filza di pesci. Erano piccoli, almeno paragonati al pesce che aveva pescato il giorno precedente, con il corpo grasso e rotondo e il ventre di un giallo acceso.

— Spero che siano commestibili — disse.

Tornammo nella grotta e Derek tenne sollevata la filza di pesci. — Come sono questi?

— Deliziosi — disse Nia. — Ma non sono facili da pulire. Lo farò io. Tu potresti rovinarli.

— Accomodati pure — fece Derek.

Nia aggrottò la fronte. — Che cosa significa?

— Forza!

Nia pulì i pesci e noi li arrostimmo. Ulzai tornò. Quando sollevò i rampicanti, entrò la luce del sole. Il cielo alle sue spalle era sereno e luminoso.

— Hai intenzione di terminare la tua storia? — gli chiese Derek.

— Sì. — Lasciò cadere i rampicanti. Ripiombammo nell’oscurità. — Ma prima voglio mangiare. Li hai presi tu questi?

Derek fece il gesto dell’affermazione.

— Il tuo palo serve a qualcosa.

Derek fece il gesto della gratitudine.

Ulzai mangiò e bevve quel che restava della birra. Poi ruttò. — Non è rimasto più molto da raccontare. Portai altre pelli a Tanajin. I doni che lei mi lasciava erano migliori di prima. Cacciai per lei tutta l’estate e lei regalò parecchie pelli. Ma le donne non celebravano la sua generosità. O se lo facevano, era malvolentieri. Le sentivo. Dicevano: "Che diritto ha di essere agiata, una donna senza parenti?".

"Venne l’inverno. Era più caldo del solito. Poche lucertole scesero il fiume da nord. Gli umazi erano affamati. La fame li rendeva irritabili ed erano più pronti a lottare. Morirono alcuni uomini, e altri uomini rinunciarono. Catturarono pesci invece degli umazi. Io invece continuai. Portavo molte pelli al villaggio quando la luna era piena. Non fallivo mai." Sollevò il capo. Riuscii a vedere il suo orgoglio.

— Tanajin era generosa. Questo l’ho già detto prima. Continuava a regalare pelli. Di notte, quando la luna era scura, mi recavo nel villaggio per ascoltare.

Nia si accigliò. — Continuo a dire che era sbagliato.

— Tu non hai fatto niente di peggio, o donna del Popolo del Ferro?

— Ho fatto molte cose che sono peggiori. — La voce di Nia era tranquilla.

— Sentii le donne del villaggio. Stavano sedute di fronte alle loro case e parlavano fra loro. Ma non lodavano Tanajin. Dicevano: "Chi la sta aiutando, questa donna senza fratelli? Chi le porta delle pelli pregevoli quando tutte noi non riceviamo niente?".

"Dicevano: ’Neppure Ulzai era in grado di uccidere tutti questi umazi. Ed era il miglior cacciatore. Tanajin ha ottenuto un aiuto che è fuori dell’ordinario. Forse uno spirito ruba la fortuna ai nostri figli e ai nostri fratelli’.

"Volevo gridare loro: ’Stupide, sono io quello che sta aiutando Tanajin. Ulzai il cacciatore! Non sono uno spirito!’. Ma non potevo dire nulla."

Nia fece il gesto dell’assenso. — Questo è ciò che capita quando si ascolta di nascosto. Si sentono cose che non si vogliono sentire. Ci si deve mordere la lingua.

Ulzai assunse un’aria furiosa. — Non criticarmi.

Per un istante o due Nia restò immobile. Poi fece il gesto dell’assenso, seguito da quello delle scuse.

Ulzai fece il gesto del riconoscimento. — Me ne andai e tornai di nuovo. Sentii altri pettegolezzi maligni. Dicevano che era pericoloso avvicinarsi alla casa di Tanajin di notte. Un umazi gigantesco stava in agguato nell’acqua scura sotto la piattaforma. Un uccello bianco stava appollaiato sulla sommità del tetto.

— Aiya! - esclamò l’oracolo.

— Sentii parlare un ragazzo. Non era molto grande. Lo capii dal suono della sua voce. Disse di aver guardato di sotto dalla casa di sua madre una notte in cui la luna era piena. C’era un uomo nel canale di casa, ritto in una barca che spingeva con una pertica verso la casa di Tanajin. La barca era piena delle pelli delle lucertole. L’uomo aveva guardato in su, disse il ragazzo. I suoi occhi splendevano come scintille di fuoco. Aveva aperto la bocca. La bocca era vuota. L’uomo non aveva lingua. Era Ulzai, disse il ragazzo. Ero io, ed ero morto. Tanajin aveva operato una magia e mi aveva fatto tornare dal luogo dove giacevo nell’acqua fredda della palude. Adesso lavoravo per lei.

"Stava mentendo" disse Ulzai. "Avrei voluto dargli del bugiardo. ’Sono Ulzai’ volevo gridare. ’Sono vivo e uso una pagaia e non una pertica.’"

— Uh! — esclamò Derek.

— Non so perché sia successo tutto questo. Perché lodavano mia madre? Perché dicevano cose malvagie sul conto di Tanajin? Tu lo sai? — domandò a Nia.

— No.

— Ero furioso. Decisi che non avrei più ucciso altri umazi. Me ne andai nelle paludi lontane e vissi di pesce. Il tempo si fece freddo. Cadde la pioggia. Mi presi la malattia che dà il tremito. L’avevo già avuta prima. Molti uomini se la prendono dopo che sono vissuti per un po’ di tempo nelle paludi. — Fece una pausa. — Questa volta era grave. Prima stetti troppo male per pescare. Poi stetti troppo male per mangiare. Restavo sdraiato nella mia imbarcazione sotto il mio mantello di pelle di umazi ben conciata. Cadeva la pioggia. Io tremavo e sognavo.

"Vennero le grandi lucertole, uscendo dalle paludi. Formarono un cerchio attorno a me. Parlarono. ’Perché hai smesso di cacciarci? C’è qualcosa di più magnifico di un umazi? Guarda i nostri denti aguzzi. Guarda i nostri artigli! Siamo enormi e terrificanti. Troverai mai una preda che meriti di più?’

"Cercai di rispondere. Mi battevano i denti e non riuscivo a parlare.

"’Sei diventato un codardo, Ulzai. Usi la tua lancia sui piccoli pesci. Temi le voci delle donne. Te ne resti sdraiato qui ad aspettare di morire della malattia del tremito.’

"’Siamo noi la tua morte. Non questa miserabile malattia. Ti prenderemo un giorno, ma solo se ci darai la caccia. Adesso alzati! Voga fino al villaggio. Va’ da Tanajin. Lei ti aiuterà. E quando starai bene, vieni a darci la caccia.’

"Si allontanarono nuotando e io mi alzai. Riuscivo a stento a stare seduto. Il mondo si muoveva in tondo attorno a me e volevo sdraiarmi di nuovo, ma non potevo. Gli umazi mi avevano detto che cosa fare.

"Vogai fino al villaggio. Arrivai durante il giorno, benché non me ne rendessi conto. Il mondo mi sembrava buio. Raggiunsi la casa di Tanajin. Legai la mia imbarcazione, ma non riuscii ad arrampicarmi.

"Fu lei a scendere. Le spiegai che le lucertole avevano detto che dovevo venire da lei. Erano loro la mia morte. Non potevo morire di nient’altro. Me l’avevano detto loro.

"Lei mi aiutò a salire la scala. Mi aiutò a entrare in casa e mi preparò un letto, lì, dentro le pareti della sua casa. Mi curò finché non ebbi superato la malattia.

"Questa è la conclusione della storia. Non potevamo restare al villaggio. Adesso lo sapevano, le vecchie, chi aveva aiutato Tanajin. Ulzai il cacciatore! Non c’era nessuna magia. Nessuno spirito maligno." Allargò le mani. "Soltanto Ulzai. Ulzai che non sarebbe morto. Che era venuto nel villaggio.

"Adesso erano furiose a causa di ciò. Sarei dovuto morire nelle paludi. Tanajin avrebbe dovuto lasciarmi nella barca."

Allungò la mano verso la brocca dove c’era stata la birra.

— È vuota — disse Derek.

Ulzai fece il gesto del rincrescimento. — Tanajin impacchettò le sue cose. Caricammo la mia imbarcazione. Ce ne andammo insieme.

— Perché? — domandò Nia.

— Tanajin aveva bisogno di aiuto. Non sapeva nulla della vita lontano dal villaggio. E io ero furioso. Non mi importava più niente delle opinioni dell’altra gente. Avevo tentato di tutto per guadagnarmi le lodi di quelle donne. Ero perfino stato disposto a morire da solo nelle paludi prima che gli umazi mi parlassero.

"Decisi che da quel momento in avanti avrei aiutato quelle persone che aiutavano me. E non avrei dato ascolto a nessuno." Fece una pausa. "Tanajin ha composto una poesia:

"Lascio

queste paludi.

Me ne vado lontano.

"Non vi sentirò

mai più,

o donne del villaggio,

"Fare rumori

come gli uccelli

fra le alte canne".

Fece il gesto che significava "così sia" oppure "è finita".

Restammo tutti in silenzio.

Ulzai si alzò in piedi. — Me ne vado fuori di nuovo. Forse tornerò questa notte. Forse no. — Uscì dalla grotta.

Derek cambiò posizione, sollevando un ginocchio e appoggiandovi il braccio. I suoi lunghi capelli erano sciolti in quel momento. Gli cadevano sulle spalle e aveva una ciocca negli occhi. Se la tirò indietro, poi si grattò il mento. — La prima cosa che farò quando saremo tornati sarà di sbarazzarmi di un po’ di questo pelame.

— Ma ne hai così poco! — disse Nia.

Avevo un’unghia seghettata e me la mordicchiai. — Non capisco la storia.

— Non devi capire niente — disse Derek.

— Perché le donne del villaggio provavano antipatia per Tanajin?

— Ci sono donne così — disse Nia. — Non vanno d’accordo con le altre. Forse amano litigare o forse si tengono in disparte dalle altre persone.

"Avevo un’amica quando ero giovane. Angai. Era la figlia della sciamana e aveva la lingua tagliente. Non piaceva quasi a nessuno. Parlavano di lei, sebbene non abitualmente quando io mi trovavo nei dintorni."

— Che cosa le è successo? — chiesi. — Ha fatto la fine di Tanajin?

Nia fece il gesto che significava "no". — Sua madre è morta e lei è diventata la nuova sciamana. Ti ho parlato di lei. Ne sono sicura.

— Non mi ricordo. Tu eri una persona come Tanajin?

— No — rispose Nia. — Io ero una persona comune. La gente non parlava di me. — Aggrottò la fronte. — Non credo che lo facessero. Non prima che scoprissero di me e di Enshi. Dopo è stato tutto diverso.

Sembrava a disagio. Cambiai argomento. Parlammo del tempo e poi del fiume. Ulzai non tornò. Il fuoco si consumò e divenne un mucchio di braci da cui saliva ancora un sottile filo di fumo che si avvolgeva a spirale fra le foglie. Mi coricai, restando ad ascoltare gli altri. Le loro voci si fecero più sommesse e lontane finché le loro parole persero significato.

Derek mi svegliò il mattino dopo. — Muoviti. Ulzai dice che sarà una lunga giornata.

Mi rigirai e gemetti. L’aria era umida e mi dolevano le braccia. Andai fuori a orinare.

La nebbia copriva la valle e il fiume era invisibile. Gli arbusti, anche quelli proprio davanti a me, erano indistinti e scoloriti. Non era certo la giornata per il saluto solare. Feci qualche esercizio di stretching, poi tornai nella grotta. Nessuno si era preoccupato di riaccendere il fuoco. La grotta era buia e tiepida e odorava di corpi pelosi. Un odore confortante.

Facemmo i bagagli.

— Come facciamo a viaggiare? — domandò Nia. — Sono stata fuori. L’aria è come la pelliccia del ventre di un cornacurve. Non riusciremo a vedere niente.

— Conosco il fiume — disse Ulzai. — Possiamo viaggiare mezza giornata prima di imbatterci in qualcosa di insolito o pericoloso. E allora la nebbia sarà già sparita. L’aria sarà limpida quando arriveremo nel punto dove l’acqua cade.

— Ne sei sicuro? — chiese l’oracolo.

— Sì — rispose Ulzai. — Muoviamoci. E fate attenzione.

Incominciammo a scendere fra la nebbia, Ulzai in testa. La roccia che superammo era scivolosa. Non vedevo quasi niente: la figura indistinta di Ulzai, qualche arbusto confuso. Ne sfiorai uno. Le foglie erano orlate di goccioline di umidità. Da qualche parte lì vicino il torrente gorgogliava.

— Ahi! — gridò qualcuno.

Mi voltai e vidi Nia e Derek. L’oracolo era sparito.

— Che cosa è successo?

Nia fece il gesto del dubbio.

— Quel maledetto sciocco è finito nel burrone — disse Derek.

— Aiuto — gridò l’oracolo. La sua voce sembrava lontana sebbene dovesse essere abbastanza vicina.

Derek scrutò nel burrone. — Non riesco a vederlo. Oracolo! Grida di nuovo!

— Aiuto — fece l’oracolo.

— Proprio qui sotto. — Derek depose le sacche che portava, si tolse gli stivali e i calzini e si calò nel burrone.

— Che cosa sta succedendo? — chiese Ulzai alle mie spalle.

— L’oracolo è caduto nel burrone.

— Un uomo maldestro!

Feci il gesto dell’affermazione.

— L’ho preso — disse Derek. — Riesci a tenerti in piedi?

— Non lo so — rispose l’oracolo.

— Provaci.

Ci fu un minuto di silenzio.

— Aiya! Mi fa male la caviglia!

Ulzai sbuffò. Mi avvicinai al ciglio del burrone e guardai giù. C’erano delle forme indistinte sotto di me: rocce e rami, appena visibili attraverso la nebbia.

— Andiamo — disse Derek. — Ti aiuto a salire.

I rami si mossero. Comparvero due figure: una pallida e umana, l’altra scura, massiccia e aliena. Mi inginocchiai e allungai una mano. L’oracolo l’afferrò. Tirai. Derek lo sollevò. Insieme lo tirammo fuori.

— Com’è potuta accadere una cosa simile? — domandò l’oracolo.

— Non chiederlo a noi — ribatté Derek. Si inginocchiò accanto all’oracolo, che si era seduto, e gli tastò la caviglia. L’oracolo emise un gemito.

— Non sento niente che sia fuori posto, e non sembra che tu soffra molto.

— Ecco che lo fai di nuovo — protestò l’oracolo. — Misuri il dolore che prova un’altra persona. Come puoi riuscirci? Che specie di magia possiedi?

— Non gridi quando faccio così — disse Derek. Strinse la caviglia.

L’oracolo emise un gemito strozzato. — Griderò, se è questo che vuoi. Ma prima lasciami tirare un bel respiro.

— Stiamo sprecando il tempo — intervenne Ulzai. — Se la caviglia è rotta, l’uomo lo scoprirà. Il dolore peggiorerà e la caviglia si ingrosserà. Se invece è tutto a posto, si accorgerà anche di quello. Muoviamoci!

Derek aiutò l’oracolo ad alzarsi. L’omino gemette, ma riuscì a reggersi sul piede ferito. Scese zoppicando il pendio, appoggiandosi a Derek. Io e Nia portammo le sacche.

La nebbia si andava sollevando un poco. Riuscii a scorgere la riva del fiume. L’acqua grigia sciabordava dolcemente contro una spiaggia grigia. Il centro del fiume era di un biancore impenetrabile.

Spingemmo in acqua l’imbarcazione. L’oracolo vi salì e si sedette, lamentandosi. Noi lo seguimmo: Derek a prua e Nia dietro di lui. Io mi ritrovai fra l’oracolo e Ulzai. Non era un posto particolarmente comodo. Sentivo la presenza di Ulzai alle mie spalle: enorme, peloso e formidabile. C’era qualcosa di duro e acuminato che mi premeva contro la coscia. Mi spostai e guardai. Era la lama di una lancia, lunga e uncinata, fatta di ferro. Era posata sul fondo della barca insieme a un’altra lancia e alla canna da pesca di Derek. Per poco non mi ero seduta sulla punta.

La barca si allontanò dalla riva.

Mi spostai all’indietro, cercando di allontanarmi dalla lama della lancia.

— Non fare così — mi disse Ulzai. — Ho bisogno di spazio per vogare.

Mi spostai di nuovo in avanti.

— Bene.

Viaggiammo nella nebbia per tutta la mattinata. L’aria era immobile e non c’era alcun suono, a parte il tonfo delle pagaie. Il silenzio aveva effetto su tutti noi. Parlavamo appena e ci muovevamo con prudenza, cercando di fare il minimo rumore possibile. L’oracolo faceva eccezione. Di quando in quando si lamentava e cambiava posizione. Mi sembrava che cercasse di sostenere il braccio ferito.

La nebbia si diradò un poco e dal biancore affiorarono delle isole. La corrente si fece più rapida e la superficie del fiume cambiò. C’erano increspature e vortici.

— Ci stiamo avvicinando al punto in cui il fiume precipita — disse Ulzai. — La nebbia è durata più di quanto mi aspettassi. Sto cercando di decidere se voglio proseguire oppure no. La barca è troppo carica. Potrebbero esserci problemi e non voglio trovarmi ad affrontarli all’improvviso.

L’oracolo si mosse di nuovo nel tentativo di trovare una posizione comoda. Il braccio ferito era appoggiato sul bordo della canoa. Lo sollevò. Vidi del sangue che gocciolava nell’acqua.

Mi protesi in avanti e gli afferrai il braccio. Lui si girò di colpo. La barca oscillò.

— Sta’ fermo — dissi.

La fasciatura si era strappata. Il bordo della schiuma era arrossato dal sangue. Anche la pelliccia era impregnata di sangue e una linea scura di sangue scendeva lungo il lato interno della canoa. Mi sporsi all’esterno. La barca oscillò di nuovo.

— Che cosa stai combinando? — chiese Ulzai.

Una seconda striscia di sangue scendeva lungo il lato esterno della canoa, finendo nell’acqua.

— Sangue! — esclamai. — Non avevi detto che era pericoloso lasciare tracce di sangue nell’acqua?

— Sì.

— L’oracolo sta sanguinando.

— Spostati qui dietro — ordinò subito Ulzai. — Prendi la mia pagaia.

Ubbidii. Lui si alzò e mi scavalcò. Mi sistemai a poppa. Ulzai raccolse una lancia. Si raddrizzò e si guardò attorno.

— Niente, per il momento. Ma tu, o uomo santo, tieni il tuo braccio dentro la barca. Non voglio altro sangue nell’acqua.

L’oracolo si tenne il braccio contro il torace. Aveva le spalle curve. Ebbi l’impressione che fosse terrorizzato. Be’, lo ero anch’io.

Ulzai parlò di nuovo. — Loro non amano questa parte del fiume. L’acqua si muove troppo rapidamente. Non vengono qui se non nel periodo della migrazione, e quello non è ancora iniziato.

— Bene — disse Derek.

— Se ce n’è qualcuno qui attorno, se qualche esemplare ha deciso di andare a sud più presto, prima della grande ondata, è probabile che sia vicino alla riva. Oppure dietro di noi. A monte. Andremo avanti. Fate attenzione alla corrente. È forte e lo diventerà ancora di più. Seguitela. Ci sono rocce a ovest. Fate attenzione a quelle e guardate a est ogni tanto. Se vedete qualcosa di scuro nell’acqua da quella parte, gridate. Sarà una lucertola.

— Okay — dissi.

Aveva ragione. La corrente era forte. Sentivo la forza dell’acqua ogni volta che immergevo la pagaia. La barca prese velocità. Ulzai, ritto di fronte a me, non aveva alcuna difficoltà a tenersi in equilibrio. Il braccio era sollevato, la lancia in equilibrio a mezz’aria. Lanciava occhiate attorno, facendo particolare attenzione all’acqua dietro di noi. Doveva essere quella la zona di vero pericolo.

— Rocce — disse Nia. — Davanti a noi.

— Andate a est — ordinò Ulzai. — Siete troppo al largo.

Spostai la pagaia e spinsi in acqua la pala, cercando di far girare la barca. Quello di cui avevo bisogno, davvero bisogno, era il genere di imbarcazione che avevo usato sulla Terra. Oh, cos’avrei dato per l’alluminio!

La canoa incominciò a girare. Provai un senso di sollievo.

Ulzai espirò. Guardai in su. Teneva lo sguardo fisso oltre la mia testa. Mi voltai a dare un’occhiata. C’era qualcosa nell’acqua. Una testa scura. Enorme. Doveva essere grande il doppio dell’animale che avevo visto nella laguna.

— Umazi - disse l’oracolo.

— Non guardare indietro — ordinò Ulzai. — Continua a vogare. E sta’ all’erta qualora ci fossero problemi davanti a noi. Mi occuperò io di questo.

Pagaiai. Dopo un po’ lui disse: — Non è un umazi. La forma della testa è diversa. E non è abbastanza grande.

— Aiya! - esclamò l’oracolo.

La corrente era più turbolenta. C’era schiuma sull’acqua davanti a noi. A una certa distanza verso ovest una sagoma scura si profilava nella nebbia. Una roccia, non un’isola. Eravamo arrivati alle rapide e ci trovavamo ancora troppo al largo.

— Ora la lucertola si fermerà — disse Ulzai. — Odiano l’acqua rapida.

Anch’io, il che mi dava qualcosa in comune con la lucertola. Non sufficiente, però, a costituire la base di un’amicizia.

Ulzai disse: — Deve essere affamata. O pazza. Si sarebbe dovuta fermare.

— Non l’ha fatto? — chiesi.

— Si sta avvicinando.

— Merda! — esclamai in inglese.

Ulzai scagliò la lancia.

Ci fu un urlo e mi guardai attorno. L’animale era dietro di noi. Mio Dio, quasi dentro la barca! Il corpo enorme si contorse. Vidi un ventre chiaro e una schiena scura e coperta di aculei. La lancia di Ulzai sporgeva dalla schiena come un altro aculeo, lungo e sottile. L’animale aprì la bocca. Denti e ancora denti. Lanciò un altro urlo.

Dovevo aver smesso di vogare, sebbene non me ne fossi resa conto. La barca ondeggiò, poi si girò, presa in un vortice, e proseguì di traverso nella corrente.

— Stupida! — sbraitò Ulzai. — Ti avevo detto…

La barca si capovolse. Caddi nell’acqua fredda e impetuosa. Un istante dopo il fiume precipitò oltre un dislivello.

Caddi a testa in giù. La bocca mi si riempì d’acqua mentre il fiume mi risucchiava giù. Non lottai. Questo mi avrebbe uccisa. La regola era farsi portare dalla risacca. Alla fine si risaliva in superficie. Ma la regola valeva per il nuoto nell’oceano.

Cielo, se era difficile non dimenarsi! Mi facevano male i polmoni e stava accadendo qualcosa al mio cervello. Un senso di pressione. Un offuscamento.

Il fiume superò un altro dislivello. Continuavo a girare su me stessa. Aiya! Maledizione!

La corrente rallentò. Ora riuscivo a nuotare. Su. Su. Emersi in superficie, sputai fuori acqua e inspirai.

Ah!

Galleggiai, lasciando che il fiume mi portasse. Inspiravo ed espiravo. Mi dolevano le braccia, la spalla e i polmoni.

Ma ero viva. Sollevai la testa e vidi la nebbia. L’acqua attorno a me era grigia e leggermente increspata. Di fronte a me si profilavano degli alberi: ombre, appena visibili. Un’isola. Ero troppo sfinita per nuotare ancora. Lasciai che la corrente mi portasse verso gli alberi.

C’era della legna galleggiante sulla riva a monte. Un enorme groviglio. Rami e radici si protendevano nell’acqua. Stavo per passarvi accanto. Feci qualche bracciata, quattro o cinque, non sarei riuscita a farne di più, poi mi aggrappai a una radice e rimasi lì appesa. La corrente mi tirava. Respirai. Dentro. Fuori. So. Hum. Pian piano il mio cuore rallentò i suoi battiti. I polmoni non mi facevano più tanto male.

Ma il dolore al braccio stava peggiorando. Stavo per perdere la presa sulla radice. Chiusi gli occhi e pregai Guan Yin, la dea della misericordia, il Bodhisattva della compassione. Fammi uscire viva da qui.

Ritta sul suo fiore di loto, lei sorrise e fece un gesto rassicurante.

Mi tirai su, una mano sopra l’altra, fra il groviglio di legna e mi incuneai lì in mezzo. I rami mi tenevano per metà fuori dall’acqua. Aiya! Mi rilassai. Mi caddero le braccia e le mani entrarono nel fiume. Mi riposai così forse un’ora.

La nebbia si dissolse. Di fronte a me il fiume risplendeva bruno e verdeazzurro. Un grosso uccello sguazzava nell’acqua. Si tuffò e riemerse, poi si tuffò e riemerse di nuovo. Non riuscivo a vedere se aveva catturato qualcosa.

Infine mi tirai fuori completamente dall’acqua e incominciai a inerpicarmi fra l’intrico di rami e di radici, dirigendomi verso la sponda dell’isola.

Lixia

Quando raggiunsi la riva ero nuovamente stremata. Mi sedetti sulla spiaggia di sabbia di un grigio tenue. Di fronte a me c’era il legname galleggiante: una barriera bianca e grigia che nascondeva il fiume. Alle mie spalle… Mi guardai attorno: alberi e cespugli.

Dopo un po’ pensai agli altri. Che fine avevano fatto?

Avevo visto Derek fare vasche nella grande piscina della nave. Se la cavava bene in acqua, quasi quanto me, e io ero cresciuta presso l’oceano. Probabilmente ne sapeva meno di me sull’acqua burrascosa, ma era sopravvissuto a un sacco di situazioni veramente difficili.

Quanto ai nativi, non avevo la minima idea se sapessero nuotare. Forse il fiume li aveva uccisi. Un’idea spaventosa. Rabbrividii, a dispetto del sole infocato e dei vestiti ormai quasi asciutti.

Decisi di fare un inventario. Che cosa avevo? Una camicia di denim. Jeans. Biancheria. Avevo perso i miei stivali e mi restava un solo calzino. Mi frugai nelle tasche e trovai un accendino che non funzionava. Doveva esservi entrata l’acqua. L’avrei provato più tardi. Un coltello pieghevole. Una pietra rotonda e grigia con dentro un fossile. Della garza.

Era tutto qui, a parte il registratore audiovisivo sulla sua catena che avevo al collo. Lo toccai. Era caldo al tatto. Lì dentro c’era un trasmettitore, molto piccolo, che trasmetteva un segnale che consentiva di rintracciare chi lo portava. Non aveva una lunga portata, ma quelli sulla nave sapevano già approssimativamente dove mi trovavo. Se avessero deciso di cercarmi, mi avrebbero trovata. Tutto quello che dovevo fare era restare in vita e sperare che venissero a cercarmi.

Per trovarmi rapidamente, avrebbero dovuto usare delle macchine: motobarche o aeroplani. Provai a immaginare Eddie che dava il suo consenso a una ricerca del genere. Era poco probabile. Ma non c’era solo lui sulla nave.

Mi tolsi il calzino che mi restava, lo piegai e me lo ficcai in una tasca, poi mi alzai e mi tolsi la sabbia dai vestiti. Era ora di andare in esplorazione.

Girai attorno al perimetro dell’isola, tenendomi il più possibile vicina alla riva. Non trovai alcuna impronta: un buon segno. Significava che non c’erano grossi animali sull’isola. Significava anche che dovevo aprirmi un varco nella vegetazione. Scavalcai tronchi e passai sotto rami di alberi. Ovunque crescevano rampicanti, formando liane che erano quasi tropicali. Gli insetti mi ronzavano attorno, ma non mordevano.

Un paio di volte mi trovai di fronte del fogliame troppo fitto per addentrarvisi. Seguii quindi il fiume, sguazzando nell’acqua bassa. Minuscoli pesci guizzavano davanti a me.

Quando ebbi fatto un mezzo giro dell’isola, mi tagliai un piede. Non avrei saputo dire con certezza su che cosa: una pietra aguzza o la conchiglia di un animale di fiume. Il taglio non era profondo, ma sanguinava. Dopo di che mi tenni fuori dall’acqua.

Quando tornai al punto di partenza era ormai pomeriggio inoltrato. Le ombre si allungavano sulla spiaggia, raggiungendo il groviglio di legname galleggiante.

Mi sedetti. Che cosa avevo scoperto?

L’isola si trovava sotto le rapide. Le avevo intraviste mentre mi inerpicavo fra i cespugli all’estremità settentrionale.

A ovest c’erano altre isole. In quel punto l’acqua era tranquilla e la riva del fiume era lontana. Non ero neppure certa che fosse quella che vedevo. La linea indistinta poteva essere una palude o un’altra serie di isole con i contorni che si confondevano nella foschia della tarda estate.

A est c’era il letto principale del fiume. L’acqua era profonda e la corrente rapida. Aveva intaccato l’isola, formando una riva scoscesa, quasi verticale. Lungo la sommità crescevano alberi e le loro radici si allungavano nel vuoto, in cerca del terriccio che era sparito. Molti si sporgevano sopra l’acqua e qualcuno vi era caduto. Il fiume vi scorreva accanto veloce, dando strattoni alle foglie gialle.

Il letto non era particolarmente ampio. Avrei potuto raggiungere a nuoto la terraferma. Non oggi, però. Ero stanca e il taglio nel piede non aveva smesso di sanguinare. Non volevo incontrare un’altra lucertola. Una buona notte di riposo e avrei potuto attraversare il fiume. Forse avrei trovato qualcuno. Nia. Derek. L’oracolo. Ulzai.

O Bodhisattva, o Compassionevole, salva quelle persone.

Mi avvicinai alla riva del fiume, tirai su acqua con le mani e bevvi. Aveva un gusto strano, ma era improbabile che mi uccidesse, e ne avevo già inghiottita parecchia. Ne bevvi ancora un po’, poi tornai verso la foresta e mi sedetti, appoggiandomi contro un albero.

Mi svegliarono gli insetti. Mi ronzavano nelle orecchie e mi camminavano sulla faccia. Un paio mi morsicarono. Li scacciai con la mano, ma non servì a niente. Tornarono e mi morsicarono di nuovo. Mi alzai e mi misi a camminare lungo la spiaggia. Il cielo risplendeva di stelle. Riuscivo a vedere chiaramente la Via Lattea: un ampio e brillante nastro di luce. Una meteora cadde più a est. Una splendida notte!

Fatta eccezione per gli insetti. Mi seguivano. Erano assai peggiori di quanto fossero mai stati in precedenza. Perché? Finalmente ne avevo trovato una specie che amava l’odore degli umani? O avevo incominciato a odorare come i nativi? Mangiavo il loro cibo da più di 60 giorni ormai.

Raggiunsi la sponda del fiume e guardai verso il largo. Potevo entrare nell’acqua. Gli insetti non sarebbero stati in grado di morsicarmi sott’acqua. Ma lì c’erano le lucertole.

Mi voltai e tornai da dove ero venuta. Doveva pur esserci qualcosa da fare. Coprirmi con qualosa. Trovare un modo di accendere un fuoco.

Mi tornarono alla mente le parole di un insegnante al college: "Ricordatevi sempre, in una società con una tecnologia preindustriale ogni cosa impiega molto più tempo di quanto pensiate. Ogni cosa comporta molto più lavoro. E ci sono quasi sempre un sacco di insetti".

Cadde un’altra meteora: una grande, verso sud. Aveva una punta bianca e una lunga coda rossastra. Incominciai ad accorgermi di una strana sensazione all’epigastrio. O era all’inguine? Un po’ di male. No. Qualcosa di più intenso. Un dolore ben definito.

Spasmi mestruali! Non potevo crederci. Avevo una capsula inserita nel braccio che avrebbe dovuto rilasciare ormoni a un determinato ritmo per 180 giorni. Ero al sicuro per sei mesi. Nessuna mestruazione. Nessuno spasmo. Niente sangue. Be’, forse qualche piccola macchia. Ci avevano avvertito di questa possibilità. Il livello ormonale era stato ridotto il più possibile.

Che cosa era andato storto? La capsula era difettosa? Forse era stato lo stress. Ne avevo passate parecchie in quegli ultimi giorni. E lo stress poteva avere notevoli effetti sul sistema endocrino.

Continuai a camminare. Il dolore peggiorò e gli insetti continuavano a seguirmi e a morsicarmi.

Sapevo qual era la cosa migliore da fare. Prendere una coperta elettrica e un recipiente di tè corretto con whiskey. Infilarmi nel letto nella mia cabina. Accendere la coperta e bere il tè. Ascoltare musica. Dormire. Purroppo però…

All’alba incominciò il flusso. Gli spasmi si fecero meno forti. Gli insetti divennero meno attivi. Mi sedetti. Il sole sorse e gli ultimi insetti se ne andarono. Mi coricai e mi coprii la faccia con il braccio.

Sognai. C’era una torre che somigliava a quella di Inahooli. Si trovava nelle Hawaii, nel cortile sul davanti della mia casa, circondata da alberi di plumeria in fiore.

Ero seduta vicino alla torre all’ombra di un albero e parlavo con qualcuno. Stavamo discutendo. All’inizio non avevo idea di chi fosse la persona. Poi mi resi conto che era piccolissima, mi arrivava più o meno al ginocchio. Continuava a mutare mentre parlava, rimpicciolendosi, poi ingrandendosi, poi rimpicciolendosi di nuovo. Oltre alle dimensioni, cambiava anche forma. A volte pareva essere un minuscolo umano. Altre volte era una minuscola persona pelosa. La cosa più strana era che a volte sembrava un insetto, ritto su sei zampe, che agitava verso di me un paio di avambracci. Era sempre bruno e lucente, del colore di una blatta. Non avrei saputo dire di che sesso fosse.

Aveva una voce acuta e stridula.

— Io sono il Piccolo Spirito Insetto. Appaio alle persone quando incominciano a prendersi troppo seriamente. Loro credono di essere grandi. Io le riduco alla giusta misura.

Questo mi mandò in collera. Cercai di parlare, ma non riuscivo a rimettere ordine nei miei pensieri.

La creatura proseguì: — Io sono la pietra sotto i tuoi piedi. Sono l’insetto che ti morde nel sedere. Sono la scoreggia che ti viene quando ti presentano a un importante professore in visita. Sono gli spasmi mestruali e la diarrea.

Mi stavo infuriando ancora di più.

— I miei strumenti sono inganni e menzogne, malintesi e infortuni. Tutto ciò che è stupido e poco dignitoso capita a causa mia. Hola! Sono importante!

Cercai di afferrare l’individuo, ma mi scappò via e rimasi sola, sentendomi felice.

Una voce disse: — Non serve a niente.

Guardai in su. Il tipo era sopra di me, seduto su un ramo, circondato da fiori di plumeria color panna. Agitava le sue antenne. Il suo corpo scuro luccicava.

— L’oracolo penserà che sia accaduto a causa degli spiriti della grotta. Ulzai penserà che sia accaduto a causa degli umazi. Nia si sentirà colpevole e furiosa, come se fosse lei la responsabile. E tu penserai che la barca si sia capovolta senza alcun motivo.

"Te l’assicuro, sono stato io. Hola! Sono speciale, anche se sono piccolo!" Distese le ali e volò via, facendo un suono ronzante. Oltrepassò la torre e sparì nel cielo verdeazzurro.

Mi svegliai. Era metà mattina e giacevo al sole sotto un cielo terso dello stesso colore del cielo del mio sogno. Per un po’ mi sentii confusa. Dove mi trovavo? Non nelle Hawaii. E neppure nel Minnesota. Mi tirai su a sedere e ricordai. Ero a 18 anni luce da casa. La pelle mi prudeva. Mi guardai le braccia. Erano coperte di bernoccoli.

— Non farti prendere dal panico — mi dissi dopo un momento di terrore. — Sono morsicature di insetti, e le zanzare del Minnesota ti hanno conciata anche peggio.

La mia voce risuonò calma. Era confortante. Mi alzai. Avevo i vestiti appiccicati addosso. Sudore, per lo più. C’era una chiazza scura al cavallo dei miei jeans. Sudore e sangue.

La prima cosa da fare era un bagno, poi lavare i miei indumenti e fare il mio yoga.

Scesi lungo la spiaggia finché non fui oltre la barriera di legname. Quindi scavai un buco nella sabbia vicino all’acqua. Fu un lavoro lento. Non avevo nessun attrezzo a parte le mani e un pezzo di legno.

Quando la buca fu abbastanza grande, scavai un canale fino al fiume. L’acqua si riversò dentro. Mi svestii, mi inginocchiai nella piccola pozza sabbiosa e mi lavai, usando come strofinaccio il solo calzino rimastomi.

Dopo di che vi misi a mollo i miei indumenti e feci lo yoga. Terminai con la meditazione, fissando il fiume con gli occhi semichiusi. La luce scintillava sull’acqua verde e bruna. O gioiello del loto.

Strizzai i miei vestiti e li stesi sulla sabbia ad asciugare, mi sedetti ed esaminai la mia attrezzatura. Questa volta l’accendino si accese. Lo provai su un pezzo di legna, che prese subito fuoco. Questo mi risolveva due problemi: gli insetti e il modo di mandare segnali ad altre persone.

Misi da parte l’accendino ed esaminai il coltello. La lama era lunga dieci centimetri, fatta di acciaio inossidabile. Tagliente. Potevo usarla per tagliare a pezzi il cibo.

Non avevo intenzione di provare ad attraversare il fiume finché non avessi finito di mestruare, il che significava rimanere bloccata sull’isola per almeno quattro giorni. Che cosa avrei mangiato?

Potevo digiunare, naturalmente. L’avevo già fatto in precedenza. Ma probabilmente avrei finito con l’essere troppo debole per nuotare; inoltre, cercare cibo era un’occupazione. Una volta avevo letto un libro di Leona Field, una dei capi della seconda rivoluzione americana. Capo era la parola sbagliata. Leona era un’anarchica; non credeva nei capi. Aveva passato buona parte della sua vita aspettando, in prigione e fuori. Il suo consiglio era: programmate la prossima mossa, siate pazienti, tenetevi occupati. Decisi di seguire il suo consiglio.

Che cosa avevo a disposizione? Pesci nel fiume. Gli alberi erano pieni di uccelli e avevo visto un animaletto grande all’incirca come uno scoiattolo. Era peloso e arboricolo con una lunga coda che sembrava prensile. L’animale era comune sull’isola.

Non avevo modo di catturare gli uccelli o gli animaletti pelosi. Forse sarei riuscita a fabbricare una trappola per i pesci. Avevo osservato Nia.

E c’erano le piante. Nutrivo qualche preoccupazione su queste. Gli organismi che non erano in grado di fuggire ricorrevano spesso al veleno come protezione.

Avrei potuto raccogliere qualche esemplare adatto e provarlo mangiandone piccole quantità.

C’erano anche gli insetti. I bruchi erano una fonte di proteine. Non pensavo che potessero essere velenosi.

E animali diversi dai pesci? Esistevano cose come molluschi o gamberi? C’erano parecchie cose che non sapevo di questo pianeta.

Era ora di andare ancora in esplorazione. Usai il calzino bagnato per lavarmi le gambe e intanto pensavo che avrei dovuto trovare qualcosa da usare come assorbente igienico. Era un maledetto pasticcio e forse pericoloso. Non mi andava l’idea di lasciare una traccia di sangue. Risciacquai il calzino e lo stesi ad asciugare, poi indossai la biancheria e la camicia e mi diressi verso la foresta.

Durante le due ore successive sollevai rami caduti e capovolsi pietre, raccolsi foglie ed estirpai radici. Faceva un caldo terribile fra gli alberi. Dopo un po’ mi tolsi la camicia e la usai come sporta. Il sudore mi scorreva lungo la schiena e fra i seni. Gli insetti mi ronzavano attorno. Soltanto alcuni morsicavano, ma non sapevo perché. Forse c’era soltanto una specie che pensava che fossi commestibile, e quella specie usciva di notte. Forse… Al diavolo. Non avevo intenzione di teorizzare.

Trovai un arbusto pieno di bacche rotonde e violacee. Quando mi avvicinai gli uccelli si levarono in volo. Il terreno era coperto di escrementi di un bianco violaceo. Sembrava indicare che le bacche erano commestibili.

Un ramo morto si rivelò essere il rifugio di parecchi bruchi gialli. Misi anche questi nella mia sporta. Si contorcevano fra le bacche.

Su un altro ramo morto non trovai vita animale, ma la scorza interna era morbida e veniva via facilmente in lunghi fogli. Dovevo essere in grado di ricavarne un pannolino. La corteccia andò a far compagnia ai bruchi e alle bacche.

Passai una buona mezz’ora a osservare gli animali arboricoli. Zufolavano e stridevano e mi lanciavano oggetti. Per lo più ramoscelli. Restai dov’ero a fissarli, sperando che mi gettassero qualcosa di utile. Uno alla fine lo fece. Un frutto mangiato a metà. Lo raccolsi.

In qualche parte dell’isola c’era un albero che produceva frutti ovali, color blu indaco e commestibili. Misi il frutto nella sacca, vi aggiunsi qualche esemplare di vita vegetale e tornai alla spiaggia.

I miei vestiti erano quasi asciutti. Mi lavai di nuovo, poi fabbricai un pannolino con la corteccia. Il risultato non era particolarmente bello e non avevo modo di fissarlo ai pantaloni. Uno dei membri anziani della mia famiglia mi aveva ripetuto più volte: "Non andare mai da nessuna parte senza almeno un paio di spille da balia".

Eccomi qui, anni e anni luce da casa, su un pianeta di un altro sistema solare, a dimostrare che Perdita aveva ragione.

Indossai i jeans e vi infilai dentro il pannolino. Con un po’ di fortuna, sarebbe rimasto al suo posto.

Tirai fuori il frutto color indaco — i bruchi erano ancora vivi — e tagliai via la parte che era stata rosicchiata dall’animale arboricolo. Mangiai il resto. Era dolce e pastoso. Non male, sebbene preferissi frutta un po’ meno matura.

E poi? Incominciavo a sentirmi affamata, ma non abbastanza da mangiare i bruchi. Avrei dovuto trovare un uso per loro. Sarebbe stato uno spreco lasciarli morire. Se non potevano costituire la cena, sarebbero serviti da esca.

Lanciai un’occhiata al cielo. Era ancora pieno di luce. Avrei dovuto avere il tempo di fabbricare una trappola per i pesci. Avevo visto una pianta al centro dell’isola che probabilmente sarei riuscita a utilizzare.

Portai all’ombra la mia sporta piena di larve, la lasciai lì e tornai nella foresta.

C’era una leggera depressione al centro dell’isola. Il terreno era paludoso e la principale forma di vegetazione era qualcosa che somigliava a una canna. Ogni pianta consisteva di un unico stelo violaceo alto poco più di due metri. In cima a ogni stelo c’era una cresta fatta di fibre color magenta, simili a fili di ragnatela, tanto erano sottili e delicati.

Tagliai una dozzina di steli. Mentre segavo, le piante tremolavano e le fibre color magenta si staccavano.

Quando ebbi quasi finito, notai che tutte le piante perdevano le loro fibre, anche quelle che non avevo toccato affatto e alle quali non mi ero neppure avvicinata. Alcune delle fibre caddero lentamente al suolo e finirono nel fango. La maggior parte si allontanò fluttuando, attorcigliandosi e avvolgendosi, portata da correnti che non riuscivo a sentire. Qualcuna mi cadde addosso. Erano comuni, come filo. Me le spazzolai via con la mano e finii di tagliare. Quando ebbi terminato, l’intera pianta era spoglia.

Non ero in grado di stabilire quanto avesse visto il mio registratore, che penzolava e oscillava all’estremità della sua catena. Descrissi ad alta voce quello che era successo. — Ritengo che le fibre siano fiori o forse stoloni che viaggiano nell’aria. Le piante li liberano quando vengono ferite. In qualche modo le piante sono collegate. Una ferita inferta a una è una ferita a tutte. Se mi sbaglio e le fibre sono un sistema di protezione, forse questo messaggio servirà da avvertimento. — Riportai alla spiaggia i miei steli.

Ora, della corda. Decisi di usare il mio calzino. Era fatto di un filato veramente eccezionale, un misto di cotone e fibra sintetica, non assorbente come il cotone ma di gran lunga più resistente. Il calzino non aveva un buco, neppure dopo tutto il viaggiare che avevo fatto.

Fabbricai la mia trappola, fermandomi di quando in quando a chiudere gli occhi e a cercare d’immaginare Nia al lavoro, mentre piegava e fissava i rami. Aveva dita abili, il dorso coperto di pelliccia bruna. Il palmo nudo e scuro. Avambracci muscolosi. E la voce, profonda e lenta, spiegava quello che stava facendo.

Quanto mi mancavano quelle persone!

Vi misi anche una pietra come peso, come mi aveva detto lei, e poi i bruchi. Questi stavano diventando meno vivaci. Entrai con i piedi nel fiume. In quel tratto, di fronte alla mia spiaggia, era poco profondo. C’era un’insenatura protetta da un groviglio di detriti di legna. Dove questi finivano, il fondo del fiume scendeva. Da trasparente l’acqua diventava di un bruno verdognolo scuro e opaco. Un salto. Sistemai lì la mia trappola, proprio accanto al salto e vicino al groviglio di legna.

Tornai a riva e guardai giù nell’acqua. C’erano tracce nella sabbia. Ne seguii una. Scavai dove finiva. Aiya! Qualcosa di duro! Lo tirai fuori. Un cono grigio, pieno di tentacoli rosa. I tentacoli si agitavano freneticamente.

Gettai la creatura sulla riva e continuai la mia caccia. Trovai una mezza dozzina di quegli animali. Decisi di chiamarli calamari. I gusci andavano dai cinque ai dieci centimetri di lunghezza e gli animali mi sembravano commestibili. Più dei bruchi o delle diverse piante che avevo raccolto.

Il sole ormai era basso. La mia spiaggia era in ombra. Raccolsi della legna e accesi un fuoco. Spuntarono le stelle. Avvolsi un calamaro con delle foglie e l’arrostii nella brace. Sfrigolò ma non lanciò strida, cosa di cui fui grata. Ero disposta a uccidere animali e a mangiarli, accettavo quell’aggiunta al mio fardello karmico, ma non mi andava che le mie vittime fossero chiassose.

Tolsi dal fuoco l’involto di foglie e lo scartocciai. Il guscio era ancora grigio, i tentacoli avevano preso un bel color rosso ciliegia. Aprii il coltello ed estrassi l’animale dal guscio. Il corpo era a forma di cono e screziato di rosso e arancione. L’annusai. Non aveva alcun odore particolare. Lo aprii. Dentro non c’era niente di ripugnante. Non c’erano visceri pieni di sostanza nera, né alcuna sacca di inchiostro o veleno. Non c’erano lische né aculei.

— Avanti. — Lo mangiai. Era gommoso e aveva un gusto piccante. Mi piaceva.

Pensai di cuocere un altro animale, ma decisi di aspettare e vedere se il primo non mi avrebbe uccisa.

Una decisione difficile. Il mio stomaco brontolava. Potevo mangiare delle bacche. No. Un cibo alla volta. Se mi sentivo male, volevo poter stabilire quale evitare in futuro.

Gli insetti emersero dall’oscurità. Misi altra legna sul fuoco e cambiai posizione. Ora ero circondata dal fumo e gli insetti mi lasciarono in pace.

Dopo un’ora circa guardai i rimanenti animali. I loro tentacoli si muovevano debolmente. Stavano morendo. Se erano come i molluschi sulla Terra, sarebbero andati rapidamente a male. E io incominciavo ad avere davvero fame. Decisi di correre il rischio. Li avvolsi nelle foglie e li misi nella brace. Sfrigolarono.

Come potevo chiedere compassione al Bodhisattva quando io non provavo niente per quei piccoli esseri all’infuori di un inutile senso di colpa? E che cosa diavolo c’era che non andava in me? Stavo forse tornando indietro? Ero una persona moderna, una nativa delle Hawaii. Non sapevo niente delle credenze religiose degli antichi cinesi, a parte quello che avevo letto nei libri o sentito dire quando avevo fatto uno studio sulla comunità cinese di Melbourne. Perché dunque pregavo il Bodhisattva? E perché mi preoccupavo di ciò che succedeva a quegli sventurati animaletti? Misi altra legna sul fuoco.

Mangiai i calamari rimasti, poi raccontai al registratore quello che avevo fatto e mi misi a dormire. Mi svegliai la mattina dopo, sentendomi perfettamente bene.

Un’altra giornata radiosa. Feci visita a un tronco nella foresta e intanto pensai bramosamente ai bagni della nave. Mi lavai sulla riva del fiume, mangiai delle bacche, mi procurai della corteccia e mi feci un nuovo pannolino, mi misi quella dannata cosa e seppellii quella precedente. Infine entrai nell’acqua e andai a controllare la mia trappola per i pesci. La tirai su.

Avevo preso qualcosa, ma non era un pesce.

Se ne stava rannicchiato al centro della trappola, le zampe ripiegate. Contai dieci zampe. Ciascuna era lunga e sottile, piegata tre volte. Il corpo era rotondo e duro, con strisce e macchie marrone scuro e chiaro. A un’estremità c’era una testa, che consisteva in mandibole e occhi. Le mandibole scattarono. Gli occhi mi guardarono con astio. Li contai. L’animale aveva sei occhi, quattro grandi e due piccoli. Erano tutti sfaccettati. Avevo catturato un grosso ragno in un guscio duro. Un ragno con troppe zampe.

Clic. Clic.

Avevo desiderato un piccolo pesce gustoso.

— Okay — dissi. — Sei commestibile? Come ti cucino?

Clic.

Forse era delizioso, almeno quanto il calamaro. Le zampe ripiegate si mossero leggermente. Gli occhi mi guardavano furiosi. Naturalmente ero io a leggere un’espressione negli occhi, che apparivano come perline nere e, in realtà, non esprimevano nulla. Le mandibole scattarono. Aprii la trappola e la scossi.

L’animale cadde nell’acqua e sparì. Riportai a riva la trappola e la misi giù. Poi tornai verso l’insenatura. Sguazzai qua e là nell’acqua, cercando tracce nella sabbia, e trovai tre calamari. Furono la mia colazione.

Quando ebbi finito, andai nuovamente a esplorare la foresta. Trovai altre larve e una pianta che aveva un aspetto familiare. Aveva foglie azzurre arricciate e una radice grassa. Ero quasi certa che Nia avesse raccolto piante come quella. Ricordavo che aveva arrostito la radice. Era amidacea e insipida, ma saziava. Ne cavai nove o dieci.

Gli animali arboricoli facevano rumori sopra di me. Mi lanciarono altri ramoscelli. Aspettai, sperando in un altro frutto, ma non fui più così fortunata. Alla fine rinunciai e tornai sulla riva, misi altre esche nella trappola e raccolsi legna. Incominciavo a provare una certa noia. Sarei rimasta bloccata su quell’isola per altri tre o quattro giorni. Non sarei morta di fame e non avevo bisogno di un rifugio. Che cosa avrei fatto?

Mi grattai distrattamente. Potevo cercare un insettifugo naturale. Potevo esercitare la mia calligrafia nella sabbia. Potevo dormire quanto volevo o trattare con gli spiriti: Guan Yin e la Madre delle Madri o il curioso spiritello che mi era apparso in sogno.

Per domandare loro che cosa? Di salvare me e i miei amici.

Potevo pensare a quello che avrei fatto dopo aver attraversato il fiume. Laggiù c’era la foresta. Tanajin aveva accennato a un animale chiamato assassino-delle-foreste. Non sembrava affatto qualcosa che avrei voluto incontrare. E le lucertole? Erano animali migratori. Non amavano l’acqua veloce. Forse viaggiavano via terra quando arrivavano alle rapide. Le immaginai, enormi, scure e pericolose, che si aggiravano fra le ombre della foresta.

Quanto erano veloci sulla terra? Ero in grado di correre più veloce di loro?

Potevo accendere un falò di segnalazione. Se i miei amici erano vivi, l’avrebbero visto.

Decisi di accendere il falò. Non oggi. Il sole era già a occidente. Quando avessi raccolto legna a sufficienza sarebbe stata ormai notte. Quello doveva essere il programma per l’indomani.

Controllai di nuovo la trappola. Era vuota. Cercai altri calamari, ma non ne trovai nessuno. Per cena mi restavano le radici. Le lavai nel fiume e le arrostii sul fuoco.

Il sole tramontò. Mangiai le radici. Non sapevano di niente in particolare. Descrissi al mio registratore le radici e la creatura che avevo trovato nella trappola. Poi mi misi a dormire.

Mi svegliai con un attacco di indigestione. Il fuoco non era che un mucchio di braci. Il cielo era pieno di stelle. E io soffrivo di un terribile caso di gas intestinale.

Quelle maledette radici! Dovevo essermi sbagliata. Non erano della specie che aveva trovato Nia. Riaccesi il fuoco e mi sedetti lì accanto, aspettando che il dolore passasse o peggiorasse.

Se ne fossi uscita viva, avrei dato un nome a quel luogo. Se necessario, avrei controllato i membri del team cartografico mentre inserivano l’informazione. Con ogni probabilità l’avrei chiamato Isola del Piccolo Insetto, benché mi piacesse anche Isola delle Piccole Seccature. Suonava bene. Immaginai le persone del futuro che leggevano il nome e dicevano: "Qui dev’esserci una storia. Quali erano le seccature? E chi era la persona seccata?".

Finalmente il dolore cessò. Tornai a dormire.

La mattina seguente era soleggiata con una leggera foschia, fresca per il momento. Andai a vedere la mia trappola.

Ah! C’era un pesce. Era grosso e arancione con una pinna dorsale blu scuro. Attorno alla bocca aveva lunghi filamenti sottili color azzurro chiaro. Si muovevano lentamente, tastando l’aria o forse assaporandola.

— Come sei brutto — dissi.

Il pesce aprì la bocca e gracidò.

— Lo stesso vale per me, eh?

Il pesce gracidò di nuovo.

Non avevo particolarmente fame, non dopo una notte di indigestione. Il pesce si sarebbe conservato. Rimisi nell’acqua la trappola e tornai a riva.

Trascorsi la mattinata raccogliendo legna. Entro mezzogiorno ero in un bagno di sudore e provavo un po’ di nausa a causa della calura. Il cielo era pieno di nuvole alte, appena visibili attraverso la foschia. Gli alberi lungo la mia spiaggia erano immobili. Ci sarebbe stato un temporale, ma non subito. Accesi il falò di segnalazione.

Prese lentamente. Aggiunsi foglie secche e frammenti di corteccia. Le fiamme lambirono i bianchi rami contorti. Si levò il fumo. Il calore era intenso. Arretrai e mi guardai attorno. Il cielo era sgombro all’infuori delle nuvole e della foschia.

Non c’era nessun altro che faceva segnalazioni.

Abbi pazienza, mi dissi. Aggiunsi altra legna.

Tenni il fuoco acceso per buona parte del pomeriggio. Si ammassarono altre nuvole e incominciò a soffiare il vento. Invece di salire verso l’alto, la mia scia di fumo si allungava di lato. Andai a prendere il mio pesce e lo uccisi, lo pulii e lo arrostii fra le braci ai margini del fuoco.

Ora c’erano creste spumeggianti sul fiume e il tuono brontolava verso ovest. Mangiai il pesce. Sapeva di fango. Avrei dovuto tenerlo vivo per tre giorni in acqua corrente pulita o altrimenti affumicarlo. Era quello che si faceva con la carpa. Mi leccai le dita. Inominciarono a cadere le prime gocce di pioggia, sibilando nel fuoco. Mi misi al riparo degli alberi.

Guizzavano i fulmini e i tuoni facevano rumori assordanti. La pioggia veniva giù a torrenti che spazzavano il fiume, gonfiandosi di fronte al vento. Mi raggomitolai sotto un cespuglio mentre l’acqua grondava fra le foglie sovrastanti, formando pozze sul terreno.

Finalmente il temporale si spostò verso est. La pioggia cessò. Uscii strisciando da sotto il mio cespuglio, mi tolsi i vestiti e li strizzai, poi andai a controllare il mio fuoco. La legna era fradicia. Non c’era modo di riaccenderlo. Forse l’indomani.

Ma il giorno seguente era tutto ancora bagnato e trascorsi la giornata a cercare provviste. I calamari erano spariti. Trovai nuovi bruchi e l’albero dai frutti color blu indaco. L’albero aveva il tronco diritto e i frutti si trovavano molto in alto. Non era un problema. I rami erano pieni di animali. Restai lì in attesa. Gli animali incominciarono ad agitarsi. Stridevano e fischiavano.

— Altrettanto a voi — dissi.

Lanciarono frutta e io la raccolsi. Loro fecero versi ancora più furiosi.

— Idem.

Misi altre esche nella mia trappola e riaccesi il fuoco per cucinare, poi mi feci un nuovo pannolino. Il flusso era quasi cessato. Ancora un giorno o due e sarei stata in grado di lasciare l’isola.

Mangiai pesce freddo e un frutto come dessert, quindi passai il pomeriggio riposando. Verso il tramonto controllai la trappola. Niente. La calai di nuovo nell’acqua e sentii un rumore. Guardai in su. Uccelli. Erano così in alto che non riuscivo a distinguere alcun particolare. Senza dubbio erano numerosi. Lo stormo si estendeva da nord a sud in ogni direzione fin dove riuscivo a vedere. Era un branco che ondeggiava in continuazione, allargandosi, poi restringendosi, a volte frantumandosi per poi riformarsi. C’erano migliaia di uccelli lassù. Forse milioni. Si lanciavano richiami mentre volavano e le loro grida erano acute e stridule e si udivano chiaramente nonostante la distanza. Andarono avanti così. Non avevo mai visto tanti uccelli in una volta sola.

Finalmente si vide la fine dello stormo. Alcuni sbandati, gruppetti secondari, che seguivano tutti gli altri. Un centinaio qui, duecento là. Volavano a sud, gridando: — Ehi, aspettateci.

Poi il cielo tornò a essere vuoto. Risalii sulla riva.

Una migrazione autunnale. Le lucertole andavano a sud via acqua. Gli uccelli andavano a sud in volo. Ma così tanti! Mi tornò alla mente quanto avevo letto sull’America prima dell’arrivo della civilizzazione. Branchi di bisonti che coprivano la prateria. Stormi di uccelli che oscuravano il cielo a mezzogiorno.

Mi grattai la testa. Mi prudeva. Avevo bisogno di sapone e di una doccia.

Il giorno seguente era limpido e luminoso. Accesi di nuovo il falò di segnalazione. Questa volta prese. A mezzogiorno controllai la mia trappola. Le larve erano sparite. Qualche animale se le era mangiate e se ne era andato. Andai di nuovo in cerca di viveri lungo le sponde dell’isola. Trovai alcuni pesci morti. Lo erano da un po’ di tempo e non avevano un aspetto invitante. All’estremità meridionale dell’isola trovai un animale. Un bipede. Giaceva sulla spiaggia, per metà dentro nell’acqua. Morto, ma non da molto. Era lungo meno di un metro. Le sue penne erano verdeazzurre, lo stesso colore del cielo, e aveva una lunga cresta rossa. Le zampe anteriori finivano in fragili artigli. Le zampe posteriori erano fatte per correre. La bocca aperta era piena di denti. Un grazioso piccolo predatore. Di che cosa si cibava? Grossi insetti volanti? O forse piccole creature pelose.

Lo portai fino al mio fuoco e lo tagliai a pezzi. Ne seppellii la maggior parte e usai un paio di frammenti come esca per la mia trappola.

Dopo di che mi sedetti a osservare il fiume, cercando eventuali lucertole. Non ne vidi. Non dovevano esserci rischi ad attraversare a nuoto.

Verso sera scorsi una scia di fumo più a est di dove mi trovavo. Verso valle. Mi alzai e sorrisi a quella linea sottile, simile a un tratto di matita. Avevo compagnia. Avrei aspettato un altro giorno e tenuto il fuoco acceso. Se non fosse venuto nessuno da me, avrei disceso il fiume.

Mi chiesi brevemente chi avesse fatto quel fuoco. Uno dei miei compagni o qualcun altro? Un cacciatore solitario. Un gruppo di donne in viaggio. Mercanti del Popolo dell’Ambra.

Era inutile fare congetture. Non avevo nessuna reale informazione. Feci il mio yoga, poi meditai, fissando il fumo.

Per cena mangiai un frutto. Dormii male, afflitta dalla cattiva digestione.

L’indomani il cielo era nuvoloso. Sentivo la pioggia nell’aria. Maledizione! Guardai verso est. Non c’era alcun segno dell’altro fuoco. Forse l’avevano lasciato spegnere durante la notte. Forse il fumo era invisibile contro il basso cielo grigio.

Controllai la mia trappola. Era di nuovo vuota. Così dissotterrai il bipede e ne usai un altro pezzo come esca. Poi esaminai anche il mio pannolino. Nessuna traccia di sangue. Dovevo essere in grado di attraversare a nuoto il fiume. Tolsi il pannolino e lo seppellii, poi riaccesi il fuoco.

All’incirca a metà mattina incominciò a piovere. Una pioggia sottile e brumosa. Il mio falò continuava ad ardere, ma chi l’avrebbe visto? La sponda orientale del fiume era indistinta. Imprecai contro chiunque fosse responsabile del tempo. I quattro venti. Quegli uomini turbolenti! Pregai Guan Yin, anche se non ricordavo se avesse qualcosa a che fare con la meteorologia, e chiesi alla Madre delle Madri di mettere in riga i suoi nipoti.

— E fa’ qualcosa riguardo al Piccolo Spirito Insetto, se puoi.

Forse stavo diventando un po’ pazza. Di norma non parlavo con gli spiriti. Il mio stomaco brontolò. Conclusi che il problema era la frutta. Avevo bisogno di carne o di verdura. Bevvi un po’ d’acqua e controllai la mia trappola. L’esca era ancora lì.

A mezzogiorno comparve un’imbarcazione: una lancia con una cabina e un motore abbastanza grosso. Risaliva lentamente il fiume sotto la pioggia.

Indossai i miei jeans e raccolsi le mie cose: il coltello, l’accendino, il calzino mezzo disfatto. Avrei dovuto spegnere il fuoco, ma come? Era piuttosto grosso. Avrei lasciato che fossero altri a occuparsene. Scesi fino alla riva e gridai e agitai le braccia.

La persona a poppa fece un cenno in risposta. La barca virò nella mia direzione. Entrai con i piedi nell’acqua.

La persona era vestita di verde oliva. Un membro dell’equipaggio. In teoria non c’erano uniformi sulla nave, ma i membri dell’equipaggio tendevano a vestirsi nello stesso modo: pantaloni di denim verde oliva e pullover verde oliva, soffici berretti con l’ala, verde oliva o neri.

Mi spinsi più al largo, fino al bordo del dislivello. La barca si avvicinò, muovendosi sempre più lentamente. La Ivanova. Riconobbi il suo corpo largo e tozzo. A salvarmi era il primo pilota della nave interstellare Number One.

Dalla cabina uscì qualcun altro, più alto della Ivanova e più massiccio, con indosso un paio di jeans e una giacca di denim blu. La camicia era rossa, i capelli lunghi e neri, portati sciolti. Gli cadevano sulle spalle. Il dottor Edward Antoine Turbine di Vento.

La barca si fermò accanto a me. Eddie si sporse in fuori e mi tirò a bordo. Mi abbracciò. — Lixia! Stai bene?

— Sì. — Mi tenni stretta a lui. Tremavo e avevo la sensazione che mi cedessero le ginocchia.

— Portala dentro — disse la Ivanova. Come sempre, la sua voce mi colse di sorpresa. Era una profonda voce di contralto che sarebbe dovuta appartenere a un’attrice o a una cantante. — Di’ ad Agopian di venire qua fuori. È necessario fare qualcosa riguardo a quel fuoco.

Un minuto dopo ero nella cabina. C’era un tappeto sotto i miei piedi nudi. Eddie mi aiutò a sedermi in una poltroncina. Mi appoggiai allo schienale e sentii la stoffa attraverso la camicia: un tessuto ruvido, molto probabilmente fatto a mano.

Tenevo le braccia appoggiate sui braccioli della poltroncina. Piegai le dita al di sotto e sentii il tubo di metallo. Quanto tempo era passato dall’ultima volta che ero stata seduta così, in alto, lontano dal suolo, in una poltrona con uno schienale? Non me lo ricordavo.

Eddie si chinò su di me, l’espressione preoccupata. C’erano altre persone alle sue spalle. Una donna, membro dell’equipaggio, con un viso centroasiatico. Un uomo che sembrava vagamente mediorientale. Un uomo alto e biondo con una tuta azzurro chiaro.

L’uomo biondo mi sorrise e fece il gesto che significava "benvenuta".

Derek.

Eddie disse qualcosa alle persone dell’equipaggio, che uscirono.

Derek domandò: — Stai bene?

— Sì. Eddie, mi sei addosso.

— Scusa.

Si sedettero entrambi. Guardai Derek. — Tu come stai? Che cosa è successo? Sai che cosa sia successo agli altri?

Lui fece il gesto che significava che non sapeva. — Mi sono ritrovato da solo. Dev’essere stato lo stesso per te.

— Sì.

— Ho perso la barca non appena si è capovolta e mi sono aggrappato a un albero che era rimasto impigliato nelle rapide. — Sorrise. — Ero lì, nel bel mezzo delle rapide, che mi tenevo a quel dannato tronco d’albero e mi chiedevo che cosa fare in seguito. Non vedevo nessuno. Non avevo idea di cosa fosse capitato agli altri.

— Che cosa hai fatto?

— Non era il posto adatto per nuotare, ne ero abbastanza sicuro. E non ho mai fatto nessuna esperienza di nuoto nell’acqua turbolenta. Mi sono dato da fare per liberare il tronco e uscire galleggiando dalle rapide.

Feci il gesto che significava "bravo" o "ingegnoso".

— È quello che ho pensato anch’io prima di scoprire come sia difficile manovrare un albero. Soprattutto questo. Era progettato molto male, almeno per la navigazione. Può darsi che avesse fatto bene la sua parte nella precedente attività. — Derek lanciò un’occhiata a Eddie. — Ti racconterò il resto più tardi.

Eddie si protese in avanti. — Sei sicura di sentirti bene, Lixia?

— Non mi fa male niente. Non ho ferite. Sono stanca, e quanto prima avrò voglia di mangiare, ma non adesso.

— Okay. — Si alzò in piedi. — Devo parlare con la Ivanova. Ci sono decisioni da prendere e lei le prenderà da sola se non andrò subito là fuori. Derek, occupati tu di Lixia.

— Le tue parole sono ordini per me.

— Piantala con le fesserie.

Eddie uscì dalla cabina. Mi guardai attorno, vedendo pareti curve e finestre ovali. Il tappeto sul pavimento era di un colore neutro: grigio o marrone chiaro. Tutto l’arredamento dava l’impressione di poter essere piegato o smontato o trasformato in qualcos’altro. I divani lungo le pareti, per esempio. Era evidente che diventavano letti. E i tavolini fra di essi si piegavano dentro le pareti. Le nostre poltroncine avevano cerniere. Era una dimora da nomadi. Mi venne in mente che stavo passando tutta la mia vita viaggiando.

— Ho i miei ordini — disse Derek. — Che cosa ti serve? O che cosa vuoi?

— Ancora niente. Dammi un minuto.

Fece il gesto del tacito consenso.

Chiusi gli occhi. Il tempo passò. Il rumore del motore cambiò. Aprii gli occhi e mi alzai. L’imbarcazione si stava allontanando dalla mia isola. La spiaggia, la mia spiaggia, era deserta. C’erano state delle persone, vedevo le loro orme nella sabbia, e il mio fuoco era coperto di schiuma gialla. La schiuma si stava sciogliendo sotto la pioggia e grondava dai rami, formando una pozza di acqua giallognola. Nella pozza galleggiavano chiazze di schiuma.

Orribile!

Oltrepassammo il groviglio di tronchi galleggianti e risalimmo il fiume verso le rapide.

— Dove stiamo andando?

Derek fece il gesto che significava che non sapeva.

L’uomo basso, Agopian, entrò nella cabina. Chiuse la porta. — La Ivanova mi ha chiesto di prendermi cura di te. È impegnata in una discussione con Eddie.

— Riguardo a che cosa?

— Se cercare o no i tuoi compagni. Eddie dice di no, com’era prevedibile. La Ivanova sostiene che un cosmonauta non si rifiuta mai di cercare persone che potrebbero essere vive e in difficoltà. Nello spazio possiamo solo contare gli uni sugli altri. Che cosa posso fare per te?

Presi una decisione. — Qualcosa da mangiare.

— Non abbiamo una cucina vera e propria. Posso offrirti un sandwich.

— Okay.

Attraversò la cabina, da poppa a prua, e uscì da un’altra porta. Si accese una luce e lo vidi chinarsi e guardare dentro qualcosa: un elemento per cucina. — Abbiamo insalata di uova, caviale, cipolla e pomodoro, e qualcosa che pretende di essere fegato di pollo tritato su pane nero russo.

Feci il gesto della domanda. Lui parve perplesso. Dissi: — Che cosa intendi con "pretende"?

— Io sono armeno e gli armeni hanno la memoria lunga. Ricordo il gusto del pane nero russo. Abbiamo rinunciato a un sacco di cose per andare sulle stelle.

Abbastanza vero. Feci il gesto dell’approvazione.

— Che cosa vuoi? — domandò Agopian.

— Insalata di uova, se non è su pane nero.

— Segale. Non eccezionale, ma accettabile. Vuoi acqua minerale o birra? Abbiamo anche acqua del luogo, distillata ed esente da qualunque cosa che possa essere nociva.

— Acqua minerale.

Tornò portando il cibo. Il sandwich era avvolto nella carta, l’acqua era in una bottiglia di vetro. Su un lato c’era la stampigliatura "Si prega di restituire per il riciclaggio". C’era una scheggiatura sul fondo.

Aprii la bottiglia. L’acqua spumeggiò. Ne bevvi un po’, poi tolsi il sandwich dalla carta e ne mangiai un boccone. Era delizioso. Mi sforzai di mangiare adagio, fermandomi dopo ogni boccone a bere l’acqua, che aveva un leggerissimo gusto di agrumi.

— Derek? — disse Agopian.

— Per me niente.

L’uomo tornò nella cambusa e ne uscì con un’altra bottiglia. Questa era ambrata più che trasparente. Con ogni probabilità conteneva della birra. Si sedette e aprì la bottiglia. Dopo di che ci fu un momento di silenzio. Io mangiavo. Derek appariva stanco, soddisfatto di non fare niente. Agopian beveva la sua birra.

— Certo, ci sono anche dei vantaggi — disse alla fine.

— Che cosa? — domandò Derek.

— Nell’andare fra le stelle. Quando ero ragazzo, avevo due ambizioni. Prendere parte a una rivoluzione e camminare su un altro pianeta alla luce di un altro sole. Una l’ho realizzata, e a seconda del significato che si dà alla parola rivoluzione, può darsi che realizzi anche l’altra. L’incontro con questi individui, i nativi di qui, cambierà la nostra storia.

Finii il sandwich e mi leccai le dita, poi feci il gesto dell’assenso.

— Che cosa significa? — domandò Agopian.

— Sì. Okay. Sono d’accordo con te — rispose Derek.

— Il tuo inglese è eccellente — osservai.

Lui annuì. — Sono stato a Detroit per due anni, quasi tre, a studiare alla Scuola di Storia del Lavoro.

— Sei uno storico? E fai parte dell’equipaggio?

— Ho una laurea in… quale sarebbe la traduzione esatta? Scienza dei computer? Teoria dei computer? Non ingegneria dei computer. So lavorare con le macchine e so parecchio sul modo in cui interagiscono con gli umani. Ma non so affatto che cosa succeda al loro interno.

"Ho anche una laurea in storia e un certificato che dichiara che sono idoneo a navigare nello spazio."

— È un funzionario politico — disse Derek.

— Non c’è una carica simile sulla nave interstellare Number One. Sono un membro del team di navigazione spaziale.

Derek fece il gesto della cortese mancanza di convinzione.

— Posso immaginare che cosa significhi — disse Agopian. Mi diede una breve occhiata. — Sono stato funzionario politico. Per tre anni a bordo dell’Alexandra Kollontai. È un apparecchio per il trasporto merci che fa servizio fra la Stazione di Trasferimento Uno e le colonie L-5. Farei meglio a usare il passato. Era un apparecchio per il trasporto merci. Ormai dev’essere stato riciclato. — Fece una breve pausa. Stava pensando al trascorrere del tempo, una cosa che facevamo tutti in quella spedizione. — Ma non sono più un funzionario politico.

— Tiene lezioni di teoria marxista — disse Derek. — E di storia della lotta di classe.

— Nel tempo libero — precisò Agopian. — Nessuno è tenuto a seguirle.

— Parecchi membri dell’equipaggio lo fanno.

— Perché non dovrebbero? Non è un crimine studiare le idee di Carlo Marx. Non in questo secolo e su questa nave.

Cercai di pensare a un modo di cambiare argomento. Subito non mi venne in mente niente. L’imbarcazione incominciò a oscillare. Agopian si alzò e andò a guardare fuori da un finestrino. — Stiamo girando attorno all’estremità settentrionale della tua isola, Lixia. Stiamo attraversando la corrente e forse ci stiamo avvicinando un po’ troppo alle rapide. A me piacciono le navi che viaggiano nello spazio. Questi piccoli oggetti che viaggiano sull’acqua mi rendono nervoso. Ma la Ivanova è in gamba.

Entrò Eddie, chinando il capo per passare dalla porta della cabina. Era troppo bassa per lui e quasi troppo stretta. — Andremo in cerca di Nia e dell’oracolo.

— Bene — disse Derek.

Eddie si strinse nelle spalle. — Mi sto abituando a perdere nelle dispute. Mi sento come quei vecchi capi e uomini di medicina che dicevano agli europei: "State facendo un errore. Non potete trattare in questo modo la Terra". Avevano ragione loro. Solo che ci sono voluti duecento anni perché se ne accorgessero tutti.

— È in collera — disse Derek.

— Certo che lo sono. — Andò nella cucina e prese una bottiglia di acqua minerale. — Attraverseremo il fiume e discenderemo lungo la sponda occidentale, lentamente. Non arriveremo al nostro campo prima di sera. — Aprì la bottiglia e si sedette, allungando le gambe. L’acqua minerale finì in un paio di sorsi. Mise giù la bottiglia.

Non volevo aver niente a che fare con la sua collera né con qualunque gioco Derek stesse facendo con Agopian. Mi prudeva la testa. — Ho bisogno di una doccia.

— Abbiamo una doccia portatile — disse Agopian. — Ma non possiamo installarla a bordo della nave.

— Barca — lo corresse Derek.

Dissi: — Avete un bagno? E una spugna?

— Dall’altro lato della cucina. Dovresti trovare tutto quello che ti serve.

Feci il gesto della gratitudine, mi alzai e andai nel bagno.

Metà dello spazio era occupato dal gabinetto. Nella parete di fronte era inserito un armadietto. Lo aprii e, come promesso, trovai tutto quello che mi occorreva: sapone in bottiglia, uno spazzolino da denti, un pettine, una pila di tute piegate con cura, una spugna. La spugna era naturale e un tempo era stata viva, molto probabilmente sulla nave.

Il sapone era alla menta. L’etichetta diceva che lo si poteva usare per corpo, capelli, denti e indumenti, ma non si doveva inghiottire né mangiare in altro modo.

Mi spogliai e mi lavai completamente, un compito non facile in uno spazio così ristretto. Quando ebbi finito, c’era acqua ovunque. Mi lavai i denti e mi spazzolai i capelli bagnati, asciugai me stessa e la stanza, poi sorrisi alla mia immagine riflessa. Non male, benché apparissi un po’ smagrita e un po’ troppo pallida. Avevo bisogno di un po’ di trucco e di un paio di orecchini.

Ah, sì! E di indumenti. Indossai una tuta, taglia piccola, azzurra, il colore della pace e dell’unità. Non era il mio colore preferito, ma la sola alternativa era quel monotono verde oliva.

Avevo finito, a parte sollevare di nuovo il lavabo nella parete sopra il gabinetto, spegnere il ventilatore e tornare nella cabina principale. I tre uomini mi lanciarono un’occhiata. Curioso, sentire di nuovo la tensione fra uomini e donne. — Che ne faccio dei miei vecchi vestiti?

— Vuoi riaverli indietro? — mi chiese Agopian.

— Mai.

— C’è un piccolo riciclatore in cucina. Mettili lì dentro.

Lo feci e dissi: — Me ne vado fuori sul ponte. È troppo… — esitai.

— Stretto qui dentro — terminò al mio posto Derek.

Feci il gesto dell’assenso e aprii la porta.

Stava ancora piovendo. Il ponte era riparato da una tettoia sporgente. La Ivanova era seduta su un alto sedile che le consentiva di vedere oltre il tetto della cabina. Teneva le mani appoggiate sulla ruota del timone. Erano mani grandi e dalle dita tozze, dall’aspetto forte perfino in posizione di riposo. Un tergicristallo era in funzione sul finestrino di fronte a lei. Ciac. Pausa. Ciac.

La Ivanova mi rivolse un’occhiata, annuì col capo, poi guardò la donna dell’equipaggio. — Questa è Li Lixia del team sociologico. Lixia, questa è Tatiana Valikhanova.

— Della squadra di manutenzione mezzi di trasporto ausiliari — disse la donna.

Ci stringemmo la mano. Mi guardai attorno. L’imbarcazione aveva virato e si stava dirigendo a sud. La sponda occidentale si estendeva alla mia destra, bassa e grigia, un miscuglio di foresta e acquitrino. Alla mia sinistra c’erano le isole: fitti gruppi di alberi che s’innalzavano dall’acqua.

— Fa’ attenzione se vedi del fumo — disse la Ivanova. — È stato così che abbiamo localizzato te e Derek.

— Con questo tempo?

— Il tempo è sfavorevole.

Feci il gesto dell’intesa.

La barca continuava a discendere il fiume. Dopo un po’ Tatiana parlò in russo. La Ivanova girò la ruota del timone. La barca virò verso una lunga isola coperta di cespugli. C’erano macchie bianche sui cespugli, che risultarono essere uno stormo di uccelli. Si levarono in volo al nostro avvicinarsi. Tatiana scrutò l’isola col binocolo. — Niente — disse in inglese. La barca virò di nuovo verso il letto principale. La pioggia si andava facendo più intensa. Le gocce di pioggia punteggiavano la superficie dell’acqua e la riva si vedeva a stento.

— È veramente brutto — dissi.

— Tenteremo di nuovo fra due o tre giorni — disse la Ivanova. — Viaggeremo in questa direzione. Il villaggio più vicino si trova a nord di qui, su un affluente di questo fiume.

La fissai a occhi sgranati. — Intendete visitare un villaggio?

— Sì.

— Dovete aver fatto la riunione.

— Sul problema dell’intervento? Sì.

— Che cosa è successo?

La Ivanova rise. — Che cosa pensi? Tu e Derek eravate spariti. Non potevamo raggiungervi via radio. Le persone sulla nave volevano cercarvi. Eddie diceva di no. Era troppo rischioso. Era troppo pericoloso stabilire un precedente. Dovevamo forse seguire la sua ridicola… come la chiamate?

Aggrottai la fronte, guardando verso la riva. Adesso era una linea grigia. — Ti riferisci alla politica di non intervento?

— No. È un termine inventato dagli scrittori. Scrittori americani, credo. Qualcosa di primario.

Sorrisi. — Le Direttive Primarie.

— Agopian me ne ha parlato. È una miniera di informazioni sull’America e sulla fantascienza.

— Così avete deciso di venire a cercarci. Credimi, ne sono grata. Ma perché il villaggio? Perché avete deciso di andarci?

— Eddie era contrario. Io ho detto… l’equipaggio ha detto… che è una pazzia. Non possiamo lasciare nei guai le persone. Non possiamo lasciar morire altri umani. Eddie ha continuato a battere sul pericolo di creare il precedente. Non lo capisco. Io vengo dal Distretto Nazionale di Chukotka. Sai dove si trova?

— No.

— In Siberia, più a est e a nord di quanto si possa arrivare restando sul continente asiatico. La maggior parte dei miei antenati erano di etnia russa. Ma nessuno in Siberia è totalmente una cosa sola. Io ho antenati che erano Chukchi e Inuit. So che cosa è accaduto ai Piccoli Popoli, i nativi del luogo, per il bene e per il male. L’abbiamo imparato a scuola.

"È passato. Non possiamo cambiare le cose e non possiamo fermare la storia. Possiamo soltanto agire in modo più attento, più meditato, con maggior rispetto e minore avidità." Fece una pausa. "Possiamo solo agire come socialisti."

Riflettei un momento. — Non capisco che cosa abbia a che fare tutto questo con l’essere qui.

— Eravamo a un punto morto — disse Tatiana. — Nessuno voleva abbandonarvi sul pianeta. Ma sulla nave ci sono parecchi individui che vengono dall’Asia, dall’Africa e dall’America Latina. Ricordano le storie che hanno imparato a scuola. La compagna Ivanova viene dalla Siberia. Io dal Kazakhstan. Dalla Repubblica Socialista Sovietica Autonoma Kazakha. So quello che è successo alla nostra ottima terra da pascolo quando sono arrivati i russi, i russi sovietici.

— Che cosa? — chiesi.

— Completamente arata. Sparita. Dovevamo far pascolare le nostre mandrie nelle terre aride, il deserto, o sulle montagne. — La donna sollevò il binocolo. — Compagna, potresti portarci più vicino alla riva?

— Sì. — La Ivanova girò la ruota del timone. L’imbarcazione virò verso la palude piovosa: canne grigie, chine sotto il peso dell’acqua. Si muovevano dolcemente al vento. — Come ha detto Tatiana, eravamo a un punto morto. Stavamo seduti a scambiarci occhiate astiose. Finché i cinesi non hanno detto che non era un problema nostro.

Guardai la Ivanova, sorpresa.

— Hanno detto che il pianeta non appartiene a noi. E non è la nostra storia che abbiamo paura di cambiare. Hanno suggerito… il signor Fang ha suggerito… di consultare i nativi. Di chiedere loro se vogliono averci qui. — La Ivanova fece una pausa. — È per questo che andremo al villaggio.

— Un solo villaggio dovrà decidere questo problema per l’intero pianeta?

— No. Naturalmente no. Andremo nel villaggio più vicino a spiegare chi siamo e perché siamo giunti nel loro territorio. A chiedere se possiamo restare. Se diranno di no, ci scuseremo e ce ne andremo. Se diranno di sì…

Tatiana intervenne: — C’è qualcosa sulla riva.

La barca rallentò. Scorsi la cosa. Giaceva su un banco di fango, interamente fuori dall’acqua. Un oggetto lungo, sottile e scuro. Una lucertola?

Tatiana disse: — Una canoa.

— Che cosa? — Tesi la mano e lei mi diede il binocolo. Aveva ragione. — Ci siamo ribaltati in prossimità della riva orientale. Com’è possibile che sia finita qui?

— Di certo non può averla portata la corrente — disse la Ivanova.

La barca rallentò ancora, avvicinandosi alla riva. La Ivanova parlò in russo. Tatiana entrò nella cabina. L’imbarcazione si fermò. Eddie uscì sul ponte, seguito da Agopian.

— Quanto è profondo? — s’informò Eddie.

La Ivanova diede un’occhiata agli strumenti che aveva davanti. — Un po’ più di un metro.

Eddie scavalcò la fiancata e si diresse sguazzando verso la riva.

— Compagna? — chiese Agopian.

— Resta qui. A meno che tu non voglia andare.

— Certo che voglio. È chiaramente un manufatto, costruito da alieni. Mi piacerebbe toccarlo. Sono già bagnato.

Lei rise. Agopian seguì Eddie. Sollevai di nuovo il binocolo. Eddie era accanto alla canoa. Ora riuscivo a valutarne le dimensioni. Era troppo piccola. Eddie toccò il legno. Si avvicinò anche Agopian, le spalle curve contro la pioggia, i pantaloni inzuppati fino alla vita. Parlarono. Se fossero stati dei nativi, li avrei capiti, ma i gesti che facevano non avevano alcun significato chiaro. Agopian puntò il dito. Eddie scosse il capo. Si guardarono attorno. Agopian tirò fuori una macchina fotografica. Scattò fotografie della canoa. Eddie tornò verso di noi.

— Non è la nostra canoa — dissi alla Ivanova.

— No?

— Troppo piccola. E c’è qualcos’altro. La forma della prua.

Eddie risalì a bordo. — È vecchia. Il legno è marcio. Ci sono piante che crescono all’interno. — Lanciò un’occhiata ad Agopian. L’uomo basso stava ancora facendo fotografie. — Non ci sono orme sulla riva. Direi che è stata trascinata dalla corrente, forse in primavera. Questo fiume deve straripare. Non credo che fosse nuova neppure allora. Ha l’aria di essere in acqua da anni.

— Non ci sono molte probabilità di trovarli, vero? — dissi.

— No.

— Dovrebbero trovarsi sulla riva orientale del fiume — disse la Ivanova. — Vicino al letto principale, come Derek e te. — Esitò, poi gridò: — Compagno! Sobbalzai.

Eddie sorrise. — Vedi com’è sulla nave. Ha questo dannato modo di urlare.

— Non ho quasi mai gridato con te — ribatté la Ivanova.

Agopian tornò alla barca. Eddie lo aiutò a salire a bordo.

— Non è un gran che da guardare — disse. — Ma è davvero un manufatto. — Avvertii uno strano tono nella sua voce. — Non sono frutto della nostra immaginazione.

— Chi? — chiese Eddie.

— Gli alieni. I nativi. Altre persone. Vita consapevole. — Rise. — E io sono qui. — Si guardò i pantaloni. — Dovrò cambiarmi i vestiti.

Eddie annuì. La barca incominciò a muoversi, tornando verso l’acqua più profonda. Gli uomini entrarono nella cabina.

Io restai accanto alla Ivanova. L’imbarcazione riprese velocità. La pioggia s’intensificò ancora di più e le isole e la riva divennero solo ombre indistinte. L’acqua scorreva lungo il parabrezza e batteva sulla parte del ponte non riparata alle nostre spalle. Il vento la spingeva sotto la tettoia. Mi raggiunse. Rabbrividii.

— Va’ dentro, compagna. Non so che malattie sia possibile prendersi su questo pianeta ma, quali che siano, te le stai andando a cercare. Sei stremata. Non mangi in modo adeguato da giorni e adesso stai qui a prenderti freddo e umidità. Da’ il binocolo a Tatiana. Non credo che riuscirà a vedere alcunché, ma non si rinuncia quando ci sono in gioco delle vite.

Andai dentro. Derek se ne stava disteso in una poltroncina, le gambe allungate, le spalle contro lo schienale. Non era il modo in cui si sedeva di solito. Aveva l’aria stremata. Gli altri sedevano attorno a lui, bevendo tè e parlando sommessamente. Le luci mandavano una tenue luce gialla.

Tatiana alzò lo sguardo. — Lei mi vuole?

— Sì. — Le porsi il binocolo. Uscì. Mi sedetti su un divano, sentendomi disorientata. Forse era la luce. Così tenue e uniforme. Tutt’altra cosa della luce del fuoco. Mi massaggiai il collo. Gli altri mi lanciarono un’occhiata, poi continuarono la loro conversazione. Aveva qualcosa a che fare con un concerto sulla nave. Un compositore che usava elementi di musica indigena tratti dai nostri rapporti. Eddie pensava che il lavoro fosse superficiale, Agopian lo riteneva interessante. Derek faceva domande di quando in quando.

Mi distesi e chiusi gli occhi. Qualcuno mi mise addosso una coperta.

Derek disse: — Siamo quasi al campo.

Mi sollevai a sedere. Le luci erano spente. La cabina era deserta, fatta eccezione per noi due.

— Ha smesso di piovere — disse. — Andiamo fuori.

Mi alzai, stiracchiandomi, e lo seguii sul ponte. Tatiana era al timone. Gli altri tre se ne stavano appoggiati al parapetto di poppa. I lunghi capelli di Eddie ondeggiavano al vento. Alle loro spalle c’era la valle del fiume che la foresta faceva apparire scura. Sopra di loro il cielo era grigio ferro. A ovest, sulla mia destra, si stava rasserenando. Raggi di sole penetravano fra le nuvole e raggiungevano il fiume. No. Il lago. Si estendeva attorno a noi, ampio e di un grigio argento. Gli uccelli si libravano in volo sopra l’acqua increspata. Guardai alla mia sinistra. Distinguevo a stento la riva orientale. — È più grande di quanto mi aspettassi.

— Probabilmente stavi pensando a qualcosa sulla Terra — disse Eddie. — L’ho notato nei tuoi rapporti, continuavi a cercare di fare di questo mondo una seconda Terra. Non solo tu. Tutti i ricercatori sul campo. Tutto veniva paragonato a qualcosa sul nostro pianeta. La maggior parte dei paragoni risulteranno falsi o errati. Questo posto è alieno. Non è il nostro mondo.

— Questo non è stato ancora stabilito — disse la Ivanova.

L’imbarcazione virò verso la sponda occidentale. Era vicina e si distinguevano facilmente le scogliere. Erano alte ed erose, coperte di foresta e incise da profonde gole.

— È davvero un bellissimo pianeta — osservò Agopian. — La Terra doveva apparire così prima che i capitalisti ne prendessero il controllo.

— Mmm — disse Eddie.

C’erano cupole sulla riva: color marrone chiaro e azzurro tenue, bianco panna sporco, verde celadon. Di fronte alle cupole c’era una banchina che si estendeva nel lago. Galleggiava, lunga e snodata, muovendosi su e giù pezzo dopo pezzo con il frangersi delle onde.

Dagli edifici uscirono persone che corsero verso la banchina. Quante erano!

— Eddie — disse Derek.

— Sì.

— Non credo che avremo l’energia per qualunque genere di festeggiamento.

— Lascia che me ne occupi io. — La barca si fermò. Eddie scese sulla banchina e corse verso le persone.

Il motore si fermò. Sentii l’acqua e il vento. Gli uccelli lanciavano grida. Voci umane parlavano. Non le capivo. Eddie gesticolava. Le persone si voltarono e tornarono verso il campo.

Scendemmo anche noi e Agopian ormeggiò l’imbarcazione. Eddie tornò. C’era una persona con lui, una donna alta e snella. La sua pelle era color bruno scuro; i capelli ondulati le arrivavano alle spalle. La sua tuta era di un rosso terracotta.

— Questa è Liberation Minh. Fa parte del team medico.

— Piacere. — Ci strinse la mano. — Dovremo fare un esame preliminare. Non ci vorrà molto. Vi analizzeremo accuratamente quando sarete sulla nave. Per il momento tutto ciò che ci occorre sono alcuni campioni. Alcuni esami. — Si voltò e fece strada. Derek e io la seguimmo.

— Abbiamo trovato dei parassiti nei vostri colleghi. Alcuni vermi o creature vermiformi. Un certo numero di microbi. Nessuno che se la cavi molto bene, ma ci provano. Se fossero più grandi, parleremmo di coraggio e intraprendenza. — Il suo accento era africano. La cosa mi sorprese. Avrei scommesso che provenisse dalle Americhe. Quel nome e quel colore. Forse i suoi genitori erano stati americani.

— Inoltre, abbiamo trovato sintomi di malnutrizione. I nostri microbi, quelli che avrebbero dovuto aiutarvi a metabolizzare la flora e la fauna locale, non hanno funzionato bene quanto avevamo sperato.

Arrivammo alla fine della banchina. Sul terreno fangoso erano passati veicoli che avevano schiacciato la vegetazione, lasciando profondi solchi. Vidi una macchina: un fuoristrada dalle ruote enormi. Era parcheggiato accanto a una delle cupole.

Liberation Minh disse: — È tutto, a parte un leggero avvelenamento da metallo. La crosta di questo pianeta è ricca.

Oh, bene, pensai. I nostri microbi erano inadeguati, nel nostro organismo si erano insediati altri microbi e venivamo avvelenati da chissà che cosa. Zinco. Rame. Manganese. Piombo.

La seguimmo in una cupola grigioazzurra. All’interno c’era un tappeto grigio tenue. Finestre esagonali guardavano sul lago della sera. C’erano stanze piene di attrezzature mediche. Entrai in una di queste e subito arrivò un tecnico, alto e con un viso da falco. — Sei pregata di svestirti, a meno che la nudità o gli uomini non ti mettano a disagio.

— No. — Indossai un camicione. Lui mi attaccò delle macchine. Facevano i consueti rumori delle macchine e lui faceva il genere di rumori umani che erano consueti durante un esame medico.

— Nessun problema lì. Né lì. Sembra che tu sia in perfetta forma… come si dice… come un bocciolo di rosa. Non so se si riferisca al colorito degli europei in buona salute. In questo caso, sarebbe un altro esempio di razzismo. Com’è difficile eliminare queste espressioni dal linguaggio!

Ci furono altri rumori, di macchinari e umani. Alla fine disse: — Non vedo alcun problema. A parte il tuo peso. È un po’ scarso, e non è mai una buona idea essere troppo magri. Cerca di mangiare un po’ di più finché il tuo peso non sarà tornato quello che dovrebbe essere.

— Okay.

— Quanto al problema delle mestruazioni, è molto interessante. Lo riferirò al comitato competente, insieme ai risultati delle tue analisi. Il bagno è alla porta accanto. Sei pregata di leggere le istruzioni sul monitor e di seguirle alla lettera. Grazie per la tua pazienza. — Mi rivolse un sorriso smagliante. — E bentornata. Dio è grande!

Se ne andò. Trovai il bagno, seguii le istruzioni, mi vestii e m’incamminai lungo il corridoio. Ormai era notte. Quando guardai fuori dalle finestre vidi solo la mia immagine riflessa e il luccichio delle luci del corridoio. Arrivai in una stanza dove c’erano delle poltroncine. Derek ed Eddie se ne stavano lì seduti. Apparivano entrambi stanchi.

— E tu come stai? — chiesi a Derek.

— Qualche graffio e qualche livido. Una brutta morsicatura. Ma per il resto benissimo.

— Una brutta morsicatura?

— Te ne parlerò più tardi.

Lanciai un’occhiata a Eddie. — E adesso?

— Siete stati assegnati alla cupola numero cinque. Vi accompagno. La cupola numero tre, quella grande, comprende i locali comuni e la sala da pranzo.

— Non questa sera. Voglio soltanto dormire.

— Sì — disse Derek.

— Okay. — Derek si alzò.

Uscimmo. Il cielo si era rasserenato. Brillavano le stelle. A est vidi un pianeta. Era giallo e così luminoso che gettava un riflesso sull’acqua: una linea gialla che ondeggiava appena. L’acqua doveva essere calma. Non c’era un alito di vento. Passammo accanto a costruzioni e macchinari. Il metallo luccicava debolmente alla luce che usciva dalle finestre.

Eddie si fermò e aprì una porta. Lo seguimmo in un corridoio fatto di lucidi pannelli gialli. Alle pareti erano appese lampade a forma di fiore. I loro gambi erano di ceramica, i petali di vetro smerigliato. Un tappeto azzurro chiaro copriva il pavimento. Ne sentii il tessuto sotto le pantofole. Soffice. I nostri piedi non facevano alcun rumore mentre seguivamo Eddie.

— Eccoci qui. — Aprì un’altra porta. Si acese una luce. Vidi una camera da letto: pareti azzurre e un tappeto beige. C’era una finestra esagonale sopra il letto. Era ad angolo, posta in una parete che si curvava.

— Questa è la tua, Lixia.

Feci il gesto della gratitudine.

— Derek sarà nella camera accanto. Il bagno è in fondo al corridoio. Posso portarvi qualcosa da mangiare, se avete fame.

— No. — Il letto aveva una coperta: un disegno floreale in bianco, blu scuro e beige. Sembrava confortante. Era la parola giusta? Confortevole. Come a casa.

— Buonanotte — disse Eddie.

Mi lasciarono. Abbassai la luce, mi svestii e mi coricai. Il letto era soffice, la coperta fresca e liscia. Pensai di infilarmici sotto, ma era uno sforzo troppo grande per me. Chiusi gli occhi.

Mi svegliai nel buio. Sopra di me c’era la finestra. Fuori brillavano le stelle. C’era qualcuno nella stanza. Non sapevo come fossi in grado di stabilirlo, ma ne ero certa. Dov’era la luce? Non ricordavo di averla spenta. Allungai il braccio con cautela, tastando la parete. Senza dubbio doveva esserci un interruttore.

— Rilassati — disse Derek. — Sono soltanto io. — La sua voce veniva dal pavimento.

— Che cosa diavolo…?

— Il letto era troppo soffice e mi sentivo solo. Volevo qualcosa di familiare.

— Oh.

— Hanno un odore buffo, Lixia. Credo che dipenda dalla dieta diversa. E dalla mancanza di pelliccia.

— È possibile.

— E c’è qualcosa nell’aria di queste costruzioni. Non sembra giusta. Si muove appena.

— Se vuoi dormire sul pavimento, per me va bene.

— Grazie.

— Che cosa ti è successo, Derek? Dopo che sei finito su quel banco di sabbia.

Lui rise. — Non molto. La terra più vicina era una palude. Ci andai a nuoto. Pensavo che forse avrei potuto trovare una pista. Sono stato morsicato.

— È quello di cui stavi parlando?

— Più o meno. È stata una specie di lucertola. Era meno lunga del mio avambraccio, ma dai vivaci colori e senza paura. Ho pensato che quei colori dovevano significare qualcosa, e doveva esserci una ragione per cui quell’animale non aveva paura. O terrorizzava gli altri animali, o sapeva di merda.

"Ho pensato che fosse meglio non correre rischi. Dovevo aprire la ferita e farla sanguinare. Non avevo con me nessun coltello. L’avevo perso. Non volevo perdere tempo a cercare qualcosa di tagliente." Esitò. "Ho aperto la ferita con i denti."

— Che cosa?

— Sono stato fortunato che fosse in un punto che potevo raggiungere. Se quell’animale mi avesse morso nel sedere, probabilmente sarei morto. L’ho fatta sanguinare abbondantemente e ho succhiato fuori tutto quello che ho potuto. Ma stavo ancora maledettamente male. L’animale era velenoso.

— Dov’era?

— La ferita? Sul braccio, proprio sopra il braccialetto. Mi sono chiesto se forse fosse stata la lucentezza ad attirare l’animale, o a farlo infuriare.

— Il braccialetto?

— Quello che apparteneva all’Imbroglione. Ho seguito le tracce dell’oracolo e l’ho trovato dove l’aveva gettato nel lago.

— Hai preso il braccialetto una seconda volta?

— Uuh!

— Ce l’hai ancora?

— Non più. Non mi va di essere tiranneggiato da nessuno, neppure da uno spirito. Ma sono accadute troppe brutte cose. L’ho gettato nel fiume. Ho chiesto scusa all’Imbroglione. Gli ho detto che avrei trovato un modo per rimediare a tutto. — Fece una pausa. — Quando ho smesso di sentirmi male, ho deciso di rimanere dov’ero. Il braccio mi faceva male. Non ero sicuro di poter percorrere a nuoto una qualunque distanza. E non volevo tornare nella palude. Ho deciso che avrei aspettato che qualcuno venisse a salvarmi, o almeno di sentirmi un po’ meglio. Ho raccolto legna e ho acceso un fuoco. Sono stanco, Lixia.

Dissi: — Buonanotte.

Il suo respirò mutò quasi subito, divenendo profondo, lento e regolare. Si era addormentato.

Seguii il suo esempio.

Sognai che mi trovavo di nuovo sulla nave, in un corridoio. Le pareti erano fatte di piastrelle di ceramica, di un lucido rosso sangue di bue. Nel corridoio c’era Derek. Stava danzando. Aveva al polso il braccialetto d’oro, che risplendeva luminoso. Derek cantava nel linguaggio dei doni:

"Sono l’Imbroglione

O stupida donna.

Ciò che voglio, prendo.

Ciò che prendo, tengo".

Eddie

La luce del sole penetrava dalla finestra. Gemetti e mi tirai su a sedere. Derek era sparito. Aveva lasciato un cuscino sul pavimento. La federa era grigia e marrone: un disegno di rondini in volo.

Trovai i miei vestiti e andai in cerca del bagno, che era già stato usato. C’era vapore sullo specchio, e c’erano due asciugamani umidi. Erano stati appesi in modo non particolarmente ordinato. Li raddrizzai, aprii la doccia e vi entrai. Ah! I semplici piaceri della civiltà! Lo spruzzo bollente mi batteva sulla testa e la schiena. Il sapone odorava di limone. C’era una spugna appesa a un gancio nella cabina. La bagnai e mi strofinai energicamente.

L’acqua smise di scendere. Premetti il pulsante che l’apriva di nuovo.

Una voce disse: — Se volete ottenere altra acqua, aspettate un minuto, poi premete il pulsante "aperto". Ma ricordate, avete già utilizzato la vostra razione giornaliera.

— C’è un intero lago là fuori. Un fiume grande quanto il Mississippi. E l’acqua è pulita.

La doccia non rispose. Premetti di nuovo il pulsante, benché mi sentissi in colpa per questo, com’era previsto. L’acqua scese di nuovo e mi lavai i capelli.

Quando ebbi finito, mi vestii e gironzolai per la cupola. Trovai segni di occupazione quasi in ogni stanza: letti sgualciti e indumenti. Su un tavolo c’era una collana. Era in argento antico e corallo. Luccicava, illuminata dalla luce del sole.

In un’altra stanza c’era un libro che accesi. Il titolo apparve sullo schermo: À la recherche du temps perdu di Marcel Proust. Il mio francese era quasi inesistente. Spensi il libro e lo rimisi dove l’avevo trovato, poi uscii dalla cupola.

La giornata era luminosa e ventilata. Il lago luccicava. Le nuvole si spostavano nel cielo. Eddie mi aspettava. Indossava una camicia stampata a fiori, rossa e verde scuro. I capelli erano legati in trecce. I jeans erano infilati in alti stivali fatti di vero cuoio. E portava occhiali da sole. Le lenti erano verdeoro e a specchio. Non riuscivo a vedere i suoi occhi.

— Buongiorno, Lixia. Ho pensato di assicurarmi che trovassi la sala da pranzo.

— Grazie.

S’incamminò verso la cupola più grande.

— Come hai dormito?

— Bene. Dove trovo dei nuovi vestiti?

— Nella cupola numero uno. È tutta fornitura standard. Mi dispiace. Nessuno ha pensato di prendere qualcosa dalla tua cabina.

— Non vi aspettavate di trovarmi.

Lui rise. — Forse è così. Siamo andati a cercarci un sacco di maledetti problemi, e abbiamo creato un pericoloso precedente, e può darsi che tu abbia ragione. Forse non credevamo che tu e Derek foste vivi.

— In ogni caso, è stata una fortuna per noi che siate scesi.

Eddie non rispose. Gli rivolsi un’occhiata. Aveva un’espressione accigliata. Sapevo che cosa stava pensando. Non era una fortuna per gli abitanti del pianeta.

La sala da pranzo era quasi deserta. Un membro dell’equipaggio era seduto e leggeva, con un bicchiere di tè sul tavolo davanti a lui. Una donna raccoglieva piatti, accatastandoli con ordine. Era grande, con un colorito bruno rossiccio. Il suo abbigliamento, un paio di jeans e una blusa bianca, non mi disse nulla sulla sua occupazione.

Eddie mi fece strada verso il tavolo di servizio. Un uomo di bassa statura stava mettendo qualcosa su un piatto. Aveva i capelli lunghi e biondi, coperti da una retina, e il suo abbigliamento era bianco-cucina.

— Siete in ritardo — disse. — Le uova sono finite.

— Che cosa è rimasto? — domandò Eddie.

— Fettuccine e salsiccia. Abbiamo tre tipi di salsiccia. — Diede un colpetto su un elemento per riscaldare. — Queste sono fatte di pollo e sono relativamente piccanti. Quelle nell’elemento accanto sono fatte di iguana. Sono più delicate. Quelle là in fondo sono di soia. Non le consiglio, a meno che non nutriate preoccupazioni per il vostro karma. Per farle non è stato ucciso nessun animale, e questa è la cosa migliore che possa dire. — S’interruppe e diede un’occhiata al tavolo. — Questo è tutto, a parte i panini, che sono venuti molto bene oggi.

Mi servii di salsiccia di pollo, un panino e una caffettiera piena di caffè. Eddie prese fettuccine e del tè.

Ci sedemmo a un tavolo accanto a una parete fatta di finestre esagonali. All’esterno c’era il lago. Socchiusi gli occhi. C’erano due oggetti che galleggiavano in lontananza. Era difficile distinguerli fra il luccichio dell’acqua. Mi riparai gli occhi con la mano. Erano lunghi e scuri, bassi nell’acqua.

— Gli aeroplani a razzo — disse Eddie.

Mi versai il caffè e bevvi. — La Ivanova mi ha accennato qualcosa di quanto è successo alla riunione. Ma non posso dire di averlo capito.

— Vorrei tanto che tu e Derek foste riusciti a tornare in tempo. Vorrei che non foste spariti. Stavo cercando di dimostrare un principio mentre la Ivanova declamava il Codice dello Spazio. Non si abbandona un compagno nei guai. Ha avuto un impatto decisivo. — Fece una pausa e arrotolò le fettuccine su una forchetta. — Sapevi che durante il secolo successivo alla conquista del Messico è morto il 90 per cento della popolazione indigena? La popolazione del Perù si è ridotta del 95 per cento. Tre milioni di persone scomparse dalle Isole Caraibiche. — Mangiò le fettuccine, masticandole con cura. — Sono morti nelle miniere e nelle piantagioni. Sono stati mandati come schiavi in Europa. Li hanno uccisi le malattie. La guerra e le esecuzioni. La fame. C’è una citazione di uno scrittore spagnolo del tempo che ho imparato a memoria.

"’Quanti fra coloro che nasceranno nelle future generazioni ci crederanno? Io stesso che l’ho visto stento a credere che una cosa del genere sia stata possibile.’"

Mangiai mentre lui parlava. La salsiccia non era realmente piccante. Il panino era eccellente.

— Eddie, è avvenuto centinaia di anni fa. Non penserai seriamente che succeda di nuovo qualcosa del genere?

Lui esitò un momento, poi sospirò. — Non lo so. Ma ho ascoltato le conversazioni sulla nave. — Mangiò un’altra forchettata di fettuccine, poi allungò una mano per prendere una bottiglia di olio piccante dello Sichuan, che si trovava sul tavolo insieme ad altri condimenti. Spruzzò l’olio su tutto il piatto. — Vogliono scendere tutti sulla superficie del pianeta. No. Questo non è del tutto vero. Ci sono astronomi a cui non importa niente, e alcuni planetoiogi che vogliono osservare gli altri pianeti del sistema. Ma costituiscono le eccezioni. I biologi stanno impazzendo.

— Che cosa ti aspetti? Questa gente ha percorso 18,2 anni luce per studiare la vita su questo pianeta.

— Lo so. — Mangiò altre fettuccine. — Così va meglio. Ti sto riferendo quello che ho senito. La maggior parte delle persone sulla nave parlano delle ricerche che intendono fare una volta che saranno scesi quaggiù.

Bevvi altro caffè. Eddie non aveva un modo di pensare lineare, che andasse da A a B, a C. A volte, quando lo ascoltavo, mi faceva pensare alla tessitura, al modo in cui il disegno si formava pezzo dopo pezzo mentre la spola andava avanti e indietro. Se avessi aspettato abbastanza a lungo, avrei capito il suo ragionamento.

Eddie disse: — Non è questo che mi preoccupa, anche se mi chiedo che cosa faranno tutte queste persone se i nativi diranno: "No. Non vi vogliamo. Tornatevene a casa".

"Quello che mi preoccupa è la speculazione. È particolarmente grave fra i membri dell’equipaggio.

"Ci sono un sacco di discussioni sulla fattibilità del commercio interstellare. Che cosa può essere così prezioso, e così straordinario, che varrebbe la pena trasportare da una stella all’altra? E che cosa conserverebbe il proprio valore per 120 anni? Quasi tutti ritengono che siano la vita e l’arte."

— Eddie, è una cosa di cui si discute da secoli.

— Ci sono persone sulla nave che stanno sviluppando modelli economici. Gli economisti, naturalmente. Non avremmo mai dovuto portarli con noi. Presentano attraverso modelli tutto quello a cui riescono a pensare. Vale la pena di spedire l’iridio? O il platino? O il rame? E se presupponiamo miglioramenti nella nostra tecnologia? Navi che si spostino molto più velocemente o consumino energia in quantità assai minore?

"E le altre persone? Pensa alla conoscenza e alla capacità contenute in quasi tutti i cervelli umani? Perché mandare l’arte sulla Terra? Mandiamo l’artista.

"E quando manderemo sulla Terra esemplari della vita di qui, o di qualunque altro luogo, dovremo mandare gli individui in grado di comprendere quella vita. Gli agricoltori e i cacciatori e i domatori di animali. Le donne anziane che sanno quali erbe sono medicinali.

"In quale altro modo potremo sapere che cosa abbiamo quando faremo crescere un organismo? In quale altro modo potremo prendercene cura? E servircene?"

Mi versai altro caffè. — La nave è piena di persone a cui piace trastullarsi con le idee. E come hai fatto notare prima, ì’quipaggio non ha molto da fare in questo momento. E neppure gli esperti di scienze sociali. Penso che tu stia prendendo la cosa troppo seriamente.

— Può darsi. — Finì di mangiare. — Ci sono problemi con tutti i modelli. Per esempio, come potremo mandare delle persone in un viaggio che durerà 120 anni? Non umani. Nativi, che probabilmente non capiranno la natura del viaggio.

"Nessuno ha una risposta a questo interrogativo, sebbene alcuni membri dell’equipaggio stiano ponendo come ipotesi nativi a cui piaccia viaggiare e che non si preoccupino se non torneranno mai a casa loro."

— Mmm.

Lui fece il gesto dell’assenso.

— Eddie! Stai imparando.

Lui ripeté il gesto, poi proseguì.

— Supponiamo che sia davvero economico spedire l’iridio o il platino. Chi lo estrarrà? E chi lo raffinerà? Dovremo prendere in considerazione la possibilità di una colonia di discrete dimensioni. Forse i nativi ci aiuteranno. Forse insegneremo loro la nostra tecnologia.

"Ci sono persone che sostengono che è una follia pensare di trasportare materie prime, anche materie prime che siano state almeno parzialmente lavorate, come lingotti di metallo. Costoro dicono: ’Perché non costruire qui le fabbriche e ottenere il prodotto finito? Per esempio, perché non costruire navi? Potremmo riempirle di belle cose, di vita e arte, e rimandarle sulla Terra. O altrimenti potremmo proseguire da qui e trovare altri pianeti in altri sistemi’.

"Come potrai immaginare, questo progetto richiederebbe una colonia veramente grande. E un notevole aiuto da parte dei nativi. Dovremmo farli entrare nell’era industriale." Spinse da parte il piatto. "E questo ci porta alla compagna Lu Jiang. Ti ricordi di lei?"

Feci il gesto dell’indecisione, poi aggiunsi: — Non ne sono sicura.

— È la donna che pensa che i nativi siano imprigionati nella loro presente fase storica. Le donne hanno bisogno degli uomini durante la stagione degli accoppiamenti e forse in altri periodi. Nella maggior parte delle società che abbiamo studiato, gli uomini sono importanti economicamente. Almeno fino a un certo punto. — Fece una pausa e aggrottò la fronte mentre cercava evidentemente di riordinare le proprie idee.

"Non è probabile che loro sviluppino il genere di commercio e produzione che porta al capitalismo industriale. Senza capitalismo industriale, non può esserci nessuna rivoluzione. Questi individui saranno per sempre tribali. Se non li aiuteremo, non potranno mai costruire una società socialista.

"Secondo la compagna Jiang, è nostro dovere aiutarli."

— Mi sta venendo mal di testa — dissi.

— Io ce l’ho da giorni. — Si alzò in piedi. — Andiamo.

Portammo i nostri piatti al tavolo riciclante e li accatastammo, poi uscimmo e ci dirigemmo verso il lago. La spiaggia era di ghaia. Sulla spiaggia correvano piccoli uccelli, fermandosi di quando in quando a beccare. Che cosa trovavano, se trovavano qualcosa? Piccoli animaletti? Frammenti di detriti?

— Capisci perché sono convinto che fosse pericoloso venire giù, anche per trovarvi?

— Credo di sì.

— L’ho detto alla riunione. Se l’avessimo fatto questa volta, se fossimo venuti a cercarvi, l’avremmo fatto di nuovo. Ci sarebbe stata un’altra buona ragione e un’altra ancora.

"Ho detto che dovevamo tracciare una linea di demarcazione. Dovevamo stabilire una norma invalicabile."

Naturalmente, ero furiosa con Eddie. Chiunque lo sarebbe stato. Sarebbe stato disposto a lasciarci morire in nome di una teoria, per difendere un mucchio di persone che non conosceva da un pericolo che poteva essere immaginario. Era troppo maledettamente astratto per me. Pensai a me sull’isola e a Derek sul suo banco di sabbia. Potevamo morire. Con tutta probabilità.

— L’assemblea non ti ha ascoltato.

— No. Erano bramosi, e hanno sentito la Ivanova fare il suo discorso sul Codice dello Spazio.

— Perché hai partecipato a questa spedizione se non volevi incontrare degli alieni?

— Speravo che sarebbero stati così maledettamente diversi che non ci saremmo potuti danneggiare a vicenda. Ho pensato che se ci fossero state delle persone qui e fossero state vulnerabili, doveva esserci qualcuno sulla nave con una buona memoria. Qualcuno che fosse pronto a difenderli. — Guardò verso il lago scintillante. — Eddie l’Eroe Galattico. L’uomo che ha cercato di salvare il suo popolo… 400 anni dopo e a più di 18 anni luce da casa. — Mi lanciò un’occhiata. I suoi occhiali erano stati trasparenti nella sala da pranzo, ora erano nuovamente come metallo lucidato.

Restai in silenzio.

— Mi sono infuriato. Credo che farò una passeggiata.

— Okay.

S’incamminò lungo la spiaggia. Io andai in cerca della cupola numero uno.

Era deserta: nessun altro acquirente e nessun consulente di moda volontario, niente all’infuori di un computer su un tavolo accanto alla porta. Schiacciai un tasto per la richiesta di indumenti e il computer rispose con una mappa. CORRIDOIO NUMERO DUE, SCAFFALI DALL’UNO AL NOVE. — PREGASI RICORDARE DI INSERIRE LE VOSTRE SCELTE — aggiunse in gialle lettere luminose. — SENZA QUESTA INFORMAZIONE NON POTREMO ADDEBITARE IL VOSTRO CONTO.

Presi i miei vestiti e tornai nella mia stanza. Il mio letto era rifatto. C’era un biglietto di Derek sul cuscino.

RICORDA SEMPRE: L’ORDINE E QUASI ZELO RIVOLUZIONARIO.

Accartocciai il biglietto e lo gettai nel bidone riciclante, poi indossai un paio di jeans, una camicia di un rosa vivace, alti stivali, una cintura di pelle di lucertola. Mi serviva qualche gioiello. Il computer non ne aveva, il che non era affatto sorprendente. Se volevo dei gioielli sulla nave, non schiacciavo il tasto del reparto approvvigionamenti, ma quello relativo ad arti e manufatti, oppure mi rivolgevo agli scambi personali.

Misi il resto degli indumenti in un armadietto, quindi decisi di fare una passeggiata. Non a sud, dov’era andato Eddie. A nord, lungo la riva.

La spiaggia era stretta in quella direzione e i cespugli crescevano quasi vicino all’acqua. C’erano affioramenti di roccia.

Dopo un po’ mi voltai a guardare indietro. Riuscivo a vedere la banchina e gli aeroplani a razzo, ma non le cupole. Erano nascoste dalla vegetazione. Trovai un masso di calcare e mi ci sedetti sopra. C’erano uccelli che guizzavano lungo la riva. Erano uguali a quelli che avevo visto prima: piccoli e bruni. Corridori, non volatili. Uno si fermò e distese le ali. Aveva artigli sulle punte e alle giunture.

— Li-sa? — fece una voce.

Mi girai.

Lì in piedi c’era Nia. La sua tunica era strappata, la pelliccia arruffata. Nel complesso aveva un’aria miserabile.

Balzai giù dalla roccia e l’afferrai, abbracciandola stretta. Lei s’irrigidì, poi ricambiò il mio abbraccio.

— Sei viva!

— Lo siamo tutti e due.

La lasciai andare e feci un passo indietro. — Chi?

— Io — rispose l’oracolo.

Il suo gonnellino era in condizioni peggiori della tunica di Nia. Era uno straccio grigio che gli copriva a mala pena la zona pubica.

— Ulzai?

Nia fece il gesto che indicava che non sapeva. — Ci siamo aggrappati alla barca dopo che si è capovolta. Ha galleggiato capovolta e ci ha portati attraverso le rapide. Aiya! Che esperienza!

— Io non so nuotare — disse l’oracolo. — Ma il mio spirito si è preso cura di me, come sempre. E anche di Nia.

Nia fece il gesto della gratitudine. L’oracolo rispose con il gesto dell’accettazione.

Io feci il gesto che chiedeva ulteriori informazioni.

Nia disse: — La barca ha disceso la corrente. Ci siamo tenuti aggrappati. Tutto il giorno. Tutta la notte. Alla fine la corrente l’ha portata dove l’acqua era bassa. Eravamo in grado di stare in piedi.

— A stento — disse l’oracolo. — Le mie gambe erano come corde. Aiya!

Nia gli lanciò un’occhiata, aggrottando appena la fronte. — Abbiamo tirato sulla riva la barca e ci siamo riposati, poi io mi sono guardata attorno. Eravamo su un’isola. Era grande e coperta di arbusti. Non c’era acqua, a parte quella del fiume, che per me sapeva di fango. E non molto cibo.

"Abbiamo deciso di discendere ancora il fiume. Ho trovato dei rami che servissero da pagaie. Adesso mi siedo."

Feci il gesto dell’assenso. I due nativi si sedettero per terra. Seguii il loro esempio.

— Non è stato un viaggio facile — disse l’oracolo. — I rami non valevano molto come pagaie.

— Forse saremmo dovuti restare dov’eravamo — disse Nia. — Ma ho pensato che i vostri amici sarebbero stati al lago. Avremmo potuto riferire a loro quello che era successo. Forse avrebbero saputo come trovarvi. — Fece una pausa e si grattò il naso. — Abbiamo trascorso tre giorni viaggiando sul fiume. Il primo giorno siamo rimasti in prossimità della riva. Poi, nel tardo pomeriggio, abbiamo visto una lucertola. Una grossa, che stava distesa sull’argine. Non ha mostrato nessun interesse per noi, ma ci siamo spaventati. Ci siamo spostati verso il centro del fiume.

"Abbiamo trovato un’isola con alcuni alberi e ci siamo accampati. Ero abbastanza sicura che le lucertole non sapessero arrampicarsi.

"Il giorno dopo abbiamo proseguito. Nel pomeriggio siamo arrivati al lago. Ci siamo accampati sulla sponda orientale. C’era qualcosa nell’acqua molto al largo. Era bassa e scura. Abbiamo pensato che fosse un’isola.

"Di notte c’erano delle luci che brillavano là sopra, e c’erano altre luci sulla riva. Ho pensato: questa è la gente di Li-sa. Dovremo attraversare il lago.

"La mattina seguente è successo qualcosa di inaspettato." Nia fece una pausa.

— È caduto qualcosa dal cielo — continuò l’oracolo. — C’è stato un gran baccano. Siamo corsi a nasconderci. Quando il rumore è cessato, siamo tornati indietro. C’erano due isole nel lago.

— Ho sentito raccontare di pietre che cadono dal cielo — disse Nia. — Ma le pietre non galleggiano. Ho pensato fra me e me: questa cosa è nuova. Ed è grossa.

Nia mi guardò. Il suo sguardo era fermo. — Non mi è piaciuto, Li-sa. Ho incominciato a sentirmi inquieta. Ho pensato: qui sta succedendo qualcosa che non capisco, ed è qualcosa di grosso.

L’oracolo aggiunse: — In seguito siamo stati attenti.

Nia fece il gesto dell’approvazione. — Eravamo nel punto in cui il fiume entra nel lago. Abbiamo aspettato fino all’imbrunire e abbiamo attraversato. Non è stato facile. Vogavamo di traverso alla corrente. Ma ce l’abbiamo fatta. Abbiamo nascosto la barca. Poi abbiamo proseguito attraverso la foresta sotto la scogliera del fiume. Non c’era nessuna pista. Abbiamo dovuto salire e scendere fra le rocce. Ci siamo dovuti aprire la strada fra la vegetazione. Aiya!

"Siamo arrivati al villaggio. Quello che appartiene alla tua gente. Ci siamo nascosti." Tacque per un momento. "Questa è la parte più difficile della storia."

— Abbiamo deciso di non entrare — disse l’oracolo. — Non subito. Volevamo essere sicuri che il villaggio appartenesse davvero alla tua gente. Siamo rimasti nella foresta e abbiamo osservato. Abbiamo visto. — L’oracolo esitò. — C’erano barche sul lago che si muovevano da sole. Andavano avanti e indietro fra le isole e la riva. C’erano altre cose. Carri. Gente che ci viaggiava dentro. I carri si muovevano nello stesso modo delle barche, senza che nessuno facesse alcun lavoro. E i carri facevano rumori. Ruggivano come assassini-delle-foreste. Lanciavano grida come osubai. Siamo riusciti a vedere che erano fatti di metallo. Sapevamo che non erano vivi. Ma in che modo si muovevano? E perché facevano tanto rumore?

— Saremmo dovuti entrare nell’accampamento — disse Nia. — Sapevamo che costoro erano tuoi parenti. Portavano indumenti simili ai tuoi e non avevano pelliccia. Avevo la responsabilità di riferire loro quello che era accaduto a te e a Deragu. — Raddrizzò le spalle e mi guardò dritto in faccia. — Non ci sono riuscita, Li-sa. Anche se tu potevi essere in pericolo. Anche se queste persone avrebbero potuto aiutarti. Avevo paura.

— Per quanto tempo avete osservato? — domandai.

— Un giorno — rispose l’oracolo. — E parte di un altro. Poi tu sei arrivata con Deraku, viaggiando su una delle barche che si muovevano anche se le persone che c’erano sopra non facevano niente. Vi abbiamo visti scendere. Abbiamo visto i vostri parenti che vi salutavano.

— È stato un sollievo — aggiunse Nia.

— Questa mattina ti abbiamo vista allontanarti da sola. Ti abbiamo seguita. — L’oracolo fece il gesto che significava "è finita" o "la storia è terminata".

— Probabilmente io avrei fatto la stessa cosa — dissi. — Mi sarei nascosta e sarei stata a osservare. So che la mia gente è strana. Ma non c’è niente nell’accampamento di cui preoccuparsi. Siete disposti a venire con me?

— Sì — disse l’oracolo. — Non ho sentito niente di nuovo dal mio spirito. Ed è per questo che sono venuto. Per incontrare la tua gente che non ha pelo.

Nia fece il gesto del dubbioso assenso.

Tornammo verso il campo.

— Sono preoccupata per Ulzai — dissi.

— Se la caverà — ribatté l’oracolo. — Gli umazi gli hanno promesso che l’avrebbero ucciso loro, e lui ci ha detto che non ci sono umazi qui a nord. Perciò è sano e salvo.

Ottimo ragionamento, se uno credeva nei messaggi degli spiriti.

— Perché l’accampamento vi ha spaventati? — chiesi. — Non vi siete fatti spaventare dalla mia scatola con le voci.

— La tua radio — disse Nia, pronunciando la parola con cura e quasi correttamente. — Quella cosa è piccola. Te l’ho detto, non ho paura delle cose nuove se sono piccole. E se non sono troppo numerose. — Tacque per un momento. — E tu sei mia amica. Io non conosco queste persone.

Arrivammo alla banchina. C’era una barca ormeggiata lì, forse la stessa sulla quale eravamo arrivati. Accanto alla barca c’erano un paio di persone. Guardarono me e i nativi, poi restarono immobili a osservarci.

Entrammo nel campo.

— Avete fame? — chiesi.

— Sì — rispose l’oracolo.

— Vi procurerò del cibo. — Mi diressi verso la cupola grande. Loro mi seguirono, tenendosi vicini a me.

C’era un fuoristrada parcheggiato accanto all’entrata della cupola. Non era lo stesso che avevo visto in precedenza. Avrei riconosciuto la grossa ammaccatura nel fianco. Com’erano riusciti a fare tutto questo solo in pochi giorni? Un uomo stava sollevando dalla parte posteriore una cassa con su scritto "fragile". Si arrestò, con la cassa a mezz’aria, e ci fissò a bocca aperta.

— Brian! — esclamai. — Come stai?

— Quelli sono alieni — disse.

— Sarebbe più giusto dire che gli alieni siamo noi. Questi individui sono nativi.

Lui sorrise a Nia.

— Questa persona sta mostrando i denti come fa sempre Deragu.

— Significa che è amichevole.

— Questo è un uomo? — s’informò Nia.

Feci il gesto dell’affermazione.

— Quali sono i segni per distinguerlo? Non è più grosso di te, e non riesco a giudicare se il suo pelame è diverso dal tuo. Ne avete entrambi così poco.

— Non conta la struttura del pelame, ma la collocazione. Soltanto gli uomini hanno il pelo sulla parte inferiore del viso, ma non tutti gli uomini. La sua voce è più profonda della mia, e le sue spalle sono più larghe. Sono questi i segni.

Nia aggrottò la fronte. — Non sento una grande differenza nelle vostre voci, e mi sembrate snelli tutti e due. — Fece il gesto che significava "così sia". — Di’ all’uomo che è mio desiderio essere amichevole.

— Okay. Se Nia sapesse sorridere, lo farebbe — dissi in inglese. — Ma fra la sua gente sorridere non è un gesto di amicizia. E, da quanto sono riuscita a capire, loro non hanno un’espressione paragonabile.

— Merda — disse Brian. — Questo significa che ho fatto qualcosa di sbagliato?

— No. Lei è stata insieme a me e a Derek che, come ricorderai, sorride parecchio.

— Già. Ricordo. Il famoso sorriso merdoso del Guerriero del Mare. Dille che sono felice di fare la sua conoscenza. Dille che questo è un gran giorno.

— Lo farò.

Entrammo nella cupola. La zona dell’ingresso era coperta da un tappeto: marrone chiaro dal tesuto compatto. L’oracolo si fermò e sfregò il piede nudo sul tappeto. — Questo è un dono offerto dalla tua gente? Oppure proviene da un altro villaggio?

Con ogni probabilità il tappeto veniva dalla Terra. Dissi: — Viene da un altro villaggio molto lontano da qui.

— Gli abitanti della pianura, il mio popolo e quello di Nia, fanno tappeti che sono più soffici e hanno disegni dai molti bei colori. Questo non è niente di particolare da vedere.

Nia disse: — Lo so che sei pazzo, ma dovresti ricordarti le buone maniere. Non è giusto criticare le cose che appartengono ad altre persone.

— Sarei stato zitto se questo tappeto fosse stato fatto dalla gente di Lixia.

Ci incamminammo lungo il corridoio. La sala da pranzo era deserta. Condussi i miei compagni in cucina; anche questa era vuota. La luce del sole penetrava dalle alte finestre e tutto luccicava, perfino il tavolo di legno per tagliare, che era stato appena lavato. Gli addetti alla cucina dovevano essersene andati da pochi minuti.

Mi guardai attorno. — Dev’esserci del cibo qui da qualche parte.

Derek entrò con una spinta dalla porta. — Hanno detto… lo speravo. Nia, posso abbracciarti?

Nia parve sorpresa, poi fece il gesto dell’assenso.

Derek le diede un rapido abbraccio.

— A me no, però — disse l’oracolo. — Io sono un uomo, anche se sono pazzo. Non mi piace essere toccato.

— Okay. — Derek mi guardò. — Là fuori corrono tutti qua e là gridando: "Arrivano i nativi, arrivano i nativi". Ho detto ad Agopian di trovare gli addetti alla cucina.

— Bene. Ed Eddie?

— Lo stiamo cercando.

— Che cosa state dicendo? — chiese Nia.

Arrivò Agopian insieme all’ometto biondo. Adesso era vestito di denim e i lunghi capelli non erano più fermati dalla retina. Li portava legati da un fermaglio sulla nuca. Da lì gli scendevano sciolti quasi fino alla vita.

— Sia gloria al cielo — esclamò.

Dissi: — Sono affamati.

Lui annuì col capo. — Ci sono dei sandwich. E abbiamo una minestra di lenticchie abbastanza buona.

Lanciai un’occhiata a Derek. — Pensi che sia prudente per loro mangiare il nostro cibo?

— Una domanda interessante e alla quale non voglio dare una risposta da solo. È meglio andare a cercare un biologo.

— Mi piacerebbe sapere di che cosa state parlando — fece Nia.

— Stiamo cercando di decidere se potete mangiare il nostro cibo.

— Perché no?

L’uomo biondo disse: — Potreste uscire tutti quanti dalla mia cucina? Abbiamo regole severe riguardo all’igiene.

— Quell’osservazione rivela forse dei pregiudizi? — chiesi.

— Certamente. Ho forti pregiudizi nei confronti dello sporco e di molti microorganismi. Adesso, per favore, uscite.

Tornammo nella sala da pranzo. Derek se ne andò con Agopian e io mi sedetti a un tavolo. Nia e l’oracolo seguirono il mio esempio. Sembravano nervosi. Non riuscivo a ricordare di aver visto una sedia in nessuna casa indigena.

— Siete della gente rumorosa — osservò Nia.

Feci il gesto dell’approvazione.

L’oracolo guardò fuori dalla finestra. — E corrono parecchio di qua e di là.

— Solo quando arrivano degli stranieri o quando succede qualcosa che è fuori dall’ordinario.

— Uh!

Arrivò l’uomo biondo, portando una brocca e due bicchieri. — Questa è acqua locale. È stata analizzata e poi distillata. Dovrebbe essere sicura per tutti.

Posò i bicchieri sul tavolo e li riempì. — Eccovi. — Ne porse uno a Nia e l’altro all’oracolo.

Loro aggrottarono la fronte. Nia mise giù il suo bicchiere. Lo toccò leggermente. — Che cos’è? Sembra ghiaccio, ma non è freddo.

— Si chiama "vetro". Non si scioglie e non si può mangiare. Si rompe facilmente. Se si rompe, i bordi sono taglienti.

C’era del ghiaccio che galleggiava nel bicchiere. Un cubetto. Lei lo spinse. — Questo è altro vee… altro della stessa cosa?

Feci il gesto del dissenso. — Quello è ghiaccio.

— Perché ha la forma di una scatola? Perché ha un buco nel mezzo?

— E perché si trova nella nostra acqua? — aggiunse l’oracolo.

— Alla mia gente piace che la propria acqua sia fredda ed è per questo che vi mette dentro del ghiaccio. Il ghiaccio è a forma di scatola perché… — Esitai. — Lo facciamo noi. Lo fondiamo come metallo in uno stampo, e lo stampo è quadrato su tutti i lati.

— Aiya! - Nia sollevò il bicchiere e lo inclinò. L’acqua le scorse sul mento e le gocciolò sulla tunica lacera. — Questa tazza non è fatta bene!

— È possibile — dissi.

Provò anche l’oracolo. Come Nia, rovesciò una discreta quantità d’acqua. Erano nervosi, tutti e due. Il perché non era difficile immaginarlo. Erano lì seduti, circondati da maghi senza pelo, cercando di fare conversazione mentre il loro stomaco emetteva brontolii affamati.

Finirono di bere l’acqua. L’oracolo tirò fuori un cubetto di ghiaccio dal suo bicchiere. Lo tenne sul palmo della mano, guardandolo. Poi vi cacciò dentro il dito. — È ghiaccio. — Se lo mise in bocca. Sentii uno scricchiolio.

— Questo puoi farlo con il ghiaccio — dissi. — Ma non con il vetro.

L’oracolo fece il gesto che indicava che capiva. Derek tornò accompagnato da una donna alta come lui e nera come carbone. Portava una tuta di un giallo intenso e un paio di orecchini davvero stupefacenti. Due enormi dischi, fatti di metallo martellato. Quando si avvicinò, notai i suoi occhi. L’iride era d’argento, lo stesso colore degli orecchini. Non c’erano pupille.

Lenti a contatto, naturalmente. Non era una moda della Terra. La donna veniva da una delle colonie L-5 oppure dalla Luna o da Marte.

Aveva in mano un sacchetto. Un attimo dopo mi accorsi che il sacchetto si muoveva. Dentro c’era qualcosa di vivo. Guardò Nia e l’oracolo. — Bene, sono sicuramente alieni. Su questo non può esserci alcun dubbio.

Derek disse: — Secondo Marina, loro dovrebbero poter mangiare il nostro cibo.

— Il problema non è che siamo velenosi gli uni per gli altri — spiegò la donna. — Il problema è che i membri di un sistema non sono in grado di metabolizzare il cibo che viene dall’altro sistema. Se queste persone mangiano il nostro cibo per un certo periodo di tempo, finiranno con qualche malanno da carenza veramente terribile. Ma uno o due pasti non dovrebbero arrecare loro alcun danno.

"Tuttavia." Fece una pausa. "Detto questo, sconsiglio di dare loro il nostro cibo. Invece…" Infilò la mano nel sacchetto e tirò fuori un pesce, che si dibatté nella sua mano. "Chiedi ai tuoi amici se questo è commestibile."

Lo feci. Nia fece il gesto dell’affermazione. Marina consegnò il pesce all’uomo biondo. — Cuocilo ai ferri. Non aggiungerci niente. Né burro, né sale.

— D’accordo — disse l’uomo, e se ne andò in cucina.

Marina si sedette. — Ci sono sempre allergie, e reazioni imprevedibili di un tipo o dell’altro. Non vogliamo uccidere i primi alieni che ci capita di incontrare.

— No — dissi.

— Che cosa sta succedendo? — chiese Nia.

— Quell’uomo piccolo cucinerà il pesce — dissi. — La donna che è appena entrata sostiene che c’è la possibilità che il nostro cibo vi faccia male.

— Aiya! - esclamò l’oracolo. — Questa è una strana esperienza.

Nia fece il gesto dell’approvazione.

La donna nera si presentò. Il suo nome era Marina In-vista-dell’Olimpo e veniva da Marte. Era una biologa. La sua specialità era la tassonomia. Aveva passato anni a classificare, la vita fossile del proprio pianeta d’origine.

— Dev’essere deprimente. Tutte quelle meravigliose piccole creature! Stranissime come quelle che avevamo sulla Terra durante il Precambriano. Tutto sparito. Il pianeta era morto, a parte noi. Capite perché mi sono precipitata quando si è presentata l’occasione di partecipare alla spedizione.

Nia aveva l’aria irritata. — È faticoso stare con delle persone che non capiscono il linguaggio dei doni.

Feci il gesto dell’assenso. L’uomo biondo tornò con due piatti di pesce ai ferri.

— Non è stato facile — disse. — Non ho potuto aggiungere nemmeno un contorno.

Nia e l’oracolo mangiarono in fretta e agilmente con le mani. Tutti noi ci sforzammo di non stare a fissarli.

Quando ebbero finito, Nia disse: — Me ne vado nella foresta. Se riuscirò a trovare il tipo di legno giusto, fabbricherò una trappola. Finora avevo paura di scendere lungo il lago perché sembrava che la tua gente fosse ovunque. Ma adesso ho meno paura. E se non posso mangiare il vostro cibo, dovrò trovarne da me.

Feci il gesto dell’approvazione.

— Quante cose nuove! Come faccio a uscire da questa casa?

L’accompagnai fino alla porta.

— Tornerò all’imbrunire. — Si voltò e attraversò il campo, diretta verso la foresta. La gente l’osservava. Tornai nella sala da pranzo.

L’oracolo disse: — Vorrei dormire.

— Okay — rispose Derek.

Uscirono. L’uomo biondo accatastò i piatti e i bicchieri. — Dovranno imparare a riordinare da soli le proprie cose.

— È improbabile che usino molto la sala da pranzo — ribattei.

— Può darsi di no. — Tornò in cucina.

Guardai Marina, che disse: — Devo dar da mangiare a un brutto-cattivo.

— Che cosa?

— Sto raccogliendo degli esemplari e non ho ancora incominciato a dare loro dei nomi in latino. È stata una giornata stupefacente. Ci vediamo più tardi.

Se ne andò. Io restai seduta ancora un po’, da sola, pensando: loro sono vivi. Poi uscii.

Il vento soffiava verso sud-est, scacciando le nuvole. Entro la metà del pomeriggio il cielo era sereno. Trovai la cupola di biologia. Era color giallo chiaro e piena di gabbie. La maggior parte delle gabbie erano occupate. C’erano uccelli che zufolavano, bipedi che facevano versi striduli. Il brutto-cattivo grugniva e tirava su col naso.

— Che cos’è? — chiesi.

— Immagino che sia un principe, vittima di qualche genere di maledizione — rispose Marina. — Guarda quelle verruche! Guarda quelle setole!

La creatura camminava, gli artigli che si muovevano a scatti. Era creato per scavare e aveva una specie di muso a proboscide lungo e sottile. Non come un formichiere. Questa creatura aveva un sacco di denti.

— Vedo che cos’ha di brutto.

— Ma in che cosa è cattivo? Rigetta quando si innervosisce. Credo che sia un meccanismo di difesa. Certamente a me dà fastidio.

— Che cos’è?

— Questa è una domanda interessante. — Marina si sedette su un angolo del tavolo. Accanto a lei c’era una gabbia piena di piccole lucertole a strisce gialle e rosa intenso. Le lucertole si precipitarono su per i lati della gabbia e restarono appese al soffitto. — Su, su, tesorini. Non intendevo spaventarvi.

Le lucertole smisero di muoversi. Restarono appese a testa in giù, immobili. Avevo la sensazione che credessero di essere invisibili.

— Ti ricordi la caverna che avete trovato subito prima di arrivare nella valle del fiume?

La guardai, sorpresa. — Sì.

Lei sorrise. — Ho visto le relazioni. Ci sono pitture sulle pareti. Persone e bipedi e alcune lucertole molto grosse, ma nessun… non sono sicura di come chiamarli… pseudo-mammiferi. O mammiferoidi. Nessuna creatura coperta di pelliccia.

"Pensiamo che esista una possibilità che i due continenti quaggiù siano separati da moltissimo tempo e abbiano sviluppato sistemi ecologici veramente diversi.

"Ci sono uccelli sul continente grande. Potrebbero esserci arrivati in volo. E un sacco di animali che ricordano i mammiferi. Ma nessun bipede.

"Questo continente è pieno di uccelli, di bipedi e di animali che ricordano le lucertole. Ma non ci sono molti animali con la pelliccia. Per lo più sono piccoli o, in caso contrario, sono addomesticati."

— Sono arrivati con le persone — dissi. — E le persone sono arrivate dal continente grande.

— Giusto. È quello che pensiamo. Ma stiamo lavorando senza quasi nessun dato.

"Crediamo che le pitture che avete visto siano state fatte dopo l’arrivo delle prime persone, ma prima che queste avessero avuto grosse conseguenze sulla fauna locale. Forse i primi abitanti sono arrivati in epoca anteriore all’addomesticamento degli animali. O forse avevano imbarcazioni troppo piccole per trasportare parecchio di qualunque cosa. Come ho detto, siamo quasi privi di dati.

"Il che mi riporta al brutto-cattivo." Lo indicò con un cenno della mano.

Quello tirò su col naso, poi sbadigliò, mostrando file di denti appuntiti. Una lingua nera si arricciò. Chissà che cosa mangiava?

— Carne cruda e foglie — disse Marina. — È onnivoro.

— Sai leggere nel pensiero?

— So fare deduzioni logiche. — Fece un altro cenno con la mano. — È troppo grosso per essersi nascosto su un’imbarcazione, o una zattera, o qualunque cosa questa gente abbia usato per arrivare qui. E non riesco a pensare a una ragione qualsiasi perché qualcuno avrebbe voluto portare una cosa del genere in un viaggio oceanico. E non è poi tanto somigliante ai mammiferoidi che ho visto.

Feci il gesto della domanda.

— Faresti meglio a parlare in inglese.

— Non lo è?

— No. Per prima cosa, non ha capezzoli. Non riesco a trovare alcuna prova che allatti. Gli animali sul continente grande lo fanno. Altra cosa, ha squame rudimentali. Sono nascoste fra le verruche e le setole.

— Davvero? — Diedi un’altra occhiata all’animale. Era difficile capire a che cosa assomigliasse. Un bradipo? Non proprio. Un formichiere coperto di aculei? No. E una lucertola pelosa? Forse. E che cosa dire di un incrocio fra un tasso e un rospo?

Niente di appropriato. Era una creatura di una specie a sé.

— Pensi che deponga uova?

— Può darsi. Non lo saprò finché non l’avrò aperto.

Decisi di non pensare a quello. — Da dove credi che provenga?

— Non ne ho la minima idea. Forse si è evoluto qui. Forse è arrivato da una delle isole. Forse è originario del continente grande. Potrebbe essere mutato dopo essere arrivato qui, aver trovato una nicchia ecologica vuota ed essersi evoluto in modo da riempirla.

"È stato un vero inferno sulla nave. Avevamo troppi interrogativi e troppo poche informazioni. Ce ne stavamo seduti lassù a tessere folli teorie, come un mucchio di ragni ai quali è stato dato un allucinogeno." Marina si alzò in piedi. "Be’, ho finito. Vado fuori a controllare le mie trappole." Sorrise. "È semplicemente sorprendente. Non ho la minima idea di quello che troverò."

Rimasi lì e osservai gli animali. Avevano tutti l’aspetto vagamente miserabile delle creature in gabbia. Forse ero io a volerlo vedere. Non mi sarebbe piaciuto essere al loro posto, ma forse a loro non importava.

Il brutto-cattivo mi guardò, poi fece qualche altro passo. Si stava innervosendo? Decisi di andarmene.

Adesso c’erano due imbarcazioni ormeggiate alla banchina, e alcune persone stavano scaricando casse. Andai ad aiutare.

Finimmo all’incirca all’ora in cui il sole tramontava. Le scogliere del fiume gettavano lunghe ombre sul campo. Il lago luccicava ancora, riflettendo il cielo verdeazzurro. Le persone che avevo aiutato mi ringraziarono. Tornai alla mia cupola e trovai Derek nel corridoio fuori dalla mia stanza. Portava un paio di pantaloni di denim bianco. Erano inzuppati. Non aveva nient’altro addosso. — Ho appena iniziato l’oracolo all’acqua corrente calda e fredda. È meglio che torni da lui. Potrebbe annegare. Va’ alla cupola degli approvvigionamenti. Procurati dei pantaloni corti taglia media e una camicia. Non può più indossare quello straccio.

— Okay. — Mi voltai e tornai da dove ero venuta.

Quando feci ritorno, l’oracolo era già uscito dal bagno e gironzolava per il corridoio con indosso un asciugamano stampato a fiori. Una delle nostre compagne di cupola, una donna asiatica, lo osservava con aria perplessa.

— Dov’è Derek? — chiesi.

— Nella stanza dell’acqua. Mi hai portato qualcosa da indossare?

— Sì. Andiamo qui dentro. — Gli feci strada verso la mia stanza. La donna scosse il capo e tornò alle sue faccende.

Lo aiutai a infilarsi i pantaloncini corti. Erano blu terrestre con un sacco di tasche. La camicia era di cotone a maniche corte, del tipo che s’infilava dalla testa, gialla con il nome della spedizione in caratteri cinesi di un rosso acceso. Dovetti aiutarlo anche con quella.

Terminato tutto quell’affannarsi, feci un passo indietro e l’osservai. La pattina era chiusa, la pelliccia solo un po’ arruffata.

Entrò Derek.

— Come sto? — s’informò l’oracolo. — Sono solenne? È così che un uomo dovrebbe vestirsi fra la vostra gente?

— Sì — rispose Derek.

— Guarda dietro di te — dissi.

L’oracolo si girò e si trovò di fronte a uno specchio. — Aiya! Se è grande! Neppure mia madre la sciamana aveva qualcosa di così grosso. — Osservò con attenzione la propria immagine riflessa, aggrottando la fronte, poi scoprendo i denti. Si tolse un granello di qualcosa fra gli incisivi superiori. — Spero che Nia ritorni presto. Sono affamato. È una fatica fare un bagno nel modo che usate voi.

— Ripetilo ancora — fece Derek.

— No — disse l’oracolo. — Una volta è sufficiente. Adesso voglio uscire. Le vostre case sono troppo piccole. Ho la sensazione che le pareti mi schiaccino. — Serrò fra loro le mani come esempio.

— Accompagnalo tu — mi disse Derek. — Io voglio cambiarmi i vestiti e fare un sonnellino.

— Okay.

Le luci del campo si erano accese. Brillavano sopra le porte e dalla sommità di pali metallici. Un fuoristrada ci passò accanto sobbalzando sul terreno pieno di solchi. Qualcuno mi chiamò. Sorrisi e agitai la mano, non riconoscendo la voce.

Arrivammo sulla banchina. C’erano luci anche qui: piccole luci gialle che illuminavano i nostri piedi e la superficie della banchina. Non ero del tutto certa di che cosa fosse fatta. Cermet? Fibra di vetro? Qualcosa di grigio e di ruvido. Dondolava sotto il nostro peso. I segmenti andavano su e giù ogni volta che arrivava un’onda.

C’era un brulicare di insetti attorno alle luci. Erano tutti della stessa specie: sottili corpi verdi e grandi ali trasparenti. Le ali luccicavano.

— Sono quasi disposto a mangiare quelli — dichiarò l’oracolo.

Guardai lungo la spiaggia. Una persona emerse dall’oscurità portando una filza di pesci. La chiamai: — Nia?

— Li-sa! Mi serve un coltello.

Cercai nella mia tasca. — Ne ho uno.

— Ho trovato un posto per accamparci. Una grotta. — Si voltò e fece un cenno della mano in direzione della scogliera, visibile solo come una zona buia fra le luci del campo e le stelle. — Ci sono acqua e legna secca.

— Potete benissimo restare con noi — dissi.

Lei fece il gesto che significava "grazie, ma no grazie".

— Allora posso venire io con voi?

— Perché?

Esitai. Come spiegarlo? La giornata era stata troppo intensa. Avevo ricevuto troppe informazioni e avevo bisogno di pace e di silenzio. Di un ambiente che fosse familiare.

— Vieni pure con noi — disse l’oracolo. — Non è necessario che sappiamo il perché.

Attraversammo il campo, tenendoci nell’ombra, e ci inerpicammo su per la scogliera. Doveva esserci un sentiero, ma non riuscivo a vederlo. Seguii il rumore che faceva Nia, sfiorando rami nel passare e arrampicandosi fra le rocce. Dietro di me l’oracolo boccheggiava. Ansimavo anch’io.

Nia disse: — È questo il posto.

Mi fermai.

— Resta dove sei, Li-sa. Lo so che i tuoi occhi sono quasi inutili nel buio.

Ubbidii.

— Aiya! - esclamò l’oracolo. — Che salita! Non mi piace il modo in cui calzano questi indumenti. Sono troppo stretti.

Comparve una fiamma. Scorsi Nia, che soffiava stando accoccolata. La fiamma si ravvivò. Nia si dondolò all’indietro sui calcagni e allungò la mano per prendere una manciata di ramoscelli. Con cura, uno dopo l’altro, li mise nel fuoco che ardeva al centro della radura. Su un lato c’era la scogliera del fiume, che s’innalzava perpendicolare e quasi priva di vegetazione. Scorsi la grotta. Era assai poco profonda, solo una sporgenza rocciosa in realtà.

Il resto della radura era fiancheggiato da alberelli stentati. Sui tronchi e sui rami crescevano rampicanti. Interi alberi ne erano avvolti o ammantati. Le foglie dei rampicanti erano color rosso porpora.

Nia disse: — Dammi il tuo coltello.

L’aprii e glielo porsi. Lei pulì i pesci e li avvolse nelle foglie, appoggiandoli fra la brace ai margini del fuoco.

— C’è dell’acqua qui vicino. Ho dimenticati di chiederti qualcosa in cui metterla.

— Non ho sete — dissi, e mi sedetti.

— Che cosa succederà adesso, Li-sa? La tua gente se ne andrà e ti porterà con sé?

— Non ancora. — Mi cinsi le ginocchia con le braccia. Guardai il fuoco e pensai che doveva essere riuscita a salvare la sua attrezzatura per accendere il fuoco dopo che la canoa si è capovolta. Oppure era riuscita a trovare delle pietre che funzionassero altrettanto bene quanto il suo acciarino e la sua pietra focaia? — Loro vogliono scambiare doni. Dicono che c’è un villaggio a nord-ovest di qui, su un piccolo fiume che sfocia nel grande fiume. Hanno intenzione di andarci e di chiedere alle abitanti se possono rimanere in questo territorio, almeno per un po’ di tempo.

Nia restò in silenzio. Le lanciai un’occhiata.

— Credi che diranno di no?

— Non so che cosa faranno.

L’oracolo intervenne: — Mi sembra che tu abbia detto che la tua gente vive sulla sponda occidentale del fiume.

— Sì.

La guardai di nuovo. La fronte ampia e bassa era increspata e le arcate sopracciliari sembravano più prominenti del solito. I suo occhi erano nascosti nell’ombra.

— Il villaggio appartiene al Popolo del Ferro, Nia? — chiesi.

— Credo di sì. Dovrebbe. Questo è il loro territorio.

— Che cosa sccederà si ti troveranno qui?

— Te l’ho già detto in precedenza. Mi tratteranno nel modo in cui vengono trattati tutti gli stranieri.

— Non c’è la possibilità che tu venga… — Esitai, poi usai una parola che significava essere danneggiati accidentalmente. Non sembrava esserci una parola che significasse essere danneggiati o feriti volontariamente, a meno di non ricorrere alle parole che descrivevano le liti degli uomini.

Nia sembrò sorpresa. — No. Non sono pazzi. Non sono il Popolo il cui dono è la follia.

— Che cosa?

— Conosci quella storia? — domandò l’oracolo. — Mi è sempre piaciuta.

Lo guardai. — Di che cosa tratta?

Nia raccolse un bastoncino e lo usò per togliere i pesci dal fuoco. Si sputò sulle dita, poi scartocciò le foglie. — Uh! Se scotta!

— Il pesce è cotto? — s’informò l’oracolo.

Nia fece il gesto dell’affermazione.

— Bene. — L’oracolo si avvicinò di più al fuoco.

Mangiarono.

Avevano finito e si stavano leccando le dita quando dissi: — Raccontami la storia.

Nia fece il gesto della domanda.

— La storia del Popolo il cui dono è la follia.

— Sì — disse l’oracolo. — Raccontala.

— Nell’estremo nord vive un popolo — incominciò Nia.

— No — la corresse l’oracolo. — Vive a ovest.

Nia sembrò adirata.

— Te la lascerò raccontare come vuoi — disse l’oracolo. — Anche se ti sbagli.

Nia fece il gesto che significava "così sia".

— Nell’estremo nord vive un popolo. Costoro fanno tutto a rovescio. Gli uomini restano a casa. Si prendono cura dei figli. Le donne conducono la mandria e vanno a caccia.

— Questo è giusto — commentò l’oracolo.

— Le persone sono stupide e maldestre. Legano i loro animali all’interno delle tende e loro vivono fuori sotto il cielo. La pioggia si abbatte su di loro. La neve si ammucchia attorno a loro. Il vento geme e urla nelle loro orecchie.

L’oracolo fece il gesto dell’approvazione, seguito dal gesto della soddisfazione.

— Quando cercano di cucinare un pasto, accendono il fuoco dentro la pentola, e quando brucia bene, ammucchiano la carne attorno alla pentola, contro il metallo rovente. Tutto viene fatto in modo stupido. Ci sono parecchie storie su come si accoppiano in modo sbagliato. Sembra che non riescano a ricordare che cosa vada dove.

L’oracolo si protese in avanti. — C’è una storia su un uomo. Arrivò il periodo dell’accoppiamento e lui lasciò il villaggio. Trovò una pentola abbandonata sulla pianura. Qualcuno, qualche altro sciocco, l’aveva lasciata lì. Era bella e ben fatta. Brillava alla luce del sole.

"’Come sei avvenente’ disse alla pentola. ’Non andrò in cerca di nessun’altra.’

"Si accoppiò con la pentola, poi fece ritorno al villaggio.

"In seguito si infuriò perché la pentola non veniva nel villaggio a portargli i figli da allevare. Andò sulla pianura e la trovò, là dove l’aveva lasciata. ’Dove sono i miei figli, stupida cosa? Dove sono le mie figlie belle e forti?’

"Prese a calci la pentola e la capovolse. All’interno era rossa di ruggine.

"L’uomo cadde in ginocchio. ’O pentola! O pentola! Hai abortito! È stata colpa mia? Sono stato io a uccidere i miei figli?’"

L’oracolo tacque.

— È così che finisce la storia? — chiesi.

— Non ne so altro.

— Non ho mai sentito quella storia — disse Nia.

— Fino a ora — ribatté l’oracolo.

Nia fece il gesto dell’assenso. — La storia che conosco io parla della donna che si confuse nel periodo dell’accoppiamento. Invece di aspettare che un uomo uscisse dal villaggio e si recasse nel territorio da lei controllato, questa donna trovò un osupa. Si accoppiò con quello. Non so perché l’animale avesse acconsentito. Forse anche gli animali sono stupidi in quel territorio.

"Passò del tempo. La donna ebbe un figlio. Il bambino era coperto di penne e aveva una coda.

"’Che bel bambino’ disse la donna. ’Non è affatto ordinario.’

"Il bambino crebbe. Si rifiutava di imparare i mestieri degli uomini. Invece voleva cacciare sulla pianura. Correva più veloce di qualsiasi persona normale. Catturava piccoli animali con gli artigli e i denti.

"’Mio figlio è speciale’ diceva la donna. ’Nessuno ha mai visto un bambino così.’ Si vantava con le altre donne quando le incontrava. Quelle si adiravano perché avevano figli normali, che facevano quello che ci si aspettava da loro.

"’Vogliamo tutte dei figli speciali’ dissero.

"Quando venne di nuovo il periodo dell’accoppiamento, si accoppiarono tutte con animali."

— Non conosco questa storia — disse l’oracolo. — Penso che sia disgustosa.

Nia sembrò turbata.

— Se non ti piace, va’ dove non puoi sentire — dissi. — Io voglio sentire la fine.

L’oracolo si alzò, poi si sedette di nuovo. — La storia è disgustosa, ma sono curioso.

— Non ci pensavo — disse Nia. — Ho trascorso troppo tempo insieme a persone strane. Questa non è una storia per un uomo.

— Nia, non puoi interromperti adesso.

— Sì che posso.

Guardai l’oracolo. — Va’.

Lui si accigliò. — Devo proprio?

Feci il gesto dell’affermazione.

Si alzò con evidente riluttanza e si diresse verso il limitare della radura, si sedette dandoci le spalle e fissando l’oscurità. Guardai Nia.

— Non c’è più molto. Tutte le donne ebbero figli strani. Alcuni erano uccelli terrestri. Altri somigliavano a cornacurve. Una donna si accoppiò con un assassino-della-pianura. Non so come ci sia riuscita. Sua figlia era fatta interamente di denti e di artigli.

"Nessuno dei figli voleva andare a vivere nel villaggio. Restarono sulla pianura e si diedero la caccia a vicenda. Non impararono i mestieri delle persone.

"In un primo tempo le donne erano felici. ’Tutti i nostri figli sono speciali. Abbiamo fatto qualcosa che non è mai stato fatto prima.’

"Poi si accorsero che non avevano nessuno che le aiutasse. E gli uomini al villaggio si accorsero della stessa cosa. Andarono sulla pianura, sia gli uomini che le donne, e supplicarono i figli. ’Lasciate la pianura. Imparate i mestieri delle persone. Abbiamo bisogno di lavoratori del ferro e tessitori. Abbiamo bisogno di mandriane e donne che sappiano fare bei ricami.’

"Ma i figli non ascoltarono. Invece fuggirono via. Divennero interamente animali.

"I membri del Popolo il cui dono è la follia dovettero ricorrere gli uni agli altri. Si accoppiarono nel modo giusto. Le donne ebbero figli normali. Gli uomini li allevarono. Erano come i loro genitori. Stupidi, sì. Maldestri e sciocchi. Ma persone." Fece il gesto che significava "è finita".

— Torna pure — dissi all’oracolo.

Lui tornò. Restammo seduti in silenzio. Nia appariva depressa e l’oracolo aveva un’aria imbronciata. Mi sentivo confusa.

Che cosa significavano quelle storie? Trattavano entrambe della perdita di figli. Era forse un problema quaggiù? Costoro si preoccupavano degli aborti e dei figli malformati come facevamo noi sulla Terra?

Non sembrava probabile. Questo pianeta era pulito. Questi individui non avevano riempito di tossine il loro ambiente.

C’era un’altra spiegazione. Queste storie trattavano di persone che facevano tutto a rovescio. Forse il messaggio era sociologico, non biologico. Se volete figli sani, siate normali.

Un ottimo messaggio. Pertinente e autentico. Guardate me. Guardate tutti quanti sulla nave. Noi non eravamo normali. La maggior parte di noi non aveva figli e coloro che ne avevano, si erano separati da loro 120 anni addietro.

Mi faceva male il collo. Lo massaggiai. — Torno giù al villaggio. Abbiamo bisogno di coperte, se intendiamo passare la notte qui, e qualcosa in cui conservare l’acqua. Devo dire a Derek dove sono.

Nia fece il gesto dell’assenso, poi puntò il dito. — Il sentiero inizia lì.

Mi alzai e mi stiracchiai, feci il gesto dell’intesa e mi incamminai nella direzione che mi aveva indicata.

Persi il sentiero nell’oscurità e dovetti scendere carponi fra le rocce. I rami mi s’impigliarono nei vestiti, le spine mi graffiarono e cascai un paio di volte. Finalmente raggiunsi il terreno pianeggiante; davanti a me brillavano le luci del campo.

Il corridoio principale della mia cupola era deserto. Da dietro una porta chiusa provenivano delle voci: un paio di donne che chiacchieravano. Più avanti qualcuno suonava un flauto cinese. L’esecuzione era dal vivo. Lo capivo dagli errori.

Accesi la luce della mia stanza e aprii l’armadietto sotto il mio letto. Come speravo, conteneva una coperta.

Sentii la voce di Derek. — Dove sei stata? — Entrò nella stanza e si chiuse la porta alle spalle. Si era cambiato e ora indossava blue jeans e una camicia di cotone azzurro chiaro. Non aveva più la barba. La pelle del suo viso era multicolore: di un bruno rossiccio nella parte superiore, bianca in quella inferiore. Un aspetto stravagante. I capelli biondi erano molto corti.

— Hai trovato un barbiere?

Fece il gesto che significava "non ha importanza" o "parliamo di qualcos’altro". — Ho girato tutto il campo cercandoti.

— Ero sulla scogliera. Mi serve una coperta.

— Perché?

— Nia e l’oracolo si sono accampati per loro conto. Non hanno niente su cui dormire.

— Perché non vengono quaggiù?

— Non gliel’ho chiesto. Forse provano quello che provo io. C’è troppa gente qui. È tutto troppo complicato.

— E non sai che una parte delle cose. Vado a prendere la mia coperta. — Se ne andò e tornò dopo un paio di minuti. — Che altro ti serve?

— Niente cuscini. Sarà già un’impresa portare le coperte su per la scogliera. E gli indigeni non usano cuscini. Quanto a me, cercherò di decidere se voglio restare con Nia.

Gettò verso di me la coperta. Si spiegò a mezz’aria e cadde in un mucchio.

— Dannazione a te.

— Torno subito.

Raccolsi la coperta e la ripiegai. Derek tornò con un’altra coperta, che mise sul mucchio. — A Janos questa non servirà.

— Pensi di no?

— Fa perfino troppo caldo nella cupola. Ti accompagnerò fino ai margini del campo. Non mi sento del tutto a mio agio qui dentro.

Ricordai le storie che si raccontavano su Derék. Aveva una casa a Berkeley, piena di manufatti e di libri. Un sacco di libri. La maggior parte erano fatti di carta. Alcuni erano nuovi e venivano da speciali tipografie. Altri erano vecchi e fragili.

Lui lavorava in casa. Dentro ci stavano gli ospiti. Se una delle ospiti era una sua amante, restava all’interno con lei. Ma quando era solo, dormiva sotto una tettoia nel cortile. Il tetto era un pezzo di tela grossa disteso su due bambù vivi e il pavimento era costituito dall’erba. Non usava un sacco a pelo né alcun tipo di materasso. Quando faceva molto caldo, dormiva sull’erba. Con il tempo freddo, con la pioggia e la nebbia dell’inverno della California settentrionale, usava una coperta lacera.

Questa era la storia. Non sapevo se crederci oppure no.

Lasciammo la cupola e ci incamminammo nell’oscurità sotto la scogliera. Io portavo le coperte.

— Okay. — Derek si fermò. — Siamo abbastanza lontani. — Si voltò a guardare le luci del campo. — Hai consegnato il tuo registratore?

— Sì. Maledizione!

— Che cosa?

— Nia e l’oracolo stavano raccontando delle storie questa sera. Ho dimenticato che non avevo addosso un registratore.

— Non dovrebbe essere un problema per te. Conosco la tua reputazione. Se qualcosa ti interessa, te ne ricorderai.

— Uh! — dissi. — Preferisco sempre avere un sostegno.

— Anche questo fa parte della tua reputazione. — Mi toccò il braccio. — Ho qualcosa da dirti.

— Che cosa?

— Ho avuto un colloquio con Eddie questa sera. E arrivato dopo che te ne sei andata via con l’oracolo.

— Sì?

— Vuole che risaliamo il fiume con lui e la Ivanova. Vuole che traduciamo per loro.

— Andrà Eddie? Un uomo?

— Questo faceva parte del compromesso. Si è stabilito di mandare rappresentanti di ciascuna delle tre fazioni. A favore dell’intervento. Contro l’intervento. E la posizione di compromesso.

— Perché?

— Per spiegare il nostro problema ai nativi. Sottoporre ai nativi il nostro problema e chiedere a loro la soluzione. Visto che si tratta del loro pianeta. — Mi sembrò di avvertire del sarcasmo nella voce di Derek.

— La cosa potrebbe sembrare logica, anche se non dico che sia così. Ma perché mandare un uomo?

— Eddie è il principale sostenitore del non intervento. E si ritiene che dovremmo essere onesti con i nativi. Dobbiamo spiegare loro… mostrare loro… come siamo.

— È una follia.

— Uuh. E non è questa la cosa di cui voglio parlarti. — Derek fece una pausa. — Eddie vuole che noi mentiamo.

— Che cosa?

— Vuole che cambiamo quello che dice la Ivanova quando parla con i nativi. Vuole che ci assicuriamo che i nativi non gradiscano le sue argomentazioni.

— No! Ci scoprirebbero certamente. L’incontro sarà registrato e qualcuno controllerà la nostra traduzione. Forse non subito, ma presto.

— Gliel’ho detto. Ma lui sostiene che potremmo farlo in modo non evidente. Potremmo travisare le parole. Deformarle un po’. Cambiare l’intonazione.

— Non posso credere questo di Eddie. Lavoro con lui da anni.

— Credi che io ti stia mentendo?

Lo guardai, ma non vidi quasi niente. — No — risposi alla fine. — Che cosa gli hai detto?

— Ho detto che il rischio era troppo grande e tutto quello che ci avremmo guadagnato sarebbe stato solo un po’ di tempo. La Ivanova e i suoi non hanno alcuna intenzione di fare i bagagli e tornarsene a casa. Vogliono restare su questo pianeta. Proseguiranno fino al villaggio successivo e chiederanno il permesso di sbarcare. Dovremo mentire di nuovo.

"E che cosa conta di fare, gli ho chiesto, quando verrà giù il resto del team sociologico? Chiedere a tutti quanti di mentire? Quanto tempo passerà prima che qualcuno dica di no e si rivolga al consiglio dell’intera nave?"

— Per te questa non è una questione etica — dissi.

— Sono disposto a mentire. Ma soltanto per ragioni mie e solo se sarò sicuro di non essere scoperto. Non mentirò per Eddie. — Fece una pausa. Quando parlò di nuovo, la sua voce era cambiata. Il tono beffardo era sparito. — Non sono certo che l’intervento sia una cattiva idea. Eddie non viene da una cultura con una tecnologia preindustriale. Quando lui va sul campo, si porta una moderna cassetta di pronto soccorso e una radio. Se si trova in difficoltà, può chiedere aiuto. Non si è mai trovato a fare il genere di esperienze che abbiamo fatto noi, qui su questo pianeta. E non ha mai dovuto passare quello che ho passato io, quando stavo crescendo.

— Gli hai risposto di no.

— Gli ho detto forse. Nel modo più prudente possibile, nel caso ci fosse stato un registratore acceso. Ma lui pensa di avere una possibilità di trascinarmi dentro.

— Perché l’hai fatto?

— Non prendo mai una decisione in modo frettoloso, amor mio. E non limito mai le mie possibilità di scelta finché non sono costretto.

— Non ti capisco.

Lui scoppiò a ridere.

Aspettai.

— Eddie riconosce che il suo piano servirà soltanto a guadagnare tempo. Interessante, vero, come le metafore sul guadagnare e vendere siano rimaste nel linguaggio? Noi guadagnamo tempo. Vendiamo il nostro onore. Lui sostiene di non sapere realmente che cosa ne farà del tempo, ma non vuole lasciare che queste persone facciano la stessa fine del suo popolo nelle Americhe. È disposto a rischiare ogni cosa nella speranza di impedirlo.

— Uh.

— Va’ su da Nia e dall’oracolo. Io penso che andrò in cerca di una bottiglia di vino. È passato parecchio tempo dall’ultima volta che mi sono ubriacato.

Mi inerpicai su per la scogliera, perdendomi di nuovo. Non saprei dire per quanto tempo mi aggirai alla cieca, impigliandomi nei cespugli, inciampando nelle radici e scivolando lungo pendii di pietre e terriccio per poi arrampicarmi di nuovo, imprecando.

Alla fine trovai il bivacco. Entrai nel cerchio di luce del fuoco. L’oracolo alzò lo sguardo. — Hai i capelli pieni di foglie, e hai della terra sulla faccia.

— Non mi sorprende. — Lasciai cadere le coperte. — Eccole. Maledizione! Ho dimenticato qualcosa in cui mettere l’acqua!

Nia fece il gesto che significava "non ha importanza". L’oracolo prese una coperta e la strofinò con la mano. — Mi piace il tessuto, anche se non è soffice come la lana che si ricava dalle schieneargentate. — Si avvolse nella coperta.

Presi anch’io una coperta e mi coricai nella grotta. Restai qualche tempo a osservare la luce del fuoco che guizzava sulla parete e sul soffitto di roccia.

Mi svegliai con la luce del sole. L’oracolo era seduto nella radura accanto al fuoco ed era occupato ad aggiungere rami. I suoi vestiti, i pantaloncini blu e la camicia di cotone giallo, erano già un po’ sporchi.

— Dov’è Nia?

— È scesa a controllare le sue trappole per i pesci.

Mi alzai e presi il coltello dalla mia tasca. — Avrà bisogno di questo. Vado giù al villaggio a mangiare.

— Sei fortunata! Vorrei avere un posto dove mangiare. Mi sto stancando del pesce.

— Forse posso rimediare qualcosa.

Questa volta il tragitto fu agevole. Il sentiero per scendere era ben visibile. Mi chiesi chi l’avesse tracciato. Era venuto qui qualcuno?

Andai nella mia cupola e mi feci una doccia, poi indossai nuovi vestiti: una tuta di un rosso borgogna, una cintura bianca, calzini bianchi e sandali giapponesi. Mi fissai i capelli alla base del collo e guardai con espressione corrucciata la mia immagine riflessa. Decisamente avevo bisogno di tagliarmi i capelli, ma in quale stile? Forse avrei dovuto aspettare finché non fossi tornata sulla nave. Meiling sapeva sempre che cosa andava di moda. Andai in sala da pranzo.

Eddie e Derek erano seduti insieme. Oggi se ne stavano all’ombra, ed Eddie non portava occhiali. Presi del caffè e una focaccina e mi avvicinai.

— È un bene che ti sia fatta vedere — disse Derek. — Eddie ha deciso che dobbiamo tenere una riunione.

Mi sedetti e mi versai il caffè. Che aroma! Come avevo fatto a sopravvivere senza?

— Stavo dicendo a Derek — cominciò Eddie — che dovresti iniziare a lavorare sui tuoi rapporti. Sei in un nuovo ambiente adesso. Ricevi un nuovo genere di informazioni che incominceranno a interferire.

— La Legge della Memoria di Gresham — osservò Derek.

— Che cosa?

— Le nuove informazioni scacciano quelle vecchie. Le informazioni sbagliate scacciano quelle giuste.

Imburrai la focaccina, che era di crusca, noce e banana. — Non credo che quella formulazione sia esatta.

— È superficiale e inutile — disse Eddie. — Tale quale l’umore di Derek stamattina, a quanto sembra. — Lanciò un’occhiata al taccuino che aveva di fronte. Era aperto e c’erano dei caratteri sullo schermo. — Incomincerai a lavorare sul tuo rapporto, Lixia?

— Sì.

— Oggi?

— Sì.

Eddie premette un tasto del taccuino. Una fila di caratteri sparì. — Il team medico dice di volervi tenere sotto osservazione ancora per un giorno.

— Non noi personalmente — precisò Derek. — Stanno tenendo sotto osservazione le nostre colture. Se entro domani sera non accadrà niente di strano o di terribile, potremo tornare a lavorare.

Eddie sembrava impaziente, ma lasciò che Derek finisse di parlare. Poi si protese in avanti. — La Ivanova e io vogliamo che tu venga con noi quando risaliremo il fiume.

Feci il gesto che significava "lo so".

— Ci verrai?

— Sì.

Premette di nuovo il tasto. Un’altra riga di caratteri sparì. — Derek ha suggerito di chiedere a Nia e all’oracolo di venire con noi.

— Non so se sia una buona idea. Nia viene da quel villaggio. Loro l’hanno mandata in esilio. Non le faranno del male se tornerà, ma è probabile che non le riservino un’accoglienza particolarmente calorosa.

— Chiediglielo — fece Derek.

— Perché vuoi che venga?

— Lei e l’oracolo ne sanno di più sugli umani di chiunque altro su questo pianeta. Potrebbero avere qualcosa di utile da dire sul problema che abbiamo per le mani. E non voglio lasciare loro due da soli in mezzo a un posto estraneo. Non possiamo dare loro viveri, e non so come la penseranno le persone riguardo al problema di fornire loro utensili e armi. Dio solo sa che cosa accadrà se questi selvaggi si procureranno ami da pesca o coltelli con la lama di acciaio inossidabile. E… — Sorrise. — Mi preoccupa l’idea di lasciarli qui indifesi. Quelli del team medico vogliono esaminarli. E così i biologi e gli psicologi e…

— Che cosa ne pensi? — domandò Eddie.

Finii la focaccina, mandandola giù con il caffè. — Tanto vale chiederglielo. Derek ha ragione. Nia ha una certa esperienza dell’umanità. Non possiamo lasciarla sola sulla pianura. E non vorrei proprio tornare e scoprire che se ne è andata a causa di quelli del team medico. Non mi stupirei se lo facesse. Non è del tutto a suo agio con noi, e un esame medico può essere abbastanza disumanizzante, perfino quando si sa che cosa sta succedendo.

Eddie annuì. Altri caratteri sparirono dal taccuino. Vi diedi un’occhiata. Lo schermo era vuoto fatta eccezione per due caratteri. Strizzai gli occhi. Il numero quattro e un punto interrogativo. — È tutto?

Lui mi guardò con aria malinconica, gli occhi non riparati dalle lenti. Indossava una camicia azzurra questa mattina: semplice chambray, aperta sul collo a rivelare una collana d’osso e conchiglie. I capelli erano trattenuti da un fermaglio sulla nuca. Il fermaglio era guarnito di perline: un disegno geometrico. Lavorazione Dakota come la collana. La maggior parte dei suoi antenati erano Anishinabe, ma alcuni provenivano dai Sette Fuochi del Consiglio. Altri erano francesi o inglesi.

— C’è ancora una cosa. — Esitò.

— Gliene ho parlato — disse Derek.

— Che ne pensi, Lixia?

— Credo che sia un’idea disgustosa.

Eddie sospirò. La riga numero quattro sparì. Lui spense il taccuino e lo chiuse, ripiegando lo schermo sulla tastiera. Il taccuino era ancora troppo grande per entrare in una normale tasca. Il problema era costituito dalle dita umane. Non erano state miniaturizzate. La tastiera doveva essere larga almeno venti centimetri perché la maggior parte delle persone potessero usarla.

— È quello che temevo — disse Eddie. — Ti parlerò più tardi. Per favore, incomincia con il rapporto. — Si allontanò, portando il taccuino in una mano.

— Sarà una conversazione spiacevole — osservai.

Derek fece il gesto dell’assenso.

— Se tu gli avessi detto di no, avrei potuto evitarla.

— Uuh.

— Se tu gli avessi detto di no, sarebbe in collera con te. Ora si arrabbierà con me.

— Forse.

— Avevi programmato tutto?

— Io non programmo affatto quanto credi.

— Mmm. — Portai i miei piatti al tavolo riciclante, poi mi recai nella cupola degli approvvigionamenti e mi procurai un taccuino con una memoria di 256 K.

Trascorsi la mattinata nella mia stanza. Per prima cosa buttai giù le storie che avevo sentito la sera prima: il Popolo il cui dono è la follia.

Dopo di che feci un abbozzo del mio rapporto.

Smisi a mezzogiorno e andai a prendermi un sandwich. Mi stavo perdendo una splendida giornata. Grosse nuvole viaggiavano nel cielo. Il lago scintillava. C’erano persone sulla banchina, che scaricavano altre casse. Mi riportai il sandwich nella mia stanza e lo mangiai mentre scrivevo.

Alla fine mi accorsi che mi faceva male la schiena. Dalla finestra non entrava più la luce del sole e il cielo era più verde che azzurro. Il colore del pomeriggio inoltrato. Salvai il mio lavoro e spensi il taccuino, poi mi alzai e mi stiracchiai.

Era troppo presto per la cena. In ogni caso, non avevo fame. Decisi di fare una passeggiata.

Mi diressi a sud lungo il lago. La spiaggia era piatta e relativamente larga. Ci si camminava agevolmente. Qui e là un torrente scendeva dalla scogliera. Erano piccoli e quasi asciutti. Li superai.

La spiaggia si restringeva. La vegetazione incombeva sulla mia destra e sentivo l’odore umido e opprimente di una foresta. Mi voltai a guardare. Il campo era nascosto alla vista.

— Ha-runh - fece qualcosa.

Guardai davanti a me. Una creatura era spuntata dalla vegetazione. Era ferma sulla spiaggia, a quasi dieci metri di distanza, e mi osservava con un piccolo occhio scuro. Non sembrava preoccupata. Perché avrebbe dovuto? Era grossa come un rinoceronte.

Restai immobile, terrorizzata ma anche interessata.

Era un quadrupede. Niente di simile a un cornacurve. La pelle era bruna e senza pelo. Le zampe erano grosse. Aveva una lunga coda che teneva curva in modo aggraziato. La punta si muoveva lievemente avanti e indietro. Che cosa significava? Era un segno di buon umore?

Dalla testa dell’animale spuntavano delle strane corna piatte. Ce n’erano due paia. Mi facevano pensare ai tetti a sbalzo di certi moderni edifici. O a una specie di fungo. Erano rivestite da una lanugine o una pelliccia corta e sottile.

Funghi di velluto marrone. Tetti a sbalzo di velluto marrone.

L’animale restò a osservarmi per uno o due minuti. Poi si diresse elegantemente verso il lago, le grosse zampe che non facevano quasi nessun rumore, ed entrò nell’acqua bassa. Aveva un labbro superiore flessibile, quasi prensile, che sollevò mentre beveva, mettendo in mostra i denti. Erano lunghi, piatti e simili a pale.

Quasi certamente un erbivoro. Sospettai che fosse un brucatore.

Sollevò il capo e mi guardò di nuovo, poi si rimise a bere.

Era ora che me ne andassi. Arretrai lungo la spiaggia. L’animale continuò a bere, ma incominciò ad agitare la coda. Un movimento rapido e nervoso. Ebbi la sensazione che indicasse irritazione.

Smisi di muovermi.

L’animale tornò a riva.

Dove potevo scappare? Sarei stata più al sicuro nell’acqua o nella foresta?

L’animale indugiò un momento e mi fissò, poi si voltò e se ne andò trottando verso sud lungo la spiaggia. Restai a guardarlo allontanarsi, l’ampio posteriore che ondeggiava, la coda che si muoveva su e giù. Da questa prospettiva l’animale appariva stupido, ma non credo che mi sarebbe parso tale se fosse venuto verso di me.

Feci ritorno al campo, lanciando un’occhiata da sopra la spalla di quando in quando per assicurarmi che non mi stesse arrivando niente alle spalle. La spiaggia rimase deserta.

Marina era nella sua cupola e stava dando da mangiare delle foglie a un bipede. — Non vuole niente di quello che gli do. Dovrò lasciarlo andare, a meno che non decida di sezionarlo.

— Devo parlarti di quello che ho visto.

Mi lanciò un’occhiata. Oggi portava lenti a contatto dorate. Si intonavano con gli orecchini, che erano intricati e pendenti e tintinnavano ogni volta che si muoveva. — Mi serve un registratore?

— Sì.

Ne trovò uno e l’accese. — Okay.

Feci una descrizione dell’animale.

— Così grande?

— Non sono particolarmente brava a giudicare le dimensioni. Ma aveva zampe come quelle di un elefante. Questo particolare quanto lo renderebbe grosso?

— Non piccolo. Potrebbe trattarsi di un animale domestico?

— Non lo so. Ma non ho visto niente di simile in alcun villaggio.

— Se non lo è. — Si tirò il labbro inferiore. — Altri problemi. Altri interrogativi. Vorrei sapere quale divinità ringraziare. Spense il registratore. — Domani andrò laggiù a dare un’occhiata alle impronte. Se sarò fortunata, troverò degli escrementi. Questo ci dirà che cosa mangia quella creatura.

— Probabilmente Nia sa che cos’è.

Marina annuì. — Dovrei passare veramente un po’ di tempo con lei. Che ne diresti di domani? Presentaci. Potrebbe venire con me a cercare mucchi di merda.

— Sembra fantastico.

La lasciai lì che cercava ancora di alimentare il bipede, che era un grazioso esemplare. Le penne sulla schiena erano di un grigio tenue, il ventre color bianco panna. Le zampe anteriori finivano in artigli rosa e le zampe posteriori artigliate avevano lo stesso colore delicato. L’animale si muoveva irrequieto avanti e indietro nella gabbia. Le zampe anteriori artigliate prendevano il cibo di Marina e lo lasciavano cadere; quelle posteriori allonanavano a calci le foglie.

Mi recai nella cupola grande. Questa volta seguii un’insegna che mi condusse nello spazio comune, una vasta sala piena di bassi tavoli e comode poltroncine. Era quasi deserta. Vidi Brian, seduto con un paio di cinesi. Sollevò una mano in un cenno di saluto. Gli feci un cenno in risposta e mi avvicinai al bar.

Il barista era un uomo tarchiato dai lineamenti maya. Di norma i suoi occhi erano di un comune marrone scuro. Ogni tanto, però, quando la luce li raggiungeva con la giusta angolazione, l’iride diventava verde, uno scintillante colore metallico, sorprendente e inquietante.

— Li Lixia. — Mi tese la mano. — Gustavo Isidis Planitia. Faccio parte del team medico.

Ci stringemmo la mano. Mi chiese di nominare la mia tossina. Dissi chablis.

Riempì un bicchiere. — Sei ancora in quarantena?

— Che cosa vuoi dire?

— Eddie ha detto in giro di lasciarti in pace. Dovremmo concederti un sacco di tempo per riprenderti da chissà che.

Assaggiai il vino. Era giovane e aspro. Non c’era stato alcun modo pratico di mantenere in funzione la cantina durante il lungo viaggio di allontanamento dal nostro sistema, e nessuna buona ragione per farlo. Le persone dormivano. I computer non bevevano. Tutto il nostro vino era stato fatto più o meno nell’ultimo anno, e aveva tutto questo stesso sapore, se non peggiore.

— Probabilmente Eddie ha ragione — dissi. — Abbiamo qualche problema a riadattarci.

— Credo che sia una macchinazione — disse Gustavo. — Conosciamo la posizione di Eddie. Credo che stia cercando di controllare le informazioni, da voi a noi e da noi a voi.

Lo guardai. I suoi occhi erano verdi in quel momento e brillavano come il piumaggio di una qualche specie di uccello tropicale.

— Questa mi sembra paranoia — dissi.

— È un termine tecnico, e superato. Quello che intendi dire è che pensi che io nutra un sospetto infondato. Quello che hai detto è che pensi che io sia pazzo.

— Okay. Ritiro la paranoia. Ma credo che tu abbia torto. Grazie per il vino.

— È stato un piacere. E sono contento di averti incontrata.

Mi sedetti da sola. C’era una ciotola di salatini assortiti per aperitivo sul tavolo: noci e frutta secca e altre cose che non riuscii a identificare. Piuttosto gustose. Ne mangiai una manciata e sorseggiai il mio vino.

Poteva anche essere vero. Forse Eddie stava cercando di isolarci. D’altra parte non ero dell’umore adatto ai giochetti politici. Forse lui lo sapeva e mi stava semplicemente proteggendo.

Brian si fermò nell’uscire e mi presentò i suoi compagni. Erano giovani e dall’aria zelante, del team di planetologia. S’inchinarono, mi strinsero la mano e dissero che era un piacere.

— Dovremo parlare — disse Brian.

— Okay.

— Non vediamo l’ora — disse uno dei cinesi.

— Siamo impazienti — aggiunse l’altro.

Se ne andarono. Bevvi ancora un po’ di vino e guardai la finestra sopra di me. Era esagonale, sistemata nel soffitto curvo. Nel cielo c’era una nuvola, che si muoveva portata dal vento e si andava oscurando man mano che gli ultimi raggi di sole l’abbandonavano.

— Posso farti compagnia? — chiese Eddie.

Feci il gesto dell’assenso.

Lui si sedette in una poltroncina. — Derek ha parlato con Nia e con l’oracolo. Lui è disposto a venire con noi. Lei dice che ci deve pensare.

Feci il gesto dell’intesa.

Eddie bevve un lungo sorso dalla bottiglia che teneva in mano — era acqua minerale — e mise la bottiglia sul tavolo, poi prese una grossa manciata di salatini per aperitivo. Guardò verso di me. — C’è della noce di cocco qui in mezzo?

— No.

— Non mi piace la noce di cocco. — Mangiò i suoi salatini, mandandoli giù con altra acqua minerale. — Pensi davvero che la mia idea sia cattiva?

— Non funzionerà. Ci cacceremo nei guai. Ed è immorale. Le persone di qui hanno il diritto di prendere le loro decisioni basandosi su informazioni fondate.

Lui aggrottò la fronte. — Io credo che la Ivanova abbia un vantaggio. Sto cercando di fare qualcosa a questo riguardo.

— E come? — Mangiai altri salatini.

— Questi individui sanno cosa significano termini come stranieri e commercio. Quando la Ivanova parlerà di scambi culturali, loro la capiranno. Ma non sanno niente della moderna tecnologia. E non hanno la minima idea di ciò che succede quando una società industriale viene in contatto con una società che ha a mala pena una cultura agricola.

— Io non direi "a mala pena". Mi sembra che abbiano un’agricoltura alquanto sviluppata. E allevano animali. Quello che non hanno è un apparato statale, il che può essere segno di una società primitiva o di una altamente sviluppata.

— Tu stai scherzando, Lixia. Questi individui sono tribali, pre-urbani e pre-industriali. Non hanno il genere di società che immaginano gli anarchici. Hanno quello che aveva la mia gente fino alla fine del Diciannovesimo Secolo. — Tacque un momento e mi guardò con espressione pensierosa. — Tu non hai intenzione di aiutarmi, vero?

— No.

— Intendi denunciarmi?

— Al comitato dell’intera nave? No. Non sono sicura di quale sarebbe l’accusa. Corruzione di un traduttore? Condotta non adatta a uno studioso?

— Dio, che casino. — Si alzò e uscì dalla sala.

Non avrei saputo dire dal tono della sua voce se fosse adirato o semplicemente depresso. Più probabilmente adirato. In quel momento non me ne importava niente. Mi sarebbe importato al mattino quando fossi stata sobria. Ma ora… Finii di bere il mio vino e mangiai un’altra manciata di salatini, poi mi alzai. Avevo perso la mia coordinazione e vacillavo leggermente.

— Stai bene? — s’informò Gustavo.

— Sì. — Decisi di saltare la cena. Non avevo fame e non mi andava di essere la sola persona ubriaca nella sala. Curioso che un solo bicchiere di vino dovesse fare un tale effetto. Andai nella mia stanza e mi misi a letto.

Quando mi svegliai, guardai in su e non vidi niente fuori dalla finestra. Un grigiore indistinto. C’erano goccioline d’acqua sul vetro. Avvertivo l’umidità nell’aria, perfino all’interno.

Mi alzai e mi feci una doccia, poi indossai una tuta, una giacca, pesanti calzini e scarpe.

Fuori faceva fresco, forse perfino freddo. La scogliera era invisibile. Scorgevo a stento gli alberi ai margini del campo. Le cupole attorno a me avevano perso gran parte del loro colore e della loro compattezza. Sembravano galleggiare nella nebbia: ombre e bolle.

Mi incamminai verso il lago. Riuscivo a vedere i primi metri d’acqua. Si muoveva appena e non faceva alcun rumore quando lambiva la spiaggia di ciottoli. Perché la nebbia era così affascinante? Era forse il mistero? Il senso di possibilità? C’era una vecchia storia che sosteneva l’esistenza di molti mondi alterni in stretta vicinanza. A volte i mondi si toccavano e, per un momento, si confondevano fra loro. Questo creava la nebbia. Era la fusione di diverse realtà. A volte, quando i mondi si separavano e la nebbia si diradava, le persone si trovavano in luoghi inaspettati. Erano passate dall’uno all’altro e si trovavano in una realtà alterna.

Decisi che non avevo alcun interesse per una realtà alterna. Non in quel momento. Benché mi piacesse l’idea che la vita fosse confusa e offuscata dalla possibilità. Niente era stabile. Niente era certo. Non c’erano margini netti, né corsi immutabili.

Mi diressi alla cupola grande e feci colazione con Marina e un terzetto di biologi. Mi posero domande sui nativi. Risposi come meglio potevo.

— Chia ha incontrato un nativo — disse Marina e indicò una piccola donna bruna.

— Davvero?

— Si. A nord del campo. Stavo cercando… — Esitò. — Non abbiamo ancora un nome per quelli. Assomigliano a centopiedi. Sono lunghi venti centimetri e vivono sotto le pietre nell’acqua. — Fece una pausa. — In gran parte sono blu.

— Parlaci del nativo — la sollecitò Marina.

— Stava togliendo trappole dall’acqua. Ci siamo guardati per un istante, poi lui è tornato al suo lavoro e io al mio. Non mi ero resa conto di quanto fossero grandi.

— Quella era Nia — dissi. — È una femmina e non è più alta di me.

— Tu sei alta, Lixia, in confronto alla gente del mio paese. E la nativa era molto… — Esitò di nuovo. — Molto grande e massiccia.

— È la pelliccia a fare la differenza. Non sembra tanto grande quando è bagnata.

— Ah — disse la piccola donna. — Come un gatto. — Poi aggiunse: — Ho incontrato tigri nella giungla. Loro amano nuotare. Sembrano grandi anche quando escono da un fiume.

Feci il gesto che significava "non lo so per esperienza personale, ma con ogni probabilità hai ragione".

Marina disse: — Mi mancano i gatti. Continuo a sostenere che dovremmo allevarne alcuni.

— Non ci sono topi — osservò uno degli altri biologi. — Salvo che nei laboratori, e non sono un problema.

— Lo diventeranno — disse Marina. — Qualcuno ne perderà qualche esemplare. Entreranno negli orti. Avremo una pestilenza, proprio come nella Bibbia. Ratti ed emorroidi.

— Che cosa? — saltò su il terzo biologo. Era grande e grosso e quasi sicuramente polinesiano.

— I Filistei rubarono l’Arca dell’Alleanza, qualunque cosa fosse, e l’Onnipotente li tormentò con ratti ed emorroidi. Non sto mentendo. È scritto nella Bibbia.

— Se accadrà, alleveremo qualche gatto — disse l’uomo. Sembrava un tipo calmo e pratico.

La piccola donna corrugò la fronte. — Non capisco di quale utilità possano essere i gatti nella cura delle emorroidi.

— Devo lavorare — dissi e me ne andai.

Entro mezzogiorno il cielo al di sopra della mia finestra si era fatto di un nebbioso verdeazzurro. Il mio rapporto era un pasticcio. Avevo un sacco di informazioni, ma nessuna struttura. Nessuna cornice ideologica.

Oh, essere una marxista! Soprattutto una volgare marxista. Loro avevano sempre una spiegazione. Di solito veniva dal Diciannovesimo Secolo. Engels sull’Origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato. Senza dubbio Fred sarebbe stato in grado di spiegarmi questo pianeta. Forse avrei dovuto trovare un computer biblioteca e richiamare antichi documenti sulla teoria sociale. Gettai sul letto il mio taccuino.

Si aprì la porta. Derek fece capolino e disse: — Hai visite.

Nia entrò nella stanza, vestita con pantaloncini grigio chiaro e una camicia rosso borgogna. La camicia portava stampate grosse lettere bianche. Dicevano: I MIGLIORI AUGURI DALLA CONFEDERAZIONE IROCHESE.

Una donazione. Avevano voluto contribuire tutti alla spedizione. La nave era piena di oggetti con su nomi dati da circoli e cooperative, città, associazioni, tribù e kibbutzim. La lampada nella mia cabina veniva dall’Associazione dei Lavoratori Aeronavali. Sul paralume c’era l’emblema dell’associazione: due mani strette davanti a un dirigibile.

Derek disse: — Ho cercato qualcosa senza scritte, ma è impossibile trovare una camicia di cotone a maniche corte senza un motto.

Nia protestò: — Parlate una lingua che io possa capire.

— Non ha detto niente di importante — le spiegai.

— Bene. Ho deciso di venire con voi.

— Perché?

Lei fece il gesto che significava "perché no?".

— È una buona risposta?

Entrò e si sedette sul pavimento, mettendosi accuratamente in una posizione a gambe incrociate. — No. Voglio scoprire che cosa ne è stato dei miei figli e delle mie cugine. Te ne ho già parlato. E devo andare in quella direzione. Ho promesso di fare del lavoro per Tanajin. — Tacque per un momento. — Qualcuno deve raccontarle quello che è successo alla barca. Qualcuno deve dirle che Ulzai è sparito. Questi vestiti sono stretti. Come può sentirsi a proprio agio la tua gente?

— Non facilmente — risposi.

— Mi procurerò vestiti nuovi al villaggio. E cibo. E utensili. Me li daranno anche se mi conoscono e possono essere quasi certi che io non sono l’Oscuro.

Avevo un registratore? Mi guardai attorno.

— Qui — disse Derek.

Lo lanciò e io lo afferrai. Era un registratore audio grande come una scatola di fiammiferi. Lo accesi. — Chi è l’Oscuro?

— Uno spirito. Giunge nei villaggi come uno straniero, di solito una donna, a volte un uomo. Spesso è una donna lacera e affamata. Può essere ammalata. Può avere un aspetto curioso.

"Hua, la donna che mi ha insegnato a lavorare il ferro, diceva che la sua vera forma è quella di una vecchia con la pelliccia nera, curva e tutta storta. Ha uno strano odore. Chiede aiuto, anche se non in modo simpatico. Il più delle volte è scorbutica.

"Se il villaggio è generoso, lei prosegue il suo cammino. Se il villaggio è avaro o scortese, allora…" Nia fece il gesto che significava "lo sai" o "che cosa ti aspetti?"

— Capitano cose spiacevoli — terminò Derek.

Nia fece il gesto dell’approvazione.

— Che genere di cose spiacevoli? — chiesi.

— Le persone si ammalano. Gli animali muoiono. Non c’è abbastanza cibo. — Fece una pausa e mi guardò. Doveva essere evidente che volevo saperne di più. — La sciamana scopre quale spirito è adirato. Allora il villaggio esegue una cerimonia. È chiamata: "Benvenuto allo Straniero". Raccolgono tutte le cose che amano di più: buon cibo, coltelli dalle lame taglienti, vestiti coperti di ricami, doni che provengono dai luoghi più lontani. Accendono un fuoco. La gente canta:

"Vedi

come ti accogliamo bene.

Vedi

i bei preparativi.

"Il cibo finisce nel fuoco. I coltelli. I vestiti. Tutto viene bruciato. Se le persone sono fortunate, l’Oscuro sarà soddisfatto. Ma ci vuole molto. È meglio darle ciò di cui ha bisogno quando arriva sotto le sembianze di una vecchia."

— Che cosa succede se l’Oscuro arriva al villaggio del Popolo il cui dono è la follia?

— Non ho mai sentito una storia a questo proposito, e non mi aspetto di sentirla.

— Perché no?

— Le storie sull’Oscuro si raccontano in estate e in autunno. È allora che la maggior parte della gente viaggia. È allora che si incontrano gli stranieri.

"Le storie sul Popolo il cui dono è la follia si raccontano in inverno, quando la neve è alta ed è impossibile viaggiare. È allora che alla gente piace sentire parlare di un comportamento stupido che ha avuto luogo molto lontano."

— La neve è alta — disse Derek in inglese. — Il vento ulula. Sediamoci presso il fuoco e ridiamo dei forestieri.

Spensi il registratore.

Nia si alzò. — Se avete intenzione di parlare in quella lingua, me ne vado.

— Vuoi mangiare? — mi chiese Derek. Parlò nel linguaggio dei doni.

Feci il gesto dell’affermazione.

Nia disse: — Sto fabbricando un arco. Ho trovato del legno che non è male, e Deragu mi ha dato una corda.

— Davvero?

— Non dirlo a nessuno.

Ce ne andammo insieme, uscendo nella caliginosa luce del sole. Nia fece il gesto del commiato e si diresse verso l’interno e la scogliera. Io e Derek andammo verso la sala da pranzo.

Mangiammo con Agopian e un nero di corporatura snella. Cyril Johnson. Faceva parte del team idrologico e la sua attrezzatura non era arrivata. Tenne un discorso sulla maledetta incompetenza a bordo della nave e nel corso di tutta la storia umana.

Ascoltammo educatamente. Mangiai qualcosa che si sforzava di essere un’insalata greca. Il formaggio era di capra e c’erano troppo poche olive. La maggior parte degli olivi erano morti durante il viaggio. Ci sarebbero voluti anni prima che i nuovi alberi fossero abbastanza vecchi da produrre olive.

— Abbiamo fissato una riunione generale per questa sera — disse Agopian. — Queste persone hanno il diritto di sapere che cosa succede.

— Hai ragione — ribatté Derek. — Ce l’hanno. Purtroppo, noi non abbiamo alcuna idea.

— Sapete sui nativi più di chiunque altro.

— Pensate che ci lasceranno restare? — chiese Cyril.

— Non lo so — risposi.

Lui aggrottò la fronte e serrò le labbra. Un altro esempio di maledetta incompetenza.

Finii il mio caffè e portai il mio vassoio al tavolo riciclante. Agopian mi seguì. Uscimmo. Il cielo era sereno, l’aria calda e umida. Mi tolsi la giacca.

— Verrò con voi — disse Agopian.

— Su per il fiume?

Fece cenno di sì col capo.

— Sono certa che la Ivanova ha un buon motivo per portare un navigatore spaziale. — Guardai la banchina. Entrambe le imbarcazioni erano ormeggiate. C’erano persone che lavoravano a bordo, occupandosi della manutenzione o di qualche riparazione.

— Sono anche uno storico.

— Della storia del lavoro, mi sembra che tu abbia detto.

— Ogni società ha lavoro e lavoratori.

Gli lanciai un’occhiata. Oggi non portava l’uniforme dell’equipaggio. Al contrario aveva un aspetto quasi americano: jeans scoloriti e una camicia di cotone a sottili righe verticali bianche e blu. Huaraches ai piedi. La cintura aveva una grossa fibbia di metallo con su un aeroplano a razzo e dei caratteri in alfabeto cirillico.

— In Nordamerica l’avremmo chiamata una camicia da ferroviere.

Lui sorrise. — L’ho comprata a Detroit, nel negozio di articoli per regalo presso il Museo dela Cultura della Classe Lavoratrice.

Ci incamminammo verso il lago.

— La cintura viene dal negozio di articoli per regalo sulla Stazione di Trasferimento Numero Uno. L’ho presa quando mi sono aggregato alla Kollontai. Sono… ero… un gran collezionista di souvenir.

— Non lo sei più?

— Non proprio. Anche se non mi dispiacerebbe portarmi a casa qualcosa da qui. Se torneremo.

— Se?

— È un lungo viaggio, e non abbiamo idea di come sarà la Terra quando ci torneremo. Qui, forse, abbiamo un futuro. Laggiù saremo solo curiosi resti di un lontano passato, come i mammut che abbiamo ricostruito.

— Credevo che sarebbero diventati le nuove bestie da soma in Siberia.

— Sono più stupidi degli elefanti, e il loro carattere non è affidabile. Non è facile addomesticare una nuova specie. O, in questo caso, una specie molto antica.

Ci fermammo sul bordo dell’acqua. C’erano i soliti minuscoli uccelli bruni che correvano sui ciottoli, cacciando e beccando.

— Come diavolo ti sei ritrovato con una laurea in navigazione spaziale?

Lui rise. — Ti stai chiedendo se Derek non abbia ragione e io non sia… com’è quella parola?… un vegetale.

— Penso che tu ti riferisca a una pianta.

Annuì. — O a un topo campagnolo.

— Tutt’a un tratto il tuo inglese sta peggiorando.

— Ho qualche problema con il linguaggio della paranoia. Non mi viene naturale.

— Oh.

— Ho preso la laurea perché ero un fallimento come funzionario politico.

— Davvero?

Annuì di nuovo. — Devi capire, fin da quando ero un ragazzo avevo due sogni. Due passioni. Lo spazio e la teoria politica.

Una ben strana combinazione, pensai. Ma non c’erano spiegazioni per i gusti e le passioni.

— Sapevo dall’inizio di voler diventare un funzionario politico nella flotta sovietica. Ci sono riuscito, e ho scoperto che era inutile. — Spinse una pietra con la punta dello stivale. La pietra si capovolse, rivelando un insetto di un giallo vivace. L’insetto fuggì.

— La Kollontai era una nave da carico. Credo di avertelo detto. L’equipaggio era costituito dal genere di individui che si trovano nei magazzini e sulle navi. Ne hai mai incontrato qualcuno?

Feci il gesto dell’affermazione.

— C’è qualcosa nelle persone che trasportano merci. Sono uguali, in tutto il mondo e perfino nello spazio. Come potrei descriverle? Robuste? Coi piedi per terra? Sebbene sembri strano quando parlo di gente che viaggia nello spazio.

"Sono indubbiamente colletti blu. Il genere di individui che hanno fatto tutte e tre le nostre rivoluzioni. Non avevo la minima idea di come andare d’accordo con loro."

Tacque un momento, guardando il lago. — Io sono un intellettuale. Credo che sarebbe giusto dire così. Studio le idee. È questo che mi interessa. La teoria politica. La teoria della storia. La filosofia della scienza. Il rapporto fra persone e macchine.

"In realtà non mi importa molto delle comuni attività umane. Non gioco. Non ho nessun hobby. Non mi piace nessuno sport. Non guardo quasi mai Polovisione. Non mi sono mai sposato. Non ho figli. Bevo vino e birra, di solito con moderazione. Non bevo mai acquavite né vodka."

— Che cosa fai per divertirti?

— Leggo fantascienza, e penso.

— Sembra proprio uno spasso.

— Vedi? Riesci a immaginarmi circondato da lavoratori manuali?

Sorrisi. — No. Proprio no.

Lui annuì. — È stato terribile. Organizzavo corsi di teoria marxista. Non veniva nessuno. Cercavo di celebrare importanti eventi nella storia della lotta di classe. O mi ignoravano o usavano l’avvenimento come scusa per ubriacarsi. Passavo il tempo nelle aree di ricreazione, cercando di arrivare a conoscere l’equipaggio.

"Non riuscivo a comunicare con loro. Mi sembrava che parlassimo lingue diverse. Non avevo idea di cosa avvenisse nel loro intimo.

"Alcune cose venivano in superficie. Sapevo che amavano il sesso, l’alcol e il calcio. Conoscevo il nome dei loro spettacoli preferiti, e in buona parte li avevo visti almeno una volta. Guerra e pace. Attraversando gli Urali. Avventura in fondo all’oceano. I cosmonauti delle patate.

"Ma non comprendevo il loro modo di pensare. La struttura intellettuale. L’ideologia basilare. Per me non avevano alcun senso logico.

"Avrei dovuto piantare tutto e tornare sulla Terra. Mi sarei potuto trovare un lavoro nell’insegnamento. Mi sarei trovato bene in un’università o in un politecnico.

"Ma sono rimasto, anche dopo che avevo smesso di fare il funzionario politico." Mi rivolse un’occhiata e sorrise. "Ho rinunciato. Ho solo fatto finta."

Agopian mi ricordava qualcuno; era un po’ che cercavo di capire chi. Ora mi venne in mente. Eddie. Vivevano entrambi nella propria mente. Erano entrambi spinti alla passione dalla teoria.

E io che cosa amavo? mi chiesi. La luce del sole. Il cibo. Qualche corpo umano. Un paesaggio come quello che avevo davanti, abbastanza vasto da dare significato all’attività umana, e vivo.

— Diventava noioso — continuò Agopian. — Dovevo fare qualcosa. Così ho deciso di imparare un nuovo mestiere. Ho scelto navigazione spaziale.

— È così che hai preso la tua laurea?

Lui accennò di sì col capo. — Ed è stato così che finalmente sono arrivato a conoscere qualcuna delle persone sulla nave. Avevamo due navigatori spaziali. Facevo loro domande quando mi trovavo in difficoltà con il programma di apprendimento.

"Una di loro leggeva fantascienza. Mi ha detto che il cuoco aveva una notevole collezione personale. Veniva dalla Siberia. Un uomo enorme. Parlava a grugniti e non ero certo che fosse del tutto umano. Quando si è reso conto che leggevo anch’io fantascienza, ha incominciato a usare frasi complete.

"Mi prestava i suoi libri. Parlavamo di questi e della Siberia. Uno dei suoi fratelli è, o era, un addestratore di mammut. È per questo motivo che so qualcosa dei mammut."

Rigirò un’altra pietra col piede. Sotto non c’era niente all’infuori di ciottoli bagnati. — Questa è la fine della storia. Ho preso la mia laurea e non ho mai veramente imparato ad andare d’accordo con quelle persone. È andata meglio, ma c’era sempre qualcosa nel loro modo di pensare… — Scosse il capo. — O nel mio modo di pensare. Dopo tutto, loro sono la maggioranza.

Credevo davvero che quell’ometto sveglio fosse stato un fallimento? — Non hai lo stesso problema qui?

— No. Per prima cosa, non sono più un funzionario politico. Un navigatore spaziale non deve preoccuparsi di cose come l’agitazione e la propaganda. Tutto ciò che devo fare è stabilire dei numeri.

"In secondo luogo, ci vuole un genere di persona speciale per andare sulle stelle. Noi non siamo migliori del resto dell’umanità, ma siamo diversi. Riesco a capire la maggior parte delle persone qui."

— Chi altri risalirà il fiume? — chiesi.

— Tatiana. La Ivanova. Eddie. Tu e Derek. I nativi. Il signor Fang.

— È qui?

— Sì. È il rappresentante della posizione di maggioranza. È qui per osservare e assicurarsi che i nativi capiscano che la decisione spetta a loro.

Riflettei un momento. — Sembra proprio che saremo in tanti.

— Dovremo usare entrambe le imbarcazioni. Questo lascerà il campo in una situazione difficile. Credo che la Ivanova stia progettando di mandare su uno degli aeroplani a prendere altri rifornimenti, compresa un’altra imbarcazione.

— Non c’è dubbio che ci stiamo insediando.

— Solo provvisoriamente — disse Agopian.

Parlammo della riunione fissata per quella sera, poi ci separammo. Tornai nella mia stanza e mi misi qualcosa di più leggero, accesi il sistema di ventilazione e aprii il mio taccuino.

Fu un pomeriggio sgradevole. L’aria che entrava era calda e umida. Il mio lavoro andava male. Alla fine rinunciai. Non avevo alcuna disposizione per l’analisi, solo per l’osservazione. La realtà che vedevo era troppo complessa, mutevole e ambigua per adattarsi precisamente a una teoria.

Derek fece una capatina. — Marina vuole incontrare Nia. L’accompagno su per la scogliera.

Feci il gesto dell’intesa. Derek uscì e io andai a fare una passeggiata. Mi sentivo intrappolata, frustrata, scoraggiata. Avevo bisogno di lavorare, ma non con le idee. Mi fermai in cucina. Era piena di persone che preparavano la cena. — Posso essere di aiuto?

— Certamente — disse il biondino. — Porta queste scatole metalliche all’inceneritore e svuotale. Fa’ attenzione. Non rovesciare niente. Stiamo cercando di non contaminare l’ambiente. — Scosse il capo. — Odio distruggere quella roba. Ne verrebbe un mucchio di concime.

— Vuoi dire che non stiamo riciclando?

— Solo i piatti.

Provai qualcosa di simile all’orrore.

— Stiamo cercando di rendere completamente autonomo il campo. Niente che provenga dalla Terra finisce nel biosistema. In particolare niente di organico. O lo distruggiamo, o lo impacchettiamo e lo rimandiamo lassù. — Puntò il dito in direzione del soffitto. — È stato deciso di non impacchettare i fondi di caffè e le bucce d’arancia. È un vero peccato. Detesto assistere allo spreco.

Feci il gesto dell’approvazione, poi dissi: — Non ci siamo veramente presentati.

— Il mio nome è Pace-con-giustizia.

Restai in attesa.

— La mia gente non crede nei cognomi. Noi non apparteniamo a una linea di sangue o a un gruppo di parenti. Apparteniamo a noi stessi e a tutta l’umanità.

— Oh — esclamai e raccolsi una scatola.

Era un buon lavoro, faticoso. Le scatole erano pesanti e il portello dell’inceneritore era collocato male. Dovevo sollevare ogni scatola all’altezza della mia spalla per poterla svuotare.

Alla fine pulii le scatole e lavai il pavimento della stanza dell’inceneritore. Le scatole finirono in uno sterilizzatore. L’inceneritore andò avanti con un gran lampeggiare di spie luminose.

Mi facevano male le spalle e questa era una sensazione piacevole. Il mio rapporto sembrava un problema minore.

Cenai con il personale della cucina: tofu e verdure su un mucchio di riso scuro e colloso. Da una parte vi aggiunsi un po’ di salsa di soia con zenzero e aglio; dall’altra aggiunsi del succo di prugne fermentato. Delizioso!

Quando ebbi finito, Pace-con-giustizia disse: — Metteremo in ordine noi. Tu faresti meglio a prepararti per la riunione. Grazie, Lixia.

Tornai nella mia cupola, mi lavai e indossai dei vestiti puliti, poi mi recai nel salone. Soffiava un vento a raffiche e la maggior parte del cielo era coperta di nuvole. Ero quasi certa che sarebbe piovuto.

Tutt’a un tratto mi venne in mente una poesia. Era Anishinabe.

A volte vado in giro provando pena per me

e all’improvviso

un grande vento mi trasporta per il cielo.

Il salone era affollato. C’erano persone che portavano sedie dalla sala da pranzo. Eddie e Derek erano in piedi presso il bar.

— Com’è andata? — chiesi a Derek.

— Con Nia? Benissimo. Ha identificato l’animale. È raro e solitario. Depone uova.

— Un animale così grosso?

— I dinosauri deponevano uova. Marina è eccitata. Crede che stiamo osservando un biosistema in transizione. Animali che sono originari di questo continente vengono rimpiazzati da animali provenienti dalle isole o dall’altro continente.

— O dalla Terra — disse Eddie.

— No — ribatté Derek. — Il team medico sostiene che i nostri germi se la cavano molto male negli organismi indigeni. I batteri muoiono di fame. I virus non fanno niente. Non riescono a usare il materiale genetico locale. Non possono riprodursi. — Sorrise. — Gli organismi nativi se la stanno cavando un po’ meglio dentro di noi, soprattutto alcune specie di microscopici vermi parassiti. Liberation Minh è molto eccitata da questi. Hanno capacità che non ci aspettavamo affatto.

— La fai sembrare una buona notizia — osservò Eddie.

— Trovo la cosa interessante. E Liberation non pensa che i vermi costituiscano un vero pericolo.

— Uh!

Derek mi rivolse un’occhiata. — Il team medico dice che possiamo risalire il fiume.

— Bene.

Entrò la Ivanova, accompagnata da una dozzina circa di membri dell’equipaggio. Era uno spettacolo inquietante. Si muovevano come un solo elemento, sedendosi tutti insieme in poltroncine che erano state messe da parte da altri membri dell’equipaggio.

— È ora di incominciare — disse Derek. Si issò sul banco del bar.

Mi arrampicai al suo fianco, anche se in modo meno elegante.

Derek alzò una mano nel gesto nativo che chiedeva attenzione. Le persone tacquero. — Okay. Chi farà da moderatore?

— Qualcuno che sia neutrale — disse la Ivanova.

Un uomo domandò: — È qui il signor Fang?

Mi guardai attorno. C’era, seduto nella terza fila dal fondo. Era esile e asciutto, con un portamento eretto e un’espressione vigile. I capelli bianchi striati di grigio erano legati in una crocchia. Portava la sua solita divisa: camicia di cotone blu scolorito su pantaloni di cotone blu scolorito.

Sussurrò qualcosa alla giovane donna al suo fianco. Lei si alzò. — Il signor Fang non si sente in grado di fare da moderatore. La sua voce non è abbastanza forte.

— Allora fallo tu — ribatté l’uomo.

La giovane donna arrossì. — Io sono l’apprendista del signor Fang. Non so niente di come si parla in pubblico.

A quel punto smisi di ascoltare. Con ogni probabilità i cinesi avevano scelto qualcuno per presiedere, ma non volevano proporre la persona. Sarebbe stato presuntuoso e antidemocratico. Invece ci sarebbe stata una discussione. Mi guardai in giro per la stanza cercando di valutare il numero complessivo di persone presenti. Oltre un centinaio. Un terzo circa era costituito da membri dell’equipaggio. Dovevano aver fatto venire tutti dagli aerei a razzo. Sorrisi alle persone che conoscevo. Harrison Yee se ne stava in piedi sul fondo, appoggiato alla parete, a braccia conserte. Alzò una mano in un cenno di saluto. Strano, avrei dovuto vederlo prima di questa occasione.

Fu scelta la persona che doveva presiedere: una donna cinese di mezza età. Aveva una voce forte e ferma, con poco accento.

— Si sta facendo tardi. Queste persone dovranno alzarsi presto. Propongo un ordine del giorno molto limitato. Credo che due quesiti siano di particolare interesse per tutti i presenti.

"Anzitutto, che cosa è successo a Lixia e a Derek? Perché abbiamo perso i contatti con loro?

"E in secondo luogo, che cosa pensano che accadrà domani? Che cosa faranno i nativi?"

L’ordine del giorno venne approvato per alzata di mano. Derek fece un resoconto del nostro incidente. Fu conciso e chiaro. Io me ne stavo al suo fianco e mi sentivo a disagio. Non amavo particolarmente le riunioni e non mi andava di essere al centro dell’attenzione. Ero un’osservatrice e volevo trovarmi in mezzo al pubblico. Quando Derek ebbe concluso, la moderatrice mi chiese se avevo qualcosa da aggiungere.

— No.

— Vuoi rispondere tu alla domanda successiva?

— Che cosa faranno i nativi? Non ne ho la minima idea.

Derek aggiunse: — Sono abituati ai viaggiatori, e non hanno paura degli stranieri. Ma gli stranieri si limitano a passare. Per quanto siamo in grado di giudicare, le loro culture sono distinte le une dalle altre. Non si mescolano. Forse perché non hanno una tradizione di guerre. Non conquistano i loro vicini. Non si portano via a vicenda come schiavi. Non saccheggiano né stuprano. Non si rubano mogli.

— Questa è una tangente? — chiese la moderatrice.

— No. Se noi fossimo viaggiatori, ci farebbero una buona accoglienza. Ma noi intendiamo chiedere il permesso di restare. Non ho idea di come reagiranno.

Harrison Yee alzò la mano. La moderatrice puntò il dito verso di lui.

— Questa situazione non può essere del tutto nuova. Questo pianeta ha malattie e vulcani. Devono esserci stati villaggi che sono rimasti talmente danneggiati da qualche disastro naturale da non poter sopravvivere per proprio conto.

— Sì — ammise Derek. — Ma non ne abbiamo sentito parlare.

Un’altra persona disse: — Sei sicuro che non ci sia stato nessuno scambio di materiale genetico? Hai visto qualche prova di accoppiamento fra consanguinei?

— No — risposi. — E credo che Derek stia esagerando la situazione. Sappiamo che ci sono individui che si spostano da una cultura all’altra. Probabilmente c’è abbastanza di questo genere di movimento da impedire gravi forme di accoppiamento fra consanguinei. Ma per quanto siamo in grado di giudicare, non c’è quel genere di mescolanza di intere popolazioni che è stato frequente sulla Terra.

— In quel caso — osservò il tizio — dovrebbe esserci una diversità genetica assai maggiore. Credo che vi sbagliate. Credo che questi individui riescano a incrociarsi.

— Sto solo riferendo quello che ho visto. E la mia conclusione è che non sappiamo come reagiranno queste persone a un mucchio di stranieri intenzionati a stabilirsi in mezzo a loro.

— Non stiamo parlando di un soggiorno permanente — disse una donna. Aveva un accento delle Indie Orientali. — Non è vero?

— Siete pregati di alzare la mano prima di parlare — disse la moderatrice. — Non vogliamo che questa riunione diventi incontrollata.

Un uomo di colore alzò la mano. La moderatrice puntò il dito verso di lui. L’uomo disse: — So che è stato deciso di mandare gruppi misti. Uomini e donne. Penso che sia una follia. I nativi hanno scacciato… quanti uomini? Gregory. Derek. Harrison. Otterremo solo il risultato di farli infuriare.

— Sono assolutamente d’accordo con te — disse la Ivanova.

Eddie intervenne: — Non abbiamo intenzione di entrare in un villaggio finché non avremo spiegato la situazione e chiesto il permesso. Se diranno che gli uomini non possono entrare, non lo faremo. — Abbozzò un breve sorriso. — Il che potrebbe costituire un problema per la mia posizione. Se necessario, chiederò a Lixia di presentare le ragioni del non intervento, anche se preferirei farlo di persona.

— È probabile che vi dicano di andarvene tutti — ribatté l’uomo di colore. — Ciò che state facendo non ha niente a che vedere con l’onestà. Questa è una mancanza di rispetto per la cultura e le opinioni di un’altra popolazione.

La Ivanova annui. — Hai ragione. Ma tieni presente che abbiamo già ottenuto quello che volevamo in questa regione. Derek e Lixia sono stati salvati. Se i nativi ci diranno di andarcene, non avremo perso molto. Potremo mandare un gruppo di donne in un altro villaggio.

— Se l’onestà non funziona, potremo sempre tentare con una menzogna — intervenne una donna.

La moderatrice disse: — Per favore.

Le persone continuavano a parlare. Non dicevano niente di nuovo e nessuno tornò alla domanda fatta dalla donna indiana, né per rispondervi né per riproporla. Non stiamo parlando di un soggiorno permanente. Non è vero?

La riunione terminò. Saltai giù dal banco del bar. Harrison mi raggiunse e mi abbracciò.

— Dove sei stato?

— Su uno degli aerei. Eddie mi sta tenendo occupato, a inviare rapporti alla nave.

Dovevo aver assunto un’aria dubbiosa o forse ferita.

— Ha detto che avevi qualche problema a riadattarti al campo. Che avevi bisogno di stare da sola un po’ di tempo.

— Può darsi.

Le persone se ne stavano andando, portando via le sedie. Gustavo riprese il suo posto dietro il banco. I suoi occhi erano verdi e splendenti. Disse: — Sto riaprendo. Posso servirvi qualcosa?

Harrison e io ordinammo del vino.

Eddie disse: — Fa’ attenzione con quella roba. Vogliamo partire presto domattina.

— Quando? — chiesi.

— All’alba.

— Starò attenta. Sei sicuro di volere che sia io a esporre le ragioni del non intervento? Se non potrai farlo tu, voglio dire?

— Tu conosci le ragioni. Sai come parlare con i nativi. Credi nella democrazia. — Sorrise. — Forse più di me. Se i nativi dovranno prendere una decisione basata su informazioni, dovranno sapere quello che ho da dire. Tu farai in modo che ricevano l’informazione.

— Immagino di sì.

Esitò per un momento. — Come direbbe Derek, dobbiamo imparare a trattare con le persone come sono. Se non possiamo corromperle, dobbiamo trovare un modo di servirci della loro onestà.

— Stai parlando alla prima persona plurale, Eddie. È sempre un sintomo pericoloso.

— Hai ragione. — Fece il gesto del commiato.

Harrison restò a osservarlo allontanarsi, poi chiese: — Che cos’è questa faccenda?

— Eddie ha qualche problema ad affrontare l’attuale situazione.

Harrison annuì. — Se non mette un po’ d’ordine in se stesso, credo che dovremo trovare un altro coordinatore per il team.

— Basta con la politica! Dimmi che cosa sta succedendo sulla nave. I pettegolezzi. Non la lotta fra fazioni.

Lo fece. Io finii il mio vino.

Gustavo disse: — Nel mio ruolo di barista dovrei offrirvene un altro. Ma sono anche uno psicoterapista, e non vi serve altro alcol.

— Lo sei davvero?

— Certo. La mia area di competenza è la psicofarmacologia. — Prese il mio bicchiere, poi asciugò il cerchio di umidità dal banco. — Non devi preoccuparti. Ho fatto un corso per baristi. Sono in grado di mischiare quasi qualsiasi cosa ti venga in mente di bere.

Harrison sorrise. — E poi spiegarti che tipo di danno ti farà.

Gustavo annuì. Prese il bicchiere di Harrison. — All’alba, Lixia. Forse vorrai fare i bagagli questa sera.

Aveva ragione. Harrison e io lasciammo il salone. Fuori l’aria era fresca e umida e le nuvole sopra le scogliere del fiume si erano sparpagliate. Ora coprivano un terzo del cielo.

— Tempo diverso — osservò Harrison. — Ti invidio. Io devo tornare all’aeroplano.

— Davvero?

Fece cenno di sì col capo. — Eddie vuole che mi occupi delle comunicazioni fra voi e la nave, il che significa che sarò intrappolato laggiù. — Fece un cenno della mano in direzione del lago. — Non mi dispiace realmente. C’è il più bel giovanotto della squadra delle telecomunicazioni. L’hanno disgelato di recente. I suoi occhi sono come il cielo d’estate e i suoi capelli come il grano in autunno.

— Mmm — dissi.

Harrison mi rivolse un’occhiata e sorrise. — Suvvia, Lixia, lo sai che non mi innamoro di nessuno da molto, molto tempo. Da prima che ci addormentassimo. Credo che possa essere un effetto secondario dell’ibernazione. Gli orsi sono amorosi non appena si risvegliano?

— Non ne ho la più vaga idea. Ma certe persone lo sono. Ricordi com’era Derek quando stavamo entrando in questo sistema?

Harrison rise. — Forse le persone si riprendono dall’ibernazione a ritmi diversi. Forse alcuni orsi sono amorosi non appena si risvegliano. — Fece una pausa. — È meglio che mi informi quando parte l’ultima barca. Se la perdo, dovrò farla a nuoto.

Ci salutammo. Andai alla cupola degli approvvigionamenti e presi una borsa, poi tornai nella mia stanza e feci i bagagli.

Non dormii bene. Nei miei sogni il pianeta si mescolava con la nave. Camminavo lungo un corridoio fatto di cermet e ceramica. C’erano dei nativi lì che si aggiravano fra gli umani a bordo della nave. Voltai un angolo e mi trovai in un giardino. Un enorme quadrupede mangiava piante di lattuga. Mi osservò tranquillo con un minuscolo occhio scuro. Il brutto-cattivo scappava su un pavimento di mattonelle gialle. Sentii il ticchettio delle sue unghie.

Voltai un altro angolo. C’era un accampamento indigeno al centro di una sala per riunioni in ceramica. Da un fuoco saliva del fumo. Una donna indigena era china sopra una pentola di metallo. Un bambino indigeno giocava con un gatto. Era un comunissimo gatto terrestre, un gatto domestico dal pelo corto, poco più che un cucciolo. Il suo pelo era a macchie bianche e nere. La pelliccia del bambino era bruna.

Derek mi svegliò. Lo fissai, pensando al gatto. Marina aveva ragione. Dovevamo allevarne qualcuno.

— Sorgi e risplendi — disse Derek.

— Stavo facendo dei sogni maledettamente strani.

— Hai ricevuto troppe informazioni e stai cercando di elaborarle.

Mi alzai e andai in bagno.

Facemmo colazione nella sala da pranzo. Era deserta se si escludevano le persone che dovevano risalire il fiume e Pace-con-giustizia. Lui ci consigliò uova alla benedict.

— Le uova ti fanno venire il colesterolo, il prosciutto danneggia il tuo karma e la salsa contiene abbastanza calorie da…

— Abbiamo iniziato a uccidere i maiali?

Lui annuì. Provai un senso di disgusto. Erano una speciale razza in miniatura, prodotta in origine per le ricerche di laboratorio. Erano vivaci, puliti, ben educati e assai graziosi. Potevo mangiare i polli. Potevo mangiare le iguane. Ma non ero sicura per quanto riguardava i maiali.

— Sai che cosa ti dico? — fece Pace-con-giustizia. — Ti preparo un piatto senza prosciutto. Dalla tua espressione capisco che sei disposta a recarti danno solo in questa vita. Così… eccoti. — Mi porse un piatto. — Colesterolo e calorie, ma niente karma negativo.

— Grazie — dissi.

Mangiai. Sorse il sole. Il paesaggio all’esterno della cupola divenne visibile.

— È ora di andare — disse la Ivanova.

Tracannai la mia seconda tazza di caffè. Pace-con-giustizia disse: — Arrivederci. — Ci dirigemmo verso le barche.

Nia e l’oracolo erano già lì, ritti sulla banchina, e apparivano a disagio. Nia aveva un arco e mezza dozzina di frecce con penne di un grigio chiaro. Il colore mi ricordava il bipede di Marina, quello che non voleva mangiare.

— Cinque persone su ogni barca — disse la Ivanova. — Ho riflettuto su come dividerci. I nativi dovrebbero stare insieme. Lixia andrà con loro. E anche Agopian e Tatiana. Gli altri di noi prenderanno l’altra barca.

Eddie si accigliò.

— Stai mettendo tutti i politici sulla stessa barca — osservò Derek. — Sarà una cosa saggia?

— Ci daremo fastidio a vicenda — replicò la Ivanova. — Ma gli altri saranno al sicuro.

— Per me va bene — dissi.

— Anche per me — disse il signor Fang. Con lui c’era la sua apprendista. - Probabilmente sarà una sofferenza per la povera Yunqi. Lei non ha alcun interesse per la politica.

La giovane donna arrossì e annuì col capo.

— Ma è un bene per i giovani fare esperienza delle avversità.

Salii sull’imbarcazione e riposi la mia borsa, poi uscii sul ponte. La Ivanova aveva già avviato il motore. Agopian stava mollando gli ormeggi per lei. I due nativi se ne stavano sulla banchina e osservavano. Sembravano interessati e nervosi.

— Avanti — dissi. — Salite.

La barca della Ivanova si staccò dalla banchina e virò, allontanandosi dalla riva con un ampio cerchio. Tatiana avviò il motore della nostra barca. Agopian mollò gli ormeggi. Mi appoggiai al parapetto e per la prima volta da giorni mi sentii rilassata. Ero di nuovo in movimento. Non c’era niente che mi piacesse più che viaggiare.

Seguimmo la prima imbarcazione verso il centro del lago, virando a sud, poi a est, poi a nord. Di fronte a noi c’era la scura valle del fiume.

Angai

Soffiava un po’ di vento. Il lago era screziato di spuma. Davanti a noi e un po’ di lato la barca della Ivanova sobbalzava sulle onde. Ballavamo anche noi. Nia e l’oracolo si tenevano aggrappati al parapetto.

— Questa cosa va veloce — osservò l’oracolo.

— Che cosa la fa muovere? — domandò Nia.

Come spiegare il motore a combustione interna?

— Dentro c’è un fuoco — dissi alla fine.

Lei aggrottò la fronte. — Questo non ha senso. Il fuoco può muoversi, ma non fa muovere altre cose, a meno che non siano vive.

L’oracolo fece il gesto dell’assenso.

Nia guardava l’acqua. — Ho visto la pianura in fiamme con tutto che correva davanti al fuoco. Cornacurve e osupai. Ogni specie di uccello e di insetto, quelli che volano e quelli che saltano, tutti che fuggivano davanti al fuoco. Perfino gli assassini scappavano e anche i piccoli animaletti che scavano gallerie sottoterra.

"Ma erano vivi. Il fuoco cambia, non trasporta."

— Forse Derek potrà spiegarlo.

Raggiungemmo l’estremità settentrionale del lago all’incirca a metà mattina. Il vento calò non appena arrivammo fra le piccole isole coperte di foreste. Il cielo si manteneva parzialmente nuvoloso. C’erano chiazze di luce del sole sul fiume e sugli alberi verdi e verdeazzurri.

La barca si muoveva lenta. Tatiana disse: — Sta’ attenta a eventuali detriti.

Dopo un po’ vidi una lucertola. Era in mezzo al fiume e nuotava in modo regolare, la testa fuori dall’acqua. Si riuscivano a vedere gli aculei lungo la schiena, ma nient’altro, e non era facile valutare le dimensioni dell’animale. Doveva essere lunga circa dieci metri.

— Aiya! - esclamò l’oracolo. — Sono contento di non trovarmi nella barca di Ulzai.

— Sta andando a sud — osservò Agopian in inglese. — Mi chiedo se sia vero ciò che dicono sulla migrazione.

Entro mezzogiorno avevamo visto cinque lucertole. Erano tutte grosse, e tutte dirette a sud. Soltanto una era fuori dall’acqua e trascinava la sua enorme mole su un argine di fango, diretta a sud come tutte le altre.

La radio crepitò e parlò in russo.

Tatiana disse: — La Ivanova ha avvertito il campo. Se quegli animali decidono di uscire dall’acqua, potranno esserci dei problemi.

Facemmo colazione nella cabina: sandwich e tè. I nativi avevano un quarto di bipede.

— Sacrificato da Marina — disse Agopian. — E cucinato senza niente. Dovrebbe essere innocuo.

— Che gusto ha? — chiesi nel linguaggio dei doni.

L’oracolo fece il gesto che significava "potrebbe essere peggiore".

— Avrebbe bisogno di sale — disse Nia. — E di altre cose. Sarò lieta di trovarmi di nuovo in un villaggio.

Portai fuori del cibo per Tatiana. Lei rimase al timone, guidando la barca con una mano mentre mangiava un sandwich di pesce affumicato.

— Siamo quasi all’affluente. Se le immagini del satellite non mentono, dovremmo poterlo risalire.

Feci il gesto dell’intesa.

Gli altri uscirono sul ponte.

— È frustrante — disse Agopian. — Sono seduto insieme a individui di un altro sistema solare. Ho la mente piena di domande e tutto ciò che posso fare è puntare il dito e fare smorfie.

— Quello continua a fare gesti scorretti — protestò l’oracolo. — E a mostrare i denti.

— Abbiamo deciso che è ignorante, come la maggior parte della tua gente — disse Nia.

All’circa in quel momento notai gli insetti. Avevano ali di un giallo vivace. Ne vidi due svolazzare sopra l’acqua. Altri due erano appoggiati su un tronco che passò galleggiando accanto alla nostra barca.

Agopian indicò col dito un’isola. Gli alberi erano punteggiati di giallo. Altri insetti, posati sul fogliame.

— Sembra di essere in autunno — disse Tatiana. — A casa quando i pioppi incominciano a cambiare colore.

Passammo accanto ad altre isole dove il fogliame era parzialmente giallo. Nugoli di insetti si spostavano sul fiume come foglie al vento. Ma non c’era vento, almeno non sufficiente a spiegare tutto quel turbinare e danzare.

Alcuni insetti si posarono sul tetto della nostra imbarcazione, sul ponte e sul parapetto.

— Che cosa fanno? — chiesi.

— Vanno a sud come le lucertole — rispose Nia. Sembrava contenta. — Li vediamo sulla pianura. Portano fortuna.

Gli insetti si alzarono in volo uno dopo l’altro, riunendosi alla migrazione. Ormai eravamo quasi alla fine. Alcuni ritardatari danzavano nell’aria e la superficie del fiume era punteggiata di insetti, come un fiume sulla Terra cosparso di foglie di pioppi.

La barca della Ivanova virò verso la riva occidentale. La seguimmo, entrando in un nuovo alveo.

— Questo è l’affluente — disse Tatiana.

L’acqua cambiò colore, diventando di un bruno intenso e limpido. Scorreva veloce fra rive scoscese coperte di foreste. Al di sopra degli alberi c’erano scogliere calcaree, che incombevano su entrambi i lati. Stavamo viaggiando quasi in direzione ovest.

All’incirca a metà pomeriggio arrivammo alle rapide. Non erano niente di speciale: una serie di graduali dislivelli. Non si vedevano rocce, soltanto un po’ di schiuma. Ma sbarravano il fiume. Non potevamo proseguire. Sopra di noi una scia di fumo bianco si sollevava a spirale dalla sommità della parete della valle.

L’altra barca virò verso la riva. La seguimmo, avvicinandoci lentamente all’argine. Agopian avanzò carponi e legò la nostra prua a un albero che si sporgeva sul fiume. Avvolsi una seconda cima da ormeggio attorno a un alberello vicino alla poppa. Il motore si arrestò. Sentii lo stormire delle foglie, le grida degli uccelli. I muscoli del mio collo si rilassarono.

— Hai notato — dissi — come il rumore delle macchine sia irritante?

Lui parve sorpreso. — Se è così, siamo nei guai nello spazio.

Aveva ragione. Ogni nave e ogni stazione erano piene del rumore delle macchine.

Nia disse: — Stavo pensando.

Feci il gesto che significava "continua".

— Non è una buona idea mostrare a chiunque troppe cose strane tutte insieme. Tu vieni nel villaggio con me. Se c’è Angai, e dovrebbe esserci, le spiegheremo del tuo popolo. Lei è in grado di decidere che cosa fare. Forse permetterà agli uomini di entrare.

— Okay.

Scendemmo dalla barca.

Eddie venne verso di noi lungo la riva. — Ho parlato con la Ivanova e il signor Fang. Pensiamo che dovresti andare tu su al villaggio, da sola o con Nia. — Sorrise. — La Ivanova è preoccupata per Nia, visto che ha avuto un difficile rapporto con la sua gente. Ma io voglio che vada. Il signor Fang pensa che dovremmo lasciar decidere a te e a Nia.

Diedi un’occhiata a Nia. — Le persone sull’altra barca hanno avuto la stessa idea. Vogliono che andiamo noi due.

— È difficile capire la tua gente, Li-sa. Quando incomincio a pensare che siete normali, fate qualcosa di assolutamente insensato. Quando decido che siete davvero pazzi, prendete una decisione come questa, che è normale e giusta. Non so mai che cosa aspettarmi.

Feci il gesto che significava "forse è così".

Ci facemmo strada fra gli arbusti sull’argine del fiume. Al di là c’era una pista. Nia la prese e io la seguii su per la scogliera del fiume.

In cima c’era una pianura, quasi piatta in quel punto. Era spazzata da un vento irregolare che cambiava spesso direzione. La vegetazione mutava colore con il movimento delle foglie. Marrone chiaro. Giallo. Grigioverde. Grigio argento. I colori si muovevano per la pianura, attraverso luce e ombra, illuminandosi e offuscandosi.

Nia disse:

"Ora, finalmente,

c’è abbastanza spazio.

"Aiya!

C’è spazio!

"La mia persona interiore

può raddrizzarsi.

"La mia persona interiore

può espandersi."

Alla nostra sinistra, in lontananza, c’era un villaggio di tende e di carri. Il fumo saliva da molti fuochi. Oltre il villaggio, a nord e a ovest, la pianura era costellata di animali. Cornacurve. I margini della mandria. O questi erano semplicemente gli animali domestici?

— Muoviamoci — disse Nia. — Voglio che questo incontro finisca alla svelta.

C’erano bambini che giocavano ai margini del villaggio: una dozzina circa. Alcuni portavano gonnellini, altri erano nudi, fatta eccezione per alcuni ornamenti di diverso genere: cinture fatte di cuoio e ottone, braccialetti di rame, collane di perline dai vivaci colori.

I bambini erano organizzati in due file, che si fronteggiavano. Fra le file c’erano due bambini con in mano un bastone. I bambini delle file lanciavano avanti e indietro una palla; i bambini con i bastoni cercavano di buttarla giù.

Riuscii a capire solo questo prima che i bambini ci vedessero. Uno gridò. Altri due fuggirono. Gli altri si voltarono a fissarci.

Nia disse: — Questa persona ha un aspetto strano, ma è più o meno normale. Ce ne sono altre come lei più sotto, lungo il fiume. Sono venute in visita. Hanno bei doni e storie interessanti.

— Uh! — esclamò uno dei ragazzini. Non riuscii a capire se fosse un maschio o una femmina. Era alto e snello, con la pelliccia color castano dorato e un gonnellino giallo, ricamato con filo blu scuro. Il bambino, o bambina che fosse, portava un paio di braccialetti d’argento, uno per polso, e teneva in mano un bastone. — Sei sicura che non siano demoni?

— Ho viaggiato con questa persona per tutto il tragitto dalla foresta orientale. Non ha mai fatto niente che fosse minimamente demoniaco. È una buona amica.

— Uh! — ripeté quello. — È meglio che veniate con me. La mia madre adottiva è la sciamana.

— Come ti chiami? — chiese Nia.

— Hua.

— Io sono Nia.

La bambina — perché ora sapevo che era una femmina — si era voltata, pronta a guidarci. Ora si girò di nuovo, osservando Nia con i grandi e limpidi occhi gialli.

— Come sta tuo fratello? — s’informò Nia.

— Si sta facendo difficile. Angai dice che si sta avvicinando il cambiamento.

Nia aggrottò la fronte. — Non è troppo giovane?

— Avverrà presto. Ma non tanto presto. Sei stata lontana per molto tempo.

— Questo è vero — disse Nia.

La bambina ci condusse nel villaggio. Le tende ai margini erano piccole e molto distanti fra loro. Non vidi nessuno lì attorno.

— Che cosa sono? — chiesi.

Nia rispose. — Appartengono agli uomini. Quelli vecchi, che sono tornati nel villaggio.

— Non vedo nessuno. Dove sono?

— A caccia. O forse seduti dove nessuno li vede. Gli uomini alzano le loro tende in modo che l’entrata guardi verso la pianura. Se sono in casa, saranno… — Fece un ampio gesto circolare.

— Che cos’ha che non va questa persona? — domandò Hua. — Non sa niente?

— Non molto — rispose Nia.

Quando ci addentrammo di più nel villaggio, vidi che le tende erano più grandi e più vicine fra loro. Erano fatte di cuoio steso su una serie di pali. Ogni tenda aveva da sei a otto punte. Sebbene fossero spaziose, non erano particolarmente alte; somigliavano più a una catena montuosa che a un tipì.

I lembi erano aperti, sorretti da pali in modo da formare dei ripari che facevano ombra alle entrate. C’erano donne sedute sotto questi ripari, e bambini che giocavano nelle strade.

Le donne gridavano verso di noi in una lingua che non capivo. Hua rispondeva nella stessa lingua. Le donne si alzarono, abbandonando il loro lavoro. Radunarono i bambini e ci seguirono. Ben presto ci trovammo alla testa di una processione.

— Che cosa succede? — chiesi.

— Si stanno informando su di noi. Hua sta dicendo loro di venire ad ascoltare mentre Angai scopre che cosa sei.

— Oh.

Nia aggiunse: — Non mi piace essere seguita.

Feci il gesto dell’approvazione.

Appariva evidente che il villaggio si trovava da poco tempo in quel luogo. Fra le tende e sotto i carri crescevano piante e sbocciavano fiori. Gli insetti saltellavano e ronzavano. Un cornacurve legato mangiava le foglie di un arbusto in mezzo a quella che sembrava essere la strada principale.

Passammo accanto all’animale. Quello smise di mangiare e ci guardò, poi alzò la coda e defecò.

Un altro segno che il villaggio era recente. Avevo visto pochissimi rifiuti e sterco.

Osservai i carri. Erano dappertutto, sparpagliati fra le tende. Avevano una struttura principale rettangolare fatta di legno e la copertura curva fatta di cuoio steso su un’intelaiatura di legno. I lati erano intagliati in modo elaborato. La parte superiore era decorata con strisce di stoffa dai vivaci colori che pendevano sul davanti e sul retro, formando tende di nastri che ondeggiavano al vento: rossi, gialli, azzurri, verdi, arancione. Ogni carro aveva quattro ruote, tenute insieme con ferro. I raggi erano intagliati e dipinti.

Attraversammo uno spazio aperto, pieno di altre piante. Hua si fermò di fronte a una tenda. Era grande e c’erano pali tutt’attorno: insegne. Una rappresentava un albero di metallo, pieno di uccelli d’oro e d’argento. Dai rami inferiori pendevano campanelle che si muovevano al vento e suonavano.

— Quella la conosco — disse Nia. — L’ho fatta io. — Si guardò le mani. — È da troppo tempo che viaggio. Ho bisogno di avere di nuovo degli utensili.

Le altre insegne erano animali fatti di bronzo o di ottone: un cornacurve, un assassino-delle-pianure, un bipede.

— Le altre le ha fatte la mia madre di nome — disse Hua. — Sono molto vecchie.

La maestra di Nia. Adesso me ne ricordavo. — L’hai conosciuta? — domandai alla ragazzina.

Hua assunse un’aria scandalizzata. — No! Mai! Come puoi fare una domanda simile? Che cosa intendi dire con questo?

— Questa persona viene da molto lontano — spiegò Nia. — La prima volta che l’ho incontrata, non conosceva il linguaggio che stiamo parlando. A volte penso che non lo conosca ancora. Non preoccuparti troppo delle cose che dice.

Hua fece il gesto del tacito consenso, ma sembrava preoccupata.

Una donna uscì dalla tenda. Era alta e magra e indossava una veste lunga color arancione. Il suo pelame era di un bruno scuro screziato di grigio, anche se non mi sembrò che fosse vecchia. Aveva indosso almeno una dozzina di collane fatte in oro, argento e ambra. Braccialetti le coprivano le braccia dal polso al gomito. Come le collane, erano una mescolanza di oro, argento rame e avorio. Ce n’erano perfino un paio di legno intagliato. Aveva una borchia d’oro nel fianco del naso basso, piatto e peloso.

Ci osservò, poi si rivolse a Nia. — Non riesci mai a comportarti in modo accettabile? Perché sei tornata qui? E dove hai scovato una persona come quella?

— Questa è la mia madre adottiva — spiegò Hua.

— Il suo nome è Angai — disse Nia. Fece un cenno della mano nella mia direzione. — Questa persona si chiama Li-sa. L’ho incontrata nell’est, nel villaggio del Popolo del Rame della Foresta. Era là che vivevo.

— Questa non è una Persona del Rame — ribatté Angai.

Nia fece il gesto dell’assenso. — Non so da dove venga. Da molto, molto lontano, mi ha detto. Ma l’ho incontrata nel villaggio del Popolo del Rame, nella casa della loro sciamana, Nahusai.

Alle mie spalle la gente mormorò. Un neonato si mise a piangere.

— Ci sono altre persone senza pelo a valle del villaggio su due imbarcazioni. Chiedono il permesso di venire quassù.

Angai si accigliò — Che cosa hai raccontato loro di noi, Nia? Hai mentito? Noi accogliamo sempre gli ospiti! Non c’è ragione perché aspettino giù a valle. — Fece una pausa. — A meno che non siano ammalati. È questo che è successo al loro pelo?

— Quattro di loro sono uomini.

— Sediamoci — disse Angai. — Qui sotto il lembo della tenda. Non c’è motivo di stare scomode mentre parliamo.

Ubbidimmo. Anche Hua. Angai le rivolse un’occhiata severa. — Non sono certa che questo sia un argomento per bambini.

— L’intero villaggio è qui. Stanno ascoltando tutti.

Angai fece il gesto che significava "molto bene". — Ma sta’ in silenzio! Fa’ attenzione! Impara quello che fa una sciamana!

Hua fece il gesto dell’assenso.

— Ora. — Angai guardò Nia. — Spiegami che cos’è tutta questa faccenda.

— Queste persone sono diverse. Non si tratta soltanto della mancanza di pelo. Guarda i suoi occhi. — Puntò il dito verso di me. — Sono bianchi e marroni come il terreno all’inizio della primavera, quando la neve incomincia a sciogliersi. Chi ha mai visto occhi come questi? Guarda le sue mani. Ha due dita in più, e non sono deformi. Tutta la sua gente ha due dita in più. Amica della mia infanzia, tira un respiro! Hai mai sentito una persona che odori così prima d’ora?

Angai annusò. — No.

Nia si protese in avanti. — Lei non è una persona nel modo in cui lo sei tu, Angai.

Aprii la bocca per protestare, poi la richiusi. Nia era tutt’altro che una stupida. Doveva avere un motivo per quello che faceva.

— Loro hanno utensili diversi dai nostri. La loro lingua ha il suono di un animale che soffia e cinguetta.

"Però…" Nia fece una pausa. "Hanno utensili e hanno una lingua. Non sono animali. E non sono neppure spiriti. Non credo che siano demoni. Sono persone assolutamente strane e sconosciute."

Angai fece il gesto che significava "questo è possibile".

— Fra queste persone gli uomini non sono solitari, ma vivono insieme alle donne.

— Aiya! - esclamò una donna. Altre gridarono: — Uh!

Angai fece il gesto che esigeva silenzio. — Continua.

— È per questo motivo che stanno aspettando. Sanno che noi abbiamo usanze diverse. Non vogliono far arrabbiare il Popolo del Ferro. Non vogliono mostrare mancanza di rispetto né essere disonesti.

— Ma vogliono venire nel villaggio — disse Angai.

Nia mi rivolse un’occhiata.

— Sì — dissi. — Loro… noi… abbiamo una difficoltà. Una controversia che non siamo in grado di appianare. Vogliamo il vostro consiglio, il consiglio del tuo popolo.

— Non c’è da stupirsi che bisticcino — saltò su a dire una donna. — Uomini e donne insieme! Che perversione!

Un’altra donna aggiunse: — Salvo che nel periodo dell’accoppiamento.

— I cornacurve si accoppiano in autunno — disse Angai. — E ci sono animali che hanno due o tre figliate in un’estate. Siete così? È questo il vostro periodo dell’accoppiamento?

Esitai.

Nia disse: — Ho osservato con attenzione queste persone e le ho ascoltate. È mia opinione che siano sempre pronte ad accoppiarsi.

Dal pubblico si levò un’altra serie di esclamazioni. Angai fece il gesto che esigeva silenzio. Restammo tutti in attesa. Lei aggrottò la fronte. — Sei sicura che queste siano persone, Nia?

— Sei tu la sciamana. Questa ti sembra uno spirito? Un demonio? O uno spettro?

Angai mi toccò il braccio. — È solida. Siamo in pieno giorno. Non può essere uno spettro.

— E se fosse un demonio? — chiese una delle donne del villaggio. — Loro sono solidi. Possono uscire alla luce del sole.

Angai mi fissò. — Ho visto demoni nei miei sogni. I loro occhi ardono come fuoco. Le loro mani e i loro piedi hanno lunghi artigli ricurvi. Per il resto sono simili alle persone. Non ho mai sentito parlare di un demonio senza pelo. — Fece una pausa. — Sei sicura che non siano spiriti, Nia?

— Gli spiriti hanno molti travestimenti — disse Nia. — Perfino una donna esperta può non riuscire a scoprirli. Ma ho viaggiato con queste persone per tre cicli della grande luna. Non hanno mai cambiato forma. Non hanno mai cambiato dimensioni. Mangiano. Dormono. Producono sterco e urina. Il loro sterco e la loro urina sono comuni, sebbene non emanino esattamente lo stesso odore dei nostri. Anche quando sono adirati, anche quando sembrano essere in pericolo, non fanno niente di spiritico.

Angai fece un gesto che non conoscevo. — Non sono animali. Non sono spiriti. Non sono spettri né demoni. Dunque devono essere persone. Ci hanno chiesto aiuto. È mia opinione che dovremmo aiutarli. Hanno chiesto di venire nel nostro villaggio. È mia opinione che dovremmo dar loro il permesso.

Una donna parlò ad alta voce, ma non nel linguaggio dei doni.

Angai alzò una mano. — Loro non sono come noi. Non possiamo giudicarli nello stesso modo in cui giudichiamo noi stessi.

Parecchie donne parlarono nella lingua tribale. Mi voltai a guardare la folla.

Il sole ormai era basso. Raggi di luce, quasi orizzontali, risplendevano fra le tende, illuminando lo spiazzo, la vegetazione e le persone: robuste matrone, vecchie curve, ragazze flessuose, numerosi bambini. Le donne adulte sbraitavano e gesticolavano. I loro gioielli scintillavano.

Conoscevo la maggior parte dei gesti. "Sì." "No." "Hai torto o sei pazza." "Siamo d’accordo." "L’accordo è assolutamente impossibile."

Tornai a guardare Angai. Lei osservava e ascoltava, il volto inespressivo.

— Che cosa sta succedendo? — domandai a Nia.

— Alcune di loro sono d’accordo con Angai. Altre no. Grideranno tutte finché non si saranno stancate.

Mi voltai a guardare la folla. La discussione proseguì. I bambini, quelli più grandicelli, se ne andarono alla chetichella, evidentemente annoiati. I bambini più piccoli incominciarono a piangere. Le loro madri li presero in braccio, li abbracciarono e li cullarono.

Le altre donne continuarono la discussione, ma con meno impeto a questo punto. Le voci si erano fatte più sommesse, i gesti meno ampi.

La luce abbandonò gradualmente lo spiazo. Solo le sommità delle tende erano illuminate, e le punte delle insegne di metallo. L’oro, l’argento e il bronzo luccicavano contro il cielo, che era limpido e di un intenso verdeazzurro.

Alla fine regnò il silenzio rotto solo dal piagnucolio dei neonati e dalle voci acute e chiare di un gruppetto di bambini che avevano dato inizio a un nuovo gioco.

— Hai! Hai! Ah-tsa-hai!

Le donne guardavano Angai, che parlò con voce alta e ferma.

Le donne risposero con gesti di dubbiosa approvazione.

Angai mi guardò. — La giornata è quasi finita. È una cattiva idea incominciare qualcosa di importante al buio. Pertanto, ti chiedo di fare ritorno presso le vostre barche. Torna domattina con tutti. Tutta la tua gente. Ascolteremo il vostro problema.

Feci il gesto della gratitudine e mi alzai in piedi.

— Tu, Nia. — Angai guardò la mia compagna. — Va’ con la persona senza pelo. La gente qui ti conosce da troppo tempo. Dimenticherà che ora sei una straniera e non ti tratterà con la cortesia dovuta a una viaggiatrice.

Nia fece il gesto dell’assenso.

Hua disse: — Voglio andare con loro.

Angai si accigliò.

— No — ribatté Nia. — Non voglio che la gente dica che sei uguale a me.

— Nia ha ragione — dichiarò Angai. Guardò la figlia adottiva. — Domani vedrai le persone senza pelo. Questa notte resterai qui.

Hua fece il gesto della riluttante acquiescenza. La folla si divise. Nia e io vi passammo in mezzo.

— Aiya! - esclamò Nia. — Che giornata!

Scendemmo lungo la scogliera. Le luci sulla prima imbarcazione erano state accese. Tenui e regolari, illuminavano il ponte scoperto sulla parte posteriore della barca. L’oracolo se ne stava seduto lì, rosicchiando la zampa anteriore di un bipede. Alzò lo sguardo quando salimmo a bordo. — Che cosa è successo? Ti sei procurata del cibo?

— No — rispose Nia.

— È meglio che ti sbrighi. È finito tutto a parte questa e il cibo della gente di Lixia.

— Non mi hai lasciato niente?

— Credevo che avresti mangiato al villaggio.

— Aiya!

Lui le porse l’osso.

Nia fece il gesto dell’espansiva gratitudine. Aprii la porta della cabina. Dentro c’erano Agopian e la Ivanova che giocavano a scacchi.

Agopian alzò lo sguardo. — Siete tornate?

— Uuh. È andato tutto bene. Possiamo recarci al villaggio domani. Tutti quanti.

— Congratulazioni. — La Ivanova rovesciò il proprio re. — Mi arrendo. Non posso fare niente con i miei pedoni.

Agopian sorrise. — Uno dei nostri pedoni è diventato un socialista rivoluzionario e ha convinto gli altri a costituire un soviet, il che significa, naturalmente, che al bianco non sono rimasti comuni soldati.

— E il rosso vince — disse la Ivanova in tono cupo.

— Di che cosa state parlando?

— Scacchi brechtiani. — Agopian incominciò a mettere via i pezzi. — Sono stati chiamati così in onore del drammaturgo tedesco Bertolt Brecht, che sosteneva che il normale gioco degli scacchi fosse noioso. I pezzi dovrebbero cambiare a seconda di dove si trovano sulla scacchiera e del tempo da cui sono lì. È stato un pazzoide di nome Robik a inventare realmente il gioco agli inizi del Ventiduesimo Secolo.

— È un gioco assolutamente irritante — osservò la Ivanova.

— Carlo Marx odiava perdere agli scacchi. La cosa non infastidiva Lenin, almeno secondo Gorki. — Agopian ripiegò la scacchiera, poi la ripiegò una seconda volta. — Lenin era interessato al modo in cui perdeva e questo gli impediva di adirarsi per il fatto di avere perso. Sosteneva che gli scacchi gli insegnavano parecchio sulla strategia e la tattica. Ma dovette rinunciarvi. Interferiva con la sua attività rivoluzionaria.

— Dove sono tutti gli altri? — chiesi.

— Sull’altra barca. Il signor Fang sta preparando la cena. Iguana con peperoni rossi e cipolle verdi. Noi volevamo finire la nostra partita.

— Anche se non so perché — disse la Ivanova. Si alzò e si stiracchiò.

— Pensavi che avresti vinto, compagna, quando il mio commissario ha incominciato a manifestare preoccupanti tendenze revisioniste.

— Commissario? — dissi.

Agopian sorrise. — Robik voleva sbarazzarsi degli elementi feudali nel gioco degli scacchi. Ha trasformati i cavalli in commissari.

— Non dirmi altro.

— Non lo farò. Vieni a cena?

— No.

— C’è della birra nella cambusa e il necessario per fare dei sandwich. — Uscì sul ponte.

La Ivanova lo seguì, indugiando sulla porta. — Hai fatto un ottimo lavoro, Lixia.

Feci il gesto che indicava l’umile accettazione di una lode.

Se ne andò. Presi una birra e la bevvi, poi mi preparai un sandwich. Me lo portai fuori sul ponte insieme a un’altra birra.

Nia e l’oracolo erano ancora lì. — Avete avuto abbastanza da mangiare?

— Io sì — rispose l’oracolo. — Ma Nia sarà affamata quando si sveglierà.

Nia fece il gesto che significava "niente di grave".

Mi sedetti di fronte ai due nativi. — Nia, perché tua figlia era turbata quando le ho chiesto se aveva conosciuto la vecchia Hua?

— Ahi! — esclamò l’oracolo. — Le hai chiesto quello?

— Sì. Che cosa c’è di male in questa domanda?

— Nessuno dà mai a una bambina il nome di una donna ancora viva — mi spiegò Nia. — Se una donna incontra la propria madre di nome, significa che incontra un fantasma.

Dissi: — Uh! — e bevvi ancora un po’ di birra, poi chiesi: — Questo vale anche per gli uomini?

— No — rispose l’oracolo.

Nia aggiunse: — Ai figli maschi vengono dati nomi di uomini che hanno lasciato il villaggio. Di solito il nome di un fratello della madre. A mio figlio è stato messo il nome di mio fratello Anasu. Per quanto ne so, è ancora vivo. — Esitò. — Lo spero. — Guardò l’osso che teneva in mano. Era completamente ripulito. Non rimaneva nemmeno un frammento di carne. — Quando mio figlio lascerà il villaggio, potrà anche incontrare Anasu. Non sarà niente di particolarmente spaventoso.

— A meno che non cerchino di rivendicare lo stesso territorio — disse l’oracolo.

— È assai improbabile. — Nia gettò a terra l’osso, che sbatté sul ponte con un rumore secco. — Mi prenderò una coperta e dormirò lassù. — Indicò la prua dell’imbarcazione.

— Va bene — dissi.

Si alzò rigidamente, come se si fosse affaticata molto con qualche lavoro fisico. Be’, un giorno anch’io avrei scoperto che effetto faceva tornare a casa.

Finii la birra, andai nella cabina e aprii un letto.

— Mi serve una coperta — disse l’oracolo.

Ne presi una per lui. Se la portò fuori. Mi svestii e mi coricai. Restai per un po’ di tempo a pensare alla giornata: le tende e i carri, le persone, in particolare i bambini. Che cosa si doveva provare ad avere una figlia? Allungai la mano verso il pulsante sulla parete sopra di me, lo schiacciai e la luce si spense.

Udii la voce di Derek: — Non sei venuta a riferire ieri sera. Siamo rimasti delusi, Lixia.

Aprii gli occhi. La cabina era piena di persone: Derek, Ago-pian, Tatiana.

— Dovete stare tutti qui dentro? — domandai.

— Disponiamo di spazio limitato al momento — rispose Derek.

Agopian annuì col capo. — Due barche e un pianeta.

— Che cosa è successo al villaggio? — s’informò Tatiana.

— L’ho raccontato ad Agopian. La sciamana, il suo nome è Angai, ha accettato di aiutarci con il nostro problema. Scusatemi. — Andai nella stanza da bagno.

Quando tornai, la cabina era stata riordinata. I letti erano di nuovo divani. Le sedie e i tavoli erano stati aperti. Derek e Agopian stavano disponendo dei piatti.

Agopian mi lanciò un’occhiata. — Stiamo servendo una colazione all’americana su questa barca. Il solo cibo decente che ho mai mangiato in America era servito a colazione. Anche se l’hamburger ha un certo je ne sais quoi. Così come gli hot dog di Coney Island. Yunqui sta servendo una colazione cinese sull’altra barca. Ho sentito dire che è una pessima cuoca.

— Gli armeni sono tutti cibodipendenti?

— Questa è una domanda razzista. — Finì di apparecchiare la tavola. — Ci piace mangiare. Molti di noi sono morti di fame nel corso dei secoli.

— Forse vorrai andare fuori — mi disse Derek.

— Perché?

— Il figlio di Nia è qui.

Uscii sul ponte. Nia e l’oracolo erano seduti attorno a una pentola di metallo piena di stufato. Mangiavano, tirando fuori grossi pezzi di carne con le dita, e indossavano indumenti nuovi. Niente di straordinario. Nia aveva indosso una tunica verde scuro, priva di ornamenti a parte un’unica striscia di ricami gialli attorno al collo. L’oracolo portava un gonnellino arancione rossiccio totalmente privo di ricami.

— Dov’è Anasu? — chiesi.

Lei me lo indicò col dito.

Il ragazzo era seduto sul parapetto. Era alto quanto l’oracolo, ma era meno robusto di aspetto e aveva la pelliccia di un bruno molto scuro. I suoi occhi erano grigi. Non avevo mai visto quel colore in un nativo prima di allora.

Il suo gonnellino era grigioazzurro. Portava stivali fatti, ne ero quasi certa, per cavalcare, non per camminare. Erano alti fino al ginocchio, di un cuoio grigio sottile e flessibile che faceva borse alle caviglie. I talloni erano guarniti con borchie d’argento. La cintura aveva una fibbia d’argento. Infine portava quattro sottili braccialetti d’argento, due su ogni polso.

Nia disse: — È arrivato ieri sera, quando tutti dormivano già. Mi ha svegliata. Gli ho detto che ero affamata. È andato a procurarsi del cibo.

L’oracolo fece il gesto della gratitudine, senza smettere di masticare.

Il ragazzo disse: — Ieri ero via, fuori sulla pianura, a caccia. Quando sono tornato, Hua mi ha detto che nostra madre era tornata. Angai mi ha detto di lasciarla in pace. Non le ho dato ascolto. Sarò un uomo, se non quest’inverno, l’inverno successivo. Non sono le voci delle donne che mantengono in vita un uomo sulla pianura. È la propria voce. Quella che sente nella mente quando la sua lingua tace.

L’oracolo fece il gesto dell’approvazione.

— Ci ha portato anche dei vestiti — disse Nia.

— Ho visto che aspetto aveva mia madre. Trasandato! E straniero! Non capisco proprio che cosa stia succedendo. E voi chi siete, in ogni caso? Perché avete bisogno dell’aiuto della nostra sciamana?

Aprii la bocca per spiegare. Il ragazzo sollevò una mano.

— Ma so che Nia c’entra qualcosa e mi sembra che dovrebbe essere vestita con abiti decenti.

— Quanti anni hai? — gli chiesi.

— Tredici. Tutti dicono che sono cresciuto in fretta. Non so se sia una buona cosa. La gente si aspetta che lasci presto il villaggio. Credo che non mi dispiaccia.

— Non deve dispiacerti — disse Nia. — Tuo padre si è messo nei pasticci perché non voleva lasciare il villaggio.

— Ne ho sentito parlare. — Il ragazzo s’interruppe e volse il capo, poi saltò giù dal parapetto.

Ci fu un movimento fra il fogliame. Eddie salì sull’imbarcazione. — Buongiorno, Lixia. — Rivolse un’occhiata al ragazzo. — Il figlio di Nia?

Feci il gesto dell’affermazione.

— Presentami.

Lo feci.

Il ragazzo lo scrutò dalla testa ai piedi. — Questo è un uomo?

— Sì.

— È un uomo grande e grosso — commentò il ragazzo.

Eddie indossava jeans, una camicia color turchese e un gilè ricoperto di guarnizioni di perline. Il gilè era Anishinabe: un disegno ben delineato di fiori dai vivaci colori. Le perline erano minuscole, di vetro. Luccicavano alla luce del primo mattino. I capelli erano legati in due trecce. La fibbia della cintura era in oro e turchese. Naturalmente era un uomo grande e grosso. Feci il gesto dell’affermazione.

— C’è la probabilità che affronti qualcuno? — s’informò il ragazzo.

— No.

Il ragazzo fece il gesto che significava "bene".

Nia si alzò. — Non l’hai sentito dire al villaggio? Queste persone non sono come nessun altro popolo.

— L’ho sentito dire — rispose il ragazzo.

Agopian si sporse dall’uscio della cabina. — La colazione è pronta.

— Questo è un altro maschio — disse Nia.

— Sei veramente sicura che non si affronteranno? — chiese il ragazzo.

— Sì.

— Uh!

L’oracolo alzò lo sguardo. — Quello piccolo non recederà e non fuggirà, benché sia evidente che non potrebbe tenere testa a Eddie.

— Noi dobbiamo mangiare — dissi nel linguaggio dei doni.

L’oracolo fece il gesto che significava "andate".

Eddie e io entrammo nella cabina. Sul tavolo c’era già un piatto di panini, tostati e imburrati. Derek stava appoggiando un piatto di uova strapazzate. Tatiana uscì dalla cambusa portando una caffettiera piena.

— La Ivanova rimane sull’altra barca — disse Eddie. — Credo che stia cercando di guadagnare punti con i cinesi mangiando la loro colazione.

— Mai anteporre la politica alla digestione — osservò Agopian. Si sedette e allungò la mano per prendere un panino.

Mangiammo in silenzio, consapevoli, credo, della presenza degli alieni all’esterno. Le loro voci ci giungevano attraverso la porta aperta, basse e tranquille, mentre parlavano la lingua della loro tribù.

Tatiana sparecchiò la tavola. Eddie lavò i piatti e io li asciugai. Arrivò la Ivanova e parlò con Tatiana in russo. Guardai fuori dalla cambusa. Era evidente che discutevano, parlando in tono sommeso e attento, entrambe accigliate. Agopian ascoltava e non diceva niente.

Finimmo con i piatti.

La Ivanova disse: — Ci sono stati rumori nel bosco. Voci. Ho visto un paio di bambini fra gli alberi, che ci osservavano e non facevano niente. Ma non credo che sarebbe una buona idea lasciare le barche incustodite.

— Io devo rimanere — disse Tatiana. — E anche Yunqi. Voi altri dovete andare tutti al villaggio. Ho fatto un viaggio così lungo e adesso mi tocca fare il cane da guardia mentre a poche centinaia di metri di distanza si fa la storia.

— Potrebbe rimanere Agopian — suggerii.

Agopian disse: — Non ti perdonerò mai questa osservazione.

La Ivanova scosse il capo. — Lui è uno storico. Voglio che venga con noi.

Uscii sul ponte e guardai verso l’alto. Il cielo era sereno se si escludeva un gruppetto di nuvole. Avevano la forma di squame ed erano disposte in tante file.

— Nuvole a pelle di lucertola — disse Nia. Si alzò in piedi, poi si chinò e mise un coperchio sulla pentola dello stufato. L’impugnatura era fatta a forma di bipede, un carnivoro, chino e impegnato a mangiare un altro bipede che giaceva morto, un rilievo sul coperchio ricurvo.

Il ragazzo era sparito.

Feci il gesto della domanda.

— Gli ho detto che dovremmo essere presto al villaggio. È andato avanti.

La Ivanova uscì. — È meglio che andiamo.

La seguii sulla riva. I nativi mi vennero dietro. Il signor Fang era sulla pista, appoggiato a un bastone da passeggio. Gli altri ci raggiunsero: Agopian, Eddie, Derek, che si era cambiato. Adesso era vestito completamente di bianco: jeans aderenti e una camicia ampia e sottile. Le maniche erano a pieghe sciolte. Le spalle erano ricoperte di ricami, bianco su bianco.

— Dove te la sei procurata? — gli chiesi. — Non al reparto approvvigionamento.

— Un baratto.

Le sue scarpe erano di tela bianca assai riflettente, guarnite di cuoio bianco. Scintillavano e balenavano perfino nell’ombra della foresta.

— Mmm! — esclamò Eddie.

Salimmo su per la scogliera. Nia ci precedette nel villaggio. Era deserto. Il vento sollevava polvere e la spingeva attorno a noi. Le campanelle sulle insegne metalliche tintinnavano.

Agopian disse: — Dove sono tutti quanti?

Derek fece il gesto che significava che non lo sapeva.

Arrivammo nello spazio aperto: la piazza del villaggio. Era piena di persone: donne e bambini, tutti elegantemente vestiti. Ovunque guardassi, vedevo vivaci colori, ricami, gioielli.

Una donna gridò. Tutti si voltarono a guardarci.

— Aiya! - disse l’oracolo. — Devo andare lì in mezzo?

— Puoi tornare indietro — gli rispose Derek.

— No. Il mio spirito mi ha ordinato di restare con voi.

La folla si divise. Vi passammo in mezzo. L’oracolo teneva il capo chino e non guardò nessuno finché non arrivammo di fronte ad Angai.

Lei era ritta davanti alla propria tenda, sotto il lembo che fungeva da riparo. C’erano tanti di quei ricami sulla sua veste che non riuscivo a distinguere il colore del tessuto sottostante.

I suoi gioielli erano meno solenni: una borchia d’oro nel naso e una collana che sembrava dover appartenere a una ragazza. Ogni maglia era un piccolissimo e delicato uccello d’argento. Non certo la cosa adatta a una sciamana di mezza età, abbigliata per un importante evento sociale.

— Sedetevi. — Parlò con voce alta in modo che tutti potessero sentire. — Riferitemi il vostro problema. Il villaggio ascolterà. Faremo quello che potremo.

C’erano coperte distese sotto il riparo. Angai fece un gesto e noi ci sedemmo.

Le abitanti del villaggio si avvicinarono. Le vecchie erano le più vicine. Si sedettero per terra. Dietro di loro c’erano le matrone. Non riuscivo a vedere le ragazze o i bambini. Ma sentivo le voci dei bambini, voci acute che gridavano: — Tsa! Tsa! Tsa!

Angai disse: — Cominciate.

Mi presentai, poi presentai gli altri umani.

— Di che sesso sono? — domandò Angai.

Glielo dissi.

— Quattro uomini — dichiarò Angai. — Uno di loro sembra vecchio. È esatto?

Feci il gesto dell’affermazione.

— Ma gli altri tre?

— Non sono né vecchi né giovani.

— Due di loro — guardò di sfuggita Derek ed Eddie — hanno l’aspetto di uomini notevoli. Il modo in cui si vestono è notevole, così come il loro portamento.

— Sì.

— Ma sono capaci di stare seduti fianco a fianco, e anche accanto a donne e a un paio di uomini piccoli, senza fare nulla.

— Sì.

— Nia ha ragione. La tua gente è molto diversa. — Guardò l’oracolo. — Li-sa non mi ha detto il tuo nome. Chi sei e perché viaggi con la gente senza pelo? Perché sei venuto in questo villaggio? Sei un pervertito?

— No. Io sono santo e pazzo. Il mio nome è la Voce della Cascata. Appartengo al Popolo del Rame della Pianura. Sono un oracolo. Viaggio con la gente senza pelo perché me l’ha ordinato il mio spirito. Sono venuto in questo villagio, o sciamana, perché sono venute queste persone. Non le lascerò finché non riceverò indicazioni dal mio spirito.

Angai aggrottò la fronte. — Non ho mai sentito di uno spirito che usasse un uomo per parlare. Ma le vecchie sostengono che più un villaggio è lontano, più le cose vengono fatte in modo sbagliato. Il Popolo del Rame è molto lontano da qui. — Tornò a rivolgersi a me. — Qual è il vostro problema? Parlamene! Forse se saprò che genere di cose vi preoccupano, riuscirò a capirvi meglio. — Si volse verso Nia. — Tu!

Nia fece il gesto che significava che stava ascoltando con rispetto.

— Presta molta attenzione! Se la donna senza pelo dice qualcosa che a te non sembra giusto, parla francamente. Dimmelo!

— Sì.

— Okay — feci io in inglese. — È pronta ad ascoltare il problema.

— Parlerò io per primo — disse il signor Fang. — Ti prego di continuare a tradurre, Lixia.

Feci il gesto dell’assenso.

Lui sembrò perplesso. Annuii col capo e lui incominciò.

— Per prima cosa, ringrazia Angai per la sua accoglienza. "Spiegale che veniamo da molto, molto lontano.

"Dopo essere giunti su questo pianeta… in questo luogo… si è creata fra noi una divergenza di opinioni. Pertanto, abbiamo deciso di rivolgerci a persone al di fuori della nostra spedizione."

Tradussi.

Angai fece il gesto dell’approvazione. — Quando due donne non riescono a mettersi d’accordo, devono rivolgersi a una terza. Agire in modo diverso sarebbe agire come uomini. — Aggrottò la fronte, ricordando evidentemente che il signor Fang era un uomo. — Va’ avanti.

Il vecchio esitò. Puntini di luce riflessa danzavano sulla sua pelle bruna e sul suo vestito di cotone blu scolorito. La luce proveniva dalle decorazioni appese ai bordi del riparo: catene di bronzo che terminavano in piccoli pesci piatti e uccelli. Si muovevano al vento, emettendo un sommesso tintinnio. Oggi i capelli del vecchio erano sciolti e si muovevano a loro volta, sollevandosi quando il vento soffiava sotto il riparo: a ciuffi, disordinati, di un grigio biancastro. — Non è facile. Come si possono rimuovere le idee dal loro contesto? Come possiamo spiegare il nostro dilemma a individui la cui storia e la cui tecnologia sono diverse dalla nostra?

— Io sono disposto a provarci — intervenne Eddie.

— No — ribatté il signor Fang. — Il tuo turno verrà più tardi. Lixia, spiegale che veniamo da un pianeta… un luogo… dove ci sono molti differenti tipi di società. Queste società hanno differenti livelli di tecnologia e, di conseguenza, diverse forme di organizzazione sociale e diverse ideologie.

— Il vecchio dice che nel nostro paese ci sono molti popoli diversi fra loro. Hanno utensili diversi e idee diverse.

— Sarebbe difficile che avessero gli stessi utensili — disse Angai. — Ogni villaggio deve avere le proprie lavoratrici dei metalli e ciascuna di queste deve avere i propri utensili. Quanto alle idee, so che le persone non sono sempre d’accordo.

Il signor Fang proseguì. — In passato ci sono stati problemi quando popolazioni con diversi livelli di tecnologia sono venute in contatto fra loro. — Esitò. — Non voglio parlare di guerra e sfruttamento. Questi sono gli argomenti di Eddie.

"Spiega alla sciamana che quando società differenti si incontrano, si scambiano informazioni e ciò può provocare cambiamenti in una società o nell’altra. Questi cambiamenti non sono sempre piacevoli."

Feci il gesto che significava "lo farò". — Il vecchio dice che quando popoli diversi si riuniscono, si scambiano insegnamenti su nuovi modi di fare le cose, e ciò può essere scombussolante.

La parola che usai per "scombussolante" significava "mettere sottosopra", "rimescolare la pappa muovendo in tondo un cucchiaio", "vuotare una pentola rovesciandola".

Angai aveva un’aria perplessa.

— A causa di ciò — proseguì il signor Fang — le persone sono sempre state in disaccordo circa i vantaggi dei viaggi e dello scambio di informazioni. Secondo il Maestro Lao, in un paese che segue la Via, gli individui eviteranno i miglioramenti tecnologici. Trascorreranno tutta la loro vita in un solo villaggio anche se il villaggio successivo può essere così vicino da consentire loro di sentire l’abbaiare dei cani e il canto dei galli.

Dissi: — Ci sono persone nel nostro paese che ritengono che sia una cattiva idea imparare cose nuove. Queste persone non amano viaggiare.

Angai fece il gesto che significava "continua".

Il signor Fang disse: — Ma il Maestro Kong sostiene che i due grandi piaceri della vita sono acquisire conoscenze e ricevere la visita di amici che vengono da molto lontano.

"La letteratura della Cina è piena di viaggi, di amici che si separano e si incontrano di nuovo. È così che la nostra civiltà si è creata e si è tenuta insieme: grazie ai poeti a cavallo e ai soldati sulla frontiera, alle donne mandate come spose a stranieri, ai lavoratori comuni che hanno guidato carovane attraverso le montagne e barche attraverso le gole dello Yangtze." Alzò lo sguardo e si rese conto del luogo in cui si trovava. Per un attimo sembrò sbigottito.

Dissi: — Ci sono altre persone a cui piace imparare cose nuove. Queste persone amano viaggiare.

— Io vengo dallo Sichuan, dall’antica Shu. Senza viaggi e senza lo scambio di informazioni, noi non saremmo cinesi. D’altra parte, forse avremmo ancora la nostra cultura nativa e la nostra ecologia. Io sono l’erede di Kong e di Lao, di Du Fu e di Wang Anshi. Questo è evidentemente un bene. Ma abbiamo perso le nostre antiche tradizioni, quali che fossero. E abbiamo perso le nostre tigri, i nostri elefanti, i nostri panda e i nostri leopardi. È una perdita terribile.

— Tutto questo viaggiare comporta sia perdite che guadagni — dissi. — Si imparano nuove storie. Se ne dimenticano di vecchie. Nel paese arrivano cose nuove, e vecchie cose se ne vanno.

— Ancora nel Ventesimo Secolo era possibile trovare panda giganti nelle foreste dello Sichuan. Il leopardo delle nevi è, o era, straordinariamente inafferrabile, ma c’erano persone che vedevano le sue impronte nella neve delle alte montagne nel Ventesimo Secolo. Come compensiamo quella perdita di fronte alla poesia di Du Fu, alla filosofia del Maestro Kong, ai vantaggi del socialismo?

— Questo non è facile da spiegare — dissi ad Angai. — Sta parlando del suo paese. Tu non conosci i luoghi, né le persone, né gli animali.

— Fa’ del tuo meglio — ribatté Angai.

— D’accordo. — Riflettei un momento. — Il vecchio sta facendo una catasta delle cose che si sono guadagnate attraveso i viaggi. La sta confrontando con le cose che si sono perse. Quale delle due cataste è più grande? chiede. Non riesce a prendere una decisione.

— Aiya! - esclamarono le donne del villaggio.

Il signor Fang sollevò il capo e guardò dritto in faccia Angai. — Non riusciamo a decidere se sia o no una buona idea farvi visita. Perciò chiediamo a voi di decidere.

Tradussi, poi aggiunsi: — Ora parleranno Eddie e Ivanova. Eddie è contrario a questa visita. Ivanova pensa che sia una buona idea.

— Tutto questo richiederà molto tempo — disse Angai. — La mia gente deve prendersi cura dei bambini. Le vecchie devono alzarsi e camminare un po’ qua e là. Ci fermeremo per un momento. Ci sono tante informazioni! Tante cose su cui riflettere! Tante domande da fare!

Fece un gesto. Le donne anziane si alzarono, lamentandosi. Alcune ebbero bisogno di aiuto per rimettersi in piedi. La folla di donne si disperse e noi restammo soli.

Angai guardò Nia. — Hai sentito qualcosa che ti sembra sbagliato?

— No. Ma ci sono un sacco di cose di queste persone che non so. — Nia si grattò la fronte. — Li-sa non parlava tanto quanto il vecchio. — Guardò Derek. — Che cosa non è stato detto?

— Ve l’ha spiegato — rispose Derek. — Il vecchio stava parlando del suo paese.

— Quello che ha detto è importante? — domandò Nia.

— Giudicatelo voi. — Derek fece una traduzione minuziosamente esatta.

I nativi aggrottarono la fronte e incominciarono a fare domande. Che cos’è un panda? Che cos’è un Wang Anshi?

Mi alzai in piedi e m’incamminai verso la luce del sole, mi stiracchiai e mi toccai la punta dei piedi. Le nuvole del mattino erano sparite. L’aria andava facendosi calda.

Lanciai un’occhiata al gruppetto al riparo del lembo della tenda, al quale si era unita anche Hua. Portava un vaso fatto d’argento, dal corpo rotondo e il collo lungo e sottile. Mi guardò e lo sollevò. Tornai indietro, mi sedetti per terra e bevvi un liquido fresco dal gusto amarognolo che mi lasciò intorpidita la bocca.

— Che cos’è? — chiesi.

— Rende felici le persone — rispose Hua. — Quando le vecchie lo bevono, dimenticano che il loro corpo duole e la forza le sta abbandonando. Danzano e cantano come ragazze.

— Mmm! — Ne presi un’altra sorsata, poi porsi il vaso a Derek.

— Eri dentro la tenda — dissi a Hua.

Lei fece il gesto dell’affermazione. — Se fossi rimasta qui fuori — indicò con un cenno della mano lo spazio aperto — le donne anziane si sarebbero messe davanti a me. Non avrei visto niente e non avrei sentito neppure molto. Io diventerò la prossima sciamana. È importante che veda e senta quello che fa la mia madre adottiva.

Eddie prese la brocca. — Che cos’è questa roba?

— Una sostanza che altera la mente — rispose Derek.

Eddie la porse alla Ivanova, che la porse ad Agopian — Sta’ attento, compagno — disse.

— Sì — rispose Agopian. Bevve, si strozzò, tossì e porse la brocca al signor Fang.

Guardai Hua. — Perché non potevi restare qui fuori con noi?

— Non c’è spazio sotto il riparo.

— Le ragazze non siedono con le donne quando queste prendono importanti decisioni — disse Angai.

E forse, pensai, non sarebbe una buona idea che Hua, Nia e Angai sedessero insieme di fronte all’intero villaggio. Le donne potrebbero ricordare quanto la loro sciamana fosse stata legata alla donna che avevano esiliato.

Ora le persone stavano tornando. Portavano oggetti: pali che conficcarono nel terreno e pezze di stoffa che stesero sopra i pali. La luce brillava attraverso la stoffa e prendeva il colore di ciascuna pezza: rosso, verde, azzurro, giallo e arancione.

Le persone stesero coperte e si sedettero. Fecero passare di mano in mano del cibo: pezzi di pane, ciotole di carne, vasi d’argento e di bronzo. I bambini più piccoli camminavano a quattro zampe fra le ombre colorate, quelli più grandicelli correvano.

Hua s’infilò di nuovo dentro la tenda. Un attimo dopo ricomparve, o meglio comparve la sua mano, bruna e pelosa, che teneva un grosso pezzo di pane piatto. Eddie lo prese. Lo facemmo passare.

Angai fece un gesto autorevole. Le persone nella piazza tacquero. Angai ci guardò. — Incominciate.

— Elizaveta e io abbiamo fatto a testa e croce — disse Eddie. — Ho perso e devo parlare per primo. Derek, vuoi tradurre tu?

— Sì.

Eddie inspirò, poi espirò lentamente. — Per prima cosa, ripeto quello che ha detto il signor Fang: quando persone diverse s’incontrano, si verificano dei cambiamenti.

"Con ogni pobabilità queste persone, il Popolo del Ferro, cambieranno più di noi, poiché hanno una tecnologia meno sviluppata. Forse non gradiranno i cambiamenti che subiranno. E forse troveranno impossibile tornare al modo in cui erano."

Derek rifletté un momento. — D’accordo. — Guardò Angai. — Eddie dice che quando le persone si incontrano, si modificano a vicenda.

Angai fece il gesto dell’approvazione con riserva.

— Se le persone hanno differenti tipi di utensili, le persone con utensili grandi e potenti cambieranno meno delle persone con utensili piccoli e deboli.

"Eddie sostiene che i nostri utensili sono grandi e potenti. I vostri utensili sono piccoli e deboli. Pertanto voi cambierete più di noi, e forse i cambiamenti non vi piaceranno."

Angai si accigliò. — Quest’uomo non si comporta in modo cortese. La nostra gente è abile. Gli attrezzi che fabbrichiamo sono buoni.

Le donne che le stavano attorno fecero gesti di approvazione incondizionata.

— Tuttavia, è vero che le nuove idee rendono inquiete le persone. Forse non apprezzeremo le storie che racconterete o il vostro modo di comportarvi.

Derek lo tradusse in inglese.

Eddie aggrottò la fronte, poi annuì. — Quindi, riferisci alla sciamana che noi abbiamo una lunga storia di pessimo comportamento nei confronti di popolazioni che sono diverse. Siamo migliorati negli ultimi due o tre secoli, ma non sappiamo se il cambiamento sia permanente. Potremmo tornare quelli di un tempo, soprattutto qui in questa regione che assomiglia tanto al Nord America.

— È proprio necessario? — domandò la Ivanova. — Dobbiamo tirare in ballo tutti gli antichi crimini del feudalesimo e del capitalismo? Noi non siamo quelle persone. E la maggior parte di noi non ha dovuto sopportare niente di simile a quei sistemi economici.

— Eddie non è un marxista — intervenne il signor Fang. — Non condivide la nostra analisi della natura umana o della storia dell’umanità. Per lui questa è una preoccupazione reale.

Derek disse: — Eddie sostiene che in passato la nostra gente si è comportata male con persone di altri villaggi. Teme che possa accadere di nuovo.

— Che cosa intendi dire con comportarsi male? — domandò Angai.

Derek tradusse.

— Parlale della guerra — disse Eddie.

— In passato i nostri uomini erano soliti andare in giro in gruppi. Combattevano contro uomini di altri villaggi. Gli uomini che vincevano rubavano cose agli uomini che avevano perso.

— Che genere di cose? — s’informò Angai.

— Oggetti, animali, terra. A volte portavano via persone: uomini, donne e bambini.

— Come si fa a rubare la terra? Non la si può portare via in una bisaccia da sella e neppure su un carro. E che scopo potrebbe esserci a portare via delle persone?

Una vecchia disse: — Ci sono storie di demoni che mangiano le persone.

Angai corrugò la fronte. — È questo che faceva la vostra gente?

— No — rispose Derek. — Lascia che sia Eddie a spiegarlo. — Tradusse le domande di Angai.

Eddie assunse un’aria corrucciata. — Questo è veramente difficile. Aspetta un minuto. — Fissò il cielo. — Ci sono due modi di rubare la terra.

"Nel primo caso, si scacciano le persone che si trovano sulla terra e la si prende per sé. Questo è stato fatto nel Nord America.

"Nel secondo caso, si assume la proprietà della terra. Non ci si sbarazza degli abitanti originari. Si tengono per lavorare la terra. Si posseggono al pari della terra. Questo è stato fatto nel Sud America e in Africa e, immagino, in Europa nel Medio Evo."

Derek tradusse.

Angai disse: — Perché le persone dovrebbero accettare di lavorare per degli stranieri? Quale vincolo li tiene insieme? Non sono parenti. Non possono avere nessun obbligo verso individui che sono ladri.

Eddie rispose: — Se non lavoravano, non ricevevano cibo. Spesso venivano picchiati o feriti in altri modi.

Derek tradusse, trovando qualche difficoltà con la parola "picchiati". Esitò, poi usò il termine che significava battere il metallo nella fucina.

— Questo è impossibile da capire — dichiarò Angai. — Perché le persone non se ne andavano?

— Non c’era alcun posto dove andare — ribatté Eddie. — Il mondo era pieno di persone che combattevano e rubavano. Tutto era posseduto.

— Uh! — esclamò Angai. Guardò Nia. — Questo ti sembra esatto?

— No. Non ho mai sentito niente del genere prima d’ora. So che quest’uomo non vuole che tu faccia una buona accoglienza alla sua gente. Forse sta mentendo.

Angai guardò me. — Sta mentendo?

— No. Ma quello che descrive è accaduto molto tempo fa.

— Quanto tempo fa?

Feci qualche calcolo. — Sono passate almeno dodici generazioni.

Angai si appoggiò all’indietro ed espirò. — Siete sicuri che queste cose siano successe davvero? Una storia può cambiare quando viene raccontata e raccontata di nuovo più volte.

— Siamo sicuri.

— Che cosa è successo? È più facile cambiare le parole che cambiare le persone. Se la storia è vera, se non è cambiata, allora che cosa è successo a voi? Perché ora siete diversi?

Esitai. Derek tradusse la nostra conversazione.

Eddie disse: — Non sono certo che siamo poi tanto diversi.

— Posso rispondere io alla domanda? — chiesi.

Il signor Fang e la Ivanova accennarono di sì col capo.

— Credo che tu stia cercando di cambiare il senso delle mie parole — protestò Eddie.

— Sto cercando di rispondere a una domanda fatta da Angai. Derek tradurrà tutto quello che dirò. Se vorrai fare delle osservazioni, avrai la possibilità.

Eddie fece il gesto del riluttante assenso.

Mi rivolsi ad Angai. — Eddie non crede che siamo cambiati. Ma io sì.

— Come? E perché? — domandò Angai.

Riflettei un momento, consapevole delle persone che ascoltavano, dei piccoli rumori, colpi di tosse e mormorii, un neonato che piangeva, bambini più grandi che giocavano all’altra estremità della piazza. Sentivo le loro voci, acute e chiare, non tanto diverse dalle voci dei bambini sulla Terra.

Ma quando guardai, vidi pelo scuro e occhi gialli, pupille simili a fessure, ampie facce piatte che non mi ricordavano nessuna specie umana.

— Eddie ha detto che queste persone, i nostri antenati, si derubavano a vicenda. Questo è vero. Rubavano anche all’intero mondo. Le persone trattano ogni cosa nel modo in cui si trattano a vicenda.

Una donna molto vecchia, grigia e curva, esclamò: — Uh! Sì! Lo so!

— Fecero a pezzi la terra, cercando svariati tipi di ricchezza: oro, argento, rame e altre cose. Abbatterono foreste. Levarono l’acqua dai fiumi così che i fiumi si prosciugarono. Misero veleno in altri fiumi così che l’acqua non poté più essere usata. Riuscirono perfino a recare danno al cielo. Incominciarono a cadere piogge ardenti e il calore del sole divenne più intenso.

— È terribile — osservò una donna. — Le vostre sciamane non erano in grado di fare niente? Non potevano supplicare gli spiriti? Non potevano eseguire cerimonie di propiziazione e prevenzione?

— Hanno provato. Ma niente funzionava. Non erano gli spiriti a fare quelle cose. Erano le persone.

— Uh! — esclamò la donna.

— Che cosa successe? — chiese Angai.

— Devi capire che la maggior parte dei nostri antenati non erano volutamente malvagi. Non intendevano distruggere il mondo. Ma non pensavano alle conseguenze di quello che stavano facendo. Erano convinti di poter prendere senza dare. Credevano che il mondo fosse come un pesce in una conchiglia. Potevano aprirla e mangiarlo e gettar via la conchiglia.

Feci una pausa. Derek tradusse.

— Un pesce in una conchiglia? — domandò il signor Fang.

Eddie disse: — Mi stupisce che Derek si sia lasciato sfuggire questo. I nostri antenati pensavano che il mondo fosse la loro ostrica.

Il signor Fang appariva ancora perplesso.

Angai disse: — Dovevano rendersi conto che stavano agendo in modo sbagliato. È sempre sbagliato rubare. È sempre sbagliato recare danno ad altre persone, a parte quando due uomini si battono in primavera.

— Mentivano gli uni con gli altri su quello che stavano facendo — le dissi. — All’inizio, nei primi tempi, dicevano: "Stiamo rendendo migliore il mondo. Quando arrivammo in questo posto non c’era nient’altro che foresta, animali selvatici e persone che correvano qua e là nude. Abbiamo messo fine a tutto ciò. Abbiamo abbattuto gli alberi e piantato giardini. Abbiamo creato pascoli dove possiamo allevare il genere di animali che desideriamo. Abbiamo insegnato alle persone nude a indossare indumenti. Tutto questo è bene! E guardate le altre cose che abbiamo fatto! Abbiamo scavato fiumi e portato l’acqua ai nostri giardini. Abbiamo trasformato in laghi aridi canyon. Adesso c’è più cibo. Adesso possono esserci più persone. Adesso i nostri villaggi possono diventare grandi e ricchi!".

"Dopo un po’ di tempo incominciarono a rendersi conto che il mondo non sembrava essere un luogo migliore. Tutto sembrava più piccolo e più sporco. Tutto si stava consumando: il suolo, le colline, i fiumi e i laghi. Le persone dissero: ’Non c’è niente di nuovo in questo. Ci sono sempre stati luoghi in cui la terra è povera e inutile. Ci sono sempre stati fiumi nei quali l’acqua non è buona da bere. Non c’è alcun problema’.

"Le cose continuarono a peggiorare. Ora le persone dissero: ’Per tutto ciò che si guadagna, qualcosa deve andare perduto. Guardate quello che abbiamo guadagnato! Guardate i nostri villaggi pieni di grandi case! Guardate le nostre case piene di molti doni! Le foreste che sono sparite ci sono tornate in oro. I fiumi che non possiamo bere sono diventati vasi pieni di bara’.

"Alla fine tutto divenne così brutto che nessuno riusciva a trovare qualcosa di consolante da dire. Allora le persone dissero: ’Cambiare è impossibile. È già troppo tardi. In ogni caso, non ci dispiace davvero il modo in cui sono le cose’." Feci una pausa. "Queste sono le quattro menzogne che le persone raccontavano: ’Stiamo rendendo migliori le cose’. ’Non c’è alcun problema.’ ’Non ci sono autentici doni.’ ’È troppo tardi per cambiare.’"

— Questa è la cosa peggiore che io abbia mai sentito — dichiarò una donna.

E Angai: — La storia non può finire così.

— Alla fine le persone si guardarono attorno e videro come il mondo era diventato orribile. Mentire non era più possibile. Videro dove li avevano condotti la collera e l’avidità: sull’orlo della distruzione. Dovevano fare una scelta. Se volevano vivere, dovevano rinunciare alla collera e all’avidità. Se volevano continuare a essere collerici e avidi, sarebbero sicuramente morti.

"La maggior parte delle persone decisero che volevano vivere. Erano come qualcuno che cammina nel sonno, tormentato da sogni spaventosi. All’improvviso si sveglia e vede dove si trova: sul ciglio di un dirupo. Un altro passo lo farà precipitare. Le rocce sottostanti sembrano dure."

Derek tradusse.

Agopian disse: — Che splendido discorso, Lixia. Sono impressionato. Ma hai tralasciato la lotta di classe e una grande quantità di importantissime lotte rivoluzionarie.

— E hai ignorato i vantaggi della tecnologia — disse la Ivanova. — La civiltà non è soltanto menzogna e furto organizzati, sebbene la menzogna e il furto siano stati indubbiamente importanti. Sei davvero convinta che staremmo meglio se dovessimo ancora procurarci il cibo scavando con le dita nella savana africana?

— Non posso inserire ogni cosa — ribattei. — E, come Eddie, non sono una marxista.

Angai chiese: — Questo è tutto? O devi aggiungere altro alla tua spiegazione?

— C’è ancora una cosa. Derek ti ha detto che gruppi di uomini erano soliti andarsene in giro e combattere fra di loro. È così che tutto è iniziato, quando un tipo di persone ha incominciato a rubare a un altro tipo di persone.

Angai fece il gesto che significava che capiva.

— I nostri uomini non se ne vanno più in girò da soli. Restano con le donne, e le donne non amano affrontarsi e combattere.

— Questo è vero — disse Angai. — Forse avete ragione a tenere i vostri uomini nei villaggi, se si mettono insieme e causano guai quando si trovano per loro conto.

Le altre donne fecero il gesto dell’approvazione.

— Come siamo fortunate — intervenne un’altra donna. — Ai nostri uomini non verrebbe mai in mente di mettersi insieme.

— Potrebbe accadere, se venissero a sapere di queste persone — fece un’altra ancora.

— Penso che tu ci abbia appena rovinati — disse Derek in inglese.

Angai fece il gesto del dissenso. — È evidente che queste persone sono diverse da noi. Credo che i loro uomini siano diversi dai nostri uomini. — Guardò verso di me. — I vostri uomini sono mai vissuti da soli così come fanno i nostri uomini?

— No. I nostri uomini hanno sempre fatto le cose in gruppo.

Angai fece il gesto che significava "vedete". Alzò lo sguardo. — Il sole si trova nella parte occidentale del cielo e stiamo arrivando al periodo più caldo del giorno. Abbiamo sentito parlare Eddie. Adesso dobbiamo sentire l’altra persona. Ifana.

Tradussi.

La Ivanova annuì. — Occupatene tu, Lixia. — Si raddrizzò. — Non ho molto da aggiungere. Ciò che ha descritto Eddie non è la natura dell’umanità, ma la natura del capitalismo, e i differenti sistemi politici ed economici sorti in risposta al capitalismo, alcuni dei quali, lo so, si sono definiti proletari. La questione relativa a che cosa fossero effettivamente queste società…

Agopian disse qualcosa in russo.

La Ivanova annuì col capo e continuò: — Non è rilevante in questa sede. Il sistema dominante era il capitalismo. Se ne stava acquattato come un drago al centro del Ventesimo Secolo. I suoi tentacoli arrivavano ovunque.

Una bellissima metafora, e la Ivanova non avrebbe potuto rinnegarla. Avevamo troppi registratori accesi.

— Quell’epoca è finita, almeno per la maggioranza della popolazione della Terra. — Fece una pausa.

Dissi: — Ivanova sostiene che i nostri antenati non erano cattive persone. Avevano brutte abitudini, e abbiamo abbandonato quelle abitudini.

— Abbiamo imparato nel modo più difficile, attraverso terribili sofferenze, che una società basata sull’avidità individuale è molto pericolosa. Per sopravvivere dobbiamo pensare in termini più ampi. Dobbiamo pensare alle specie e al pianeta. Se non lo facciamo, moriremo, o moriranno i nostri figli, o i loro figli. Non abbiamo scelta! Dobbiamo collaborare!

Dissi — Abbiamo imparato che non possiamo essere avidi o egoisti.

— Bene! — esclamò la vecchia dal pelame grigio, quella che aveva parlato prima.

— Una società proletaria si basa sulla collaborazione. Le persone non si sfruttano a vicenda, e non sfruttano neppure i loro vicini. Quando si incontrano con membri di altre società, lo fanno con rispetto per i diritti degli altri e preoccupazione per il vantaggio di tutti.

Dissi: — Adesso lavoriamo insieme. Non rubiamo. Quando incontriamo persone di altri villaggi, scambiamo doni.

La Ivanova guardò Angai. — Vorremmo trascorrere un po’ di tempo nel vostro paese per imparare qualcosa sulla tua gente e su questo pianeta. In cambio vi insegneremo qualcosa sulla nostra gente e sulla Terra. Credo francamente che questo scambio di informazioni non causerà alcun danno. Al contrario, tornerà a vantaggio di tutti.

— Lei sostiene che la nostra gente vuole venire a fare visita e a scambiare storie. È convinta che sarà un bene per tutti.

— Sta dicendo la verità? — domandò Angai.

— È convinta di quello che ti ha detto. E anche Eddie.

— Il vecchio ha qualcosa da aggiungere?

Tradussi la domanda.

— Soltanto questo — disse il signor Fang. Guardò la sciamana. — Questo è il vostro pianeta e la decisione spetta a voi. Lasceremo a voi la decisione. Se, in futuro, vorrete che ce ne andiamo, lo faremo.

— Lui sostiene che questo è il vostro paese. Potete dirci di restare. Potete dirci di andare, adesso o in qualsiasi momento.

Angai si accigliò. — Tutto questo lo so. Crede che sia una stupida? — Si alzò in piedi. — Adesso termineremo. Io andrò a riflettere su tutto ciò che ci hanno detto queste persone. Chiederò consiglio agli spiriti e alle donne anziane del villaggio. Domani vi riferirò la mia decisione. — Fece il gesto che significava "è finita" ed entrò nella propria tenda.

Le donne del villaggio incominciarono a smontare i loro ripari.

Io aiutai il signor Fang ad alzarsi in piedi.

— Non sono completamente d’accordo con i Taoisti — disse. — Ma forse ci addossiamo troppi compiti. Fare la storia è un’ardua impresa, e può essere pericoloso. Credo che prenderò una tazza di tè, guarderò il fiume e rifletterò sull’inazione.

Attraversammo il villaggio. Il vecchio si appoggiava al mio braccio. Mi resi conto di quanto fosse esile e fragile.

— D’altra parte — continuò il signor Fang — c’è la storia di Yu l’ingegnere. Stava viaggiando per affari di governo e doveva attraversare un fiume. Un grosso drago giallo urtò contro l’imbarcazione.

"I barcaioli erano terrorizzati. Yu si mantenne calmo. Disse: ’Sto facendo il massimo nell’interesse della gente, assolvendo i miei doveri in obbedienza al Cielo. Da vivo, sono un ospite. Da morto, vado a casa. Perché dovrei essere preoccupato? Il drago non è molto più di una lucertola’.

"Il drago appiattì le orecchie, lasciò cadere la coda e si allontanò nuotando. Yu proseguì il suo viaggio. Mi è sempre piaciuta quella storia."

Scendemmo lungo la scogliera del fiume. Lo aiutai a salire sulla barca della Ivanova e a sistemarsi in una poltroncina sul ponte. La cabina era vuota. Yunqi doveva essere andata a trovare Tatiana. Preparai il tè e lo portai fuori. Lapsang Souchong. Lo sorseggiammo e osservammo gli uccelli che pescavano nel fiume.

Yunqi tornò e preparò il pranzo. Fettuccine fredde e verdure sottaceto. Mangiammo insieme sul ponte. I sottaceti erano deliziosi.

Dopo un po’ Derek ci raggiunse e bevve una birra, con i piedi appoggiati sul parapetto, le scarpe nuove che luccicavano. — Molto meglio! Non mi piacciono i discorsi. Non hanno niente a che vedere con la vita. Se la vita ha a che vedere con qualche cosa.

Feci il gesto dell’approvazione.

— Che cosa faranno? — s’informò Yunqi. — Ci permetteranno di restare?

— Non lo so — risposi.

Yunqi assunse un’aria corrucciata. — Il nostro lavoro è importante.

— Questo è il loro paese — disse il signor Fang.

Decisi che ero accaldata e appiccicosa e non mi sentivo affatto dell’umore adatto per ascoltare congetture sulla gente del villaggio. — Vado a fare una nuotata.

Derek fece il gesto che significava "è una buona idea".

Andai sull’altra barca.

Agopian e la Ivanova erano seduti sul ponte. Stavano chiacchierando in russo, in tono sommesso e attento. Mi rivolsero un’occhiata, poi tornarono alla loro conversazione.

Eddie era seduto su un divano nella cabina e leggeva.

— Dov’è Tatiana? — chiesi.

— Al villaggio. Voleva vedere le persone. Potrebbe essere la sua unica opportunità. Potrebbero dirci di andarcene. — C’era qualcosa nella sua voce. Speranza? Soddisfazione?

Presi un asciugamano e una bottiglia di sapone dal bagno. — Di che cosa stanno parlando i compagni?

— Non ne ho idea. Non mi è mai passato per la testa che mi sarebbe servito conoscere il russo. Il loro lavoro nelle scienze sociali non è niente di speciale, soprattutto nei campi che interessano a me.

— Non è probabilmente niente. — Presi una tuta nuova, di un giallo intenso. — Vado a nuotare nel fiume. Se non sarò di ritorno fra un’ora, tirate fuori le reti.

— Okay.

Mi lavai nell’acqua bassa in prossimità della riva, poi nuotai verso il centro del fiume. Era ormai metà pomeriggio. Le scogliere sopra di me erano ancora illuminate dalla luce del sole, ma la foresta lungo il fiume era in ombra. Galleggiai sulla schiena, lasciando che la corrente mi portasse verso sud-est.

Qualcosa fischiò. Sollevai la testa. C’era un bipede sulla riva. Era alto due metri, giallo a strisce blu e con una bella gola azzurra. Un predatore. Vidi le zampe anteriori munite di artigli e la bocca piena di denti aguzzi. Forse un osupa? Mi osservò, impavido, poi fischiò di nuovo. Altri animali emersero dalle ombre: un branco. I piccoli erano grandi la metà dei loro genitori e a chiazze invece che a strisce. Dieci in tutto. Sulla terra mi avrebbero fatto paura, ma non avevano l’aria di nuotatori. Mi rigirai e nuotai lentamente contro corrente in direzione della barca. La corrente era più forte di quanto mi fossi resa conto e quando mi issai a bordo ero stanca. Mi sedetti a prua, respirando affannosamente.

I predatori dominanti sembravano essere gli animali chiamati assassini. Erano a quattro zampe e avevano una certa somiglianza con i tassi o i leopardi, se l’arte dei nativi era precisa. I bipedi predatori stavano forse venendo espulsi? Oppure riempivano un’altra nicchia ecologica? Forse gli assassini predavano prevalentemente cornacurve, mentre questi animali predavano i loro cugini erbivori. Altre domande a cui Marina avrebbe dovuto trovare una risposta. Mi vestii e andai a poppa.

La Ivanova se ne era andata. Agopian era seduto al tavolo pieghevole sul quale stava disponendo delle carte da gioco. Un nativo lo osservava, in piedi all’altra estremità del tavolo e appoggiandosi in avanti sulle mani pelose.

Agopian alzò lo sguardo. — Credo che costui, o costei, voglia te. È davvero difficile cercare di stabilire rapporti con esseri totalmente estranei che non parlano una lingua che io capisca.

— Che cosa sta facendo? — domandò il nativo. Era il figlio di Nia.

— È un… — Esitai. Non conoscevo ancora la parola per definire un gioco. — Una cerimonia. O piuttosto, è il genere di cosa che i bambini fanno con un bastone e una palla.

— Uh! Lui mette rosso su nero e nero su rosso. Ma non capisco il resto. I colori sono importanti?

Tradussi.

Agopian disse: — Rosso come sangue e fuoco. Nero come notte e morte. — Mise giù una carta. — Nero come anarchia. Rosso come rivoluzione.

Guardai Anasu. — Lui dice che sono i colori del sangue e del fuoco, della notte e della morte, della confusione e del cambiamento.

— È un mucchio di roba! Che cerimonia che sta eseguendo questa persona! Vero? Non conosco la parola. È una sciamana maschio?

Tradussi.

— Io sono un marxista.

Feci il gesto che significava "sì".

— Aiya! - Il ragazzo si raddrizzò, togliendo le mani dal tavolo. — C’è un posto dove possiamo andare? Non voglio disturbare uno sciamano. — Fece una pausa. — Una persona sciamano.

— Lui non vuole disturbarti — spiegai in inglese.

— Portalo via — disse Agopian. — Devo riflettere un po’. — Alzò lo sguardo. — Forse avrò voglia di raccontarti qualcosa più tardi.

— A proposito della conversazione che stavi facendo con la Ivanova?

— Sì. Credo di essermi ficcato in qualcosa di stupido e adesso devo tirarmene fuori. — Guardò la disposizione delle carte, aggrottando la fronte. — Così è la vita, come diceva Lenin. Un passo avanti. Due passi indietro. — Mise giù un’altra carta. — Preferirei che non accennassi alle mie osservazioni con la Ivanova.

— Okay.

Il ragazzo mi seguì verso la prua. Ci sedemo sul ponte di fibra di vetro. Lui si cinse le ginocchia pelose con le braccia pelose.

— Una della vostra gente si trova al villaggio, va in giro e guarda. Non capisce una parola di quello che le dice la gente. O è un maschio? Non lo so.

— Una donna. Si chiama Tatiana.

Lui fece il gesto dell’intesa: un rapido scatto della mano. — Hua è con lei, per assicurarsi che non si metta nei guai.

Una voce chiamò nella lingua del villaggio. Proveniva da un albero che si sporgeva sopra il fiume. Guardai in su e vidi delle foglie che si muovevano. — Quello è un tuo amico?

— Gerat. Fa sempre un sacco di baccano. Gli altri non li sentirai. Mi hanno detto che non avrei osato salire sulla barca.

— È per questo che siete venuti qui?

— Per la sfida? No. Volevamo vedere le barche, e nel villaggio sono tutte impegnate a discutere. — Si strinse le ginocchia con le braccia. — Uh! Che situazione! Non vogliono avere intorno i figli, soprattutto i maschi. Non vogliono lasciarci vedere che sono confuse.

— Sai che cosa decideranno?

— No. Dipende da Angai e dagli spiriti. E anche dalle donne anziane. Credo che le anziane diranno che dovete andarvene, ma non so che cosa farà Angai. — Inclinò il capo, riflettendo. I suoi strani occhi color grigio chiaro erano socchiusi. Infine fece il gesto del dubbio. — Hua potrebbe avere qualche idea. Lei capisce Angai meglio di me, e ne sa di più sugli spiriti. — Aprì gli occhi. — Ho qualcosa da chiederti.

Feci il gesto che significava "va’ avanti e chiedi".

— La gente dice che questa barca si muove da sola. Mi piacerebbe vederlo. È possibile?

Riflettei un momento. Era una richiesta ragionevole. Bisognava sempre aiutare i giovani ad acquisire conoscenza. E quel ragazzo mi piaceva. Era intelligente e affascinante. Strano che il fascino potesse attraversare i confini delle specie. E strano che il suo fascino dovesse avere una componente sessuale. Ma l’aveva.

— Okay. — Mi alzai. — Parlerò con la persona sciamano.

Anasu sollevò una mano. — Non voglio interrompere una cerimonia.

— Può darsi che ormai abbia finito.

Tornai a poppa. Agopian stava ancora facendo il suo solitario. — Sai condurre la barca?

— Naturalmente.

— Falla partire.

— Perché?

— Il ragazzo. Anasu. Vuole vedere una barca in movimento.

Agopian aggrottò la fronte.

— Non è poi una grande richiesta.

Agopian si alzò e raccolse le carte. — Okay.

Il ragazzo ci raggiunse. Appariva nervoso. — La persona sciamano aveva finito?

— Credo di sì.

Agopian si sedette al posto di guida, diede un colpetto a un interruttore e parlò in russo.

— Che cosa sta dicendo? — domandò il ragazzo.

— Non lo so. Noi abbiamo molte lingue e io ne conosco solo qualcuna.

— Allora non venite tutti dallo stesso villaggio?

— No.

La radio parlò in russo. Agopian avviò il motore. Accanto a me, il ragazzo serrò le mani. Agopian disse: — Prendi le funi di ormeggio, Lixia.

Ubbidii, inerpicandomi fra il sottobosco. Sentii una voce sopra di me. Non credo che fosse il bambino che aveva parlato prima. Salii di nuovo sulla barca, che si allontanò dalla riva. Eddie uscì dalla cabina.

— Che cosa sta succedendo?

Glielo dissi.

Lui si accigliò.

— Mettiamola così — dissi. — Potrebbe essere la sua ultima opportunità.

— Come Tatiana al villaggio? — Eddie sorrise. — Okay.

— L’uomo grande e grosso è arrabbiato? — domandò Anasu.

— No. — Guardai verso riva. Ora si vedevano un paio di bambini. Uno se ne stava silenzioso sulla riva e ci osservava. L’altro era appeso con una mano a un ramo come un gibbone. I suoi piedi scalciavano. Chissà se era un maschio o una femmina?

— Quello è Gerat — disse Anasu.

Un istante dopo Gerat perse la presa. Cadde nell’acqua e si mise a sguazzare, gridando. L’altro bambino non gli prestò la minima attenzione.

— Te l’ho detto — fece Anasu. — Fa sempre baccano.

Arrivammo al centro del fiume. Agopian invertì la rotta e diresse la barca contro corrente verso le rapide, poi ridusse la velocità. Il rumore del motore passò da un rombo a un brontolio.

— Perché la vostra barca fa tanto rumore? — s’informò Anasu. — È affamata?

— Non ci mangerà, se è questo che ti stai chiedendo.

— È viva?

Gerat si arrampicò sulla riva. La sua pelliccia era fradicia e arruffata. Il ragazzo aveva un’aria miserabile perfino da lontano.

— No — risposi. — È un utensile.

Il ragazzo fece tre passi avanti di corsa, saltò e si aggrappò al bordo del tetto della cabina, tirandosi su con una giravolta.

— Ehi! — esclamò Eddie.

Anasu si drizzò in piedi, a gambe divaricate.

— Scendi giù di lì! — gridò Eddie.

Il ragazzo agitò la mano.

Gli altri bambini lanciarono grida eccitate. Ne vidi cinque.

— Io diventerò un uomo grande e grosso! — gridò Anasu. — Sarò come mio zio. Voi piccoletti, ascoltate! Preparatevi a farvi indietro!

— Lo dici tu! — gridò una voce in risposta.

La barca si stava spostando molto lentamente verso valle. Anasu tentò un passo di danza: una scivolata e un saltello.

"Io sono sulla barca!

Sono sulla barca

che brontola!

"Io sono sulla barca!

Sono sulla barca

che RUGGISCE!

"Sto danzando!

Aiya! Danzando

sulla larga

e tremante groppa."

— Lingua lunga! — gridò uno dei ragazzini. Mi sembrò che fosse Gerat.

Anasu fece una piroetta.

Agopian disse: — Fallo scendere, Lixia.

— La persona sciamano si sta infuriando — dissi. — Scendi di lì.

Anasu lanciò un altro grido, poi si rotolò in avanti in un salto mortale che lo portò giù dal tetto. Si raddrizzò a mezz’aria e atterrò sui piedi.

— Ginnastica — disse Agopian. — Ecco di che cosa hanno bisogno questi ragazzi. Con l’allenamento giusto batterebbero i cinesi.

— Hanno bisogno di essere lasciati in pace — ribatté Eddie.

Agopian ruotò il timone. L’imbarcazione girò in tondo, tornando verso riva.

Anasu respirava affannosamente. Non per lo sforzo, ma per l’eccitazione e forse la paura. — La persona sciamano è arrabbiata sul serio?

— Non credo.

— E l’uomo grande e grosso? È stato lui a gridare soprattutto.

— No.

Anasu fece il gesto della felicità.

Gli altri bambini vennero incontro alla barca, gridando in direzione di Anasu nella loro lingua. Lui li ignorò, voltando loro le spalle.

Interessante. Il processo con cui si stabiliva il predominio doveva cominciare presto. Questo era tipico degli umani nelle società in cui le gerarchie erano importanti. Nel New Jersey, per esempio.

Era possibile che i bambini sapessero già, prima di subire il cambiamento, quale fosse la propria posizione nei rapporti reciproci.

Scesi dalla barca e la legai. Anasu mi seguì, aiutandomi alla meglio. Alla fine fece il gesto della gratitudine. — Di’ alla persona sciamano che gli sono grato. Spero che non sia in collera. Non è mai una buona idea litigare con le persone sante.

Si voltò e corse nella foresta. Gli altri bambini lo seguirono. Tornai alla barca.

— Sarebbe potuto cadere — disse Eddie. — E se fosse finito vicino all’elica?

— Credo che si chiami un’avvitata — osservò Agopian. — Anche se non ci giurerei.

Entrai nella cabina. Il libro di Eddie era sul pavimento. Il pulsante dell’avanti veloce brillava rosso e sullo schermo c’era il simbolo a tre lobi usato per contrassegnare la fine di qualcosa di prezioso: letteratura, arte, aria, acqua pulita, suolo non contaminato. Il simbolo era dipinto su camere di equilibrio esterne. Si trovava ai margini delle diverse terre distrutte. Concludeva olodrammi e brillava sopra le uscite dei musei.

Spensi il libro e lo gettai su un divano, poi mi recai nella cambusa a prendere una birra.

Tornò Tatiana.

— Ti è piaciuto il villaggio? — le chiesi.

— Dio è grande. — Rise. — È quello che continuo a pensare. Allah akbar.

— "O mirabile mondo nuovo, che ha in sé simili esseri" — declamò Eddie.

Agopian disse: — Miranda ne La Tempesta. Vi ha mai detto nessuno che Shakespeare è migliore in russo?

Eddie fece il gesto che significava "no".

— Ho sempre sentito dire che era migliore in tedesco — osservai.

— Quel verso non mi fa mai venire in mente Shakespeare — disse Eddie. — Lo conosco tramite Aldous Huxley. Il suo romanzo Il mondo nuovo.

— L’hai letto? — chiesi.

— L’ho insegnato, nel mio corso di studi sul crollo della civiltà occidentale.

Ah, sì. Come avevo potuto dimenticarlo?

Preparammo dei sandwich e li mangiammo sul ponte. C’erano insetti che saltellavano sopra la superficie del fiume. Il cielo si fece scuro.

Tatiana se ne andò a letto. Noi restammo sul ponte. Aprii un’altra birra.

— Fa’ attenzione — disse Eddie. — Quella roba può essere pericolosa.

— Sono di stirpe cinese, e i cinesi sono famosi per non avere problemi di ubriachezza.

Derek scelse quel momento per scavalcare il parapetto. — Per esempio — disse. — C’è il famoso poeta cinese Li Bo. La storia racconta che si trovava fuori in barca, bevendo vino di riso e gustandosi la serata. Vide il riflesso della luna sull’acqua e si sporse in fuori per abbracciarla. Cadde in acqua e annegò.

— Dove sei stato? — gli domandai.

— Su al villaggio.

Eddie aggrottò la fronte. — Ci è stato detto…

— Non ero dentro il vilaggio. Ero fuori, facevo una passeggiata, guardavo il cielo notturno, ascoltavo la musica.

— Musica? — chiesi.

Fece il gesto dell’affermazione. — Uno strumento aveva il suono di un flauto. Un altro era simile a uno xilofono, e ce n’era un terzo che faceva un suono simile a una sirena da nebbia.

"Volevo entrare, ma gli uomini anziani si aggiravano ai margini del villaggio. La musica doveva essere arrivata fino a loro. Non entravano, ma sembrava che non riuscissero a venire via. Continuavano a camminare su e giù, si fermavano, scrutavano il fuoco. C’era un grande fuoco al centro del villaggio. Poi si mettevano di nuovo a camminare. Non sono riuscito a escogitare un modo per superarli. Dannazione! Detesto lasciarmi scappare una cerimonia!"

Finii la mia birra e andai nella cabina. Tatiana dormiva già. Aprii uno dei divani, mi svestii e mi coricai. La finestra sopra di me era aperta. Sentivo lo stormire delle foglie e il lieve sciabordio del fiume contro la barca.

Mi svegliai di buon’ora. La cabina era buia e fresca. Qualcuno russava. Mi alzai e andai in bagno, poi uscii sul ponte, portando con me i miei vestiti. Dai finestrini dell’altra imbarcazione usciva luce. Una folata di vento mi portò l’aroma della cucina cinese e una musica: la versione al piano di "Quadri di un’esposizione".

Feci il mio yoga, mi vestii e risalii la scogliera del fiume.

Il sole era visibile dalla cima. Era sospeso appena sopra l’orizzonte: un disco di un arancione rossiccio, troppo luminoso per poterlo guardare direttamente. Seguii una pista fra la pseudo-erba. Le foglie mi sfioravano, bagnate di rugiada. Nel giro di un minuto o due avevo i pantaloni fradici.

Un fiore era sbocciato appena fuori dalla pista: grande e basso sul terreno. I petali erano di un giallo pallido, quasi dello stesso colore della pianura. Il centro era scuro. L’intera pianta era carnosa, come una pianta grassa terrestre.

Mi inginocchiai e toccai il bordo del fiore. Maledizione! Agitai in aria la mano. Il fiore si chiuse a palla. Guardai il mio dito. Sembrava che fosse stato punto da un’ape.

Un’ombra scese su di me. Alzai lo sguardo e vidi Nia.

— Quello è un fiore pungente.

— Non l’avrei mai immaginato.

— Vieni nell’accampamento. C’è una lozione che ti farà sentire meglio. Mia cugina deve averla sicuramente.

Mi alzai, con la mano che pulsava. Ci incamminammo in direzione del villaggio.

Nia disse: — Mangiano insetti e altri animali. Piccolissime lucertole. A volte un aipit.

— Un che cosa?

— È un animaletto a quattro zampe, coperto di pelliccia. Il corpo è lungo come la prima articolazione del mio pollice. Il veleno della pianta uccide qualcosa di così piccolo, ma la piante non causa alcun vero danno alle persone. Non riesce ad attraversare una buona pelliccia, come quella che abbiamo noi. Le persone vengono punte se toccano la pianta come hai fatto tu, o se sono abbastanza sciocche da camminare a piedi nudi sulla pianura. — Tacque un momento. — Un cornacurve può camminare attraverso una macchia di quelle piante e non sentire niente, a meno che non sia un cucciolo e non cerchi di mangiucchiarla. Lo fanno una volta soltanto.

Arrivammo al villaggio. Nia si fermò di fronte a una grossa tenda. C’era una donna seduta davanti all’entrata, grande e di bell’aspetto, vestita con una tunica color blu marino. La sua collana era d’argento e ambra. I braccialetti erano d’oro.

— Questa persona ha toccato un fiore pungente — disse Nia.

La donna parlò nella lingua del villaggio. Una bambina uscì portando una brocca.

— Siediti — disse la donna. — Il mio nome è Ti-antai. Nia ha detto che la tua gente assomiglia ai bambini, sempre a toccare e a capovolgere cose. Vedi che cosa è successo? Allunga la mano.

Seguii i suoi ordini. Lei osservò il mio dito, che ormai era gonfio e di un rosso acceso. — Aiya! Che strano.

— Che cosa? — domandai, provando un certo nervosismo.

— Il colore della tua pelle. — Infilò la mano nella brocca e tirò fuori una massa rotonda e gialla, afferrò saldamente la mia mano e unse il mio dito con quella roba. Il dolore diminuì subito.

— Che cos’è quel fiore? — domandai. — Una pianta o un animale?

— È difficile da dire. Quando è cresciuto del tutto, ha radici come una pianta. Ma caccia come un animale e ha una bocca, il buco scuro al centro. L’hai visto?

— Sì, ma non mi ero resa conto di che cosa fosse.

— Non stavi guardando attentamente — disse la donna. — Devi sempre guardare attentamente prima di toccare.

Feci il gesto della cortese accettazione di un buon consiglio.

Nia disse: — I fiori hanno piccoli che si muovono.

Riflettei un momento. — Come si riproducono i fiori?

Ti-antai guardò Nia. — Hai ragione a proposito di queste persone. Curiosano in cose di cui non sanno niente e fanno un sacco di domande. — Si volse verso di me. — I fiori avvizziscono al tempo della prima gelata. Non rimane niente all’infuori di un baccello nero. Quello rimane così tutto l’inverno. In primavera si apre e vengono fuori i piccoli. Sono verdi e simili a vermi con le zampe. Strisciano via fra la vegetazione. Non so che cosa facciano sotto le foglie. Ma col tempo mettono radici. Crescono. Diventano fiori. È tutto quello che so… a parte questo. La lozione che cura la puntura viene dai corpi dei piccoli. Li raccolgo in primavera e li lego su una rastrelliera per asciugare. Si muovono per uno, due o tre giorni, poi si essicano. Quando sono completamente secchi, li macino.

"Entrano altre cose nella lozione, ma quello che conta sono i corpi dei piccoli."

Strano, pensai. Ed ero la persona sbagliata per essere lì ad ascoltare. Ci sarebbe dovuta essere Marina In-vista-dell’Olimpo.

— Adesso vattene — mi disse la donna. — Mi fai sentire a disagio. Nia è sempre stata amica dei tipi di persone più strane.

Mi alzai e feci il gesto della gratitudine.

Nia disse: — Verrò con te fino alle barche. Ho un messaggio di Angai.

Lasciammo il villaggio, seguendo la pista che scendeva lungo la scogliera del fiume.

Nia disse: — Angai ha preso una decisione.

— Qual è?

— Ve la riferirà lei questo pomeriggio. Venite su al villaggio appena prima del tramonto. Tutti quanti. Le donne e gli uomini. — Mosse le spalle e si massaggiò il collo. — Aiya! È stata dura! Per tutto il giorno abbiamo parlato e discusso. Angai, io e l’oracolo. Le donne anziane. Il resto del villaggio. Mi è venuto mal di testa.

"Di notte c’è stata una festa. Angai ha mandato via l’oracolo. È dovuto restare in una tenda che era stata abbandonata da uno degli uomini anziani, un uomo che è impazzito all’improvviso e se ne è andato via sulla pianura. A me è stato permesso di restare.

"Organizziamo sempre una festa dopo un’importante discussione. Ci ricorda che siamo un solo popolo. Ma le discussioni non sono finite. Anhar ha raccontato una storia."

— Chi?

— È la migliore narratrice del villaggio. Piace alla maggior parte delle persone. A me no. È stata una delle donne che hanno parlato contro di me l’ultima volta che sono stata qui. Aveva molte ragioni per le quali non potevo restare con il Popolo del Ferro.

Eravamo a metà della discesa della scogliera e procedevamo nella foresta ombrosa. Il dito aveva smesso di farmi male.

— La storia non è una delle nostre, ma proviene dal Popolo dell’Ambra. Parla dell’Imbroglione.

— Te la ricordi? — chiesi.

Nia fece il gesto che significava "sì". — Arrivò in un villaggio, nascosto sotto i panni di una vecchia. Le donne del villaggio pensarono che fosse l’Oscuro. Tirò parecchi tiri mancini. Vuoi sentirli? Credo di riuscire a ricordarne la maggior parte.

— Non ora. Più tardi, quando avrò una delle piccole scatole che ricordano ciò che si dice.

— Aiya! - esclamò Nia.

— Che cosa successe poi? — chiesi.

— Nella storia? Le donne del villaggio si resero conto che non poteva trattarsi dell’Oscuro. Era troppo malvagio. Perfino l’Oscuro pone dei limiti al proprio comportamento.

"Con uno stratagemma lo fecero entrare in una pentola d’acqua. Vi misero sopra il coperchio e lo fecero bollire finché non morì. La storia si conclude con una canzone. La canzone fa così." Nia cantò:

"Uh! La mia carne

data in pasto alle lucertole!

"Uh! Le mie ossa

trasformate in flauti!

"Uh! La mia musica

è forte e sgradevole!

"Uh! La mia musica

suona così!".

— L’Imbroglione è morto? — chiesi.

— Solo per un po’ di tempo. Lui ritorna sempre. Angai era furiosa.

— Perché? — Eravamo arrivate sull’argine del fiume. Davanti a noi c’era la mia imbarcazione, da cui proveniva un aroma di caffè e pancetta affumicata.

— Anhar stava dicendo che voi siete degli istigatori come l’Imbroglione, che ingannate il villaggio. Ma la discussione era terminata e la decisione presa. Era arrivato il momento di essere cordiali le une con le altre. Ma Anhar non riusciva a farla finita. Ci sono persone così. Stuzzicano la conclusione di una lite come un bambino stuzzica i lembi di una ferita che sta guarendo.

"Non so che cosa abbia deciso Angai, ma so che non vuole far piacere ad Anhar." Nia indicò la barca con un cenno della mano. "E tutto quello che ho da dirvi. Venite al villaggio al tramonto."

— Okay — dissi.

Se ne andò. Io salii a bordo dell’imbarcazione. Il tavolo pieghevole era sollevato. Agopian, Eddie e la Ivanova vi stavano seduti intorno.

— Elizaveta ha parlato con il campo — riferì Eddie.

— Oh, sì? — Mi sedetti e mi versai una tazza di caffè.

Lei annuì. — Hanno avvistato lucertole nel lago. Grosse. Una mezza dozzina finora, che si tengono nell’acqua bassa in prossimità della riva.

Stavo per prendere il latte ma mi arrestai con la mano a mezz’aria. — Oh-oh.

— Stanno montando nuovi riflettori e assicurandosi che tutto ciò che odora di cibo sia bruciato.

— Credevo che lo stessero facendo anche prima.

— Solo con il materiale proveniente dalla nave. La sostanza organica originaria del pianeta veniva seppellita.

I resti degli esemplari di Marina.

Agopian mangiò un pezzo di pancetta affumicata. — Nessuno dovrà andare a nuotare.

— Qui?

— No. Al campo.

— Che cosa è successo al tuo dito? — s’informò Eddie.

Raccontai loro del fiore.

Eddie scosse il capo. — Continuiamo a pensare che questo pianeta sia come la Terra. Io credo che, se resteremo, avremo sempre più sorprese, non sempre piacevoli.

— Forse. Mi sono imbattuta in Nia sulla scogliera. Ha detto che dobbiamo andare al villaggio questo pomeriggio sul tardi. Angai ha preso una decisione. Non chiedetemi quale sia. Nia non ha nemmeno voluto fare congetture.

Finii la colazione, poi andai a fare una nuotata. Dopo indossai un paio di jeans e una camicia di seta rossa.

Naturalmente avevamo dei bachi da seta sulla nave, e un giardino pieno di gelsi. Ma la camicia era stata fatta sulla Terra. C’era l’etichetta di un sindacato nella parte posteriore del colletto, con su scritto LAVORATORI TESSILI DI SHANGHAI. Accanto alla scritta si vedeva una persona, non avrei saputo distinguerne il sesso, seduta in groppa a una gru in volo. La persona teneva in mano un fuso e aveva le vesti che le svolazzavano. Alle spalle della gru c’era una stella a cinque punte.

Il tipo sulla gru era quasi certamente un immortale taoista, e la stella a cinque punte era un emblema della rivoluzione. La camicia dava una sensazione meravigliosa sulla mia pelle.

Era una brutta giornata, con l’aria calda e stagnante. Eravamo tutti irrequieti. Io, Eddie e Derek lavorammo ai nostri rapporti. Tatiana e Agopian eseguivano controlli dell’attrezzatura, mentre la Ivanova andava avanti e indietro da una barca all’altra. Soltanto il signor Fang sembrava tranquillo. Dopo pranzo andai sulla sua barca. Il vecchio era seduto sul ponte. Aveva di fronte una scacchiera, con accanto una teiera piena di tè.

— Se stai cercando Yunqi, è andata a fare una nuotata, mettendosi in una situazione davvero terribile. Non vedo una via di uscita per lei. — Indicò con la mano i pezzi sulla scacchiera.

— Mi stanno facendo impazzire su quella barca. Sto uscendo di senno.

— Il Maestro Lao ci dice che la pesantezza è la base della leggerezza, e l’immobilità è la signora dell’azione.

— Che cosa?

— Lenin ci dice che un rivoluzionario ha bisogno di due cose: pazienza e senso dell’ironia. — Alzò lo sguardo e sorrise. — Prenditi una tazza, Lixia. Predisporrò di nuovo la scacchiera. Berremo il tè e giocheremo a scacchi e non ci preoccuperemo di problemi che sono al di fuori del nostro controllo.

— Hai intenzione di fare il saggio?

— Non in modo particolare.

— Bene. Non sono in vena di saggezza.

Andai a prendere una tazza. Giocammo a scacchi. Lui mi batté.

Yunqi tornò, con indosso un costume da bagno. Era un costume intero di un azzurro uniforme. I suoi corti capelli neri erano fradici. Gli occhi avevano lo sguardo sfocato della grave miopia.

— Perché non porti lenti a contatto? — le chiesi.

— Mi piace come sto con gli occhiali. — Se li infilò, un paio di semplici lenti chiare con una semplice montatura rotonda di metallo.

— Yunqi è come il compagno Agopian — disse il signor Fang. — Una romantica. Le piacciono gli occhiali nello stile degli inizi del Ventesimo Secolo. Quella era l’epoca degli eroi. Luxemburg. Lenin. Trotsky. Mao e Zhou.

— Credevo che non ti piacesse la politica — dissi.

Yunqi arrossì. — Non mi piacciono i discorsi interminabili, soprattutto quando le persone si arrabbiano. Ma ho sempre amato le storie della Lunga Marcia e del compagno Trotsky sul treno blindato.

— Le piace la guerra — disse il signor Fang. — Come idea. Vuoi fare un’altra partita a scacchi?

— Okay.

Persi di nuovo. Il signor Fang disse: — È ora di andare.

Le persone dell’altra barca ci vennero incontro sulla pista: Derek, Eddie, la Ivanova, Agopian. Salimmo insieme la scogliera.

Faceva caldo sulla pianura e c’era vento. Nel villaggio i lembi sollevati delle tende sbattevano. Le insegne tintinnavano. I fuochi da campo danzavano. Un minuscolo quadrupede si slanciò lungo la strada di fronte a noi. Era grande quanto un dik dik, con piccole corna ricurve. La sua pelliccia era di un color verde scuro. Portava un collare fatto di cuoio e ottone.

— Che cos’è? — domandò Eddie.

Feci il gesto dell’ignoranza.

Derek disse: — Non lo sappiamo.

Arrivammo nella piazza del villaggio. Ancora una volta era piena di gente, almeno lungo i margini. Al centro della piazza c’era un gran mucchio di cenere.

Angai ci aspettava di fronte alla sua tenda. Portava una veste di tessuto blu scuro senza alcun ricamo. La sua cintura era fatta di anelli d’oro intrecciati a mo’ di maglia di catena. La fibbia era enorme: un bipede in oro, ripiegato su se stesso. Il collo era girato, la testa toccava il codrione, la lunga coda si avvolgeva attorno all’intero corpo. L’occhio dell’animale era costituito da una pietra color rosso scuro.

Nia e l’oracolo erano ritti accanto a lei.

La folla attorno a noi mormorava. Angai sollevò una mano. Calò il silenzio, rotto solo dal tintinnio del metallo e dalle raffiche di vento.

— Ho parlato con diverse persone — disse Angai con voce forte e chiara. — Le donne anziane che hanno imparato molto nella loro vita. I vecchi che hanno viaggiato in lungo e in largo e certamente non sono sciocchi. Ho parlato con Nia e con la Voce della Cascata, che conoscono queste persone senza pelo. Mi sono ritirata da sola nella mia tenda per consultare gli spiriti, aspirando il fumo dei sogni.

"Dopo aver ascoltato tutto e aver riflettuto, sono giunta a una decisione.

"La riferisco a voi, o abitanti del villaggio. Siete voi coloro che devono approvare o disapprovare.

"Ma ricordate, se disapproverete, andrete contro di me, contro gli spiriti e gli anziani del villaggio."

Tacque e fece un gesto nella nostra direzione. Derek tradusse.

— Una donna intelligente — commentò la Ivanova. — Non sarà facile respingere la sua decisione.

Angai proseguì: — Se volete sapere che cosa hanno detto gli anziani, chiedetelo a loro. Io vi riferirò ciò che mi hanno detto gli spiriti. Ma voglio che Nia e l’oracolo esprimano la loro opinione.

— Perché? — domandò una voce.

Angai fece il gesto che esigeva silenzio. — Ho chiesto a Nia la sua opinione perché lei ha viaggiato a lungo con due delle persone senza pelo. Ha visto la città che hanno costruito nei pressi del Lago Lungo. Ha viaggiato su una delle loro barche.

— Anche Anasu — gridò un bambino.

— Zitto — ordinò una donna.

Angai continuò: — Soltanto una sciocca, soltanto una donna indegna, rifiuta di chiedere informazioni a coloro che sanno.

"Chiedetelo all’oracolo. Anche lui ha viaggiato con queste persone, e lui è santo. Ha avuto i consigli di uno spirito."

Tacque. Derek tradusse. Quindi parlò Nia.

— Angai mi ha chiesto se queste persone sono degne di fiducia. Ho risposto di sì. Per quanto ne so. Ma costoro sono in molti, e hanno opinioni diverse. Li ho sentiti discutere.

"Io credo che ci si possa fidare di loro, che si possa credere a quello che dicono. Ma non lo so per certo.

"Mi ha chiesto se recheranno danno al Popolo del Ferro. Costoro non sono pazzi. Non recheranno danno di proposito. Ma sono molto diversi. Se li accoglieremo, cambieranno il nostro modo di vedere il mondo. L’hanno fatto con me.

"Questo è fastidioso. Forse è dannoso. Non lo so."

Nia fece una pausa. Derek tradusse, quindi lei continuò. — Non credo che spariranno. Non sono un miraggio. Sono qui e sono reali. Se li cacceremo via, andranno in altri villaggi. Qualcuno sulla pianura darà loro il benvenuto. Non credo che ci sia un modo di cacciarli dal mondo. Forse si potrebbe fare se tutti si unissero. Ma questo non accadrà, e non so se sarebbe giusto che accadesse. I cambiamenti non sono sempre un male. C’è stato un tempo in cui non esisteva nulla. Gli spiriti apparvero dal nulla. Fecero il mondo e tutto ciò che c’è in esso. La maggior parte di noi è convinta che questo sia stato un cambiamento in bene.

"Il mio consiglio ad Angai è di accogliere queste persone, ma di farlo con prudenza. O mio popolo! Rifletti su ciò che stai facendo!"

L’oracolo fece un passo avanti. — Io non ho molto da dire. Il mio spirito è vecchio e potente. Ha dato buoni consigli alla gente del mio villaggio per molte generazioni. Mi ha ordinato di andare con queste persone senza pelo e di imparare da loro. Ciò che loro conoscono è importante, così ha detto il mio spirito.

"L’ho fatto, percorrendo una lunga distanza con Lixia e Deraku. Abbiamo incontrato molte persone e anche parecchi spiriti. Sono successe alcune cose sgradevoli, ma non a causa di quei due."

Pensai che si stesse comportando con molta cortesia. Io avevo condotto male l’incontro con Inahooli e Derek aveva agito da irresponsabile con il braccialetto che aveva trovato nel vecchio vulcano.

Qualcuno chiese: — Che genere di cose sgradevoli?

— Abbiamo avuto problemi con l’Imbroglione — rispose l’oracolo. — Voi sapete com’è. Un malvagio che causa soltanto guai! Gli piace mettere le persone le une contro le altre. Gli piace far sì che dimentichino tutte le antiche usanze e il modo corretto di comportarsi.

"E abbiamo incontrato uno spirito a nord di qui, non lontano dal fiume. Si trovava in una caverna." Fece una pausa. "Era una di quelle cose che si trovano nei luoghi bui, di solito sotto terra. Hanno nomi diversi. Gli Antichi. Gli Invisibili. I Famelici.

"Di solito non rappresentano un problema. Dormono nel loro luogo oscuro. A volte si svegliano e notano delle persone. Allora è probabile che causino guai, per fame o per una stupida collera." Fece una pausa. "Ho dimenticato ciò che stavo per dire."

— Ti avevo chiesto di esprimere la tua opinione sulle persone senza pelo — disse Angai. — Ma tu ti sei messo a parlare di spiriti.

Lui fece il gesto dell’assenso. — Non sono in grado di dirvi che cosa fare. Non siete il mio popolo, e voi avete i vostri spiriti a cui chiedere consigli. Ma Lixia e Deraku mi piacciono e non credo che queste persone senza pelo siano pericolose.

Terminò di parlare. Derek tradusse.

— Sbagliato — commentò Eddie.

La piazza si stava facendo buia. Le persone andarono a prendere pali di metallo che conficcarono nel terreno. Poi misero torce dentro supporti sui pali. Le torce ondeggiavano al vento, sfolgorando e affievolendosi. Erano quasi tutte vicine ad Angai e illuminavano piuttosto bene lei, Nia e l’oracolo. Ma la luce continuava a cambiare d’intensità. Le ombre sobbalzavano e tremolavano. Volti, mani, occhi e ornamenti di metallo entravano e uscivano dall’oscurità.

— Nia ha parlato in modo chiaro — disse Angai. — E l’oracolo merita di essere ascoltato, anche se non è sempre chiaro.

Una voce disse: — Qual è la tua opinione? Sei tu la sciamana qui. Queste altre persone sono straniere.

— Ve la riferirò. — Aspettò un momento. Le campanelle sulle insegne tintinnavano al vento. Un neonato pianse per breve tempo.

— Io penso che Nia abbia ragione. Dovremmo accogliere queste persone, come abbiamo sempre accolto gli stranieri, non per paura dell’Oscuro, ma per riguardo verso gli spiriti e per un corretto comportamento.

"Penso che Nia abbia ragione su un secondo punto. Questo è un periodo di cambiamenti e noi non possiamo ignorarli. Quando la terra trema e le vecchie piste vanno in nuove direzioni, solo una sciocca pretende di seguire la stessa strada di prima. La donna saggia dice: ’Questa roccia è nuova. Quel pendio non era qui l’estate scorsa’."

Angai si raddrizzò in tutta la sua statura, poi si guardò attorno con atteggiamento autorevole. — Ascoltatemi! Questa è la mia decisione! Daremo il benvenuto alle persone senza pelo. Ma lo faremo con prudenza. Come un viaggiatore saggio, faremo un passo alla volta.

Fece una pausa. Derek tradusse.

— Maledizione! — disse Eddie.

Angai proseguì. — Queste persone senza pelo possono restare nel villaggio che hanno costruito finché si ricorderanno che questo non è il loro paese. Sono ospiti. — Guardò nella nostra direzione. — Non spostate il vostro villaggio senza chiedere il permesso, e non chiedete ad altri vostri parenti di venire a stare con voi. Non voglio che il nostro paese si riempia di persone senza pelo.

"Nia sostiene che fra la vostra gente uomini e donne non possono essere separati. La mia decisione, quindi, è che potete vivere secondo le vostre usanze nel vostro villaggio. Ma quando farete visita a noi o a qualunque altra persona normale, lasciate a casa i vostri uomini."

— Merda — disse Derek.

— Non voglio più avere uomini in questo villaggio. È troppo fastidioso. Le donne anziane si infuriano. I bambini si fanno nuove idee.

Angai tacque e Derek tradusse.

— Questo è bene — disse la Ivanova. — Ma non quanto avevo sperato. — Fece una breve pausa. — È un inizio.

— È una porcheria — protestò Derek. — Come potrò fare il mio lavoro di ricerca sul campo? Dovrò poter andare nei villaggi!

— Parla con gli uomini — gli dissi.

— Cercheranno di uccidermi.

Angai proseguì. — Nia dice che vorrete viaggiare dappertutto e fare domande e osservare cose. Ha ragione? È la verità?

— Sì — risposi.

Angai aggrottò la fronte. — Non sono sicura di quello che sia giusto fare a questo proposito. Non voglio trovare persone senza pelo in ogni parte del nostro territorio, che rivoltano pietre e ficcano bastoni nei buchi. È già abbastanza difficile avere i bambini. — Fece una pausa. — Restate nei pressi del villaggio finché non avrò avuto la possibilità di riflettere meglio su questa cosa.

Derek tradusse.

Eddie disse: — Non funzionerà.

— Sì, invece — ribatté il signor Fang. — Loro hanno il diritto di stabilire questo genere di limitazioni. E noi abbiamo la disciplina per mantenerci entro i limiti da loro stabiliti.

— E per quanto riguarda Nia? — chiese una voce.

— Non ho ancora deciso — rispose Angai.

— Noi sì — fece la voce. — Dieci inverni fa le abbiamo ordinato di andarsene. Non è cambiata. Era una pervertita allora. È una pervertita adesso. Guarda con che genere di persone viaggia! Dille di andarsene con loro. Dille di vivere nel loro villaggio, non qui, fra persone che sanno comportarsi come si deve.

La folla si divise. Ora vedevo la persona che aveva parlato: una donna tarchiata di mezza età. La sua pelliccia era di un bruno medio e stranamente opaco. Assorbiva la luce come argilla.

— Quella è Anhar — disse Nia.

— Chiederò agli spiriti che cosa fare riguardo a Nia — dichiarò Angai. — Non oggi. Non amano che si pongano loro molte domande tutte in una volta.

— A te è sempre piaciuta Nia — protestò Anhar. — L’hai sempre protetta. Stai cercando di farla tornare nel villaggio.

Angai disse: — Tu non sai mai quando tacere, Anhar. Sono stanca delle tue opinioni! Hai una mente ristretta, piena di idee malvagie. È come un formaggio rosicchiato dagli insetti del formaggio. Come un animale morto mangiato dai vermi.

— Caspita! — esclamò Derek.

Anhar si voltò. La folla la lasciò passare. Si allontanò da Angai e dalla piazza illuminata dalle torce e sparì nell’oscurità.

— E per quanto riguarda l’uomo? — domandò un’altra donna. — La Voce della Cascata?

L’oracolo rispose. — Io andrò al villaggio delle persone senza pelo. Il mio spirito mi ha ordinato di imparare da loro. Non ho fatto nessun nuovo sogno che mi dicesse di fare altrimenti.

Angai disse: — Ho finito di parlare. Avete sentito la mia decisione. Siete d’accordo con me? O ci dovrà essere una discussione?

Ci fu silenzio. Avevo la sensazione che le persone attorno a me non fossero soddisfatte, ma nessuno era disposto a parlare.

Alla fine qualcuno domandò: — Che cosa ti hanno detto gli spiriti, Angai?

— Ho sognato che mi trovavo su una pista che non riconoscevo. Il territorio che mi circondava era sconosciuto. Il suolo sotto i miei piedi scottava. C’era fumo che saliva da fori. Non riuscivo a vedere dove stavo andando.

— Non mi sembra un sogno favorevole, Angai.

La sciamana si accigliò. — Non ho finito! Con me c’era una vecchia. Aveva un ventre grasso e seni cascanti. Portava un bastone e mi sembrò che avesse dei problemi a camminare. A volte camminava al mio fianco. A volte davanti. A volte dietro. Non mi lasciava mai. Ogni tanto faceva dei versi: grugniti e gemiti. Quasi sempre restava in silenzio. Una volta era dietro di me e mi sembrò di sentirla incespicare. Mi fermai a guardarmi alle spalle. Lei disse: ’Continua a camminare. Non preoccuparti per me. Per quanto sia vecchia, terrò il passo con te’. Proseguii. Il sogno è terminato così.

La donna che aveva fatto la domanda disse: — D’accordo. Sarò d’accordo con te, Angai. Anche se queste nuove persone mi mettono a disagio. E anche se penso che Anhar abbia ragione riguardo a Nia.

Angai fece il gesto che significava "basta così". Si voltò ed entrò nella tenda.

Dissi: — Finisci tu di tradurre, Derek. Voglio parlare con Nia.

Lui fece il gesto dell’assenso.

Mi avvicinai a Nia e all’oracolo. Due donne tolsero le torce dai loro sostegni e le portarono via.

Nia disse: — Non sono sicura che Angai stia agendo in modo intelligente. Sarebbe dovuta essere più cortese con Anhar. Adesso si è fatta una nemica.

— No — fece l’oracolo. — Non ha cambiato niente. Erano già nemiche. Adesso possono smettere di fingere. Io non ho mai avuto un nemico, ma so che è difficile essere gentili con qualuno che si odia. È logorante per una donna. Perde le forze. Non può fare cose che sono importanti.

— Non hai mai avuto un nemico? — domandai.

— Gli uomini per lo più non ne hanno. Se un uomo si arrabbia, affronta la persona che l’ha fatto infuriare. Altrimenti se ne va. Le donne sono intrappolate nei loro villaggi. Trascorrono un inverno dopo l’altro accanto a persone per cui provano antipatia. Non manifestano la loro collera. Non possono andarsene. Ciò crea le inimicizie. L’ho visto succedere.

— Vuoi restare nel villaggio? — chiesi a Nia.

Lei fece il gesto dell’incertezza.

— Hai un posto dove stare questa notte?

— Qui. Con Angai. — Nia fece una pausa. — Quella era Ti-antai. La donna che ha parlato per ultima. La donna che ti ha curato la mano questa mattina. Era una mia buona amica quando eravamo giovani.

— Aiya! - esclamai.

L’oracolo disse: — Io verrò con voi. La notte scorsa Angai mi ha fatto stare ai margini del villaggio in una vecchia tenda che era piena di buchi. Anche con i buchi e il vento che soffiava dentro, puzzava di vecchiaia e di pazzia. — Fece una pausa. — Non pazzia santa. Dell’altro genere.

La piazza era deserta fatta eccezione per i miei compagni. Le torce erano tutte sparite. Non c’era alcun rumore all’infuori del vento e della voce di Derek, che stava ancora traducendo.

— Che cosa voleva dire il sogno? — chiesi. — Perché ha convinto tua cugina?

— Tu non conosci molto, vero? — disse Nia.

— No. Chi era la donna anziana?

— La Madre delle Madri. Se lei ci dice di proseguire attraverso un territorio sconosciuto, allora lo facciamo.

— Era un bel sogno — osservò l’oracolo. — Non ne ho fatti molti che fossero così facili da interpretare. Nessuno può metterlo in discussione.

Derek disse: — Io ho finito.

— Arriviamo — risposi.

Lasciammo la piazza, attraversando il villaggio buio.

Fu la Ivanova a parlare: — Questa decisione non soddisferà nessuno. I gruppi di ricerca vorranno poter viaggiare. Ed Eddie, naturalmente, è sconvolto dal fatto che non ci abbiano ordinato di abbandonare il pianeta.

— È vero — confermò Eddie.

— Credo che il problema sia marxismo volgare — intervenne il signor Fang.

— Oh, sì? — dissi.

— Noi tendiamo a semplificare troppo il processo dialettico e ci facciamo affascinare dal dramma della rivoluzione. Dimentichiamo che la storia umana è molto complessa e molto lenta. Ogni grande cambiamento è preceduto da una moltitudine di piccoli cambiamenti. Ci sono compromessi. Ci sono fallimenti. Facciamo un passo avanti e poi siamo costretti a tornare indietro di un passo o perfino di due.

"Perfino le rivoluzioni sono piene di compromessi e fallimenti. Anche nel mezzo di grandi trasformazioni, arretriamo. Dopo il trionfo della Rivoluzione d’Ottobre vennero Kronstadt e il soffocamento dell’Opposizione dei Lavoratori."

— Non capisco dove porti questo discorso — disse la Ivanova.

— Noi ci aspettavamo che questo incontro avrebbe risolto ogni cosa. Ci aspettavamo una rivoluzione, del genere chiaro e semplice che vediamo sull’olovisione.

"Siamo nel mezzo di una rivoluzione che va avanti da oltre cinque secoli. Non hp idea di quando finirà, se mai finirà. Ma non è un semplice dramma teatrale. Non procede continuamente e non ci sono divisioni nette. Non c’è nessuna scena, nessun atto. Nessuno, almeno, che possiamo vedere. Queste cose le inseriscono più tardi gli storici.

"Oggi, credo, la rivoluzione è entrata in una nuova fase. Indubbiamente si è spostata su un nuovo palcoscenico. Ci sono nuovi attori e nuovi problemi, ma non c’è nessuna risoluzione."

— Questo è abbastanza vero — disse Eddie. — Quello che abbiamo raggiunto è un maledetto compromesso. Non reggerà. Una volta che saremo quaggiù…

La Ivanova disse: — Una volta tanto sono d’accordo con Eddie. Dobbiamo poter viaggiare. Abbiamo fatto tanta strada. — Esitò. — Forse potremo trovare un altro popolo che stabilirà meno restrizioni.

— Non questa notte — replicò il signor Fang.

Arrivammo al fiume. C’erano luci su una sola delle imbarcazioni. Tatiana e Yunqi sedevano insieme sul ponte. Aiutarono il signor Fang a salire a bordo. Eddie e la Ivanova li seguirono.

L’oracolo disse: — Voglio dormire. È stata una lunga giornata.

— Su questo hai ragione — osservai.

Lo accompagnammo sull’altra barca e gli preparammo un letto nella cabina.

Uscii sul ponte insieme a Derek e ad Agopian. L’aria del fiume era fresca e brulicava di insetti che sciamarono attorno alle luci del ponte non appena le accendemmo. Agopian e io ci sedemmo. Derek andò a prendere delle birre.

Bevemmo, senza parlare. Sentivamo le voci che provenivano dall’altra imbarcazione: Eddie e la Ivanova che descrivevano a Tatiana e Yunqi quanto era successo.

Agopian disse: — Non so per quanto tempo andrà avanti quella conversazione.

— Per ore, con ogni probabilità.

— Forse. — Mise giù la bottiglia. — C’è qualcosa di cui devo parlarvi.

Lo guardai. — Il tuo segreto. La tua complicazione etica.

— Sì.

— Non può aspettare?

— Non sono certo che riuscirò a trovarmi ancora da solo con voi. Questo è il momento perfetto, se avrò abbastanza tempo.

Derek disse: — Sono pronto ad ascoltare.

Agopian guardò verso di me.

Feci cenno di sì col capo.

— Cercherò di raccontarvi questa cosa il più rapidamente possibile. Non so quando finirà quella conversazione e Tatiana tornerà. Ci sono informazioni che sono state tenute nascoste e menzogne che sono state dette. Penso che sia venuto il momento di correggere questa situazione.

Derek si protese in avanti. — Che genere di informazioni?

— Storia. Ciò che è successo sulla Terra durante gli ultimi cento anni.

— Abbiamo i messaggi provenienti dalla Terra — dissi.

— Sono tutte menzogne.

— Lo sai per certo? — chiese Derek.

— Le ho scritte io… con l’aiuto di altri, naturalmente. È un lavoro troppo grosso per una sola persona.

— Perché? — chiesi.

Derek domandò: — Quando?

— Sapete che ci sono stati problemi per arrivare in questo sistema.

Derek fece il gesto dell’assenso.

Agopian assunse un’aria perplessa e continuò. — Ci sono stati detriti in quantità assai maggiore di quanto avessimo previsto, e gran parte di questi erano a notevole distanza. Una specie di supernuvola. E ci sono stati problemi col sistema di navigazione spaziale. I computer hanno stabilito che si trattava di un’emergenza e hanno svegliato in anticipo l’equipaggio. Abbiamo guidato noi la nave in questo sistema.

"Non avevamo il tempo di svegliare nessun’altra persona, ma ne avevamo per controllare i messaggi che erano arrivati dalla Terra. Erano assurdi."

— Che cosa vuoi dire? — chiesi.

— Voglio dire esattamente quello. I messaggi erano assurdi. La Terra era cambiata moltissimo. — Fece una pausa. — Noi pensavamo che la storia si sarebbe fermata solo perché la nostra vita si era fermata, perché dormivamo un sonno magico come bambini in una fiaba.

"Non era vero. La storia era andata avanti e aveva preso un corso…" Esitò di nuovo. "Il progresso non è inevitabile. Questo è un errore che fanno i marxisti volgari. Mi è sempre piaciuto quel termine. Immagino un uomo con una grossa e folta barba, che scoreggia a tavola mentre spiega il feticismo delle merci o la teoria socialista del valore. E naturalmente sbaglia la teoria.

— Di che cosa stai parlando? — chiesi.

— Del progresso. Non c’è nessuna legge che dica che la società deve sviluppare forme sociali sempre più elevate. Il crollo è sempre possibile. Il regresso o la stagnazione. Questo è in sostanza quanto è successo dopo il Ventesimo Secolo. Non il regresso, ma la stagnazione. Credevamo che fosse una caratteristica delle società post-capitalistiche: estrema stabilità, rispetto all’estrema instabilità del capitalismo, il ritmo folle del cambiamento durante il Diciannovesimo e il Ventesimo Secolo.

"Ora credo che la stabilità fosse frutto del terribile caos creato nel Ventesimo Secolo, la scarsità di risorse e lo stato precario dell’ambiente. Abbiamo passato duecento anni a ripulire tutto, cercando di riportare il pianeta al suo stato precedente, di disfare ciò che avevano fatto quei criminali e i loro epigoni. Non avevamo il tempo per le innovazioni."

— Abbiamo costruito le colonie L-5 — dissi.

— E la nave — aggiunse Derek.

— Quelli erano nuovi oggetti. Io sto parlando di nuove idee. Quasi tutta la nostra ideologia e la nostra tecnologia provengono… provenivano… dalla vecchia società. La maggior parte di ciò che abbiamo fatto si basa su quanto le persone sapevano già prima del crollo.

— Questo non è del tutto vero — dissi.

— Lo è in gran parte — ribatté Agopian. — Siamo stati come gli individui dell’inizio del Medio Evo. Usavamo la vecchia conoscenza in modi nuovi, ma non vi aggiungevamo niente.

Derek si accigliò. — Contesto questa analogia.

— Non voglio stare a discutere sul Medio Evo.

Derek fece il gesto che significava "dimentica quello che ho detto".

— In ogni caso, la stabilità, o stagnazione, è stata solo temporanea. È quanto abbiamo appreso quando ci siamo svegliati e abbiamo ascoltato i messaggi provenienti da casa. Più o meno nel periodo della nostra partenza le differenti società sulla Terra hanno incominciato a mutare rapidamente.

Fece una pausa, corrugando la fronte. — I cambiamenti erano allarmanti. Noi… mi riferisco all’equipaggio… riuscivamo a stento a governare le informazioni che stavamo ricevendo, ed è fuori discussione che siamo le persone più disciplinate sulla nave. Non avevamo idea di quello che sarebbe successo se il resto di voi si fosse svegliato e avesse sentito. Immaginammo panico e crollo del morale. Alcuni avrebbero voluto tornare immediatamente a casa, sebbene ci sia da chiedersi a quale scopo. Altri sarebbero crollati. Ci sarebbero stati mesi di discussioni e un calo nella qualità del lavoro. Ci è sembrato che la spedizione dovesse essere protetta. Abbiamo votato, tutti coloro che non erano ibernati. Abbiamo deciso di cambiare i messaggi.

Aprii la bocca.

Agopian alzò una mano. — Non fare domande. Non so quanto tempo mi resti e voglio riferirvi quanto più possibile.

— Okay.

— Abbiamo incominciato col cambiare la storia. È stato relativamente facile. Abbiamo scritto… io ho scritto… una storia alternativa, che ci facesse sentire più a nostro agio. Dopo di che è stata tutta una questione di ricerca e sostituzione. Abbiamo detto al sistema di computer di cercare determinate categorie di eventi, di cancellarle e sostituirle con altre categorie di eventi.

Sorrise. — Devo dire che provo un nuovo rispetto per i bugiardi, soprattutto coloro che sono vissuti prima dei computer. Non ho idea di come si possa riuscire a riscrivere la storia senza un computer.

— Perché l’avete fatto? — chiesi. — Che cosa poteva esserci di così terribile nei messaggi che provenivano dalla Terra?

Agopian si sedette accanto a una delle luci del ponte. Lo vedevo chiaramente: una faccia rettangolare color bruno chiaro. Gli occhi erano grandi e scuri, il naso alto e stretto, leggermente curvo. La bocca era normale. Erano gli occhi che dominavano il viso e i capelli ricciuti e ribelli, portati un po’ più lunghi di quanto fosse di moda fra i membri dell’equipaggio.

— Ci sono tre cose che contano per me: il socialismo, il marxismo e l’Unione Sovietica. Non penso che quello che provo sia sciovinismo. È amore per un luogo e orgoglio per ciò che i suoi abitanti hanno fatto. Hanno lottato ripetutamente, generazione dopo generazione, per edificare una società che incarnasse realmente i principi del socialismo. Ci sono riusciti, anche se solo a stento. La rivoluzione non è stata distrutta dallo stalinismo, né dal fascismo, né dal nazionalismo e neppure dai numerosi crimini e dalla sorprendente stupidità degli aparatchik, i burocrati. Alla fine le persone sono riuscite a creare una società che fosse soddisfacente e giusta.

— Se questo ti fa sentire meglio, possiamo assicurarti che il tuo sentimento non è sciovinismo — disse Derek.

Agopian sorrise. — La mia vita è stata costruita attorno al socialismo, al marxismo e all’Unione Sovietica. Sono come coordinate. Mi danno un posto nello spazio e nel tempo. Mi danno una struttura: morale, intellettuale, storica, sociale e personale.

"Quando penso di perderle… è come trovarsi nello spazio. Non c’è niente sopra né sotto. Niente vicino né lontano. Ci sono soltanto l’oscurità e le stelle. Poi ti volti ed ecco lì la nave o la Terra o una stazione. Sei in grado di orientarti. Ma se ti voltassi e non vedessi niente? Solo altra oscurità e altre stelle?

"Non esisono più paesi sulla Terra né in nessun altro luogo del sistema solare. Secondo quanto ci hanno detto i messaggi, laggiù hanno abbandonato categorie antiquate come "nazione". Hanno abbandonato categorie antiquate come "socialismo". Le idee del Diciannovesimo Secolo hanno ancora un interesse storico, ma non sono più pertinenti. Non è più possibile usare le costruzioni del marxismo. Semplicemente non funzionano. È questo che dicevano i messaggi."

Raccolse la sua bottiglia di birra e l’agitò. — Per quanto sono in grado di giudicare, queste persone non hanno alcun interesse in nessun tipo di sistema: politico, economico o intellettuale. — Si alzò in piedi. — Ho bisogno di un’altra birra. E voi?

— Che cosa fa la Ivanova? — s’informò Derek.

Lui restò un momento in ascolto. — Va ancora forte. In ogni caso vi ho riferito le informazioni importanti. Volete qualcosa da bere?

— Birra — rispose Derek.

Agopian entrò nella cabina.

— Sta dicendo la verità? — chiesi.

Derek fece il gesto del dubbio.

Agopian tornò e porse una bottiglia a ciascuno di noi. Si sedette ed emise un verso fra il gemito e il sospiro.

Bevvi la birra. — Hai detto che avete incominciato cambiando la storia.

Lui annuì col capo.

— Che cos’altro avete cambiato?

— Non dovete preoccuparvi dei messaggi personali. Riguardo a quelli non abbiamo fatto quasi niente. Per lo più venivano dai primi due o tre decenni del nostro viaggio. Vi capita mai di pensare alle persone che hanno mandato i messaggi? I nostri amici. Le nostre famiglie. Loro sapevano che le persone sulla nave erano ibernate. Sapevano che quando ci saremmo svegliati, loro sarebbero stati già morti.

"Ovviamente, col tempo la maggior parte di loro ha rinunciato. Cinque anni. Dieci anni. Dopo di che soltanto i fanatici hanno mandato molto. Noi eravamo usciti dalla loro storia e dallo spazio che conoscevano. Per loro siamo diventati irreali.

"Quei messaggi non costituivano affatto un pericolo. Erano discorsivi e informali, disorganizzati, pieni di notizie di famiglia, esattamente ciò che ci si aspetterebbe da una madre o una sorella. Abbiamo dovuto eliminare qualche riferimento ad avvenimenti storici. Altrimenti niente."

Fece una pausa. — Parte del materiale attinente ai fatti era okay. La tale e la tale stella è appena diventata una nova. Abbiamo scoperto una nuova forma di vita su Titano.

"Ma le teorie! Vi ho detto che queste persone non sono interessate a nessun genere di struttura. Quello è il problema numero uno. Il numero due è che non sembrano distinguere fra realtà e fantasia, o fra materiale che è pertinente e tutto il resto. Alcuni dei messaggi sembrano poesia. Altri sono storie delle quali non riesco ad afferrare alcun senso. Altri sembrano pettegolezzi o un insieme di proverbi. E altri ancora sono una sequela di fatti non collegati che non appartengono neppure alla stessa disciplina.

"E mescolate a tutto il resto ci sono sciocchezze: stupide barzellette e antiche leggende e immagini olografiche di chissà che cosa. Famiglie di estranei. Un hotel per vacanze su Marte.

"Questi sono i messaggi degli scienziati! Per metà del tempo parlano come una qualche vecchia signora un po’ pazza che si incontra al parco e che ha una teoria sull’astrologia e la storia. O come l’uomo che viene a riparare l’impianto idraulico e spiega la vera causa dell’ultima epidemia virale. ’Viene tutto da Titano. Fanno cose lassù da non credere. Non la guardate l’olo? Statemi a sentire, uno di questi giorni arriva giù un germe che fa sembrare una bazzecola l’Aids. Mi passate la chiave inglese?’"

Derek sorrise.

— Non è divertente!

— Abbiamo cercato di trasformare quei messaggi in qualcosa che avesse senso. Di dar loro una struttura teorica, di inserirli in un sistema. Non è stato facile. Abbiamo scongelato alcuni scienziati, persone di cui pensavamo di poterci fidare. Perfino loro hanno avuto problemi, in particolare i fisici. Hanno detto che la teoria fisica è assolutamente assurda. — Sorrise. — Ma interessante, hanno detto, sebbene non si sentissero a proprio agio con l’occasionalità o l’esigenza dell’intervento di svariate divinità, di solito all’inizio e alla fine dell’universo, anche se, credo, gli dei siano necessari anche per spiegare il comportamento di determinati tipi di particelle.

— Perché ci stai raccontando tutto questo? — domandò Derek.

Agopian bevve ancora un po’ di birra. — Stavo pensando agli uomini che lavoravano per Stalin, cancellando dalle fotografie i vecchi bolscevichi, uno dopo l’altro, man mano che venivano epurati.

"Gli individui che facevano queste cose avevano dei buoni motivi. Forse non buoni per voi o per me, ma convincenti per loro. La rivoluzione era isolata e in pericolo. Andava difesa dai nemici che approfittavano di ogni insuccesso, di ogni lite e incrinatura per farne qualcosa di mostruoso.

"Stavano cercando di difendere la rivoluzione quando eliminarono Trotsky dai Dieci giorni che sconvolsero il mondo.

"Il problema è che avevano torto e hanno contribuito a distruggere la spedizione."

— Che cosa? — dissi.

— Volevo dire la rivoluzione.

Derek fece il gesto che significava "siete assolutamente matti".

— Che cosa significa? — chiese Agopian.

— Voialtri siete dei pazzi.

Agopian annuì. — È vero. Ed è quello che intendo dire alla Ivanova. Tutto questo deve finire. Non sono del tutto certo di quello che farà lei. Voglio che altre persone siano a conoscenza di quanto sta succedendo.

— Credi che ti farà del male?

— Capitano incidenti. Ci sono membri dell’equipaggio che si sono rifiutati di andare avanti con il progetto. Li abbiamo ibernati.

— Con la forza?

Fece cenno di sì col capo.

— C’è un due per cento di probabilità di gravi danni irreversibili — dissi. — E questo la prima volta che una persona viene ibernata. Ogni volta in più aumenta la percentuale dei possibili danni.

Lui annuì di nuovo. — C’è la possibilità che io sia un assassino. Ci penso spesso. Non sono contrario all’assassinio in sé. Ci sono situazioni in cui è giustificato. Ma non credo che questa sia una di quelle occasioni.

Bevve un altra sorsata di birra, poi mise giù la bottiglia e si protese in avanti. — Voglio offrire alla Ivanova una possibilità di… che cosa? Denunciarsi, immagino. Non mi va l’idea di fare la spia. Ma non voglio darle la possibilità di eliminarmi.

— Stai dicendo sul serio? Pensi davvero di essere in pericolo?

— Credo che ci sia una possibilità. Non grossa. Non avrebbe modo di ibernarmi quaggiù e non ritengo probabile che cerchi di uccidermi. Ma abbiamo fatto un sacco di stupidi progetti. — Fece una pausa e inclinò la testa. — Hanno finito di parlare. È meglio che torni. — Si alzò in piedi.

— Si tratta di una questione morale? — domandò Derek. — Sei giunto alla conclusione che mentire è sbagliato?

Agopian sorrise. — È una domanda strana fatta da te.

Derek attese.

Agopian continuò: — Non mi piace pensare che mi adatterei bene all’epoca di Stalin. E non credo che potremo passarla liscia. Ci sono state troppe menzogne che hanno coinvolto troppe persone. È solo questione di tempo prima che qualcuno parli, o qualcuno capisca quello che è successo. — Si diresse verso il parapetto, poi si voltò a guardare indietro. — Ho conservato i messaggi. Quando la gente li vedrà, non avrà più voglia di tornare a casa. — Scavalcò il parapetto e saltò sulla riva. Dopo circa un minuto sentii la sua voce, che salutava qualcuno sull’altra barca.

Derek disse: — Questa non è una situazione che si possa discutere con la birra. Richiede del vino. O forse dell’acquavite. — Si alzò, raccolse le bottiglie ed entrò nella cabina.

Restai seduta in silenzio, ascoltando Agopian che parlava in russo. La sua voce era leggera, rapida e fluida. Gli rispose la voce piena da contralto della Ivanova. Non stavano parlando di niente di serio. Lo intuivo dal tono.

Derek tornò con due bicchieri di vino. Me ne porse uno.

— Agopian non è un burlone, vero? — chiesi.

— No, e non riesco a immaginare che un bugiardo per costrizione si sarebbe imbarcato sulla nave. Credo di poter presumere che stia dicendo la verità.

— Sorprendente!

— Senza dubbio lo è. Si sedette e appoggiò le spalle allo schienale della poltroncina. — Questo spiega alcune cose strane nelle informazioni provenienti da casa.

— Che cosa faremo? — chiesi.

— Berremo il vino, poi andremo a dormire.

Aggrottai la fronte.

— Non affronterà la Ivanova questa notte. Ci sono Eddie e il signor Fang. Vorrà prenderla da sola. — Bevve un po’ di vino. Un insetto dalle ali scarlatte scese svolazzando alla luce e andò a posarsi sull’orlo del suo bicchiere di vino. Derek sorrise. L’insetto rimase lì per circa un minuto, agitando le ali, poi si alzò di nuovo in volo, librandosi oltre il parapetto e scomparendo nell’oscurità sopra il fiume.

— Penso che domani faremmo meglio a raccontare tutto a Eddie. Glielo dobbiamo. Se Mesrop ha ragione, i messaggi cambieranno l’opinione delle persone su questo pianeta. È possibile che si decida di cercare una nuova patria.

— Qui? — chiesi.

— Forse. Il viaggio di ritorno a casa dura più di cento anni. Forse a quel punto le cose saranno tornate come prima. Ne dubito, però. La storia può essere una spirale, non un cerchio. Non si torna mai al punto da cui si è partiti.

— Parli come un marxista.

Lui si alzò, sorridendo. — Quei tristi individui superati? — Mise giù il bicchiere. Era ancora pieno a metà. — Povero, stupido Agopian! Buonanotte.

Entrò nella cabina. Io finii di bere, poi lo seguii e spensi le luci.

Mi svestii al buio, aprii il letto e mi coricai. Come potevo dormire? Ascoltavo il respiro dei miei compagni e pensavo a casa. Il Libero Stato delle Hawaii. La Confederazione dei Grandi Laghi. L’Alta California. Il Nuevo Mexico. Spariti. Tutti spariti. Le nazioni e le tribù del Nord America.

Mi svegliai e trovai la cabina deserta, mi vestii e uscii all’aperto. Eddie e Derek erano seduti e bevevano caffè. C’era una caffettiera sul tavolo e una tazza vuota. Riempii la tazza, poi mi sedetti.

Una splendida mattina! Le nuvole vagavano sulla valle, illuminate dal sole mattutino. Il fiume era in ombra. Luccicava bruno come bronzo.

— Dov’è l’oracolo? — domandai.

— Su al villaggio — rispose Derek. — Si sta procurando del cibo. Tatiana è andata con lui. Voleva dare un’altra occhiata ai nativi sul luogo.

Lanciai un’occhiata a Eddie. La sua espressione era insolitamente cupa. — Glielo hai detto?

Derek fece il gesto dell’affermazione.

— Che cosa faremo?

Eddie disse: — Mi piacerebbe passare sotto silenzio l’intera faccenda, ma non credo che sia possibile.

— Lo faresti? — Bevvi un po’ di caffè, poi mi appoggiai allo schienale della poltroncina. Esisteva un piacere simile al caffè in una fresca mattina d’estate?

Be’, sì. Ma non era questo il momento di fare un elenco.

— Se ho capito correttamente, Mesrop sostiene che non ci adatteremo più sulla Terra. Credo che sentiremo argomenti favorevoli a rimanere qui e a fondare una colonia. — Fece una pausa. — Dovevano essere pazzi. Per me non ha alcun senso logico. Non avevano alcuna possibilità di mantenere un segreto così grosso. Né di riuscire a riscrivere tanta storia. — Fece un’altra pausa. — Credo di riuscire a capire ciò che Agopian sta facendo ora. Ci sta spingendo verso l’intervento.

Feci il gesto del dissenso. — Non credo che stia complottando, ma piuttosto che stia cercando di tirarsi fuori da un complotto.

— Può darsi.

— Non sottovalutarlo — disse Derek. — E non pensare mai che faccia qualcosa per ragioni semplici. È un uomo pericoloso. È convinto che le idee siano importanti.

— E tu no? — chiesi.

— Le idee vanno bene per trastullarcisi all’università. Ma non hanno molto a che fare con la vita. Non riesco a immaginare di uccidere per una qualsiasi astrazione. E di certo non sacrificherei me stesso. Agopian sì. L’ha fatto.

Eddie disse: — Che cosa intendete fare tu e Derek? È questo che voglio sapere.

Lo guardai.

— Hai intenzione di riferire questa storia alle persone al campo?

— No.

Eddie sembrò sorpreso, e fiducioso, se interpretavo correttamente la sua espressione.

— La decision spetta ad Agopian. Se decide di tacere, o se gli succede qualcosa, io e Derek parleremo. Altrimenti no.

— Cancella il piano A — disse Derek. — Che consisterebbe nel chiudere la bocca ad Agopian in un modo o nell’altro. Lixia, tu sei più vicina al caffè.

Riempii di nuovo la sua tazza.

— Non c’è modo di evitarlo, Eddie. Agopian farà la sua grande confessione. E noi incominceremo a pensare di restare su questo pianeta. Ha fatto sembrare la Terra un luogo davvero sgradevole.

— Potrebbe avere torto — disse Eddie. — O mentire. Non c’è ragione di credergli.

Mi protesi in avanti. — Ha conservato le copie dei messaggi. Quelle originali. Ci sono i dati.

— Deve avere l’archivio personale più voluminoso della nave — osservò Derek.

— Potrebbe aver alterato quei messaggi. Forse sono quelli i falsi.

Derek disse: — Stai suggerendo che la storia di Agopian sia tutta una menzogna e che lui abbia passato il suo tempo libero creando una storia contraffatta della Terra, che ora presenterà come la vera storia tenuta nascosta.

— Perché no? — fece Eddie.

— È un’eccellente fantasia paranoide. Ma quando incominceremo a cercare, troveremo le sue istruzioni al sistema di comando. Le cancelleremo e poi incominceremo a ricevere messaggi che non sono stati cambiati. Agopian non ha alcuna possibilità di alterare le informazioni che stanno ancora passando. Può darsi che sia riuscito a cambiare il passato, ma non può cambiare il futuro.

Eddie scosse il capo. — Non riesco ancora a capire perché l’abbiano fatto. Se Agopian dice la verità.

— Perché tu ci hai chiesto di alterare quello che avrebbe detto la Ivanova quando avremmo tradotto per lei? — gli domandai.

Eddie parve irritato, ma dopo un momento disse: — Farò ciò che devo: impedire alla popolazione di qui di soffrire come ha sofferto il mio popolo.

— Loro stavano cercando di salvare la spedizione — disse Derek. — E, credo, anche quel che potevano del loro passato. Non volevano che noi perdessimo ciò che è andato perduto sulla Terra. — Si alzò in piedi. — Credo che sia ora di colazione. — Andò nella cabina.

Eddie e io restammo seduti in silenzio, a bere caffè.

Derek tornò con focaccine, burro, marmellata e un bricco di caffè fresco.

Mangiammo. Alla fine Eddie si alzò. — Vado a parlare con la Ivanova e il signor Fang. Dobbiamo decidere quando partire.

Raccolsi i piatti e li portai nella cambusa, li lavai e tornai sul ponte. Derek se ne era andato via da qualche parte. La mia iniziale felicità mattutina era svanita e ora mi sentivo tesa e un po’ depressa. Non avevo alcuna voglia di tornare al campo. Ci sarebbe stato uno scontro veramente atroce. Mi piaceva Agopian. Ora si era trasformato in qualcuno che non riconoscevo. Avevo creduto di conoscere la storia del mio pianeta. Ma stava cambiando e svanendo… come che cosa? Nebbia o foschia. Il mio passato stava andando in cenere.

Decisi di salire al villaggio.

Oggi c’era un’atmosfera diversa. Una tensione sotterranea. Niente che potessi indicare esattamente. Qualcosa nel modo in cui le persone si muovevano, nel modo in cui parlavano o non parlavano.

Mi faceva sentire a disagio. Andai fino ai margini del villaggio e gironzolai lì attorno, evitando le persone e osservando gli insetti fra la vegetazione. La giornata si fece caldissima. L’aria odorava di letame e dell’arida pianura. Di quando in quando il vento mi portava l’odore del fumo di legna.

Tanta bellezza!

Tanta bellezza!

Perché sprechiamo il nostro tempo?

Feci il mio yoga, guardando verso la pianura, poi mi voltai e vidi una dozzina di bambini. C’erano i piccoli simili a cuccioli: rotondi, grassi e nudi a parte la pelliccia. E c’erano quelli alti e dinoccolati come puledri: nervosi, pieni di energia, pronti a correre. Questi ultimi portavano indumenti: tuniche sbiadite e gonnellini laceri. Vestiti per giocare.

Uno dei bambini più grandicelli mi chiese: — Che cosa stai facendo?

Non conoscevo la parola per "esercizio" né quella per "meditazione".

— Sto estendendo il mio corpo e frenando la mia mente.

— Uh! Sei strana!

— È possibile.

Chiesi i loro nomi. Me li dissero. Mi domandarono quando sarei partita. Risposi che non lo sapevo.

— Diccelo prima di andartene — fece uno. — Vogliamo venire giù al fiume a vedere le vostre barche che si muovono da sole.

Un altro, uno dei piccoli, esclamò: — Come pesci! Come lucertole!

— D’accordo.

Tornai attraversando il villaggio. I bambini mi accompagnarono. Tacquero quasi tutto il tempo. Ogni tanto uno parlava.

— Quella è la tenda di mia madre.

— Ho ucciso un uccello con il mio arco nuovo.

— Che effetto fa a non avere pelliccia?

— Fresco — dissi. — Posso sentire il vento.

— Ma in inverno, devi avere freddo.

Feci il gesto dell’assenso. — Preferirei avere la pelliccia.

Arrivammo all’altra estremità del villaggio e i bambini mi fecero cenni di saluto.

Agopian era sulla mia barca, seduto sul ponte. Con lui c’erano Derek, Eddie e la Ivanova.

Salii a bordo.

— Ti stavamo aspettando — disse Derek.

— È fatta — mi disse Agopian.

— Non sono contenta delle precauzioni di Mesrop — fece la Ivanova. — Si sta comportando come se io fossi una specie di criminale.

Agopian alzò lo sguardo. — Elizaveta, abbiamo infranto delle leggi.

— Avevamo delle buone ragioni.

— Questo è qualcosa che faccio fatica a capire — dissi. — Quali erano le ragioni? E dov’è la birra?

— Al solito posto — rispose Derek. — Prendine una per me e Agopian.

Quando tornai fuori, la Ivanova disse: — Capirai quando sentirai i messaggi. Il socialismo non significa la riduzione di ogni cosa al minimo comun denominatore. Significa offrire agli individui la libertà di realizzare il loro massimo potenziale. Significa un innalzamento dell’umanità. Una nobilitazione. — Fece una pausa. — Quanto tempo abbiamo impiegato? Quattro secoli? Duecento anni di lotta per mettere fine a quell’orribile sistema e altri duecento anni di duro lavoro per ripulire la sporcizia che si era lasciato dietro? Quante persone sono morte di fame o avvelenate da tutti i diversi tipi di inquinamento? Avete mai guardato le statistiche sulla morte per fame e le malattie?

"Quante persone sono state assassinate perché volevano un sindacato o libere elezioni? O qualcosa di molto semplice. Il diritto di decidere chi avrebbero amato. Il diritto di decidere quanti figli avrebbero messo al mondo.

"Tutta quella sofferenza, quelle generazioni di lotte." Aveva parlato tenendo lo sguardo abbassato. Ora alzò la testa. C’erano rughe sul suo viso che non ricordavo.

— Pensavamo di aver vinto. Quando abbiamo lasciato la Terra, quando abbiamo iniziato questo viaggio, sembrava che l’umanità fosse sul punto di raggiungere un’età dell’oro. Un’autentica società socialista.

"Ci siamo risvegliati ai margini di questo sistema e abbiamo scoperto… non so come definirlo."

— Spazzatura — disse Agopian. — È come se avesse prevalso il pensiero umano peggiore e più basso. È davvero terribile, Lixia.

— Avete riscritto i messaggi perché non vi piacevano — dissi. — La storia non si era evoluta come volevate voi, così avete cercato di correggerla. Disfarla.

— No — ribatté la Ivanova.

Agopian disse: — Forse.

La Ivanova lo guardò con cipiglio, poi si rivolse a me: — Adesso che cosa succederà?

— Torneremo al campo, e tu e Agopian racconterete la vostra storia.

Lei guardò Eddie. — Credi che sia una buona idea?

— No. Ma non vedo alcun modo di far tacere Lixia, Derek e Agopian.

— Non c’è alcun modo — dichiarai. — Non intendo andare avanti con una menzogna di tale vastità.

Agopian mi guardò. Sembrava un po’ ubriaco. — Tu sei più forte di me, Lixia, e più innamorata delle astrazioni. Verità. Bellezza. Integrità. Ci annienteresti tutti per quelle parole.

— Tu non sei nella posizione di criticare — disse la Ivanova.

Mi rivolsi a Eddie. — Quando partiamo?

— Domattina. Presto. Tu e Derek dovreste andare al villaggio a congedarvi formalmente.

Derek fece il gesto del dissenso. — Angai ha detto niente uomini. Credo che parlasse sul serio.

— L’oracolo è lassù.

— Lui è santo. Io no. Sto prendendo Angai sulla parola.

— Andrò io — dissi. — Dopo pranzo e dopo aver fatto una nuotata. Qualcuno vuole venire con me?

— A nuotare? — domandò Derek.

— Al villaggio.

— Ci verrò io — disse la Ivanova. — Se Eddie è d’accordo.

— Penso che rimanderemo l’arresto di chiunque finché non saremo di ritorno al campo. Non conosco la procedura e in realtà non voglio chiamare per chiederla. Susciterebbe troppe domande. — Eddie si guardò attorno. — Voi altri siete d’accordo?

Derek e io annuimmo.

La Ivanova disse: — Penso che mi asterrò dal votare su questa questione.

Agopian annuì. — Mi astengo anch’io.

— Tanto vale che tu vada — disse Eddie alla Ivanova.

— Grazie.

Derek e io preparammo dei sandwich. Mangiammo, poi andai a fare una nuotata. L’acqua era fresca. Il fiume allentò buona parte della mia tensione. Avrei avuto voglia di farmi portare dalla corrente, lontano dal villaggio e dalle barche, lontano da tutte quelle persone e dalle loro discussioni. Naturalmente, se fossi andata abbastanza lontana, sarei finita nel bel mezzo della migrazione delle lucertole. Tornai indietro e salii a bordo, presi un asciugamano e me lo legai attorno al corpo.

Tatiana era tornata e stava seduta sul ponte di poppa con la Ivanova e Agopian. Sul tavolo pieghevole accanto a lei c’era una bacinella di frutta. Arance, banane e lucide mele verdi. Accanto alla bacinella c’era un mucchio di bucce d’arancia. L’aria era satura del profumo delle arance.

Tatiana parlava in russo, in modo rapido e impaziente.

— Che ne è stato dell’oracolo? — chiesi.

Si volse verso di me. — È rimasto al villaggio. Era insieme a qualcuno. Una persona grande dalla pelliccia rossiccia e abiti dimessi.

Nia.

Andai nella cabina e mi vestii.

Quando uscii, la Ivanova si alzò in piedi. Ci inerpicammo insieme lungo la scogliera.

C’erano bambini fuori dal villaggio. Se ne stavano fermi rivolti verso il vento, le mani all’infuori, le palme in avanti.

— Che cosa state facendo? — domandai.

— Tu ci hai detto che potevate sentire il vento. Le palme delle nostre mani non hanno pelo. Stiamo sentendo il vento e cercando di capire che effetto farebbe sentirsi così su tutto il corpo.

Tradussi per la Ivanova. Lei rise. — Loro non avranno difficoltà. Sono gli adulti che avranno paura e si opporranno ai cambiamenti.

I bambini rimasero ai margini del villaggio, continuando il loro gioco di far finta di essere senza pelo. Io e la Ivanova ci dirigemmo verso la piazza principale. Angai era lì, seduta sotto il suo riparo. Con lei c’erano Nia e l’oracolo.

Feci il gesto del saluto.

Angai fece il gesto che significava "sedetevi e restate per un po’".

Ci sedemmo all’ombra del riparo. Il vento sollevava polvere per la piazza.

— Partiamo domani mattina — dissi.

— Bene — ribatté Angai. — Quando ve ne sarete andati, le persone smetteranno di preoccuparsi. Dopo un po’ questa visita sembrerà solo un sogno per loro, o una storia raccontata da una vecchia su qualcosa successo molto tempo addietro. Allora potrete ritornare. Saranno meno terrorizzate la seconda volta. Ma ricordate. Quando venite, portate solo le donne e assicuratevi che siano intelligenti e sagge.

Tradussi per la Ivanova.

Lei disse: — Porgi ad Angai i nostri ringraziamenti. Spiegale che quando torneremo porteremo molti doni e molte storie, ma nessun uomo.

Lo riferii ad Angai.

Lei fece il gesto dell’intesa. — Credo che le cose si metteranno bene, anche se non mi sarei dovuta infuriare ieri sera. Adesso dovrò trovare un modo per fare contenta Anhar.

"Ora andate e portate con voi l’oracolo. Chiederò agli spiriti di prendersi cura di voi."

Feci il gesto della gratitudine. — È tutto — dissi alla Ivanova. — Vuole che lasciamo il villaggio.

Ci alzammo e altrettanto fece l’oracolo. Aveva una grossa sacca di cuoio bozzoluta: il suo cibo.

Guardai Nia. — E tu?

— Resterò qui ancora per un giorno o due. Poi ho intenzione di andare a nord a far visita a Tanajin.

— E dopo? — le chiesi.

Fece il gesto del dubbio, si alzò e mi abbracciò. Un abbraccio forte e stretto che mi lasciò senza fiato.

— Vieni al nostro villaggio — dissi.

Lei fece il gesto che significava "può darsi".

— Andate — disse Angai.

L’oracolo si incamminò. Io e la Ivanova lo seguimmo.

Quando arrivammo di nuovo dai bambini, stavano giocando con una palla. Addio al gioco dell’essere senza pelo.

Dissi loro: — Partiremo domattina. Quasi all’alba, credo. Venite giù allora se volete vedere le nostre barche.

— Lo faremo — rispose uno dei bambini.

Arrivammo sull’orlo della scogliera. La Ivanova si fermò e si voltò a guardare il villaggio e la pianura.

— Muovetevi — disse l’oracolo.

— L’oracolo è impaziente — osservai.

— Voglio ricordare tutto questo.

Restò lì ferma ancora un minuto e due. L’oracolo era irrequieto. Gli feci cenno di proseguire. Infine la Ivanova si volse verso di me. — Non sono stata particolarmente intelligente durante quest’ultimo anno. Ma non sono una stupida. Ho un’idea ben fondata di quello che succederà a Mesrop e a me.

Si avviò giù per la scogliera, seguendo l’oracolo.

Sarebbero stati processati per crimini contro la democrazia e per aver messo in pericolo la vita delle persone che avevano ibernato. Forse per omicidio. Non avevamo provvedimenti per la riabilitazione e neppure un luogo dove mandare le persone che avevano commesso gravi crimini. La sola cosa che potevamo fare era ibernarli finché non fossimo tornati sulla Terra o finché la nostra colonia non si fosse sviluppata abbastanza da avere una prigione o un’attrezzatura psicoterapeutica veramente avanzata.

Questa era probabilmente l’ultima volta che la Ivanova vedeva un villaggio indigeno o un paesaggio come quello. Diedi un’altra occhiata alla pianura battuta dal vento e ai bambini che inseguivano la loro palla. Poi seguii la Ivanova giù per la scogliera.

Nia

Le persone senza pelo partirono al mattino. Le abitanti del villaggio incominciarono a fare i bagagli nel pomeriggio. Nia aiutò Angai, ma solo con le cose che si trovavano nella parte anteriore della tenda. Il locale posteriore era il luogo dove Angai teneva i suoi oggetti magici. Tutto là dentro era nascosto da un tendone di stoffa rossa ricamata con animali e spiriti. Il tendone attraversava la tenda dall’alto in basso e da un lato all’altro. Non vi usciva nulla, a parte il profumo di erbe essiccate e la sensazione della magia, una sensazione che a Nia faceva pizzicare e formicolare la pelle.

Se ne stava il più possibile lontana da quel divisorio, inginocchiata accanto all’ingresso anteriore nella luce del sole pomeridiano, piegando indumenti e mettendoli in una cassa fatta di cuoio.

Hua era inginocchiata dall’altra parte della stanza, proprio accanto al telo divisorio e sotto l’immagine di uno spirito: un vecchio, nudo e con il membro sessuale ben visibile. L’Oscuro, pensò Nia, in uno dei suoi numerosi travestimenti.

Hua aveva disposto degli utensili e li stava contando prima di impacchettarli: coltelli di diverse misure, aghi, cucchiai fatti di corno e legno lucidati.

Angai era dietro il tendone, impegnata a impacchettare ciò che teneva lì dentro, oggetti che Nia non voleva neppure vedere.

— Come fai a sopportare di stare qui? — domandò Nia.

Hua alzò lo sguardo e fece il gesto della domanda.

— Vicino a quel sipario. In questa tenda.

Hua ripeté il gesto della domanda.

— A Nia non è mai piaciuta la magia — spiegò Angai.

— A me non dà fastidio — disse Hua.

— È un bene — osservò Nia. — Se hai intenzione di diventare la prossima sciamana.

— Certo che voglio diventarlo — ribatté Hua. — Chi altri c’è qui? — Adesso stava contando i pettini. Li dispose, grandi e piccoli, fatti di legno, corno e metallo.

Nia si rese conto che le prudeva tutta la pelle e la sensazione era particolarmente sgradevole fra le scapole e lungo la spina dorsale. — Lasciane fuori qualcuno. È passato tanto tempo dall’ultima volta che mi sono fatta dare una strigliata come si deve, da un’amica o una parente.

— D’accordo — fece Hua. Mise da parte due pettini: uno di grandezza normale e uno grosso con i denti molto radi.

Nia emise un suono soddisfatto. — Sarà qualcosa da ricordare quando mi troverò fuori sulla pianura.

— Non vieni con noi? — chiese Hua. La sua voce aveva un suono acuto e stridulo.

— No.

— Perché no? Qualcuno ti ha dato delle noie? Non sei preoccupata per Anhar, vero? Angai non ti ha detto che puoi restare?

Nia appoggiò sul pavimento una tunica dalle maniche lunghe. Piegò le maniche sopra il corpetto della tunica, lisciandone il tessuto. Era soffice e delicata, dono di un popolo che viveva nel lontano sud.

— Quando vivevo nelle Colline del Ferro, stavo con te, Anasu ed Enshi. Quando vivevo nell’est, mi trovavo ai margini del villaggio, lontana come un uomo. Non sono abituata a stare con molte persone. Non so più vivere in un villaggio.

— Non l’hai mai saputo realmente — disse Angai da dietro il telo divisorio. — Ti sei sempre comportata come se fossi sola.

Nia provò una certa sorpresa. Fece il gesto che significava "è proprio vero?". Ma Angai non poteva vedere, naturalmente.

Hua disse: — Mia madre vuole sapere se ne sei certa.

— Sì. — Il telo ondeggiò. Angai doveva averlo sfiorato. — Ti conosco meglio di chiunque altro, Nia. Tu sei come una roccia! Sei come una freccia! Sei quella che sei, e niente può cambiarti. Vai dove vuoi, e niente può farti cambiare direzione. Non sei mai stata una persona qualunque.

— Non lo sapevo — disse Nia.

Hua disse: — Desideravo che restassi con noi. Volevo sentire le tue storie.

— Non me ne vado via per sempre. Ma ho bisogno di stare un po’ di tempo da sola.

— È la decisione giusta — dichiarò Angai. — Mi piacerebbe che Nia restasse, ma ho notato come la guardano le persone del villaggio. Lei le fa sentire a disagio. Se Nia se ne andrà, dopo un po’ si calmeranno. Allora, credo, potrà tornare. Ma se resta adesso, si adireranno. Sono accadute troppe cose. Hanno visto troppe cose nuove. Se ora Nia rimane, la cacceranno via.

Hua fece il gesto del rammarico.

Continuarono a lavorare finché il cielo non cominciò a oscurarsi. Angai uscì da dietro il tendone. Cenarono. Angai pettinò la pelliccia di Nia. Aiya! Che bella sensazione! Soprattutto quando Angai le pettinò il folto pelame sulla schiena. Nia si piegò contro il pettine, quello grande, emettendo mormorii di piacere.

Quando l’operazione fu terminata, chiacchierarono per un po’. Non dissero niente di importante. Angai descrisse la pista che voleva seguire andando a sud e il luogo dove intendeva trascorrere l’inverno. Ogni tanto Nia faceva una domanda. Hua ascoltava in silenzio.

Alla fine andarono a dormire. Nia rimase sveglia. L’ingresso della tenda era aperto, ma c’era pochissimo vento. L’aria dentro la tenda era calda e stagnante. Guardò fuori dalla porta. Le stelle brillavano sopra le tende delle sue vicine di un tempo. Così numerose! Così grosse e splendenti!

Si alzarono all’alba e incominciarono a caricare i carri. Anasu portò gli animali da tiro per il carro: sei bellissimi cornacurve castrati. Li attaccarono al carro. Il cielo era sereno. La giornata sarebbe stata molto calda. Nia lo sentiva.

Angai disse: — Vorrei che tornassi fuori a prendere un animale per Nia. Macchia Bianca o Gagliardo o Corno Rotto, quello che riesci a trovare.

— Perché gliene serve uno? — domandò Anasu. — Credevo che avrebbe viaggiato sul carro.

— Nia ci lascia — disse Hua.

— Perché?

— Vuole stare da sola.

— Aiya! Che famiglia mi ritrovo! — Voltò il suo cornacurve e si allontanò.

— È in collera? — chiese Nia.

— Un po’, forse — rispose Hua. — Non è stato facile averti come madre, anche se Angai ci ha protetti.

Nia fece il gesto delle scuse.

— Poteva essere peggio — osservò Hua. — Potevamo avere Anhar per madre. O Ti-antai. Una donna cattiva. Una donna che è una vigliacca.

— È questo che pensi di Ti-antai?

— Forse non è una vigliacca — disse Hua. — Forse ha una mente ristretta. Non pensa mai a nient’altro che alle proprie figlie e alle loro figlie e alle vicine.

— Non è abbastanza?

— Non per me. Io diventerò una sciamana.

— Allora puoi aiutarmi adesso — disse Angai. — Ho parecchie casse piene di oggetti magici che vanno sistemate sul carro. Nia non le toccherà. Lo so.

Hua fece una smorfia, poi il gesto dell’assenso.

Quando ebbero finito di caricare gli oggetti magici, smontarono la tenda. Nia le aiutò. La caricarono sul carro. Entro mezzogiorno erano pronte a partire, e così il resto del villaggio. Nia si guardò attorno. Non c’era più una sola tenda in vista. Invece c’erano carri e cornacurve, donne che sollevavano casse, bambini che correvano. Alcuni carri avevano incominciato a muoversi e una nube di polvere era sospesa a mezz’aria verso la parte occidentale del villaggio.

Anasu tornò, conducendo un cornacurve: un castrato giovane e robusto. Aveva una grossa chiazza bianca al centro del torace, curva come un arco. L’impugnatura dell’arco era sul fondo e i due bracci si alzavano su entrambi i lati. A Nia quel disegno ricordava anche altre cose: il simbolo di "pentola", il simbolo di "barca", e la Grande Luna quando era sotile. Se l’animale apparteneva ad Angai, doveva essere fortunato, sebbene Nia si sentisse turbata guardando il disegno e vedendo tante cose.

— Ha cinque anni — le spiegò Angai. — Non c’è un miglior viaggiatore nella mandria. Sii prudente, però. Qualche volta, anche se non spesso, diventa un po’ nervoso.

— Non ho niente da darti in cambio — disse Nia.

— Mi hai parlato delle persone senza pelo. Mi hai dato buoni consigli.

Nia fece il gesto che significava "non è stato niente".

— È sufficiente — ripose Angai.

Hua le porse un paio di bisacce da sella. — Sono per te. — Vi ho messo dentro tutto quello che dovresti avere. Mia madre, l’amica della sciamana, non può andare sulla pianura senza niente.

Nia prese le bisacce e le legò al suo animale. Provava una strana sensazione nel petto.

Anasu si girò e slegò il mantello sistemato dietro la sua sella. — Anche questo è per te. Un dono di addio, anche se non ho mai sentito parlare di un ragazzo che faccia un dono alla propria madre.

— Il dono che offre il ragazzo è la propria vita sulla pianura — disse Angai. — Lui si prende cura della mandria. La guida e la sorveglia. È sufficiente. Compensa i doni che riceve dalle sue parenti.

Una vera sciamana! pensò Nia. Ha sempre avuto una risposta. È sempre stata pronta a offrire insegnamenti e spiegazioni.

Prese il mantello. Era fatto di lana grigia ornata di ciuffi di pelo su un lato così da sembrare la pelle di un animale. Portava attaccati due fermagli, grandi e fatti in argento. Uno aveva la forma di un cornacurve disteso, con le zampe piegate. L’altro aveva la forma di un assassino-delle-pianure. I due fermagli erano uniti da una catena d’argento.

Anasu disse: — È un buon mantello. Non dovrai preoccuparti per la pioggia finché l’avrai. E non soffrirai il freddo neppure in inverno.

Nia legò il mantello sopra le bisacce, poi montò in sella e rimase a guardare gli altri tre: il ragazzo sul suo cornacurve, Angai e Hua ritte al centro di una macchia di vegetazione. Si sentiva la mano intorpidita. Non riusciva a muoverla. Non c’erano parole nella sua gola e nella sua mente.

— Sempre la stessa! — le disse la sua amica. — Ci sono cose che non sei mai riuscita a dire.

— Non ho mai amato il momento della separazione. — Fece il gesto della gratitudine e il gesto dell’addio, poi voltò il suo animale e si allontanò.

Ormai l’intero villaggio era in movimento, diretto verso ovest. Nia guidò il proprio animale fra i carri, andando nella direzione opposta. L’aria era satura di polvere. Le donne sbraitavano, i bambini strillavano, i cornacurve facevano grugniti che significavano che stavano lavorando duramente e non gradivano la cosa.

"Uh-uuh! Uh-uuh!

Perché stiamo facendo questo?

Dovremmo correre

liberi per la pianura."

Nia arrivò alla fine del villaggio. Non c’era niente davanti a lei a parte la pista segnata da solchi e gli escrementi dei cornacurve. Gli escrementi erano freschi e di un nero lucente. Trattenne per un momento Macchia Bianca. C’era qualcos’altro che non aveva detto ad Angai. Quando gli addii erano terminati, quando le persone se ne erano andate, incominciava, sempre, a sentirsi felice. Aiya! Essere in viaggio! Aiya! Essere da sola!

Non stava seduta nel modo corretto. Aveva la schiena curva e le spalle ingobbite come se portasse un grosso peso. Si raddrizzò e spinse il petto in fuori. Così andava meglio. Ora i polmoni avevano spazio.

Una voce fece: — Ho qualcosa da dirti e non volevo che Angai sentisse.

Nia si voltò a guardare indietro. Era Anasu. Il suo animale respirava affannosamente con la bocca aperta.

Nia fece il gesto della domanda.

— Ho intenzione di far visita alla gente senza pelo. Quest’inverno, prima di subire il cambiamento.

— Perché?

— Non era mai accaduto niente di simile. Non ci sono individui senza pelo in nessuna delle antiche storie, né imbarcazioni come quella su cui sono stato, e certamente non ci sono uomini che vivono con le donne. È una cosa assolutamente nuova. Voglio vederla, Nia! Voglio capire.

"Se aspetterò, chissà che cosa accadrà? Forse mi trasformerò in uno di quegli uomini che non riescono a sopportare nessuno, neppure le donne nel periodo degli accoppiamenti. Forse impazzirò."

— Queste cose non succedono nella nostra famiglia — disse Nia.

Anasu fece il gesto del dubbio. — E se tutto andrà bene, se il cambiamento sarà assolutamente normale, finirò a sud. Ho sentito parlare di quel posto! Nessuna donna viene laggiù. Nessuno che porti notizie. Gli uomini grandi e grossi si prendono tutto, e i giovani stanno seduti a chiedersi che cosa succede nel resto del mondo.

Nia emise un brontolio e guardò il figlio. Alla luce del sole la sua pelliccia scura luccicava. Ora vedeva che aveva una sfumatura rossiccia. Come il rame, come suo zio Anasu.

— Sii prudente — gli disse.

— Certo. Non sono uno sciocco. Non farò niente per cacciarmi nei guai. Non intendo finire come Enshi o come te.

— Cerca di essere anche cortese.

Il ragazzo fece il gesto dell’assenso. — Se verrai al villaggio della gente senza pelo, durante l’inverno, non prima, ci sarò.

— È assai probabile che ci venga — rispose Nia.

Lui fece il gesto della soddisfazione e il gesto dell’addio, poi si allontanò sul suo animale.

Nia viaggiò verso nord per tutto il giorno, seguendo la pista del villaggio. Alla sera si accampò nei pressi di un torrente. Un rivolo d’acqua scorreva al centro di un ampio letto sabbioso. Era sufficiente. Nia abbeverò l’animale, poi raccolse legna fra gli arbusti lungo il torrente. Accese un fuoco. C’era del cibo nelle bisacce da sella: frutta secca e pane da viaggio, secco e duro.

Uh! Era confortevole starsene seduta a osservare le fiamme che danzavano, rosse e gialle. Macchia Bianca era lì vicino. Nia sentiva lo scricchiolio della vegetazione e il gorgoglio del fluido nello stomaco del cornacurve.

In lontananza, sulla pianura, un tulpa gridava: — Up-up. Up-up.

Nia restò per un po’ ad ascoltare, poi si addormentò.

Seguì la pista del villaggio per altri due giorni. La mattina del terzo giorno arrivò a un’altra pista, stretta e profonda. L’avevano fatta delle viaggiatrici. Loro non usavano mai i carri, ma conducevano file di cornacurve carichi di splendidi doni del Popolo dell’Ambra e del Popolo della Pelliccia e dello Stagno. Nia girò verso est, seguendo la nuova pista. Viaggiò per un altro giorno. Il tempo si manteneva lo stesso: molto caldo, sereno e radioso. Uh! Era noioso! Compose poesie. Si chiese che ne fosse stato dell’oracolo e di Li-sa e Deragu. Erano tornati al loro villaggio? E che ne era dei suoi figli? Stavano bene? Erano felici?

Angai aveva fatto un buon lavoro allevandoli. Perché non aveva lodato la sua amica? Perché non aveva detto a Hua e ad Anasu: "Siete dei bravi figli"?

Verso sera ci fu un rumore simile a un tuono: fragoroso e penetrante. Macchia Bianca si lanciò in una corsa.

Nia tirò le redini. L’animale non si fermò. Invece abbandonò la pista e si precipitò fra la vegetazione. Nia continuò a tirare, ma l’animale proseguì la sua corsa finché non arrivarono a un boschetto di foglie-lama che li sovrastava entrambi. L’animale s’impennò, poi atterrò di colpo sulle quattro zampe, tremando, sbuffando e sudando come una delle persone senza pelo.

— Non è questo il modo di comportarsi — lo rimproverò Nia. — Sta’ calmo! Contento! Non c’è niente che possa farti del male. — Nia accarezzò il collo dell’animale, poi si guardò attorno. Il cielo era sgombro. — L’ho già sentito prima — disse al cornacurve. — Significa che un’isola è caduta nel Lago Lungo.

L’animale agitò la testa e sbuffò di nuovo. Ma lo fece tornare sulla pista.

Al crepuscolo arrivò alla valle del fiume. Si accampò in cima a una scogliera e al mattino scese giù per una stretta gola. Le pareti erano ricoperte di piante rampicanti dalle foglie rosse come rame. L’aria odorava di polvere e vegetazione secca.

In fondo alla gola il terreno era piatto e ricoperto dalla foresta. Nia proseguì verso est. La pista era asciutta, ma si capiva che in primavera doveva essere in buona parte sommersa dalle acque. Nei punti più bassi erano stati posati dei tronchi sopra i quali era stato ammucchiato terriccio, in modo che la pista fosse rialzata. Aiya! Che costruzione! Non aveva mai visto niente di simile in precedenza. Chi poteva averla fatta? Tanajin? O qualcuna delle viaggiatrici? Era un eccellente dono. Molte persone l’avrebbero lodato.

A metà pomeriggio arrivò al fiume. L’acqua bruna scorreva in un letto stretto al di là del quale sorgeva un’isola. C’era una zattera tirata sulla riva dell’isola fra il fiume e gli alberi.

Nia smontò di sella. Il terreno attorno a lei era disseminato di cenere e frammenti di legno bruciato. C’erano orme nella terra, di persone e cornacurve, e mucchi di sterco. Tutto lo sterco era vecchio.

Nia si prese cura dell’animale, poi raccolse legna e accese un fuoco. Anzitutto legna morta. Non i pezzi marci che erano stati mangiati dagli insetti, ma dei bei pezzi asciutti, compatti, senza su niente a parte qualche chiazza della pianta rossa a scaglie. Quando il fuoco ardeva ormai veramente bene, vi aggiunse legna viva. Questa fece fumo, che si alzò come il tronco di un albero, denso e scuro.

Non successe nulla per il resto della giornata. Nia mantenne il fuoco acceso. Durante la notte dormì accanto al fuoco e si svegliò parecchie volte per aggiungere legna. Nella foresta poteva esserci di tutto: lucertole grosse come gli umazi, assassini dagli artigli affilati, osupai o tulpai. Molto meglio la pianura. Le piaceva vedere che cosa la seguiva.

Al mattino raccolse altra legna. Il cibo era quasi finito. Alimentò bene il fuoco, poi si sedette ad aspettare. Aveva il corpo irrigidito e si sentiva la mente come una pentola di ferro: pesante e vuota.

A metà della giornata una persona emerse dalla foresta sull’isola. Spinse in acqua la zattera e vi salì. Sul lato della zattera era attaccato un bastone biforcuto. La persona sistemò nella biforcazione un lungo remo.

La zattera si allontanò lentamente dalla riva. La persona incominciò a muoversi in un modo che in un primo momento Nia non riuscì a capire: chinandosi e raddrizzandosi. Il remo si alzava e si abbassava. L’acqua gocciolava dalla pala lunga e larga.

Su e giù. Dentro e fuori dall’acqua. Dopo un po’ Nia si rese conto di quello che stava accadendo. Il remo spingeva la zattera. Invece di scendere la corrente, la zattera l’attraversava.

Un lavoro lento! E duro! Nia osservava, sentendosi irrequieta. Non era mai facile stare seduti a mani vuote quando altre persone facevano qualcosa di utile. Si alzò e si diresse verso la riva.

La zattera era vicina. La persona sulla zattera era Tanajin. Lanciò un’occhiata a Nia, ma non fece alcun cenno di riconoscimento. Continuò invece a muovere il remo. Nonostante tutti i suoi sforzi, la zattera veniva trascinata dalla corrente. Sarebbe arrivata a riva più a valle di Nia.

Nia s’incamminò lungo l’argine, poi si tolse i sandali ed entrò con i piedi nell’acqua. — Che cosa posso fare? — gridò.

Tanajin si chinò e afferrò qualcosa. — Ecco! — Lo gettò.

Una fune. Si srotolò a mezz’aria e cadde nell’acqua. Nia afferrò un’estremità. L’altra era fissata alla zattera.

— Tira! — ordinò Tanajin.

Nia si avvolse la fune attorno all’avambraccio finché non fu tesa, poi allargò i piedi e conficcò le dita nel fondo fangoso, afferrò saldamente la fune e incominciò a tirare.

Hunh!

La zattera rallentò.

Hunh!

La zattera si fermò.

Hunh!

La zattera incominciò a virare.

Tanajin tirò fuori dall’acqua il remo, che restò sollevato, sostenuto dal bastone biforcuto, anche se Nia non riusciva a capire esattamente come. Poi saltò nel fiume. Aiya! Che tonfo! Era nell’acqua fino al torace, appoggiata alla zattera e spingeva con forza. Nia continuava a tirare. Grugnivano tutte e due come cornacurve. La zattera arrivò a riva.

Le due donne uscirono dall’acqua. Tanajin prese la fune e la legò attorno a un albero. — Dov’è Ulzai? — chiese. — Non è tornato.

Nia fece il gesto che significava "non lo so".

Tanajin fece il gesto della domanda.

— Una lucertola ci ha seguiti nelle rapide. Ulzai si è alzato in piedi per affrontarla. È successo qualcosa. Non so esattamente che cosa. La barca si è capovolta. Tutti noi… — Chiuse la mano a pugno, poi l’aprì. Il gesto significava "dispersi" o "spariti".

— Ahi! — esclamò Tanajin.

— La lucertola non era un umazi. Ulzai ha osservato bene l’animale. Ha detto che non era niente di eccezionale. Ci ha parlato del suo sogno. Gli umazi gli avevano promesso che sarebbero stati loro la sua morte.

— Che ne è stato delle persone senza pelo? — s’informò Tanajin. — E del pazzo? Sono affogati?

Nia fece il gesto che significava "no". — C’è un nuovo villaggio sul lago. L’hanno costruito le persone senza pelo e non assomiglia a nessun altro villaggio che io abbia visto. Li-sa e Deragu sono laggiù. E anche l’oracolo. Io sono venuta ad aggiustare la tua pentola.

Tanajin fece il gesto che significava "andiamo avanti".

Si diressero all’accampamento di Nia. Il fuoco era quasi spento. Tanajin disperse i rami con un calcio. Era impazzita? Era a piedi nudi. Senza dubbio sembrava furiosa. Aveva un’espressione corrucciata e il pelo sulle arcate sopraccigliari scendeva a tal punto che le nascondeva gli occhi.

Nia sellò Macchia Bianca, muovendosi con circospezione e facendo il minimo rumore possibile. Condusse l’animale fino alla zattera e lo fece salire. Non fu un’impresa facile. L’animale tremava e sbuffava. — Non è il modo di comportarsi di un castrato — disse Nia. — Calmati! Non comportarti come un maschio! — L’animale agitò le orecchie. La coda fremeva, ma non si alzò. Era un buon segno. L’animale era inquieto, ma non realmente spaventato. Non era sul punto di fuggire per il terrore. Nia tenne saldamente le briglie e fece dei suoni per calmarlo.

Tanajin slegò la fune, poi spinse la zattera verso il largo, usando il remo.

La zattera si mosse dolcemente. Era fatta di tronchi legati insieme. La corda non era del tipo usato sulla pianura, fatto con lunghi e sottili pezzi di cuoio intrecciati. Questa corda era fatta di una fibra pelosa. Nia aveva visto qualcosa di simile nell’est. Il Popolo del Rame la usava per fabbricare reti. Proveniva dal lontano sud.

Quanti tipi di persone c’erano? Quante specie di doni?

Si spostarono lentamente verso il centro del fiume. Macchia Bianca sbuffava e batteva uno zoccolo. Nia gli massaggiava il collo peloso. Si voltò a guardare indietro. C’era una lucertola nel fiume fra loro e la riva occidentale. Era grossa, diretta a sud.

Aiya! Nia tirò con forza la briglia, facendo girare la testa al cornacurve e assicurandosi che Macchia Bianca non la vedesse. — Ce ne sono state parecchie? — chiese.

Tanajin alzò lo sguardo. — Lucertole? Sì.

Riprese a spingere con il remo. Quando arrivarono all’isola, parlò di nuovo. — Vedo le lucertole quando trasporto le persone attraverso il fiume. Loro amano viaggiare lungo questa riva. L’acqua scorre lentamente e ci sono le paludi dove cacciano. La lucertola che vi ha seguiti si è comportata in modo molto strano.

— Seguiva il sangue — disse Nia. — L’oracolo aveva una ferita. Perdeva sangue nell’acqua.

— È lui la causa!

Nia fece il gesto del dissenso. — Credo che la causa risalga a molto prima. Penso che siano stati gli spiriti della caverna.

Tanajin fece il gesto della domanda.

Nia le parlò della caverna con le pitture sulle pareti. — L’oracolo ha detto che era piena di spiriti. Erano affamati. Li ha nutriti, ma non erano soddisfatti. Volevano altro sangue. Questa è la mia opinione, comunque. Non lo so con certezza.

— È troppo complicato per me — ribatté Tanajin. — Ho bisogno di una sciamana. Forse dovrei andare a cercarne una.

Tirarono fuori dall’acqua la zattera e la lasciarono lì, attraversando l’isola a piedi. Gli alberi erano pieni di uccelli chiassosi. Il terreno era ricoperto di escrementi: bianchi, rossi e color porpora.

Dall’altra parte dell’isola c’era un’altra zattera. La usarono per attraversare un altro ramo del fiume.

Successe la stessa cosa. Tirarono sulla riva la zattera e attraversarono l’isola. Trovarono un’altra zattera.

— Quanto ce n’è ancora? — domandò Nia.

Tanajin fece il gesto della fine o del completamento. — Questo è l’ultimo ramo. Non c’è un buon passaggio attorno alle isole e se cerco di attraversare tutto il fiume in una sola volta, la zattera viene trascinata troppo a valle. Lo so. Ci ho provato.

Nia disse: — Le persone senza pelo hanno una barca che si muove da sola come se avesse zampe o pinne.

— Si tratta di magia?

— No. È spinta dal fuoco, anche se non capisco come.

Tanajin fece il gesto dello stupore, ma non sembrava sorpresa, soltanto stanca.

Attraversarono l’ultimo ramo del fiume. Il sole era già sparito, ma il cielo era ancora pieno di luce. L’aria era quasi stagnante, satura dell’odore del fiume e del cornacurve, che aveva lasciato un mucchio di sterco sui tronchi vicino a Tanajin.

— Fa’ attenzione al tuo animale — disse la donna.

— Faccio del mio meglio.

Raggiunsero la riva e tirarono in secco la zattera. Il cielo si era fatto buio. S’incamminarono verso nord lungo il fiume finché non arrivarono alla casa di Tanajin.

Nia condusse Macchia Bianca sul retro. Tolse la sella al castrato e lo legò, usando una corda di cuoio. C’erano anche gli altri due cornacurve, che pascolavano fra la bassa vegetazione. Tornò sul davanti dell’abitazione. Tanajin aveva acceso il fuoco.

Mangiarono senza parlare. Quando ebbero finito, Tanajin entrò nella tenda. Tornò portando una coperta. — Non ti voglio dentro la mia casa, Nia. Sono in collera per la notizia che mi hai portato. Perché Ulzai è il solo che non è ricomparso?

Nia fece il gesto del dubbio.

Tanajin entrò.

Nia si coricò. Gli insetti le ronzavano attorno. La morsicarono nei punti in cui la pelliccia era sottile: sui bordi delle mani, sulla punta delle orecchie. Si tirò su la coperta finché non la riparò del tutto e sognò di essere intrappolata in un luogo buio: una grotta o una foresta. Attorno a lei c’erano persone che parlavano e si muovevano. Non riusciva a vederle e non conosceva la loro lingua.

Si svegliò all’alba. Tanajin uscì dalla tenda e riaccese il fuoco. Mangiarono poltiglia.

Tanajin disse: — Ho sognato Ulzai. Aveva i vestiti fradici e la sua pelliccia grondava acqua. Mi ha parlato. Non sono riuscita a capire le sue parole.

— Ho sognato anch’io — disse Nia.

— Che cosa?

— Oscurità. Ero intrappolata. E c’erano persone. Non so quali persone. Parlavano. Non riuscivo a capirle.

— Questi sono brutti sogni. C’è bisogno di una cerimonia di prevenzione. — Tanajin aggrottò la fronte. — Ci sono momenti in cui penso che questo non sia un modo di vivere. Non ho parenti femmine. Non ho una sciamana. Adesso se ne è andato anche Ulzai.

Nia fece il gesto del cortese assenso. — Hai detto che hai degli utensili. Ho intenzione di iniziare a erigere un posto per lavorare.

Tanajin fece il gesto dell’intesa.

Nia costruì una fucina più a valle della tenda. Ci vollero nove giorni di duro lavoro. Il tempo rimase lo stesso. C’erano insetti ogni notte. Tanajin raccoglieva legna viva e la metteva sul fuoco. Il fumo scacciava la maggior parte degli insetti. Nia era troppo esausta per preoccuparsi se ne rimaneva qualcuno.

Ogni mattina si svegliava irrigidita, ma l’indolenzimento lentamente passava. Il vero problema erano le mani. Sulle palme dove i calli si erano assottigliati le si formavano vesciche. Queste si rompevano e la carne sotto era rossa e tenera. Si avvolse pezze di stoffa fra le dita e sui palmi. Aiya! Questo la rendeva maldestra. Ma continuò a lavorare.

— Non è necessario che ti affretti — le disse Tanajin.

— Mi piace. Capisco quello che sto facendo. Da tanto tempo non ero in grado di dire una cosa del genere. — Fece una pausa, cercando di pensare a un modo di spiegarsi. — Questa è la cosa che faccio. È il mio dono.

Tanajin fece il gesto della dubbiosa comprensione.

Il giorno in cui la fucina fu completata successe qualcosa di strano. Apparve una nuvola. No. Una scia di fumo. S’innalzò da sud, muovendosi diagonalmente verso ovest e formandosi con sorprendente rapidità. Diverso da qualsiasi tipo di fumo che Nia avesse mai visto. Andava sempre più su. Nia si riparò gli occhi con la mano. C’era qualcosa sulla punta della nube? Qualcosa che lasciava la scia di fumo? Era piuttosto improbabile.

Restò in ascolto. Non si udì il fragore del tuono e nel cielo non c’era niente all’infuori della scia che era salita così in alto che non riusciva più a vederne la fine.

— Uh! — Tornò al suo lavoro.

Alla sera fece ritorno a casa di Tanajin. La donna era seduta accanto al fuoco e cucinava pesce in umido in una pentola appesa a un treppiede.

— Che cosa è stato? — domandò a Nia.

— La nuvola? Non ne sono certa. Ma la gente senza pelo si trova a sud di qui. — Nia si grattò il naso. — Mi chiedo quante isole ci siano nel lago. Vorrei avere una scatola parlante. Lo chiederei all’oracolo o a Li-sa.

Tanajin fece il gesto della domanda.

Nia le parlò delle isole che cadevano dal cielo. — Vengono giù con gran rumore. Forse salgono facendo fumo.

Tanajin fece il gesto del dubbio. — Molte cose cadono dal cielo. Pioggia di diversi colori, neve, grandine, pezzi di ferro e di pietra. Non ho mai sentito parlare di niente che tornasse su. Soltanto il fumo sale.

Nia fece il gesto che significava "non pensi a quello che dici". — Quando i demoni del fuoco sono attivi, le montagne scagliano in alto pietre, che possono viaggiare per lunghe distanze. Nello stesso tempo salgono la cenere e il fuoco.

— Credi che queste persone siano una specie di demoni?

— No. Credo che abbiano utensili che non assomigliano affatto ai nostri utensili, e strane cose accadono attorno a loro.

Tanajin fece il gesto del cortese dubbio. — Sono disposta a credere che le montagne sputino in aria pietre, anche se non l’ho mai visto fare da nessuna. Ma non sono disposta a credere che un lago possa sputare isole verso il cielo.

Il giorno seguente Nia incominciò a riparare gli utensili che appartenevano a Tanajin. Da est arrivarono viaggiatrici: otto donne che appartenevano al Popolo della Pelliccia e dello Stagno.

Tanajin le traghettò al di là del fiume. Le ci vollero due giorni. Quando tornò, disse: — Tornavano dopo aver fatto visita al Popolo dell’Ambra! Una visita spiacevole! Laggiù stavano litigando tutte. Una cerimonia era stata rovinata e si stavano scambiando accuse.

Nia rabbrividì e fece il gesto per evitare conseguenze sgradevoli.

Tanajin continuò. — Hanno visto la nuvola nel sud. Ho raccontato loro della gente senza pelo. Ho detto che sapevo dell’esistenza di quelle persone. Le avevo viste. Ma non avevo visto cadere dal cielo nessuna isola. Ho spiegato loro che quella notizia proveniva da Nia la lavoratrice del ferro.

— Hai fatto il mio nome?

Tanajin fece il gesto che significava "non preoccuparti". — Ho detto che venivi dall’est. Non hanno capito che sei la donna che amava un uomo.

— Meno male — osservò Nia.

Continuò a lavorare alle cose di Tanajin. Il tempo si mantenne caldo e luminoso. Il tempo dell’estate inoltrata. Il terreno era arido, perfino in prossimità del fiume. Sulla pianura tutto sarebbe stato coperto di polvere. Il villaggio, in viaggio, avrebbe sollevato grandi nubi scure.

Di notte il disegno di stelle chiamato Grande Carro scagliava molte frecce. Era una cosa normale. Quelle frecce apparivano alla fine di ogni estate. I Ragazzini Che Non Crescono Mai viaggiavano sul carro della loro madre, lanciando frecce con i loro archi. Aiya! Quando li acchiappava!

Nia finì con le pentole di Tanajin e incominciò a lavorare alla propria attrezzatura: morsi, anelli delle selle, coltelli che andavano affilati, punteruoli che non perforavano più niente. Tanajin aveva un rotolo di filo di ferro. Nia fabbricò degli aghi.

Di quando in quando vedeva nuvole di quella nuova specie: lunghe e sottili. Di solito erano a sud o sud-ovest. Si formavano rapidamente come la prima nuvola, e avevano la stessa forma, ma non salivano verso la sommità del cielo. Invece erano orizzontali. Era più facile vederle di sera. Il sole le illuminava da sotto. Risplendevano come striscioni colorati: rossi, gialli, color porpora, arancione, rosa. A volte a Nia sembrava di riuscire a scorgere il luccichio del metallo. La cosa che luccicava era sempre all’estremità anteriore della nuvola, nel punto dove questa iniziava.

Lavorava e rifletteva. Dopo un po’ le venne un’idea. Le sembrò folle. C’era solo una cosa da fare con un’idea folle. Raccontarla. Soltanto gli uomini stavano zitti quando qualcosa li preoccupava. O le donne che facevano o pensavano qualcosa di vergognoso.

Ne parlò con Tanajin.

— Le nuvole sono a sud, dove si trovano le persone senza pelo. Loro sono nuovi, e le nuvole sono nuove. Perciò sono loro i responsabili.

Forse.

— Ti ho parlato delle loro barche. Le barche lasciano una scia nell’acqua. La scia è bianca. Si forma rapidamente e poi sparisce. Forse anche le nuvole sono scie.

— Nel cielo? — disse Tanajin. — Non essere ridicola. Prima hai detto che queste persone sono capaci di lanciare per aria pietre come i demoni. Adesso sostieni che possono librarsi nel cielo come spiriti. Quanto è probabile una cosa del genere?

Nia fece il gesto della concessione. — Non molto.

— Hai passato troppo tempo da sola, Nia. Ti stai facendo idee strampalate.

Nia fece il gesto che significava "sì".

Arrivarono viaggiatrici da ovest e accesero un falò di segnalazione. Tanajin andò a prenderle: cinque donne grandi e grosse e immusonite. Le loro tuniche avevano strisce verticali dai vivaci colori. Le loro bisacce da sella non assomigliavano a niente che Nia avesse visto prima di allora: grossi canestri fatti con qualche specie di fibra vegetale e a righe orizzontali.

Le cinque donne parlavano con accento molto marcato. Appartenevano al Popolo dei Canestri Ben Intrecciati, dissero. Una barca era giunta nel loro villaggio dal cielo.

— Uh! — esclamò Tanajin.

— Dico che era una barca perché trasportava delle persone. — A parlare era stata la donna che guidava la comitiva. Era la donna più grossa, con un ventre che la faceva sembrare gravida. Ma le donne gravide di solito non viaggiavano. Forse era grassa. Nia non conosceva un modo cortese per domandarlo.

— Non assomigliava a nessuna imbarcazione che io abbia mai visto. Era simile agli uccelli che le nostre vicine fanno per appendere alle insegne. Gli uccelli sono d’oro. I loro corpi grassi. Le ali sono lunghe e sottili. Hanno occhi fatti di differenti specie di cristallo.

Un’altra donna disse: — Questa cosa… questa barca… aveva due grossi occhi sul davanti che brillavano come cristalli. C’erano altri occhi, piccoli, lungo i fianchi. Uh! Era curioso.

La donna capo della comitiva si accigliò.

L’altra donna fece il gesto che significava una scusa per aver interrotto.

La guida disse: — Le persone sulla barca erano quasi prive di pelliccia. Una di loro parlava il linguaggio dei doni, sebbene molto male. Questa persona ha detto che volevano venire a far visita e a scambiare storie.

Tanajin si rivolse a Nia. — Non eri pazza.

— Che cosa significa? — domandò la guida.

— Ci sono state nuvole nel cielo. Questa donna sosteneva che erano causate da imbarcazioni che appartenevano alla gente senza pelo.

— Come facevi a saperlo? — chiese una donna.

— Finisci la tua storia — rispose Nia. — Ve lo racconterò dopo.

— Non sapevamo che cosa fare — disse la guida. — La nostra sciamana ha deciso di chiedere consiglio. Ci ha mandate presso il Popolo dell’Ambra a chiedere la loro opinione. Un altro gruppo si è recato presso il Popolo del Ferro e un altro ancora presso il Popolo della Pelliccia e dello Stagno.

— Siamo in lite con il Popolo dell’Oro. Sono le nostre vicine più prossime. Hanno lingue simili a coltelli e amano comporre poesia satirica. Non intendiamo chiedere niente a loro.

— Inoltre — fece un’altra donna — vivono fra le alte montagne. Non ci piace andare lassù. Uh! È tetro! La pista va su e giù!

— Noi siamo gente di pianura — disse la guida. — Ci piace poter vedere tutto il cammino fino all’orizzonte.

Nia fece il gesto dell’assenso. — Il Popolo del Ferro ha permesso alla gente senza pelo di venire in visita. Non so che cosa abbia deciso il Popolo dell’Ambra.

— È così che l’hai saputo — disse la guida. — Hai visto queste persone.

— Sì — rispose Nia. — Ma non avevo visto il genere di barca che avete descritto.

Le donne fecero domande. Nia disse il meno possibile. Non voleva descrivere il lungo viaggio da est. Non voleva spiegare perché non viveva con la propria gente.

— È evidente che sai più di quello che dici — dichiarò alla fine la guida. — È una tua decisione e non ci riguarda. Noi siamo state inviate presso il Popolo dell’Ambra.

Il giorno seguente le donne proseguirono il loro viaggio. Nia finì di lavorare alla fucina.

— Era quello che aspettavo — disse Tanajin.

Nia fece il gesto della domanda.

— Ulzai continua ad apparirmi in sogno. Parla in tono pressante. Non riesco a capirlo. Di solito è bagnato. Questo dovrebbe significare che è annegato, ma non lo so con certezza. Che cosa vuole? Perché mi importuna?

Nia fece il gesto dell’ignoranza.

— Fabbricherò una nuova zattera e discenderò il fiume. Chiederò di lui al villaggio della gente senza pelo. Può darsi che abbiano trovato il suo corpo.

"Dopo di che proseguirò il mio viaggio. C’è un villaggio sul fiume oltre il lago. Le persone laggiù non si muovono mai. Le loro case sono di legno e loro ci abitano sempre." Tanajin fece una pausa.

"Il loro dono è un certo tipo di pesce molto grosso. Lo affumicano e lo marinano. Conservano anche le uova del pesce e le cose che il pesce maschio produce. La loro sciamana è famosa per la sua saggezza. Le chiederò di spiegarmi i miei sogni. Forse mi serve una cerimonia di propiziazione.

— È possibile — disse Nia. — E il traghetto?

— Le persone possono fare com’erano abituate a fare prima del mio arrivo.

— Il traghetto è stato il tuo dono.

— Tu continuerai a viaggiare. Sei fatta così. Se resterò qui da sola, impazzirò. Troverò un nuovo dono, forse fra il Popolo delle Uova di Pesce, forse più a sud.

Nia aiutò Tanajin a fabbricare la zattera. Ci vollero cinque giorni. Quando ebbero finito, disse: — Insegnami a usare il remo.

— Perché? — s’informò Tanajin.

— Penso di restare qui per un po’ di tempo. Quando verranno delle persone, le traghetterò. Spiegherò che te ne sei andata e che anch’io partirò presto. La notizia si diffonderà. Le persone sapranno di dover portare con sé delle asce.

Tanajin fece il gesto dell’assenso.

Rimase ancora una quindicina di giorni. Passarono la maggior parte delle giornate sull’acqua. Nia imparò a ruotare il grosso e pesante remo e a conoscere ciò che si nascondeva sotto la superficie dell’acqua. C’erano isole che emergevano soltanto negli anni di maggior siccità, ma erano sempre là e la zattera poteva rimanere impigliata su una di esse. C’erano tronchi, più di quanti potesse contarne una persona. Alcuni galleggiavano sulla superficie dell’acqua, altri erano sommersi. Alcuni erano rimasti incagliati nel fango del fondo del fiume e stavano ritti come alberi vivi, i rami che salivano verso la superficie. Altri erano trattenuti meno saldamente dal fango e ondeggiavano avanti e indietro nell’acqua.

— Come canne al vento — disse Tanajin. — O un albero che sta per spezzarsi.

— Aiya! - esclamò Nia.

— Ogni tipo di tronco è pericoloso. Se la zattera resta impigliata, potresti non riuscire a liberarla. Non lasciar mai penzolare una fune. Porta sempre con te un coltello. E tieni sempre d’occhio la superficie. Se ci sono gorghi o mulinelli, evita quel punto.

— È molto più complicato di quanto pensassi — osservò Nia.

Tanajin parlò in tono iroso. — Voi persone del nord siete così ignoranti! Pensate che il fiume sia come la pianura. Pensate che tutto ciò che importa sia in superficie, dove qualunque sciocco può vederlo.

Nia tenne i denti stretti. Un’insegnante aveva sempre diritto almeno a qualche insulto. Tutti lo sapevano. Era vero fra tutti i popoli.

Finalmente Tanajin disse: — Non sei ancora esperta, e non sai abbastanza sul fiume, ma credo che tu sia in grado di farcela. Ora posso lasciarti.

Nia fece il gesto dell’intesa.

L’indomani mattina Tanajin ammucchiò le sue cose sulla nuova zattera. Nia l’aiutò a spingere nel fiume la zattera. Tanajin vi salì e fece il gesto dell’addio.

Nia agitò la mano in risposta.

La zattera si allontanò. Tanajin incominciò ad azionare il remo. Nia restò a osservarla. La donna diventò sempre più piccola finché non sparì. La zattera divenne un puntino sul fiume ampio e splendente. Nia si riparò gli occhi con la mano. Anche la zattera era sparita.

Nia trasportò le proprie cose nella tenda vuota, ma non vi dormì. Aveva l’odore di Tanajin e le pareti erano sostenute da pezzi di legno. Erano troppo robuste. Una casa come si deve doveva muoversi al vento, non troppo, ma abbastanza perché le persone all’interno potessero sapere che cosa succedeva sulla pianura.

Ogni sera portava fuori una coperta davanti alla tenda. Si coricava presso il fuoco e guardava in su. Incominciò a notare delle cose.

Una di queste era una luce che si muoveva come una luna, ma era del colore sbagliato: un bianco argenteo. Seguiva una nuova traiettoria, diversa da qualunque delle vecchie lune. Notte dopo notte attraversava il cielo sopra di lei. Non aveva idea di che cosa fosse. Forse era tornata una delle Due Donne Disperse?

C’era anche una nuova stella. Appariva nello stesso punto ogni sera: al centro del cielo. Le altre stelle si muovevano tutt’attorno, ma quella non si muoveva affatto.

C’erano altre luci: rosse, bianche e verdi. Si trovavano quasi tutte a sud, vicino all’orizzonte. Si spostavano rapidamente in tutte le direzioni.

Nia incominciò a sentirsi inquieta. Una cosa era che le persone senza pelo creassero un nuovo genere di nuvola. C’erano molti diversi tipi di nuvole e mutavano sempre. Era improbabile che un tipo in più causasse guai. Ma una nuova stella! Una nuova luna! Luci che vagavano come insetti! Qui! Là! Su! Giù!

Dall’altra parte del fiume si alzò del fumo. Nia vi andò. C’era un uomo in attesa. Un tipo grande e grosso dalla pelliccia color grigio ferro.

— E tu chi sei? — chiese. — Dov’è Tanajin? — Parlava con un accento che Nia non riconosceva.

— Se ne è andata. Mi occupo io del traghetto.

— Uh! — disse l’uomo.

Nia lo traghettò sull’altra sponda insieme a due cornacurve. Lui le diede del sale in un sacchetto di pelle. La pelle era morbida e sottile. Nia non sapeva da che specie di animale provenisse. L’uomo non le spiegò chi fosse né perché viaggiasse attraverso il territorio del Popolo del Ferro. Nia decise di non chiederglielo.

Trascorsero altri giorni. La nuova luna continuava a viaggiare nel cielo. La nuova stella restava al centro del cielo. Di quando in quando vedeva un’altra di quelle lunghe nuvole.

Tornarono le Donne dei Canestri. La loro guida disse che il Popolo dell’Ambra non era stato di grande aiuto. — Sono impegnate a eseguire cerimonie di prevenzione e propiziazione. Qualcosa è andato storto. Non hanno voluto spiegarci che cosa, a parte dirci che dietro tutto questo c’era l’Imbroglione.

"È uno spirito che non conosciamo, sebbene somigli un po’ alla nostra Donna dalla Faccia di Uccello. Una sobillatrice! Una spiona e una bugiarda! Anche se devo riconoscere che dobbiamo molto alla Donna dalla Faccia di Uccello. Lei ci ha dato il fuoco e ci ha insegnato a intrecciare canestri."

Un’altra donna disse: — Non dovremmo esserle troppo grate. Ha convinto lei la Prima Gente che non c’era niente di sbagliato nell’incesto. E ha lasciato libero nel mondo il piccolo insetto nero della morte.

La guida si accigliò. — Le donne del Popolo dell’Ambra hanno continuato a parlare di questo spirito. Questo Imbroglione. Ci hanno detto che le persone senza pelo non sono il problema. L’Imbroglione è il problema. È lui che sta causando cambiamenti nel cielo.

— Le persone senza pelo hanno fatto una visita laggiù? — s’informò Nia. Puntò il dito verso est.

La guida fece il gesto che significava "no". — Non sono sicura che ci abbiano creduto quando abbiamo raccontato loro delle persone senza pelo e della barca che poteva volare. Forse pensavano che fossimo delle bugiarde, come l’Imbroglione.

— Aiya! - esclamò Nia. Le traghettò oltre il fiume, poi tornò indietro.

Ormai la foresta lungo il fiume aveva finito di cambiare colore. Gli alberi erano gialli e arancione. Le canne nelle paludi erano rosse. Stormi di uccelli viaggiavano nel cielo come nuvole.

Nia incominciò a preoccuparsi del cibo. Stava per rimanere senza. Si avvicinava l’inverno. Fabbricò delle trappole per i pesci e le sistemò nel fiume. Poi andò nella foresta, tagliò della legna e fece una rastrelliera per affumicare. Era il modo più sicuro per conservare pesce e carne. Il fumo avrebbe nascosto l’odore del cibo. Gli animali della foresta non sarebbero venuti a cercare qualcosa da mangiare.

Fabbricò delle trappole da collocare nella foresta. Poi si costruì un arco. Era del tipo poco resistente usato dalla gente del sud, ma non aveva i materiali per un arco fatto nel modo giusto, con strati di corno, e inoltre non era una fabbricante di archi.

Com’era possibile per gli uomini sopravvivere da soli? Una donna aveva bisogno di un intero villaggio pieno di persone dalle diverse conoscenze.

— Bene — disse fra sé. — So che è possibile. Sono già vissuta da sola in precedenza, salvo per Enshi, e lui non era poi un grande aiuto. Posso farlo di nuovo.

Raccolse cibo. Arrivarono nuvole da ovest, grigie e fitte, e fecero cadere pioggia su di lei. La pioggia era fredda e intensa. Le foglie cadevano dagli alberi. Si posavano al suolo nella foresta e volavano oltre il fiume. Rosse. Gialle. Arancione. Rosa. Porpora.

Gli stormi di uccelli si fecero meno frequenti. Gli insetti erano quasi spariti.

Notte e giorno, Nia sorvegliava il fuoco per affumicare. Il fumo grigio saliva in volute verso il cielo grigio. Dalla foresta non uscirono animali per scoprire se aveva qualcosa di commestibile. In questo era fortunata. Era il periodo dell’anno in cui ogni specie di creatura andava in cerca di cibo, sebbene non in preda alla disperazione. La disperazione sarebbe venuta più tardi con la neve.

Un pomeriggio, Nia se ne stava di fronte alla tenda, occupata a pulire un uccello terrestre. Aprì il ventre dell’animale per togliere i visceri. Uno dei suoi cornacurve fischiò: un segnale di allarme. Nia alzò lo sguardo. Dalla pista che seguiva il fiume si stava avvicinando un cavaliere. Nia si alzò, tenendo in mano i visceri sanguinolenti. Erano ancora attaccati all’uccello e, alzandosi in piedi, Nia sollevò l’uccello dal suolo. Per un attimo questo penzolò all’estremità di un pezzo di intestino. Poi il budello si spezzò e l’uccello cadde. Il cavaliere tirò le redini del suo animale.

Era grande e dalle spalle ampie. La sua pelliccia luccicava nonostante il cielo fosse grigio e scuro. La tunica che indossava era gialla e coperta di ricami. Portava braccialetti d’oro e un ciondolo d’oro a forma di pesce appeso a una collana di perline d’ambra. — Ho sentito dire che la vecchia donna del traghetto se ne era andata. Sembra che la nuova appartenga al Popolo del Ferro. Non parla molto e non racconta niente di sé.

— Chi può avertelo detto, Inzara?

— L’uomo il cui dono è il sale. — Inzara smontò di sella. — Perché non finisci quello che stavi facendo e poi non ti lavi le mani?

Condusse il suo animale dietro la tenda. Nia pulì l’uccello e si lavò le mani nel fiume.

Inzara tornò, portando le sue bisacce da sella.

— Che cosa ci fai qui? Non dovresti essere nella Terra dell’Inverno, a difendere il tuo territorio?

— Se ne occuperanno per me i miei fratelli. In ogni caso, non ha molta importanza in questo periodo dell’anno.

Lei infilzò l’uccello sullo spiedo e lo sistemò sopra il fuoco. Inzara si accovacciò. Aiya! Era grande e grosso, perfino appoggiato sui talloni.

— È abbastanza evidente che il mondo sta cambiando. C’è una nuova stella nel cielo, e anche una nuova luna. Qualche tempo fa un giovane è uscito dal villaggio. L’ho fermato e ho parlato con lui prima di mandarlo per la sua strada. Mi ha detto che erano venute persone da ovest, portando le loro provviste dentro canestri e raccontando una strana storia. Da loro erano giunti dei visitatori che viaggiavano su un uccello fatto di metallo. I visitatori erano senza pelo. Le persone dell’ovest volevano consigli. Ma le donne del mio popolo erano indaffarate. Da quando si sono recate sull’isola della Cordaia non fanno che litigare ed eseguire cerimonie. La guardiana della torre era morta e la torre stessa era danneggiata.

— Noi non abbiamo toccato la torre — disse Nia.

— Sono stati gli uccelli, o il vento — ribatté Inzara. — In ogni caso, i clan si stanno scambiando accuse di magia e pensieri malvagi. È quello che ha detto il giovane. Avrei potuto spiegare che cosa era accaduto realmente, ma chi dà ascolto agli uomini su queste cose? — Fece una pausa. — Ho pensato: il mondo sta cambiando, ed è evidente chi c’è dietro tutti questi cambiamenti. Le persone senza pelo, l’oracolo e Nia.

"È arrivato l’uomo che porta il sale. Mi ha parlato della donna del traghetto sul fiume. Ho pensato: quasi certamente si tratta di Nia. Quante strane donne possono esserci, che vagano per la pianura?"

— Un’opinione giusta, ma perché ti sei preoccupato? Non credo di essere responsabile di nessuno dei cambiamenti, e se lo sono, ormai non c’è niente che possa fare a questo riguardo.

— Sono responsabili le persone senza pelo? — domandò Inzara.

— Forse. Credo di sì.

— E tu sei loro amica.

— Forse.

— Dimmi dove sarai in primavera.

Nia alzò lo sguardo, sorpresa. — Perché?

— Tu hai molta fortuna, più di qualunque donna di cui abbia mai sentito parlare. Non sono sicuro di che genere di fortuna sia. A volte sembra più cattiva che buona. Ma è senza dubbio potente, e non c’è alcun dubbio sulla mia fortuna. È sempre buona.

"Se tu avessi un figlio, e il padre fossi io, o Ara, o Tzoon, pensa alla fortuna che avrebbe! Pensa al potere!"

Nia si sentì ancora più sorpresa. Se ne restò lì a bocca aperta. Le mani rimasero dov’erano, sulle cosce.

L’uomo proseguì: — Ne abbiamo discusso, noi tre. Se ti interessa, tireremo a sorte. Quello che prenderà la paglia più lunga verrà a cercarti. Questa zona dovrebbe essere buona. Non è probabile che ci siano altri uomini nei dintorni. Né donne. È facile distrarsi nel periodo degli accoppiamenti, e questa è una cosa che dovrebbe essere fatta nel modo corretto. Con attenzione.

— No — disse Nia.

Inzara fece il gesto della domanda.

— Ho già fatto troppe cose strane, e sto diventando vecchia. Non credo di volere altri figli.

— Hai già dei figli? Ci sono figlie femmine? Quanti anni hanno?

Nia fece il gesto che significava "smettila" o "taci".

— Perché? — s’informò Inzara.

— Tutto questo è assurdo. Gli uomini non scelgono le donne con le quali si accoppiano. Agli uomini non importa chi siano i loro figli o come siano.

— E tu che ne sai degli uomini? Che cosa ne sanno le donne in generale? Ve ne state sedute nei vostri villaggi! Chiacchierate! Fate pettegolezzi! Vi dite l’una con l’altra come sono gli uomini. Come potete capire qualcosa di noi? Hai mai passato un inverno da sola sulla pianura?

— Sì — rispose Nia.

Lui brontolò, poi fece il gesto delle scuse. — Dimenticavo chi sei. — Tacque un istante e aggrottò la fronte. Poi parlò di nuovo. — Dimmi dove sarai, Nia. Vuoi davvero accoppiarti col primo uomo che capita, uno qualsiasi? Potrebbe essere un uomo da poco. Potrebbe essere vecchio o pazzo. Chissà che specie di figlio uscirà?

Nia guardò l’uccello che cuoceva sul fuoco. La pelle si stava dorando. Era coperto dal grasso liquido, che luccicava. Rigirò l’uccello, poi si volse verso Inzara. — Te l’ho detto, non voglio più figli. Inoltre, sono stanca di fare le cose in modi nuovi e insoliti. Voglio essere normale per un po’ di tempo.

Inzara fece il gesto che significava "non è probabile che succeda".

— Inoltre, non mi va che altre persone facciano progetti per me. Io faccio quello che voglio.

— E vuoi essere normale — fu il commento di Inzara. Si alzò e si stiracchiò. Uh! Era enorme! La sua pelliccia luccicava alla luce del fuoco. Altrettanto facevano i suoi gioielli. — Mi porti al di là del fiume?

— Perché vuoi andare?

— Le persone senza pelo hanno edificato un villaggio a sud di qui sul Lago Lungo. Voglio vederlo.

— Perché? Non potrai entrarci.

— Le persone senza pelo mi cacceranno via?

Nia rifletté un momento. — No.

— Posso sopportare la gente. Guardami adesso. Sono seduto a parlare con te, e non è il periodo degli accoppiamenti. Se il villaggio sembra interessante, forse entrerò. Ara vuole informazioni. Io sono quello che va d’accordo con la gente, così sono venuto io. Ma è lui quello curioso.

Mangiarono l’uccello terrestre. Inzara prese una coperta e andò dietro la casa. Dormì per terra accanto al suo animale. Nia dormì dentro la tenda. Sognò il villaggio della gente senza peio. Si trovava dentro il villaggio e si aggirava fra le grandi case rotonde e scolorite. C’erano anche Inzara e altre persone che non riconosceva. Alcune di loro erano persone vere, persone con la pelliccia. Altre erano come Li-sa e Deragu.

Al mattino traghettò Inzara sull’altra sponda del fiume. — Non c’è una buona pista lungo il fiume. Dovrai andare a ovest sulla pianura e poi girare a sud.

Lui fece il gesto che significava che aveva capito.

Nia tornò alla casa di Tanajin.

Trascorsero altri giorni. Ci fu parecchia pioggia. Caddero le foglie. Il sole si spostò a sud. Quando era visibile, era del pallido colore invernale. Stava diventando affamato, come solevano dire le vecchie, benché questo non avesse alcun senso per Nia. Il sole era una fibbia. Lo sapevano tutti. L’aveva fatto la Signora della Fucina e l’aveva donato allo Spirito del Cielo, che lo portava sulla sua cintura. Com’era possibile che una fibbia avesse fame?

Non c’era nessuno che potesse rispondere alla sua domanda.

Da ovest arrivò un gruppo di viaggiatrici: donne del Popolo dell’Ambra, che tornavano a casa. Erano silenziose e sembravano turbate. Nia non domandò loro il perché. Le traghettò e loro le diedero una coperta fatta di pelliccia maculata e una pentola di stagno.

Il tempo si faceva sempre più freddo. Ora c’era ghiaccio nelle paludi: sottile e delicato. Lo si trovava nelle prime ore del mattino ed entro mezzogiorno era sparito. Se lo toccava, si spezzava. Aiya! Era simile alle tazze per bere delle persone senza pelo o ai loro strani pezzi di ghiaccio quadrati e cavi.

Il sole si spostò ancora più a sud. Il cielo era basso e grigio. Una mattina Nia udì un tuono, ma non vide niente.

Un’altra isola, pensò. Che saliva o scendeva. Quante ce n’erano ormai nel lago? Dove andavano quando partivano?

Inzara tornò. Accese un fuoco e Nia andò a prenderlo.

— Non ce l’ho fatta. Ho visto le loro barche e i loro carri. Ero consapevole che mio fratello avrebbe voluto saperne di più, ma non sono riuscito a farmi forza per entrare nel villaggio. Neppure dopo che l’uomo senza pelo mi ha invitato.

Nia fece il gesto della domanda.

— Quello che ho incontrato prima. Deragu. Mi ha trovato sulla scogliera sopra il villaggio. Abbiamo parlato. Ha detto che altre persone, persone vere, erano venute a guardare il villaggio ma non erano entrate. Non molte. Tre o forse quattro. Mi ha chiesto di portarti un messaggio.

— Sì?

— Vieni al villaggio per l’inverno. Tu hai fatto molti doni alla gente senza pelo, ha detto, soprattutto a lui e a Li-sa. Loro ti hanno dato pochissimo. Questo li fa sentire a disagio, ha detto. Un carro non procede in linea retta se i cornacurve che lo tirano non sono ben appaiati. Un arco non scaglia una freccia diritta se i due bracci non sono di uguale lunghezza.

Nia aggrottò la fronte. — Non ricordo di aver dato loro niente di importante.

Inzara fece il gesto che significava "può darsi". — Uno scambio non è concluso finché non sono tutti d’accordo che lo sia. È difficile dire che tipo di persona causi maggiori problemi: quella che rifiuta di dare o quella che rifiuta di prendere.

Nia non disse nulla.

Inzara continuò: — Un anno mi sono accoppiato con una donna a cui non piaceva prendere. Mi ha fatto quasi uscire di senno. Tutto quello che le davo era "troppo" o "troppo bello" o "troppo buono" per lei. Quanto ai suoi doni, che erano eccellenti, sosteneva che erano "piccoli" e "brutti". Avrei voluto picchiarla. L’ho lasciata il più in fretta possibile.

Nia emise un grugnito.

Inzara disse: — Conoscevo la madre della donna. Aveva occhi come aghi e una lingua simile a un coltello. Niente era mai abbastanza buono per lei. Credo che la donna abbia imparato a scusarsi per tutto ciò che faceva. Uh! Che brutta abitudine!

Raggiunsero la sponda orientale del fiume. Inzara l’aiutò a tirare sulla riva la zattera. Si tolse la collana d’oro e ambra e gliela porse. Nia stava per dire che era troppo come dono in cambio della traversata del fiume. Ma Inzara sembrava nervoso, e non voleva discutere con lui. Accettò la collana.

Lui montò in sella al suo animale e raccolse le redini, poi guardò Nia. — Ero solito pensare che niente mi facesse paura, a parte la vecchiaia. Ma quel villaggio laggiù mi ha spaventato. — Fece un cenno della mano verso sud e ovest. — Sono adirato con me stesso e inquieto. È meglio che me ne vada. — Diede uno strappo alle redini. L’animale si voltò. Inzara si volse indietro. — Forse verrò di nuovo in primavera. O forse verrà Ara. Il villaggio non lo spaventerà. E Tzoon è come una roccia. Non c’è mai niente che lo preoccupi.

Si allontanò. Nia si mise la collana. Era una splendida fattura. L’ambra aveva la forma di perline rotonde e il pesce era fatto di minuscoli pezzi d’oro legati insieme. Si dimenava come un pesce vero.

Nia tornò all’accampamento.

Il giorno seguente cadde la neve: grandi fiocchi soffici che si scioglievano non appena toccavano il suolo. Nia impacchettò le proprie cose e pulì la casa. Lasciò un sacco di cibo essiccato appeso al palo del tetto. Potevano venire delle persone. Potevano essere affamate. Lasciò anche una pentola per cucinare, una brocca per l’acqua e un coltello.

Dopo di che controllò bene i cornacurve. I loro zoccoli erano sani. Non avevano piaghe sulla schiena. Camminavano senza usare di più una zampa o uno zoccolo. Gli occhi erano puliti, e così le narici. Non trovò tracce di vermi o insetti scavatori.

Nia fece il gesto della soddisfazione.

Non era completamente a mani vuote. Aveva tre animali, cibo, e gli utensili per lavorare il metallo che le aveva lasciato Tanajin. Era più di quanto avesse portato con sé dal Villaggio del Popolo del Rame. Più di quanto avesse portato con sé dal proprio villaggio quando l’aveva lasciato la prima volta o la seconda o la terza.

Il giorno seguente attraversò il fiume. Doveva fare due viaggi. Il primo fu facile. L’aria era ferma. Il cielo era basso e grigio, ma non scendeva niente. Portò due dei cornacurve e li legò sulla sponda occidentale, poi tornò indietro.

Caricò il resto delle sue cose e condusse il terzo cornacurve sulla zattera. L’animale sbuffò e pestò uno zoccolo.

— Sii paziente! Tranquillo! Gli altri non mi hanno causato problemi.

Spinse la zattera verso il largo. Cominciava a cadere la neve. I fiocchi erano grandi e soffici e scendevano lenti. Quando arrivò alla prima isola, la riva orientale era sparita, nascosta dal biancore. Nia attraversò l’isola e caricò tutto sulla seconda zattera.

Questa volta la neve attecchiva, fermandosi sui rami spogli, sull’attrezzatura caricata sul cornacurve: le sacche e le coperte. C’era neve sulle spalle di Nia e neve sulla ruvida corteccia dei tronchi che formavano la zattera. Tutt’attorno i fiocchi sfioravano la grigia superficie dell’acqua e svanivano.

Aiya! Quel biancore! Nascondeva l’isola che aveva appena lasciato e le impediva di vedere quella dov’era diretta. Nia azionava il remo e grugniva.

Approdarono sull’estremità meridionale dell’isola. Nia tirò a riva la zattera, poi la guardò. Avrebbe dovuto portarla più a monte dov’era il punto giusto per l’approdo, ma ciò avrebbe richiesto tempo e la bufera stava peggiorando.

— Che siano altri a occuparsi di questo problema — disse.

Condusse il suo animale attraverso l’isola fino all’ultima zattera.

L’ultima traversata fu più facile. Il letto del fiume in quel punto era stretto, ma la neve si faceva più fitta. Copriva la zattera, il cornacurve e Nia. Perfino il remo era coperto di neve. Quando lo sollevava e lo muoveva, cadevano pezzi di neve. Facevano dei rumori quando toccavano l’acqua.

A Nia venne in mente una poesia. Non sapeva se l’avesse imparata da bambina o l’avesse composta proprio lì in mezzo al fiume.

Perché vieni,
oh, perché vieni adesso,
o popolo della neve?

Popolo dalle scarpe bianche,
perché mi infastidisci?

Nia raggiunse la riva occidentale e condusse a terra il cornacurve, lodandolo per le sue buone maniere. L’animale sbuffò e agitò le orecchie.

— Lo so. Lo so. Volevi causare guai. Ma ti sei trattenuto. Questo merita una lode. Ora è tutto finito. — Guardò il fiume: l’acqua grigia e la neve che cadeva. — Tireremo a riva la zattera e poi andremo a cercare i tuoi compagni. E domattina ci metteremo in viaggio per il sud.

APPENDICE A

NOTE SULLA PRONUNCIA

In questo romanzo ho usato il sistema Pinyin di traslitterazione del cinese benché la mia formazione sia avvenuta nel sistema Wade-Giles.

La "x" di Lixia si pronuncia come "sc".

La "q" di Yunqi si pronuncia "c".

La "zh" di Zhuang Zi (Chuang-tzu nel vecchio sistema) si pronuncia "g".

Yohai si dice Yohei.

Il suono scritto "kh" nella lingua del Popolo del Rame si pronuncia come la "ch" di "Bach".

Tutti i nativi parlano il linguaggio dei doni, ma la pronuncia varia.

Nia sa dire "g" ma non "k". Per questo motivo la sua versione del nome di Derek è "Deragu". Non c’è il suono "se" nella sua lingua. Lixia diventa "Li-sa". L’oracolo sa pronunciare "k" e "sc", ma non "p". L’animale indigeno che Nia chiama "osupa" per lui diventa "osuba".

Tutte le lingue native sono accentate. Di norma l’accento cade sulla prima sillaba.

Ci sono tre gesti nativi che si possono tradurre come "sì".

Uno è il gesto dell’affermazione che significa "sì, è così".

Un altro è il gesto dell’approvazione che significa "sì, sono d’accordo con te".

Il terzo è il gesto dell’assenso che significa "sì, dovrebbe essere, può essere, o sarà fatto".

APPENDICE B

PROGETTO DI NAVE STELLARE

DEL DOTTOR ALBERT W. KHUFELD

Per una propulsione a reazione che spinga una nave quasi alla velocità della luce, la massa di reazione stessa deve viaggiare a velocità relativistiche in un getto così caldo che nessuna sostanza materiale potrebbe sopportarlo. Soltanto un campo di forza può servire allo scopo.

I campi magnetici sono i campi di forza più sperimentati che conosciamo: essi vengono utilizzati ovunque nei laboratori per controllare le traiettorie di particelle caricate. La fusione nucleare è il metodo naturale per creare ioni caldi. Un reattore a fusione a specchio magnetico, con uno specchio a dispersione a poppa, creerebbe uno scarico nucleare tipo razzo.

La reazione Li7 + H1 = 2 He4 rilascia 17,3 MeV, senza particelle neutre per condurre energia in direzioni casuali e incontrollabili. È una delle reazioni più entusiastiche di nascita di una stella e qualunque tecnologia con potenza di fusione dovrebbe poterla governare.

L’idruro di litio ha un peso specifico di 0,78 e un punto di fusione di 689 °Celsius. Alloggiamenti costruiti all’interno di un grosso pezzo di questo carburante solido vengono protetti contro la maggior parte di gas e pulviscolo interstellari dalla massa pura e semplice. Gli atomi di idrogeno costituiscono un eccellente riparo contro i neutroni, mentre i campi magnetici deviano gli ioni interstellari.

17,3 MeVe, equamente diviso fra i due nuclei di prodotto, ammonta a circa il 22% della velocità della luce. L’equazione (non relativistica) per la velocità della nave è m dV + ve dm = 0 che dà un totale di V = ve ln(me/m).

Per raggiungere il 10% della velocità della luce, la nave dovrebbe bruciare il 37% della propria massa; per il 20% e, il 61% della massa. Se si rallenta fino a zero, si bruceranno rispettivamente il 61% e l’85% della massa. Il 15% della velocità della luce sarebbe un compromesso ragionevole. Al 100% dell’efficienza, accelerando fino al 15% della velocità della luce e decelerando quindi fino alla sosta, la nave dovrebbe arrivare con il 25% della sua massa iniziale, avendo usato il 75% come carburante e massa di reazione. (Errori derivanti dal non tener conto della relatività sono secondari in confronto a quelli provocati dal presumere una completa efficienza. Gli effetti della dilatazione temporale sono solo dell’1% c.) Ci vogliono meno di due mesi a gravità 1 per raggiungere il 15% della velocità della luce. Anche a una frazione di 1 g, la maggior parte del viaggio potrebbe essere trascorsa procedendo a motore spento.

(Lo scarico del razzo è una potente radiazione alfa. Questo è un veicolo ideale per lasciarsi alle spalle i nemici, ma fate attenzione a dove puntate la cosa se sperate in una buona accoglienza al vostro ritorno.)

Una nave che viaggi a 18,2 anni luce verso Sigma Draconis a 0,15 c. impiegherebbe 122 anni per la sola andata. Essa deve rifornirsi di carburante (sperando in un pianeta con un oceano d’acqua che fornisca litio e idrogeno!) prima di ritornare. Il viaggio complessivo dovrebbe essere compiuto in appena 250 anni; con il tempo di studio, sarebbe probabile di più.

Il grosso della nave è costituito da carburante, un gigantesco sigaro di idruro di litio, bianco quando è puro, ma chissà quali impurità vi si infiltreranno (o potranno essere trovate utili)? Il lungo asse punta nella direzione del viaggio, allo scopo di ridurre al minimo la sezione d’urto e frapporre la maggior quantità di massa possibile fra l’equipaggio e qualunque cosa con cui potrebbero entrare in collisione. (A 0,15 c, i gas cosmici diventano raggi cosmici a bassa energia: granelli di polvere creano vasti crateri quando colpiscono.)

Proprio di fronte al sigaro c’è uno scudo a "ombrello" riparabile: pochissima massa ma sufficiente a vaporizzare la polvere cosmica, diffondendola in modo che causi meno danni al corpo principale della nave. Gli alloggiamenti si trovano all’interno del "sigaro", protetti dai rischi del viaggio. Tunnel a spirale si snodano verso prua e verso poppa fino alle due calotte terminali; poiché la radiazione viaggia in linea retta, un tunnel a spirale la blocca efficacemente.

Dietro il sigaro c’è un razzo a fusione, fatto di campi magnetici controllati e limitati da magneti superconduttori. Ci sono numerosi specchi magnetici in successione, in modo che una particella che penetri attraverso uno specchio si trovi confinata nella camera successiva. I campi fanno avanzare i gas ionizzati in maniera simile alla peristalsi con zone di alto e basso campo magnetico che si muovono verso poppa. Le particelle ionizzate vengono trattenute nelle zone di basso campo magnetico dai campi più forti davanti e dietro, compresse da densità sempre maggiori finché non si fondono. A questo punto i campi magnetici sulla parte posteriore si aprono in un ugello che condensa le forze.

La calotta terminale posteriore si fa lentamente strada lungo l’intera lunghezza della nave, alimentando di combustibile il motore. La quantità di idruro di litio davanti e dietro gli alloggiamenti viene scelta in modo che il motore utilizzi la maggior parte del combustibile posteriore accelerando: quindi, quando la navi si avvicina alla sua destinazione, le calotte terminali vengono liberate e la nave rovesciata in modo che la sezione anteriore (necessaria a questo punto più come combustibile che come scudo) entri nel motore. Lo scudo a ombrello viene eliminato come massa in eccesso e verrà ricostruito in fase di rifornimento di carburante.

La decelerazione pone un altro interessante problema, poiché non si può collocare uno scudo a ombrello dietro il motore principale. Ma il soffio rovente di un motore come questo dovrebbe ridurre in vapori ionici quasi qualunque cosa entro un giorno-luce dall’ugello; e i campi magnetici del motore proteggono la nave dagli ioni. Una nave in arrivo appare come un’enorme cometa indistinta, con la coda rivolta lungo la propria traiettoria piuttosto che lontano dal sole, e come le comete del passato, può essere un presagio di cambiamenti.

FINE